TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 29 novembre 2009

La Savona operaia di Guido Seborga




Il 10 ottobre 1909 nasceva a Torino Guido Hess, più noto come Guido Seborga, uno dei più significativi autori liguri del secondo dopoguerra. Morirà il 13 febbraio 1990, dopo una lunga malattia, all'ospedale Mauriziano di Torino nell'indifferenza quasi generale di stampa e critica.

Vento largo intende ricordare in occasione di questo duplice anniversario lo scrittore, il poeta, l'artista, l'uomo. Lo faremo parlando delle sue opere e della sua vita, forse il più affascinante dei suoi romanzi. Iniziamo con questo omaggio dello scrittore a una Savona operaia che ormai vive solo più nelle sue pagine.

La Savona operaia di Guido Seborga

Savona era lucente nella fredda mattina invernale. Pochi giorni prima era caduta la neve sulle colline e montagne intorno. La cittadina si sviluppava stretta alle spalle dalla montagna, di dove scende la ferrovia che viene dal Piemonte, di fronte il mare con le sue insenature, il sacco blu chiuso del porto con la torre di Leon Pancaldo, che fa ricordare in piena vita moderna un mondo antico diventato posticcio in quell’atmosfera di navi di depositi di fabbriche. Le case si allungano sulla costa sino a Spotorno che appare ridente dopo il Capo. Ma dalla parte di Savona la costa è brulla, severa, coi comignoli delle fabbriche; e non c’è demarcazione tra Vado e Savona, ma un susseguirsi ininterrotto di casoni grigi e tristi. Quando verso sera le sirene delle fabbriche lacerano l’aria, le strade e i filobus cominciano a riempirsi di frotte di operai, e anche le biciclette compaiono numerose, e si coglie forse meglio che in ogni altra ora, la qualità della città, durante il giorno le grandi strade sono quasi deserte, solo l’Aurelia mantiene sempre il suo traffico.

Questo è un centro industriale, dove l’organizzazione nazionale e internazionale ha impresso un suo segno, che ha sollevato non pochi drammi umani. Molti uomini anche dai paesi vicini erano venuti qui con la speranza di realizzare degnamente la loro vita nel lavoro.

Era una sera fredda e lucente, e gli operai terminato il lavoro uscivano dalla fabbrica...


Da “ Gli innocenti ” 1961

(Dal 2006 "Gli innocenti" è di nuovo reperibile in libreria nella bella riedizione curata dall'Editore Marco Sabatelli di Savona)

venerdì 27 novembre 2009

Secondo Concorso Letterario Nazionale "Adriano Zunino"





Per non rassegnarsi alla deriva culturale, all’assopimento delle coscienze e delle menti umane perpetuato dal potere politico ed economico, occorre riaffermare i valori della cultura. Da questa idea nasce il progetto di Pagine Ribelli inteso come contenitore e veicolo di promozione di eventi culturali, di pubblicazione di opere e di pensieri come mezzo indispensabile per una ripresa culturale più che mai necessaria ed urgente.
La redazione di Pagine Ribelli,angolo culturale del circolo PRC Adriano Zunino di Carcare, in collaborazione con la Federazione Provinciale di Savona, organizza la seconda edizione del Concorso Letterario Nazionale Adriano Zunino. La prima edizione del concorso ha registrato l’adesione di 1.463 autori per un totale di 1.811 opere pervenute e si è conclusa con la realizzazione dell’antologia Pagine Ribelli, prenotabile sul sito www.pagineribelli o direttamente su www.ilmiolibro.it al prezzo di 15 Euro.
Il grande risultato e la massiccia partecipazione alla prima edizione ci hanno dato lo slancio per organizzare questa seconda edizione che si arricchisce di una sezione importante e di grande attualità , dal titolo “Declinando al femminile”. Questa sezione vuole essere uno spunto di ragionamento e di riflessione sui diritti collettivi,sulle differenze di genere,sul ruolo della donna nella difesa dei diritti globali e, perché no, una sollecitazione sui temi dell’omofobia.
Abbiamo unito questa sezione alle sezioni relative alla poesia, al racconto inedito e alla resistenza, tema con il quale è nato il nostro progetto e che continuerà a caratterizzarlo.
La seconda edizione è un ulteriore omaggio ad Adriano Zunino detto Afro, partigiano Ligure e Carcarese.
Queste le sezioni del Concorso
Poesia Inedita
Poesie inedite (massimo 32 versi l'una)
Racconto Inedito
Racconto inedito (max nr. 3 cartelle)
Declinando al Femminile
Tale sezione è rivolta ad opere di poesia o narrativa, che ricordino il ruolo della donna nella società e nella difesa dei diritti collettivi.
(si applica lo stesso regolamento delle sezioni a tema libero)
La Resistenza Ieri e Oggi
Sezione dedicata ad opere che ricordino l'impegno civile ed ideale della resistenza per mantenere vivo il ricordo di quel periodo, e ad ad opere che ricordino l'impegno civile di milioni di uomini e donne che ogni giorno in tutto il mondo lottano contro fascismo, precarietà ed emarginazione.
(si applica lo stesso regolamento delle sezioni a tema libero)
Gli elaborati inviati via posta tradizionale dovranno essere effettuati via posta ordinaria entro il 17/04/2010
Gli elaborati inviati via posta elettronica dovranno essere inviati all’indirizzo concorso@pagineribelli.it entro le ore 24:00:00 del giorno 17/04/2010.
Regolamento e scheda di adesione sono scaricabili sul sito www.pagineribelli.it
Il Concorso prevede un contributo spese di 10 € (dieci) da versare
sulla carta PostePay N° 4023600566669091 intestata a : Rossi Adriano
allegati in contanti in busta chiusa solo per invio via posta ordinaria
Composizione della giuria
Prof. Giorgio Amico
Dott. Mauro Bramardi
Prof. Armando Codino
Scrittore Bruno Marengo
Prof. Amelia Mocco
Dott. Furio Mocco
Prof. Gianluca Paciucci
Prof. Adalberto Ricci

La premiazione si terrà Sabato 5 Giugno 2010 alle ore 15.00 presso i locali della S.O.M.S. (g.c) di Carcare sita in Piazza Caravadossi
Verranno premiate le prime 10 opere per ogni sezione di concorso con i seguenti premi:
dal 1° al 3° classificato : Targhe personalizzate realizzate da artigiani locali
dal 4° al 10° classificato : Coppa / targa
A tutti i premiati verrà consegnato il diploma di assegnazione
Indirizzi di spedizione degli elaborati
Gli elaborti prodotti su supporto cartaceo dovranno essere inviati a :
Circolo PRC A.Zunino c/o Furio Mocco
Via Gioberti n° 20 17043 Carcare Savona
Gli alaborati prodotti in formato elettronico dovranno essere inviati via e-mail all'indirizzo concorso@pagineribelli.it

La documentazione necessaria alla partecipazione è scaricabile sul sito www.pagineribelli.it e consiste in
Scheda di adesione
Ricevuta di versamento / Busta contenente la quota richiesta
Elaborati secondo quanto richiesto dal concorso



Carcare 18/11/2009

giovedì 26 novembre 2009

Giorgio Amico: Cosio o Albisola? La nascita dell'Internazionale situazionista



Giorgio Amico

Cosio o Albisola? La nascita dell'Internazionale Situazionista

Come si sa, i miti di fondazione sono sempre difficili da interpretare e da collocare storicamente e la fondazione nel 1957 dell'Internazionale situazionista non fa eccezione. Il sospetto che la cosiddetta "Conferenza di fondazione", tenutasi nella casa di Piero Simondo a Cosio d'Arroscia a fine luglio 1957 non fosse poi stata così fondante circolava già, alimentato dalla pubblicazione di una lettera di Guy Debord a Asger Jorn del 1° settembre 1957, e quindi a poco più di un mese dall'evento, in cui il vulcanico francese invitava l'amico, allora residente ad Albisola, a presentare la "conferenza di Cosio" (si noti la virgolettatura), come "il punto di partenza della nostra attività organizzata e, immediatamente dopo, procedere velocemente (si deve imediatamente creare una nuova leggenda su di noi)". (Guy Debord, Correspondance, vol.1, Fayard 1999, p. 24)
 
Il bel libro di Piero Simondo, l'unico rimasto dei partecipanti a quell'evento, Guarda chi c'era, guarda chi c'è (Ocra Press, Genova 2004), permette di capire un pò meglio come realmente siano andate le cose in quell'estate, piovosa e fredda, del 1957.
 
Scrive Simondo:
 
"Chi non ha percorso a quei tempi la linea Bra-Cavallermaggiore-Savona non può immaginare la bellezza dei vagoni con sedili di legno fine secolo. Su quegli scomodi e duri divanetti a tre posti, noi [Simondo e la moglie, Elena Verrone-nostra nota], in viaggio di nozze e di luna di miele, discettavamo in francese d'arte e d'avanguardia, con due fra i probabili migliori e relativamente ignoti avanguardisti culturali del momento, (Asger e Guy) su cui iniziavano a soffiare lievi e variabili venti di gloria. Ad Albissola s'era già trovato anche Constant, sentimentale e piangente, preso nel fuoco erotico pulsionale incrociato tra un'ex moglie ed una in servizio (prossima futura ex a sua volta)." (Simondo, Guarda chi c'era, guarda chi c'è, pp. 18-19)
 
Simondo ricorda poi come, nonostante facesse freddo e piovesse in continuazione, il gruppo di artisti e intellettuali non si fosse scoraggiato, e avesse utilizzato quel breve soggiorno al mare per definire meglio il progetto in gestazione:
 
"La frequentazione più assidua avveniva con Debord, partivamo, a piedi, per i cinque chilometri necessari a raggiungere il porto di Savona e il relativo luogo di sosta dove bevevamo un (e più d'uno) Australian rum, scoperto fra le bottiglie del bar portuale... Eravamo giovani e incuranti, più che insolenti, tutto ci divertiva e ci rallegrava... Fu in quei lunghi e pigri conversari che si profilò l'idea di ritrovarci verso la fine di luglio a Cosio, dove Elena e io saremmo andati per l'estate, dopo la parentesi albissolese...". (ibidem, pp.19-20)
 
Il dubbio a questo punto è legittimo: l'Internazionale situazionista è nata a Cosio d'Arroscia o ad Albisola? Interrogativo effimero, forse, ma che può stare all'interno del dibattito sull'esperienza situazionista, il cui tessuto connettivo, avrebbe detto Shakespeare, era fatto della materia di cui son fatti i sogni...






"L'ospedazzo nuovico" a Sanremo



Sicuramente saprai che è in progetto la costruzione di un nuovo UNICO ospedale provinciale, che sarà ubicato a Taggia. Unico perchè andrà a sostituire tutti gli altri nosocomi ancora attivi della provincia di Imperia. Noi componenti del Gruppo "L'attrito" siamo contrari a questo progetto, che riteniamo penalizzi il diritto alla salute e rappresenti un rischio di speculazione a danno dei cittadini.
Per illustrare le nostre preoccupazioni, ma soprattutto per stimolare una riflessione e cercare di aprire un dibattito in merito, abbiamo scelto di utilizzare lo strumento del teatro, producendo
L'OSPEDAZZO NUOVICO
Siamo lieti di informarti che, finalmente, la nostra azione teatrale verrà presentata anche a Sanremo. Se sei interessato/a, potrai vederla

VENERDI' 27 NOVEMBRE 2009
ore 21.00
presso il TEATRO della FEDERAZIONE OPERAIA SANREMESE
via Corradi, 47 - Sanremo

Ti aspettiamo...
L'ATTRITO




mercoledì 25 novembre 2009

Sandro Ricaldone: Jorn, un vichingo ad Albisola



Sandro Ricaldone

Jorn: un vichingo ad Albisola

"Il vichingo arrivò a Milano il 28 marzo 1954 a mezzogiorno... con armi e bagagli, con zaino, tenda da campo ed un violino. Il violino lo dimenticò in treno, per cui, accortosene, si dovette tornare all'Ufficio Oggetti Smarriti, ove fortunatamente fu ritrovato, il che lo dispose favorevolmente verso di me e l'Italia".

Così Enrico Baj ricorda la calata di Asger Jorn verso il Mediterraneo, verso Albisola, dove questo nordico "perpetuamente nomade per l'Europa" metterà su casa e che oggi lo ricorda con una mostra allestita nel Museo della Ceramica, a cura di Franco Tiglio.

Jorn aveva allora poco più di quarant'anni ed alle spalle le esperienze del gruppo danese astratto-surrealista "Host" e quella fondamentale di CoBrA, il primo grande movimento artistico europeo del dopoguerra - in cui la rivendicazione del carattere sperimentale dell'arte conviveva con una ricerca espressiva orientata verso il primitivismo - di cui con Dotremont e Constant era stato il principale animatore.

L'anno precedente Jorn aveva dato vita al Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista, in polemica con l'"industrial design" propugnato da Max Bill (all'epoca direttore della Höchschule fur Gestaltung di Ulm) "come unica direzione della funzione dell'artista nella società" ed alla concezione statica della forma che vi si riflette.

Ed è proprio ad Albisola che, nell'estate del 1954, viene organizzata la "prima esperienza della Bauhaus Immaginista" con gli Incontri Internazionali della Ceramica cui prendono parte Fontana, Baj, Dangelo, Scanavino, Appel, Corneille, Matta, Jorn. Koenig, Giguere e Jaguer.

L'estate successiva, al Bar Testa, l'incontro con Pinot Gallizio e Piero Simondo, venuti ad Albisola per un'esposizione delle loro ceramiche: "lo ha visto lì una sera - ricorda Piergiorgio Gallizio - e mio padre che era un tipo piuttosto aggressivo è andato a sederglisi di fianco: Jorn intanto continuava a suonare il violino e allora mio padre ha avuto l'idea di prenderlo sull'archeologia, hanno cominciato a discorrere, si sono sciolti... Dopo tre giorni Jorn lo ha invitato in studio, dopo una settimana era già su ad Alba".

Nasce allora il progetto del "Laboratorio Sperimentale di Alba", l'idea del "Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi" svoltosi nel 1956 nella città piemontese, da cui prenderà le mosse il processo che porterà alla confluenza del M.I.B.I., dell'Internationale Lettriste di Guy-Ernest Debord e del Comitato Psicogeografico di Londra nell'Internationale Situationniste, fondata a Cosio d'Arroscia, in casa di Simondo, nell'estate 1957 e nota soprattutto per aver fornito - con le sue analisi della "società dello spettacolo" - un importante supporto teorico al movimento degli studenti francesi nel Maggio '68.

Nell'ottica situazionista si collocano le "Vingt peintures modifiées" (quadri kitsch modificati da rapidi interventi pittorici quali colature o macchie in cui viene perseguita, come ha osservato Mirella Bandini, "una finalità di destrutturazione dell'opera d'arte attraverso la banalizzazione del suo valore d'uso") esposte alla Galerie Rive Gauche di Parigi nel 1959.

Sempre del '59 è la realizazione, avvenuta anch'essa nei forni albisolesi, della più grande ceramica moderna (33 metri per 3) destinata al Liceo di Aarhus. Ma il lavoro forse più importante degli anni dal 1956 in avanti (l'ultimo intervento è di pochi mesi anteriore alla scomparsa di Jorn, avvenuta nel 1973) è "Stalingrado" un quadro ispiratogli dal racconto della ritirata di Russia fattogli da Umberto Gambetta, più volte cancellato e ridipinto, "l'unica opera di Jorn, probabilmente" - nota Troels Andersen, che dirige a Silkeborg il Museo ove è ospitata la collezione donata dall'artista danese alla sua città natale - "ad essere segnata dal pathos".

La mostra (cui si affianca un catalogo con scritti del curatore e di Theodore Koenig, fondatore - con Havrenne e Noiret - di "Phantomas" la rivista belga nata dopo la dissoluzione di CoBrA) nel documentare l'opera di Jorn rimasta in zona viene a costituire un prezioso pendant di quell'esposizione permanente che l'artista stesso ha allestito sulla collina: quel "Jardin d'Albisola" dove "ciò che è dipinto e ciò che è scolpito, le scale mai eguali fra i dislivelli del terreno, gli alberi, gli elementi aggiunti, una cisterna, la vigna, frantumi d'ogni sorta, sempre bene accetti, disposti nel piu' perfetto disordine, compongono uno dei paesaggi piu' complessi che si possano percorrere in una frazione d'ettaro" (Debord) a dimostrazione di come ciascuno possa appropriarsi concretamente dello spazio, "ricostruendo attorno a sé la terra".

(1989)


WWW.QUATORZE.ORG
studies & archive on the avant-gardes of the second half of the twentieth century

 

Luciana Bertorelli al Jazz Club di Cuneo



Luciana Bertorelli è una delle figure più attive ed interessanti del panorama artistico savonese. Nel suo studio SPAZIOGAIA anima incontri culturali con musicisti, letterati ed artisti. Ceramista di grande esperienza e sensibilità, costruisce attraverso un segno sensuale e materico un universo di grande intensità poetica.

Nell'ambito della rassegna "MENTI ROVENTI " sarà ospite del

JAZZ CLUB DI CUNEO
VIA S.CROCE,16 tel. 0171 697733

ove esporrà le sue ultime opere pittoriche e ceramiche
dal 26 novembre al 16 dicembre 2009,
con inaugurazione giovedì 26 alle ore 18,30


Nel corso della mostra,
giovedì 3 dicembre 2009
sarà di scena
RICCARDO ZEGNA

www.lucianabertorelli.com

" Luciana Bertorelli ricerca,tramite una sperimentazione di improvvisi alchemici, presenze tangibili di essenza armonica.Ciò che è primario in questi lavori è l'insieme plastico di forma e di colore. Forme con attinenze naturali. E'questo il caso del movimento ritmico del corpo scultoreo dal titolo significativo"Scultura di luce". L'artista si sposa, in questo avvenimento poetico, all'artigiano che modella a mano, con fare virtuoso, la terra refrattaria colorata con ossidi e smalti,a cui fa da controaltare un tutto tondo di lezione novecentesca, intitolato, con suggestiva sensibilità "Cantico". Anch'esso lavoro modellato a mano in terra bianca colorata con engobbi e, poi, trattata con cera naturale. La Bertorelli-è proprio il caso di annotarlo-gioca ancora una volta con il fuoco:con il tondo da tavolo, o da parete,dal titolo"Le radici del cielo",piatto modellato al tornio e inciso a mano dal messaggio visivo arcaico."

Paolo Levi

martedì 24 novembre 2009

IMPRONTE SEGNI Doppia personale di Giacomo Lusso e Aldo Pagliaro


IMPRONTE SEGNI


Doppia personale di Giacomo Lusso e Aldo Pagliaro


Dal 28 novembre al 13 dicembre 2009


Studio d’Arte Pagliaro Pozzo Garitta 10 Albissola Marina Savona


Inaugurazione sabato 28 novembre ore 18


Giacomo Lusso e Aldo Pagliaro propongono il frutto della loro ricerca recente esponendo dipinti e ceramiche nella suggestiva sede di Pozzo Garitta cuore culturale del centro storico di Albissola Marina (Savona).
In questa occasione espositiva, introdotta dal testo critico di Silvia Campese e col patrocinio del Comune di Albissola Marina, Giacomo Lusso e Aldo Pagliaro hanno anche realizzato un’opera dal valore concettuale composta da cento piastrelle ceramiche numerate con impresse le loro impronte del pollice e i segni distintivi che caratterizzano le loro opere. La locandina della mostra significatamene riproduce la piastrella sopraccitata con lo sfondo delle “ muè” tipici mattoni sporgenti presenti a Pozzo Garitta patrimonio della tradizione figula di Albisola. Lusso artista albisolese presenta dipinti verticali in tecnica mista della serie dei racconti caratterizzati dalle luci radenti che fanno scoprire allo spettatore nuovi paesaggi interiori. Pagliaro di nascita argentina e albisolese di adozione, espone le sue ceramiche in cui il richiamo alle problematiche dell’uomo contemporaneo trovano paesaggi tecnologici, totem e sfere dagli smalti fusi quali elementi caratterizzanti. Una ottima occasione per riscoprire il centro storico di Albisola e vedere una bella mostra.


Impronte e Segni di Giacomo Lusso e Aldo Pagliaro a Pozzo Garitta


Silvia Campese


Nella molteplicità dei significati delle parole Impronte e Segni, il senso più profondo delle opere di Giacomo Lusso e Aldo Pagliaro. Che cos’è un’Impronta? Un Segno, una traccia lasciata premendo dolcemente, con lieve pressione, con forza, una superficie: terracotta, ceramica, uno strato denso di colore. Ma il Segno non è solo Impronta. Il Segno è un universo di significati: è simbolo, è premonizione, è limite, ma è anche prodigio e miracolo, collegamento con una dimensione altra.

Tutte queste valenze, che vivono nelle opere di Lusso e Pagliaro, sono sintetizzate in un intervento che i due artisti hanno realizzato e che costituisce il senso più profondo della mostra: si tratta di una piastra di piccole dimensioni che ha ricevuto le impronte fisiche del dito di ognuno dei due artisti, accompagnate dagli elementi leit motiv della loro arte: i simboli criptici e le macchie rosse di Lusso, la semisfera, sintesi di passato e futuro, di Pagliaro. Realizzate in cento esemplari, le piastre divengono sunto del titolo stesso della mostra: le impronte acquisiscono una valenza segnica dove il piano simbolico e quello fisico si intersecano. L’azione compiuta dai due artisti tocca una sfera profondamente intima: l’impronta, traccia personale, costituisce una sorta di transfert di se stessi nell’oggetto. Un’azione che cita l’esperienza manzoniana del “fiato”, ma ancor più delle “uova” dove Manzoni, nella mostra evento del 1960 “Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte”, aveva impresso la propria impronta sulle uova che aveva poi distribuito al pubblico affinché se ne cibasse. Come nell’azione di Manzoni, così avviene nella piastra di Lusso e Pagliaro: l’oggetto acquista, tramite l’impronta, una individualità, una appartenenza che viene offerta al pubblico. Se l’opera di Manzoni doveva però essere ingerita, raggiungendo quella che alcuni critici hanno letto come una valenza eucaristica, per Lusso e Pagliaro l’azione rimane sul piano della profonda ricerca di intimità e comunicazione con il pubblico: un dialogo nudo, spoglio, diretto, fatto di gesti tanto semplici quanto autentici. Un modo, insomma, per donare esplicitamente il massimo dell’interiorità e della personalità in una totale comunione tra arte e pubblico: un’operazione che richiede allo spettatore un totale abbandono per intraprendere un viaggio nelle opere di Lusso e Pagliaro. Ma i due artisti non chiedono al pubblico uno sforzo che essi stessi non abbiamo compiuto anticipatamente in una duplice valenza: una messa a nudo della propria artisticità verso gli altri, ma anche verso se stessi per raggiungere una sintesi concettuale che dia significato alla fusione dei loro lavori apparentemente così differenti. Solo da un percorso di ricerca profondo è nata la mostra che oggi unisce i linguaggi dei due artisti a Pozzo Garitta, nello studio di Pagliaro, in quella che loro stessi definiscono una “identità di lavoro”. Del resto, una lunga amicizia lega Lusso e Pagliaro, da quando si conobbero negli anni settanta presso il forno a legna di Mantero. Da lì in poi una frequentazione assidua li ha portati a esporre spesso affianco, in mostre collettive, sino al nuovo, odierno passaggio. Pur se apparentemente molto differenti, le opere esposte hanno una matrice comune che trova la propria radice proprio nell’impronta e nel segno. Le ceramiche di Pagliaro recepiscono con forza l’impronta dell’artista che agisce con decisione sulla materia attraverso manipolazioni, ma anche fenditure e incisioni. Il mondo di Pagliaro coinvolge diverse tematiche: dal totem, simbolo di culture antiche, alle città futuribili, travolte da piogge acide o da catastrofi di cui l’uomo è più o meno colpevole. Al centro, la sfera, sorta di microcosmo, di sintesi della storia dell’uomo da cui si irradiano linee immaginarie, solchi.

“Segnica” l’opera pittorica di Giacomo Lusso, pur se in grado di recepire, sulla densa stratificazione del colore, l’impronta incisa dall’artista. Fatta di racconti interiori, che toccano le sfere più intime e misteriose della conoscenza per raggiungere la luce epifanica che irrompe nelle tele da una fonte mai raggiungibile o svelabile, l’opera di Lusso è legata da un eterno filo conduttore. Eterno poiché antico, insito nella storia dell’essere umano, dall’Età dell’Oro all’oggi. Proprio nella radicalità concettuale delle opere sta l’unità d’intenti dei due artisti: le ceramiche di Pagliaro, aggressive e cruente, parlano dell’uomo quanto la pittura soffusa, essenziale di Lusso. L’anelito di ricerca è la matrice di entrambi i lavori: una ricerca più violenta e terrena, compiuta tra gli uomini e il loro mondo in Pagliaro, un viaggio metaforico, in una dimensione onirica e mentale, nella pittura di Lusso. Due linguaggi differenti pervasi da una luminosità che in Pagliaro si fonde con l’atmosfera apocalittica del paesaggio, mentre in Lusso si fa accecante per celare il segreto della vita.




Giacomo Lusso nasce nel 1953 a Malles Venosta (BZ). Si avvicina giovanissimo alla pittura frequentando l’ambiente dei pittori lombardi legati alla tradizione figurativa. Trasferitosi in Liguria ad Albisola, a contatto con gli artigiani e gli artisti che frequentano la cittadina della ceramica alla fine degli anni sessanta, apprende le conoscenze del " fare arte ceramica in bottega". Diplomato al Liceo Artistico A. Martini di Savona, la sua prima mostra personale risale al 1972. Artista e sperimentatore, attraverso la ricerca in campo artistico utilizza come mezzo espressivo, sia le diverse tecniche ceramiche che la pittura e l’ideazione di azioni concettuali. Nel 2007 selezionato alla VIII Biennale Internazionale Ceramica di Manises Spagna con opera in permanenza presso il MIC museo internazionale della ceramica. Nel 2008 il Circolo degli Artisti di Albisola e la Fondazione Centofiori di Savona gli dedicano due spazi espositivi nell’ambito di “Priamar d’Autore”dove espone un’installazione di cento pezzi di ceramica, ideale libro ceramico, lunga otto metri e mezzo. Al suo attivo molte personali e collettive in Italia e all’estero e sue creazioni sono presenti in collezioni pubbliche e private.

Aldo Pagliaro, nato a Buenos Aires nel 1941, plasma il suo giovane ed impetuoso talento creativo nella Escuela de Artes Graficas di Buenos Aires, che gli apre le porte di una delle più importanti case editrici dell’Argentina, Fabril Finanziera S.A., dove vive una brillante carriera ventennale quale tecnico grafico e maestro del colore. Approdato in Italia nel 1975, vive e lavora ad Albissola Marina, dove sviluppa la propria arte nello studio di Pozzo Garitta 10. Le sue opere creano un ponte di collegamento tra passato, presente e futuro, interpretando gli effetti dello sviluppo tecnologico e del desiderio di predominio dell’uomo con colate grigie soffocanti e segni di ingranaggi inarrestabili che incidono una natura vergine creando voragini da cui emerge il rosso del sangue, del dolore che accomuna tutti gli essere viventi. Aldo Pagliaro ha partecipato a numerose mostre nazionali ed internazionali e le sue opere arricchiscono importanti collezioni private.

domenica 22 novembre 2009

La Liguria di Rosa Luxemburg




Giorgio Amico

La Liguria di Rosa Luxemburg

Già nel 1906 Rosa Luxemburg era stata per un breve periodo in Italia, sul Lago di Garda, in compagnia di Luise Kautsky. Nel 1909 Rosa ritorna in Italia per un periodo più lungo. Dai primi giorni di maggio sino alla fine di giugno soggiorna in Liguria, prima a Genova, poi a Levanto ed infine a Sestri Levante. Di questo soggiorno restano tracce in alcune lettere inviate all'amica Luise. Il primo impatto con Genova non deve essere stato proprio dei migliori se Rosa lamenta il fatto che “gli uomini sono senza vergogna, almeno nelle botteghe, dove continuamente mi truffano sul prezzo e ogni volta anche sul resto mi rifilano un paio di monete fuori corso”. Ma, bottegai a parte, Genova appare alla ancora giovane polacca come un miraggio di luce e sole interrotto dalle fresche parentesi dei vicoli., i “caruggi”, di cui manda alla cara Luise una descrizione pittoresca non priva di ironia:

“Strade strette, case grattacielo (…), due o quattro finestre addobbate dall'alto in basso con biancheria variopinta, così che ad ogni soffio di zefiro svolazzano e sbattono dappertutto camicie, calze bucate e simili oggetti primaverili. Per giungere alle strade poste più in alto esistono incantevoli vicoli o scalinate, vale a dire stradette, che ogni due passi portano all'insù completamente oscure, esuberatamente fetide e tanto larghe che il passaggio vi è ostruito ovunque da un cittadino facilmente appartatosi e facilmente addormentatosi, che vi fa le proprie devozioni e si premura della continua irrorazione delle viuzze”.

Ma come ebbe a riconoscere il suo principale biografo, Rosa si approccia al mondo mediterraneo con la stessa passione acritica delle tante generazioni di tedeschi che l'avevano preceduta, compreso il filosofo Friedrich Nietzsche che a Genova aveva a lungo soggiornato vent'anni prima ricavandone impressioni ed emozioni non molto diverse. Vittima anch'essa di quel “mito goethiano del sud”, per usare la efficace espressione di Nettl, che tanto profondamente era penetrato nell'animo degli intellettuali del Nord Europa. Così, pure il disordine e il caos del traffico cittadino tanto diverso dal compassato e algido stile di vita guglielmino, se un po' la sconcerta, le appare però portatore di una vitalità e di un dinamismo affascinanti.

“Nelle stradette un po' più larghe – scrive – si vede pur sempre carambolare tra carretti a due ruote (…) che passano di preferenza a sinistra, anziché a destra, in modo che a un ben disciplinato uomo civile dell'impero tedesco capita spesso improvvisamente di sentire dietro o sopra la propria testa l'amorevole alito d'un muso, l'estremità di una frusta schioccante: perchè qui qualcosa come la separazione del marciapiede dalla carreggiata è proibita come non democratica, e ad ogni creatura è permesso di battersi a gomitate per la vita e per la strada”.

Ma Rosa, nonostante abbia trovato “una graziosa camera in buona posizione, in alto sopra la città”, si stanca presto di Genova, desiderosa di trovare un contatto più diretto, lontano dalla frenetica operosità del porto, con quel mare che l'attira tanto irresistibilmente.

“Nel complesso – scrive all'amica lontana – la vita e la natura di qui mi piacciono molto, il mare è però la cosa fondamentale, ed è stupendo. Me lo vedo dalla mia camera tutto quanto il giorno e non me ne posso saziare”.

Da Levanto, dove si è traferita nei primi giorni di giugno, Rosa scrive a Luise con un entusiasmo quasi adolescenziale di “cielo azzurro, sole sfolgorante e mare blu cupo con creste di schiuma bianca che alla luce del sole sfavillano come neve”.

Lontano dalla Germania, dagli affanni della politica e soprattutto dal rapporto tormentato con Konstantin Zetkin, Rosa sente lentamente rifluire in lei la voglia di vivere, abbandonarla quello stato depressivo che le rendeva difficile anche concentrarsi nello studio. E' una sensazione fortemente liberatoria. “Oggi – fa sapere all'amica – c'è di nuovo il sole in me e attorno a me”. Lontano dal caos cittadino, senza fabbriche che “smerdano la vista”, lontano da una Aurelia già allora troppo trafficata, “grande strada turistica... dove le automobili passano e olezzano via”, rosa si gode il mare del Ponente ligure e le “dolci colline apenniniche che, coperte di ulivi e pini, offrono verde in tutte le sfumature”. Un mondo che le appare senza tempo, sospeso fra mare e cielo, regno di “gatti bianco-rossi che scivolano attraverso la strada da una siepe all'altra” e la prende tanto da farle venir voglia di “buttar via il lavoro”, di mettere da parte i libri e le carte che si è portata dietro. Ma a distoglierla dalle tentazioni di un ozio tutto mediterraneo ci sono le rane e le campane dei mille campanili delle piccole chiese dei paesi.

“Tutto sarebbe così bello – scrive fra il serio e il faceto – ma, ma...Anzitutto: le rane, appena cala il sole, comincia da tutti gli angoli un concerto di rane, come non ho mai udito altrove... Rane in mio onore. Però rane di tal tipo, un gracidio così generale, stridente, soddisfatto, come se la rana fosse la prima e la più importante personalità. Secondo: le campane. Io apprezzo e amo le campane delle chiese. Ma ogni quarto d'ora scampanellare, e poi con un bimbimbim frivolo, insulso e puerile, bimbambam – c'è di che impazzire”-

Una Rosa gioiosa, piena di vita, all'apparenza persino un po' frivola, ma che in realtà nella calma placida di una Liguria assolata lascia venire allo scoperto la sua più intima natura. Un modo di concepire la vita, ma anche l'impegno politico, che inaspettatamente ritroveremo nella tetra atmosfera del carcere pochi anni più avanti. Dalla prigione in cui è stata rinchiusa per la sua intransigente opposizione alla guerra, nel dicembre 1916, scrivendo all'amica Mathilde Wurm, Rosa ritrova, singolare testimonianza della sua forza morale, gli accenni di quella felice e ormai lontana estate italiana:

“Rimanere umani – scrive – significa gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola; ah, non so scrivere una ricetta per essere umani, so soltanto come si è umani...”.

giovedì 19 novembre 2009

Francesco Biamonti, gli inizi




Giorgio Amico

Francesco Biamonti, gli inizi


Nel 1951 Francesco Biamonti ha ventitre anni e un diploma di ragioniere in tasca. Probabilmente coltiva come tutti i giovani molti sogni ed insieme tante insicurezze, forse anche qualche paura, ma una cosa gli è certa: non finirà i suoi giorni in un ufficio o in una banca come il padre.

Quello che immagina per sé non è un tranquillo avvenire piccolo-borghese, la sicurezza economica di un posto fisso, una vita fatta di rituali codificati, di giorni tutti uguali, di orizzonti ristretti. Francesco vola alto, vuole scrivere.

In modo un po' fortunoso riesce a far uscire un suo racconto, Serenità tra i fiori, su un giornaletto, apparso come numero unico nel maggio in occasione della “battaglia dei fiori”, la grande sfilata di carri fioriti che si ripete ogni anno a Ventimiglia a festeggiare il ritorno della primavera.

Tentativo “ingenuamente pascoliano” lo definirà, quasi cinquant'anni dopo nella lunga intervista rilasciata a Paola Mallone, raccolta poi nel volume “Il paesaggio è una compensazione” - Itinerario a Biamonti, pubblicato solo pochi mesi prima della sua morte e che dunque rappresenta la riflessione conclusiva dello scrittore sull'intero suo percorso artistico e umano, una traccia certa ad indicare il percorso a chi in futuro si accingerà all'analisi critica della sua opera. Ma quella sorta di pudore a parlare di sé che lo scrittore ha manifestato nelle più diverse occasioni lo porta a liquidare con quelle sbrigative due parole la sua prima fatica letteraria, come a tagliar corto, quasi non mettesse conto parlarne, quasi se ne vergognasse un pochino come di un'opera ancora immatura, “ingenua”, di cui parlare, se proprio si deve, il meno possibile, con ritrosia se non con fastidio.

Sembrerebbe difficile dargli torto. Ad una prima lettura il racconto appare scritto in una prosa assai lontana dalla scarna efficacia delle opere della maturità, faticosa, involuta e in alcuni passaggi impacciata. In realtà a rileggerlo con attenzione, il breve racconto è tutto meno che ingenuo. Non sappiamo, né, come si è visto, Biamonti ce lo rivela, quali fossero le aspettative del giovane scrittore esordiente di allora, ma di certo il testo ha ambizioni alte ed evidenzia già dal primo periodo echi di letture compiutamente metabolizzate, lungamente rimeditate fino a farle proprie. Colpiscono in particolare un paio di citazioni di Montale, poste significativamente proprio all'inizio e alla fine del testo, a evidenziare quanto importante sia stato questo poeta nella formazione dello scrittore, le esplicite notazioni autobiografiche, l' attenzione costante fin dalle prime righe al paesaggio come luogo del ricordo e al tempo stesso trionfo di luce e colori:

"Uscito dalla stazione, gli appare lo specchio verdeazzurro del mare in fondo ai platani, oltre le palme simili a verdi girasoli impazziti di luce."
(Le citazioni sono tratte da: Serenità tra i fiori, ora in Paola Mallone, "il paesaggio è una compensazione", De Ferrari, 2001, pp. 99-101)

Qui, come si diceva, l'omaggio al Montale di Ossi di seppia è esplicito. Letterale la citazione dell'ultimo verso della poesia Portami il girasole ch'io lo trapianti:

"Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce."


Il racconto descrive le sensazioni confuse e contraddittorie del giovane Enzo tornato proprio per la “Battaglia dei fiori” nella Ventimiglia, dove ha vissuto fanciullo, in cerca di una pace interiore che è incapace di trovare:

"Lo stordisce un riflesso acuto d'acqua e di cielo, l'accecante luminosità gli dà un senso penoso di fastidio, troppo balzandone viva la sua cupa tristezza derivantegli da una ipersensibilità che lo fa piangere quando appassiscono le rose. Il suo animo aderisce ad ogni sfumatura di tristezza, ma rimane totalmente chiuso ad ogni espressione di gioia. Forse è il senso inconscio della caducità della vita, del fatale trascorrere degli anni. Cosciente del suo male, in Ventimiglia è andato a cercare la pace."

Difficile in questo giovane triste, solitario, incapace di comunicare con gli altri non riconoscere lo stesso Biamonti che in almeno una occasione, accennando alla sua giovinezza, aveva parlato di anni di muta disperazione, vissuti “nell'incertezza, nello smarrimento, in una specie di compiacimento maledettistico” arrivato fino a “atteggiamenti di suicidio”.
(Paola Mallone, cit., p. 161)

In città Enzo incontrerà Mara, compagna di giochi infantili, omai diventata donna, oggetto di desiderio innocente nel ricordo, con cui passerà una giornata. Da quell'incontro il giovane uscirà profondamente trasformato, finalmente capace di affrontare la complessità angosciosa del vivere.

Storia minimale ed in questo intimamente pascoliana, interamente giocata sul filo della memoria e dei sentimenti, Serenità nei fiori esplicita sensazioni impalpabili, immagini mentali, come quella di un cespuglio di rose scosso dal vento, che del sogno hanno tutta l'ambiguità surreale:

"Ad Enzo si ricompone nella mente l'immagine triste di quel cespuglio di rose tutte in fiore che una folata di vento ha improvvisamente lasciato nudo, dipingendo nell'aria un momentaneo pensiero di luce rosa."
Così come ambigua è Mara, in fondo autentica protagonista della storia, vera e propria immagine archetipale, affettuosamente materna, ma anche angelicamente perversa nell'enigmaticità di quel sorriso che l'autore non descrive, ma ci fa sapientemente intuire:

"Il sole sfolgora sul giardino. Prima di varcare il cancello, Enzo si volta, Mara fa un cenno colla mano, il sole le dà ai capelli una morbidezza luminosa."
La storia si avvia al suo epilogo: travolti dal profumo dei fiori, dai rumori della festa, dall'eco delle grida e delle risate, i due giovani camminano sulla spiaggia abbracciati. Innocente e tentatrice al tempo stesso, Mara si stringe al cugino mentre attorno a loro il giorno lentamente declina:

"Camminando sui petali, a “battaglia” conclusa, s'avviano sulla riva del mare. È quasi notte ormai. Venere appare una scheggia di quarzo incastonata in una grande volta di cristallo. Enzo sente il corpo esile della donna che reclina sulla sua spalla il capo stanco..."

Oggetto di sogno, stanza della memoria, Mara diventa nella fisicità esasperata dell'incontro strumento di salvezza. A lei, come alle protagoniste dei romanzi della maturità – Ester, Sabel, Veronique, Clara – ci si si rivolge in una disperata ricerca di autenticità che dia senso alle cose, che in qualche modo pacifichi l'esistenza, plachi l'irrequietezza, sani quel male profondo del vivere, tipico dei personaggi maschili biamontiani, di cui il giovane Enzo per primo è portatore:

"Il suo cuore accoglie finalmente l'armonia dei fiori del corso. In lui piange e canta mortale il coro eterno della vita. E' un coro che gli sembra provenire dagli astri, cenere o polvere degli astri, di tutti i mondi che ruotano intorno agli infuocati soli."

Di nuovo, proprio in chiusura, ritorna il richiamo esplicito, insistito a Montale, quasi a saldare con una seconda citazione del poeta ligure il cerchio magico della creazione artistica.

“....e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri”.


Un effetto circolare, voluto, del tutto coerente con la ferma convinzione di Biamonti che solo la frequentazione assidua dei poeti potesse insegnare a scrivere. Un punto di vista che lo scrittore riaffermerà con grande convinzione ancora quasi alla fine della sua vita:

"I poeti insegnano lo stile, perchè inventano un modo nuovo di metaforizzare il linguaggio, affinchè sia il più immediato possibile. Il poeta rinnova la metafora e la metonimia più velocemente del romanziere. Non si può pensare di fare una buona prosa senza aver letto i poeti. Si vede sempre, nella scrittura che conta, apparire un esercizio alla poesia." (Paola Mallone, cit., p. 54)

Stelio Rescio e il Futurismo a Savona




Stelio Rescio

Futurismo Itinerante a Savona


C'è voluto tempo perchè venisse meno l'atteggiamento con cui tra sufficienza e presa di distanza per decenni si è guardato alla presenza del futurismo a Savona, considerandolo non più che un fenomeno di costume (nel caso migliore, non essendo mancate le posizioni di aperta avversione). Non diversamente che nel resto del Paese, questa rimozione collettiva era la risultante, al fondo, della riduzionistica equazione “futurismo uguale fascismo”. È però da aggiungere che qui il moto di rifiuto aveva trovato saldo ancoramento nella indiscussa egemonia culturale della sinistra, che, bisogna pur dirlo, si esprimeva in un contesto fortemente marcato da un'impronta operaistica.

Beninteso non erano mancate le pubblicazioni di poesie di Farfa. Ma il primo tentativo, acritico anche se non privo di buona volontà, di “rimettere insieme” queste pagine di storia savonese, è opera di Carlo De Benedetti (Il futurismo in Liguria, Sabatelli editore, Savona 1976). Fu, date le circostanze, un'opera “laica”, che diede una buona spinta alla caduta delle preclusioni nei confronti di un fenomeno artistico e culturale sicuramente non “minore”. Altre ricerche, dedicate a singoli esponenti del futurismo savonese, seguirono a ritmo sempre più accelerato. Basterà ricordare il catalogo “Ricostruzione futurista dell'Universo”, pubblicato in occasione della mostra omonima allestita nel 1980 a Torino, dove ricorrente è il richiamo ai luoghi e ai protagonisti di quella stagione savonese; il catalogo della mostra “La ceramica futurista da Balla a Tullio d'Albisola” (Albisola Superiore, 1982); la mostra delle opere di Farfa (aprile 1985) e la retrospettiva di Maria Ferrero Gussago (febbraio 1986), promosse dall'Amministrazione Comunale di Savona e che hanno dato occasione di reperire altro materiale inedito; l'attività editoriale che, intrapresa nel 1981 dalla casa editrice Liguria con la pubblicazione delle lettere a Tullio d'Albisola (a quando il quarto volume, che dovrebbe comprendere le lettere di Lucio Fontana?), offre la viva testimonianza dei molteplici, intensi rapporti che legavano questa figura centrale della vicenda artistica albisolese ai più noti esponenti del movimento futurista.

Si è andata così accumulando una ingente massa di informazioni alla quale è possibile attingere per una ulteriore riflessione su questa fervida stagione artistica, che va ricordata anche perchè vi agì una spinta aggregante, oltre che lo stimolo ad una creatività collettiva. È una materia preziosa che, presentandosi tuttora allo stadio fluido, richiede una meditata messa a punto intesa a far emergere, entro il pu necessario riepilogo cronologico, alcuni dati ricorrenti che depongono sulla specificità del futurismo savonese; sul suo darsi ad una lettura attraverso cui abbastanza chiaramente traspare la determinata realtà nella quale aveva messo le radici; un paradosso, si direbbe, stante il ruolo che vi hanno esercitato i suoi protagonisti, i quali, originari di altre aree geografiche, erano savonesi d'importazione: Farfa, all'anagrafe Vittorio Osvaldo Tommasini, era triestino e Giovanni Acquaviva era nato a Marciano Marina, nell'Isola d'Elba; faceva eccezione Tullio Mazzotti, ligure soltanto a metà; il nonno paterno, nativo di Coccaglio, in provincia di Brescia, si era infatti trasferito nella cittadina rivierasca, prendendovi moglie, per lavorare alla costruzione della ferrovia Genova-Ventimiglia.Al di là delle note biografiche, che abbiamo ripreso da una testimonianza del fratello Torido (Fulvio M. Rosso, Per virtù del fuoco – Uomini e ceramiche del Novecento italiano, Musumeci, Aosta 1983) va detto che Tullio, la cui creatività traeva alimento, in modo tanto più autentico in quanto non mediato dai parametri e dal linguaggio “colti”, dalla matrice locale (ne fu altro interprete, lavorando su una linea che oggi definiremmo di recupero antropologico), per la sua “altra metà”, e cioè per temperamento e carattere, savonese certamente non fu; la disinibita spinta vitalistica che lo muoveva e la robusta vena popolare del suo canto poetico sono chiaramente debordanti, rispetto all'asciutta contenutezza che è l'inconfondibile marchio di questo angusto lembo di terra, la cu più aderente espressione letteraria va semmai ricercata nell'introversa, sommessa voce di Camillo Sbarbaro.

Tullio d'Albisola si affaccia per la prima volta fuori dall'ambito locale nel 1925, anno in cui partecipa all'Esposizione di Arti decorative e industriali moderne a Parigi. Vi erano esposte tra l'altro opere di Balla, Depero e Prampolini; il giovane e intraprendente ceramista che, insofferente verso la pur valida tradizione albisolese, già da più di un anno andava sperimentando forme nuove, trovò sicuramente nelle proposte dei tre artisti futuristi uno stimolante termine di confronto: non poteva non trarne la conferma a proseguire nella sua linea di rinnovamento.

È del 1927 l'incontro di Tullio con Marinetti, avvenuto a Milano per interessamento del “comunista-futurista” torinese Franco Rampa Rossi, e al quale furono presenti anche Nino Strada e Bruno Munari, futuristi di breve stagione. Rispetto a questo iniziale momento “milanese” e a parte il legame con Marinetti, che rimase, ben più intenso e produttivo fu il rapporto con il gruppo di Torino, in primo luogo Fillia, instancabile animatore della presenza futurista in Liguria, e Diulgheroff, con i quali Tullio entrò in contatto in quegli stessi anni. Come si vede fu in un breve arco di tempo che ebbe luogo il suo pieno inserimento nel movimento futurista, alle cui iniziative, sul piano nazionale ed internazionale, fu sempre presente, a partire dalla mostra del 1929 “Trentatre futuristi” alla Galleria Pesaro di Milano.

Da qui la “scoperta” di Albisola. Il luogo di nascita della ceramica futurista italiana (a parte la ininfluente parentesi di Faenza) fu la fornace che il padre di Tullio, Giuseppe Mazzotti, aveva fondato nel 1903 a Pozzo della Garitta; un luogo che finì per caricarsi di una forte connotazione simbolica; fu, oltretutto, il cordone ombelicale che unì i due momenti, distinti non solo perchè separati dalla arentesi della guerra, in cui prese vita e si consumò la straordinaria vicenda artistica albisolese. Fu qui che Farfa e Fillia, tra gli altri, crearono ceramiche, fino alla messa in attività, nel 1934, della nuova sede della “Casa Mazzotti”, costruita su progetto di Diulgheroff. Ed era in questo stesso cortile di Pozzo della Garritta che negli anni Cinquanta si affacciava la casa estiva di Lucio Fontana.

Tullio d'Albisola assunse un ruolo di primo piano non solo per l'apporto che diede alla ceramica d'arte ma per la stessa funzione che ebbe nella gestione della “bottega” paterna; in realtà una vera e propria azienda (fu anche la prima fornace che sostituì l'alimentazione a legna con l'energia elettrica). Da qui i molteplici contatti con gli artisti, che grazie alla sua competenza tecnica potevano realizzare in ceramica i loro progetti. Ma la fornace di Pozzo Garritta va ricordata sopratutto perchè contribuì a delineare i tratti specifici del futurismo savonese. Gli artisti potevano infatti contare su una struttura produttiva e su una rete di distribuzione che erano in grado di mediare il rapporto fra creazione e destinazione, consentendo di raggiungere una larga cerchia di fruitori. Si potevano così tradurre in oggetti d'uso le “nuove forme”, ispirate alle concezioni innovatrici che il secondo futurismo ebbe anche in questo campo, dove più facilmente poteva operare la spinta al superamento dell'arte elitaria. Rilevante fu il contributo di Fillia e Diulgheroff, la cui opera confluì nella sperimentazione allora in atto ad Albisola non soltanto nella ceramica d'arte ma anche nella produzione di serie. Si devve ricordare che entrambi gli artisti del gruppo torinese nutrivano interesse per l'architettura ed erano in contatto con le avanguardie europee. In particolare attraverso Diulgheroff, che nel 1923, a Weimar, era entrato in rapporto con il Bauhaus, passò per Albisola questa grande esperienza che aveva assunto l'operatività artigianale entro l'istanza funzionale; si possono rinvenirne la tracce in alcuni prodotti di una rara purezza geometrica (servizi da tè di Fillia e Diulgheroff e “oggetti” di Tullio d'Albisola). Di suo, Tullio vi mise l'inventività delle “creazioni antimitative”; e su un altro versante, l'interesse per la tradizione “bassa”, che reinterpretò in chiave di stilizzazione formale, conservandone tuttavia la freschezza; un interesse che in epoca successiva doveva dar luogo a quella parte della sua opera poetica ispirata alla mitologia locale e intrisa di sapidi umori.

Già nella figura di Tullio d'Albisola sono presenti i tratti più caratteristici del futurismo savonese, nella cui vicenda un particolare rilievo ha assunto il rapporto tra operatività manuale (e tecnica) e ricerca artistica. Fu un caso insolito nello stesso ambito di questo movimento d'avanguardia, a maggior ragione in quanto non fu di breve durata e diede luogo a molteplici esperienze, tra queste (e a parte beninteso la produzione ceramica) i “libri di latta”.

In quegli stessi anni la “bottega” di Pozzo Garritta sfornava, assieme agli “aerovasi” di Fillia, le “ceramiche meccaniche” di Farfa, nelle quali l'artista triestino riversava quella irriverente immaginazione che ritroviamo nelle “cartopitture” e nella sua opera poetica. Ad Albisola, i propositi di rinnovamento della ceramica si giovarono in primo luogo di queste due personalità creative (Tullio Mazzotti e, appunto, Farfa) che, diversissime tra loro per carattere (e comportamento), cultura e, non va dimenticato, linee della ricerca espressiva, costituiscono due distinti, ma non contrapposti, punti di riferimento che agirono da elemento aggregante.

Trasferitosi nel 1929 a Savona, Farfa vi abitò per trent'anni, stabilendosi nel quartiere operaio dove si trovò inserito nel modo più naturale. Lasciando da parte la ricca anedottica fiorita attorno alle sue anriconformistiche abitudini di vita, conviene ricordare che egli era “per costituzione” un inveterato trasgressore: un “diverso”, diremmo oggi. Più per sovrana indifferenza che per determinazione, poneva tra parentesi ogni elemento costrittivo della realtà, occupandosi sopratutto di trasformare ogni cosa in “materiale” per la sua produzione poetica prorompente, non di rado ai limiti dell'incontinenza.
Non mancano però esempi di una stringata strutturazione formale. Così come non manca l'apertura ad un'avvertita sperimentazione linguistica, di cui Farfa può essere considerato un precursore. Basterà ricordare la “sincopatia” consistente in un solo verso: “Orchidee idee d'orchi in fiore”; è tutt'altro che un'ingegnosa trovata, visto che il gioco anagrammatico 8e l'effetto è spiazzante) vale a restituirci l'immagine di un fiore la cui inusuale bellezza non è priva di una sua "mostruosità”.

Farfa si produsse in un'attività molteplice: creò “figurini di abiti per signora” nonché costumi per una compagnia di rivista e non mancò di interessarsi di fotografia. Fu, il suo, uno straordinario “gioco d'anticipo” sui temi che lo portò persino a coltivare, a metà anni Cinquanta, un progetto -rimasto sulla carta- di “compotamento”: esso consisteva nell' “invadere” lo spazio di una galleria d'arte milanese con un gruppo di rastrellatrici valdostane, “con tanto di fieno e mucche”. Ma dobbiamo tagliare corto. Non tralasciando però di dire del suo interesse, che fu continuativo, per la cartellonistica. Nella intercambiabilità degli strumenti espressivi, in cui abolendo la separazione fra linguaggio “alto” dell'arte e comunicazione funzionale, la creazione artistica veniva ad intrecciarsi con la pratica pubblicitaria, si manifestava non tanto una generica versatilità; il dato da tenere presente è piuttosto la ricerca, che qui si esprimeva con modalità peculiari, e dunque, non importate e non riproducibili atrove, di un rapporto totalizzante con la realtà urbano-industriale a cui il movimento futurista aveva teso fin dagli esordi, giungendo ad una più compiuta formulazione nel manifesto “Ricostruzione futurista dell'Universo”, redatto nel 1915 da Balla e Depero.

Nel caso di Farfa, volendo stare alle opere più che all'ideologia dichiarata, il rapporto con la realtà industriale non era affatto appiattito su una posizione apologetica. La scelta futurista, ch'egli professò fino all'ultimo, risulta infatti inscritta fra i due poli dell'incontro-scontro con la macchina che sottopone sovente ad un iperbolico, ilare, stravolgimento. Non è solo questione di “patafisica” (di cui fu pure un celebrato “esponente”): a guardar bene, lo spazio di questo suo sfrenato esercizio ludico non è così compatto da impedire che vi si insinuino accenti di intensa drammaticità, dove in modo inatteso emerge una densa materia esistenziale.

Del resto il rapporto di Farfa con la “macchina” non fu privo di momenti traumatici. Egli morì nel 1964 a Sanremo, travolto da un'auto. Aveva 85 anni, èvero, ma è da ricordarsi che l'evento trova riscontro in un altro, di gran lunga precedente, non felice episodio: l'infortunio che gli era occorso nella sua breve esperienza di lavoro (nel 1919 o 1920, non si sa bene, fu per qualche mese operaio nella fabbrica-simbolo, a Torino) e di cui ha lasciato testimonianza nella poesia “Tenerezze fresatorie”. Due avvenimenti che inducono a sconcertanti riflessioni su quei momenti della sua opera poetica che rivelano un'ambigua identificazione con la “macchina”.

Valgano alcune citazioni: “Se un paio/d'auto/fanno coito d'acciaio/armate/di velocità/e rimanga/ un'atrocità in poltiglia...” dove, accanto alla rara “visualizzazione” delle immagini, e malgrado lo stesso disciogliersi della tensione nei versi successivi, che scadono in una comica inversione delle parti tra uomo e macchina, alita un soffio di tragedia. È un tema che ritornerà (premonitoriamente, si direbbe): “Il circuito/ automobilistico/ è la lama flessibile/ la vettura/ l'impugnatura/ pel duello con la morte...”. E ancora: “semiesangue rimarrà/ dalla paura/ chi si salverà da un'autovettura/ ma non potrà salvarsi mai/ dall'occhiata irosa/ del guidatore folle bestemmiante il suo furore/ contro chi s'è schivato/ così che gli è mancato/ l'agognato battesimo di sangue”. Un battesimo al quale la sorte volle che Farfa non si sottraesse.

Rispetto a Tullio d'Albisola e a Farfa la personalità di Giovanni Acquaviva appare a prima vista defilata. La sua appartenenza sociale e gli studi compiuti indurrebbero in effetti a ritenere ch'egli fosse piuttosto incline ai modi e alle forme dell'esercizio “colto”. Questo vi fu, ma solo in parte. E in epoca tardiva, allorquando il magistrato e “uomo di lettere” trapiantato a Savona scrisse alcuni testi, resi poi noti ad opera di Giovanni Farris (Manifesti futuristi savonesi, Sabatelli editore, Savona 1981), che per la verità sono chiara espressione dell'estrema fase involutiva a cui il movimento futurista era pervenuto: non si possono certo prendere in considerazione se non come documenti storici, formulazioni quali la “patriarte”. Ben più che come “teorico” del tardo futurismo, Acquaviva merita di essere ricordato per la sua attività creativa; al pari di Farfa e di Tullio d'Albisola fu artista “multimediale”: lavorò instancabilmente, lasciando un vero e proprio “giacimento culturale”.
Pittore di alta qualità, annota Enrico Crispolti (La ceramica futurista da Balla a Tullio d'Albisola, già segnalato) e grafico di rapido incisivo tratto, si dedicò anche alla scenografia, si occupò di progetti urbanistici e della progettazione di mobili. Non sfuggì al richiamo della ceramica: su suoi bozzetti la “Casa Giuseppe Mazzotti” realizzò nel 1939 un servizio di piatti ispirato alla vita di Marinetti; vi si avverte come un presagio di “informale”, che trova poi riscontro in quelle sue numerose composizioni ottenute disponendo spazialmente o sovrapponendo materiali tra i più diversi: carte colorate, bambagia, filo.

Significativo per il discorso che qui interessa è il “manifesto” di Farfa, illustrato appunto da Acquaviva, che contribuì anche alla sua realizzazione in “lito-latta”. L'opera, che è del 1931, risale ai primi momenti della presenza dell'artista toscano a Savona, dove si era trasferito dopo aver aderito in gioventù al futurismo. E dove, come si vede, non tardò ad integrarsi in quella cultura tecnico-produttiva che ne era il tratto distintivo, stabilendo un duraturo sodalizio con Farfa.

È all'intreccio di rapporti tra Savona e Torino che va ricondotto l'interesse per la cartellonistica da parte dei due artisti, che vi si dedicarono con una certa continuità. Risale almeno al 1922 la partecipazione di Farfa al gruppo futurista torinese, nell'ambito della cui attività aveva avuto luogo, nella primavera di quell'anno, il suo incontro con Marinetti. A Torino aveva compiuto esperienze innovatrici anche in questo campo, partecipando assieme a Diulgheroff (che fu il primo a sperimentare l'uso di questo materiale in funzione della comunicazione visiva) ad una mostra all'aperto di cartelloni pubblicitari di latta.

Acquaviva assume una parte di rilievo nel momento in cui, dopo la metà degli anni Trenta, l'asse della presenza futurista di sposta da Albisola a Savona; dopo aver promosso, nel 1938, il gruppo “Sant'Elia” (che alla morte di Marinetti ne prenderà il nome) è, con Farfa, l'animatore dei “quarti d'ora di poesia”, che dall'aprile del 1944 si succedono con serrata frequenza fin quasi alla fine della guerra.

Nel quadro di questa presenza del futurismo a savona va ricordata la sua ramificazione nell'entroterra collinara, ad Altare, antico insediamento dell'arte vetraria. Dedita ad un'attività che aveva attinenza con l'arredo, la “corporazione” dell' “Artistico Vetraria” aveva frequenti rapporti con Albisola. Di questa influenza che la cittadina della riviera esercitò sui più intraprendenti e dotati “maestri” altaresi non mancarono i risultati in fatto di rinnovamento dell'arte vetraria. È rimasto, circondato da un alone mitico, il ricordo del pranzo dato in onore di Marinetti nel 1932, che è da segnalare per gli effetti luminosi ottenuti mediante l'alternanza dei colori in tubi al neon: un elemento scenografico che era in piena rispondenza con le proposizioni futuriste.

Tali furono i connotati che il secondo futurismo assunse nel savonese. Vale la pena di registrarli, prendendo atto che Albisola non fu soltanto il luogo dove una produzione ceramica di alta qualità espressiva trovò la sua codificazione nel “Manifesto della ceramica futurista”, scritto da Marinetti e Tullio Mazzotti nel 1938: tardivamente, è vero, visto che il fervore creativo stava ormai venendo meno, vuoi per la crisi di attivismo che seguì alla morte di Fillia, vuoi per l'ormai incombente tragedia della guerra. Si vuole dire che Albisola fu tutt'altro che un momento transitorio del futurismo italiano, nell'ambito della sua strategia espansionistica. Fu il punto di coagulo di una presenza attiva e qualificata il cui contributo al futurismo italiano (personalità artistiche, fermenti, opere “rivoluzionarie”, quali furono appunto, ricordiamolo nuovamente, i “libri di latta”) è da acquisire come una sua articolazione. Da qui la sua tenuta nel tempo, nonché il suo proporsi e l'avere in qualche momento potuto operare come una realtà collettiva.

La “riappropriazione” di questa esperienza è un compito che resta ancora tutto da svolgere. Ed è richiesto, intanto, anche ai fini di una più approfondita conoscenza delle vicende e dei protagonisti, il recupero di materiale tuttora inedito; così come è richiesta una attenta riflessione su quanto più recentemente è stato acquisito. Il contributo che in questa occasione è parso di dover dare è inteso sopratutto a porre in evidenza le interrelazioni dello specifico contesto savonese entro cui la vicenda è venuta assumendo i propri ben definiti caratteri.

Il quadro è tale per cui acquista un chiaro significato il rapporto, ripetutamente segnalato, con Torino, e di cui si trova cenno anche in uno scritto di Diulgheroff. Un rapporto che richiede una sia pur breve messa a punto, non fosse altro perchè in mancanza di questo storico legame tra le due città non si spiegherebbe la stessa influenza esercitata dai due maggiori esponenti del gruppo torinese. Una prima, elementare, considerazione riguarda la complementarietà economica allora esistente fra le due città (il Piemonte, Torino in primo luogo, è il naturale hinterland del porto di Savona) nonché la contiguità e i fenomeni di rimescolamento della popolazione, ricordando che la città ligure è stata in passato il luogo di insediamento dei contadini delle vicine Langhe, che in gran numero nel corso degli anni vi si erano stabiliti, anche seguendo il richiamo del mare (ricorrente, non a caso, nelle pagine di Cesare Pavese e di Beppe Fenoglio).

Anche per quanto riguarda gli interessi culturali, savona manteneva più stretti rapporti con Torino che con Genova. L'osservazione vale in particolare per le arti figurative; è un fatto ad esempio che, almeno fino alla seconda guerra mondiale, le prime aspirazioni dei pittori locali, una volta affermatisi in città, erano di far conoscere la loro opera nella capitale piemontese; più recentemente, il Liceo Artistico di Savona non era, all'inizio, che una sezione dell'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, presso la quale molti artisti savonesi del passato hanno compiuto i loro studi; una tradizione che ha mantenuto un sottile filo di continuità fino all'ultima generazione di artisti di Savona e della Val Bormida.

Fra le due città, industrialmente avanzate, non mancavano altri elementi in comune che risultarono determinanti; in primo luogo il dato che la sostanziale omogeneità, dovuta alle loro caratteristiche di centri industriali, si risolveva, sul piano culturale, nel dare ampio spazio alle istanze tecnicistiche. Questo intreccio di industrializzazione, di positivismo, di cultura tecnicistica e di manualità professionalizzata era la “materia” con cui la presenza futurista aveva interagito, derivandone le sue peculiarità.

Si consideri l'esistenza della metallurgia e dell'industria siderurgica che, assieme allo scalo marittimo, ha contribuito a definire l'identità storica di Savona; un'attività che risale alla seconda metà dell'Ottocento ma che affonda le radici nella più antica lavorazione del ferro, indubbiamente legata alla grande estensione di boschi, inesauribile riserva di legname da impiegare come combustibile. Ma non è questa stessa condizione geografico-ambientale a dar ragione di secolari insediamenti produttivi, quali la fabbricazione della ceramica nel capoluogo e ad Albisola, e, ad Altare, la lavorazione del vetro, che veniva fuso in forni ad alta temperatura? Nella tradizione delle fornaci di Albisola questo dato culturale, profondamente interiorizzato, ci viene restituito dallo stesso mito del “gran fuoco” cantato da Tullio d'Albisola e, con tono più discorsivo, una volta tanto, dallo stesso Farfa.

È dallo stabilimento siderurgico Ilva che proveniva il materiale con cui furono realizzati i due “libri di latta” e le etichette per la “Premiata Fabbrica G. Mazzotti”, stampate su disegni di Diulgheroff (autore, tra l'altro, di quella pregevole opera grafica che è il marchio di fabbrica della “Lito-Latta”). La stampa sull'insolito supporto aveva avuto luogo proprio in questa azienda; l'operazione, che comportava la ricerca di non facili soluzioni tecniche, potè essere compiuta grazie all'impegno di un abile litografo, dipendente dello stabilimento. Le stesse considerazioni sull'apporto, non di rado risolutivo, della “mano d'opera” specializzata, valgono per le ceramiche futuriste sfornate dalle “botteghe” di Albisola, in primo luogo del 'maestro vasaio' Giuseppe Mazzotti, di cui i figli Torido e Tullio furono i migliori allievi.

La realtà urbana savonese, con la sua intensa attività industriale era, è vero, in pefetta sintonia con “luoghi comuni” (a giudicarli con senno di poi) del movimento futurista. Interessa però sottolineare ch i dati strutturali (ambiente, tipologia produttiva, articolazione sociale) hanno permeato di sé il lavoro degli artisti che in quella determinata realtà hanno vissuto. E, di converso, hanno finito per “darsi a vedere” attraverso i prodotti della loro attività. Un'attività, è appena il caso di precisarlo, ch non si esaurì certo in questi aspetti; ma importa aver presente, al di là di ogni visione sc hematica, che essi vi furono: che qui insomma, l'esaltazione della macchina si era tradotta in una pratica artistica nella quale, data la stessa scelta dei materiali, veniva a realizzarsi un legame “strutturale” con quella realtà industriale alla quale il movimento si richiamava.

Dei “libri di latta” si è detto. Ma elementi di questa realtà è dato coglierli sopratutto nell'opera di Farfa, dove trovano posto con una naturalezza, pur in una turbinosa manipolazione fantastica, che li pone al di sopra di ogni sospetto di “contenutismo”. Si pensi al “bullonvaso” (o “bevibullon”), indifferentemente – ed è indicativo – portafiori o contenitore di bevande, che consiste in un bullone, eretto ovviamente, e vivacissimo di colori con il suo apposito dado in funzione di manico. A quest'opera sembra fare riscontro la coppia “Buonanotte” di Tullio d'Albisola, i cui due “pezzi” hanno per impugnatura una chiave inglese. E non dice del resto, Tullio, nell' “Anguria lirica” litografata sul “libro di latta”, di nubi che “hanno un colore siderurgico”? Ma è in particolare nei vesi del poeta triestino che possiamo ritrovare gli elementi di una realtà che era parte della sua esperienza di ogni giorno. Vediamolo in “Affaraffari”: “Ottocentoottantotto milioni/ ottocentoottantottomila/ ottocentoottantotto tonnellate/ tondini ottone otto millimetri...”. Inoltre in “Vedere oltre/ cinta della città/ incinta d'industrie...”; nella breve “sincopatia”: “Iermattina osservavo/ estatico/ la segheria fantastica/ mordente l'azzurro/ tavolame del cielo coi denti aguzzi/ di multipli tetti/ d'officina”.

Ma in modo più pertinente, in quanto il mondo della produzione vi si esprime come parte integrante dell'opera, ispirandone la stessa struttura formale, questa realtà la ritroviamo nella già segnalata “Lito-Latta” (“sincopatia distagnata in libertà”): andamento timbrato, secco; onomatopee; alternanze di deliri elencatori; spezzature (nella ritornante interiezione “Boccioni-Modernolatria”) e blocchi compatti costruiti in linguaggio telegrafico che lasciano scorrere flussi ininterrotti di immagini: ci si trova risucchiati (piani, volumi, movimento, rumore) nella ipertesa, febbrile realtà della fabbrica.
È in questa lirica che ci imbattiamo nell'immagine antiretorica del “mare latta infinita” che verrà poi ripresa da Marinetti (“L'ampia latta del mare”) nella presentazione del secondo “Libro di latta”.

(Da: Palomar, Quaderni di Porto Venere, n.3, primavera 1987, pp. 178-188)

martedì 17 novembre 2009

Ken Knabb, Guy Debord cineasta


Guy Debord


Ken Knabb
Introduzione ai film di Guy Debord




Se riusciremo a venir fuori da questo imbroglio e a creare una società sana e liberata, le generazioni future si volgeranno a Guy Debord come a colui che avrà contribuito a questa liberazione più di chiunque altro nel xx secolo.

Guy Debord (1931-1994) è stato il personaggio più influente dell’Internazionale Situazionista, il noto gruppo che svolse un ruolo chiave catalizzando la rivolta del maggio 1968 in Francia. L’influenza dei suoi scritti è profonda, ed abbastanza evidente per quelli che sono capaci di andare oltre le apparenze superficiali. In compenso, i suoi film, altrettanto notevoli, sono molto meno conosciuti, almeno finora.

Ciò è dovuto al fatto che praticamente non sono stati accessibili. I primi tre film sono stati raramente presentati, benché il primo abbia causato qualche breve scandalo negli anni 50. Gli ultimi tre sono stati proiettati un po’ più generosamente a Parigi negli anni 70 ed all’inizio degli anni 80, ma altrove poca gente ha avuto la possibilità di vederli. Poi, nel 1984, Gérard Lebovici, l’amico ed editore di Debord (che aveva anche finanziato i suoi ultimi tre film), fu assassinato. Irritato dall’atteggiamento della stampa francese, che propagava le voci sulle pretese “losche frequentazioni” di Lebovici e che in alcuni casi non temeva di insinuare che Debord stesso avrebbe potuto avere qualche relazione con l’omicidio del suo amico, Debord ritirò dalla circolazione tutte le sue pellicole. Eccetto alcune proiezioni private, nessuno non ne ha più visto nessuno fino al 1995, quando, poco dopo la morte di Debord, due film (e un video che aveva appena completato) furono mostrati su una rete via cavo francese. Da allora alcune copie video pirata di questi tre lavori sono circolate, ma i film sono rimasti inaccessibili fino al 2001, quando Alice Debord ha iniziato a renderli disponibili nuovamente.

Tecnicamente ed esteticamente, le pellicole di Debord sono fra le opere più brillanti e innovative della storia del cinema. Ma, effettivamente, non sono tanto “opere d’arte” quanto provocazioni sovversive. A mio parere sono i più importanti film radicali che siano mai stati fatti, non soltanto perché esprimono la più profonda prospettiva radicale del secolo scorso, ma perché non hanno avuto alcuna seria concorrenza cinematografica. Alcuni film hanno rivelato questo o quell’aspetto della società moderna, ma quelli di Debord sono i soli che presentano una critica coerente di tutto il sistema mondiale. Alcuni cineasti radicali hanno fatto riferimento, a parole, allo straniamento brechtiano, cioè ad incitare gli spettatori a pensare ed agire da sé stessi invece di spingerli all’identificazione passiva nell’eroe o nell’intreccio, ma Debord è praticamente il solo che abbia veramente realizzato quest’obiettivo. A parte alcuni lavori di livello nettamente inferiore e che sono stati influenzati da lui, i suoi film sono i soli che abbiano fatto un uso coerente della tattica situazionista del détournement degli elementi culturali esistenti per nuovi obiettivi sovversivi. Il deturnamento è stato spesso imitato, ma nella maggior parte dei casi soltanto in modo confuso e semicosciente, o per uno scopo puramente umoristico. Non si tratta soltanto di giustapporre a caso degli elementi incongrui, ma piuttosto (1) di creare una nuova unità coerente che (2) critica a sua volta il mondo esistente e la sua relazione con questo mondo. Alcuni artisti, cineasti ed anche pubblicitari hanno usato delle giustapposizioni simili superficialmente, ma la maggior parte di esse è lontana dal realizzare (1), per non dire di (2).

Le opere di Debord non sono né discorsi filosofici da torre d’avorio, né proteste militanti ed impulsive, ma degli esami implacabilmente lucidi delle tendenze e delle contraddizioni più fondamentali della società in cui viviamo. Ciò vuol dire che si deve rileggerle (o nel caso dei film, rivederli) numerose volte, ma ciò vuol dire anche che rimangono pertinenti come prima, mentre innumerevoli mode radicali o intellettuali sono apparse e scomparse. Come ha notato Debord nei Commentari sulla società dello spettacolo, nei decenni che sono seguiti alla pubblicazione della Società dello spettacolo (1967) lo spettacolo è diventato più pervasivo che mai, al punto di soffocare praticamente ogni coscienza della storia pre-spettacolare e ogni possibilità anti-spettacolare: “il dominio spettacolare è riuscito ad allevare una generazione piegata alle sue leggi.”

Come risultato di questo nuovo sviluppo, quelle frasi di Debord che in precedenza erano respinte perché esagerate o incomprensibili sono ora respinte, con la stessa superficialità, perché ovvie e banali; e quelle persone che prima sostenevano che l’oscurità delle idee situazioniste dimostrava la loro insignificanza ora sostengono che la loro notorietà dimostra la loro obsolescenza. Ma coloro che pensano che i situazionisti siano stati recuperati perché alcuni frammenti delle loro opere sono stati esibiti nei musei, sezionati nelle università o discussi nei mass media non si sono probabilmente presi la briga di rileggerle recentemente.

I nostri agitatori hanno fatto passare ovunque delle idee con le quali una società di classe non può vivere. Gli intellettuali al servizio del sistema, peraltro ancora più visibilmente in declino di esso, cercano oggi di maneggiare questi veleni per trovare degli antidoti; ma non vi riusciranno. Avevano fatto prima i più grandi sforzi per ignorarli, ma invano: tanto è grande la forza della parola detta a suo tempo. . . Che non si chieda ora quanto valevano le nostre armi: sono rimaste in gola al sistema delle menzogne dominanti. [In girum...]

Oso dire che la stessa cosa si dimostrerà vera con i film di Debord, nonostante tutti gli sforzi per neutralizzarli.

Essendo il diagnosta più penetrante dell’epoca attuale, non è affatto sorprendente che la notorietà di Debord sia crescente, né che questa notorietà consista, in così gran parte, di voci ostili sulla sua vita privata e di ridicole idee errate sui suoi progetti e le sue prospettive. Fortunatamente, è capace di spiegarsi e di difendersi da sé stesso, così non credo che sia necessario per me cercare di farlo qui al posto suo.

Mi permetterò tuttavia di citarlo ancora una volta, per confutare una delle falsificazioni più grezze e più diffuse, che vorrebbe presentarlo come un artista o uno letterato attento solo allo stile che avrebbe attraversato una fase radicale ma che si sarebbe in seguito disilluso e rassegnato:

Dal primo momento, ho trovato giusto dedicarmi al rovesciamento della società, ed ho agito di conseguenza. Ho preso questo partito in un momento in cui quasi tutti credevano che l’infamia esistente, nella sua versione borghese o nella sua versione burocratica, avesse il più roseo futuro. E da allora, non ho, come gli altri, mutato avviso una o più volte, con il cambiare dei tempi; sono piuttosto i tempi che sono cambiati secondo le mie idee. Vi è in questo di che dispiacere ai contemporanei. [In girum...]

Anche coloro che si lagnano della “oscurità” di Debord devono essere capaci di comprendere queste parole senza difficoltà.

Non pretendo che Debord sia al di là di ogni critica, ma semplicemente che la maggior parte delle critiche che sono state fatte finora è erronea o irrilevante. Va da sé che il fatto di venerarlo passivamente va contro tutto ciò che incarnava. Si tratta di comprendere bene ciò che ha da dire, di utilizzare ciò che sembra pertinente e di ignorare ciò che non lo sembra. La vera questione posta in questi film, non è di sapere ciò che Debord ha fatto della sua vita, ma ciò che voi farete della vostra.

Aprile 2003





Traduttore americano dei film di Guy Debord e di una antologia dell'Internazionale Situazionista, Ken Knabb è anche autore di numerosi articoli e saggi. Le versioni in italiano (come pure i testi originali e le traduzioni in francese, in spagnolo e in altre lingue) si possono trovare sul sito del Bureau of Public Secrets / Ufficio dei segreti pubblici -- http://www.bopsecrets.org/italian

lunedì 16 novembre 2009

Occitania viva




Aperto a tutti e ad ingresso gratuito, prosegue, all’interno dell’iniziativa Cultura Occitana, il Ciclo di conferenze, spettacoli e concerti presentato dalla Provincia di Cuneo al fine di promuovere e valorizzare la minoranza linguistica occitana fortemente radicata nel territorio cuneese. L’evento è finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per il programma degli interventi previsti dalla Legge 482/99 coordinato dalla Regione Piemonte. L’organizzazione è curata da Espaci Occitan. Gli incontri conclusivi si terranno nelle serate del 19 e del 24 novembre.

Giovedì 19 novembre: Las ruaas de pèira.

L’architettura tradizionale nelle valli occitane, con l’arch. Roberto Olivero. Spesso bistrattata nell’ultimo trentennio da costruzioni che ben poco si sono integrate nell’equilibrio dei borghi alpini, l’architettura tradizionale delle valli occitane è frutto non solo di stili diversi, ma di diversi stili di vita, di una varietà di ambienti e clima che ha contribuito a creare grandi differenze tra una valle e l’altra. Verremo accompagnati, attraverso l’analisi di fotografie, plastici e tavole, in un viaggio virtuale attraverso le tipologie architettoniche caratteristiche in special modo della Valle Maira.

Martedì 24 novembre: Istòria de la musica d’òc.

L’evoluzione in mille anni di musica occitana, spettacolo di Sergio Berardo in viaggio tra stili, strumenti e generi musicali delle terre occitane. La musica occitana, nata a partire dal X secolo, oggi conosce una stagione particolarmente rigogliosa con centinaia di gruppi in tutta la regione linguistica d’òc. Ancor oggi, benché spesso affiancati in una felice commistione da chitarre, tastiere e batterie, vengono suonati gli stessi strumenti dell’antichità: Sergio Berardo propone un viaggio attraverso regioni, stili e generi musicali differenti in una lezione-concerto in cui saranno suonati oltre venti diversi strumenti della tradizione musicale occitana.


Gli appuntamenti si terranno dalle ore 21 presso il Centro incontri della Provincia di Cuneo in Corso Dante 41 a Cuneo.


Per informazioni:
Espaci Occitan - Via Val Maira 19 a Dronero - tel 0171.904075 - segreteria@espaci-occitan.org - www.espaci-occitan.org

Gramsci, Marinetti e il futurismo




Giorgio Amico

Gramsci, Marinetti e il futurismo

L'interesse di Gramsci per il futurismo ha radici profonde. Già nel maggio 1913, ancora studente, interviene sul Corriere Universitario di Torino in difesa dei futuristi violentemente attaccati dalla rivista bolognese San Giorgio, organo di gruppi cattolici integralisti e reazionari.

Per Gramsci il fenomeno futurista si comprende solo inserendolo nel contesto della rivoluzione formale operata in quegli anni dalle avanguardie artistiche europee. Non di bizzarrie si tratta, ma di un radicalismo formale ricercato e consapevole, della volontà decisa di rifondare il discorso artistico nell'ottica di una modernità vissuta come rivoluzionaria. La teoria paroliberistica di Marinetti è della stessa natura degli esperimenti di Picasso. Ardita intuizione che la dice lunga sulle capacità di lettura critica del giovanissimo intellettuale già allora impegnato in uno sforzo di comprensione di quella Torino operaia, città-fabbrica, simbolo della modernità e del macchinismo che tanto affascina i futuristi Depero, Farfa, Fillia.

Torino, esempio paradigmatico di moderna metropoli in formazione, nodo di contraddizioni, dove il rapporto uomo-macchina è l'asse attorno a cui si stanno riorganizzando tempi e spazi di lavoro e di vita. Gramsci sottolinea con acutezza il rapporto vitale dei futuristi con lo specifico della città industriale, luogo del mutamento permanente, di una radicale de-costruzione del presente . E' nella metropoli che si realizza il processo di distruzione del passato in un'ottica di incessante rinnovamento. E' lì che devono operare i rivoluzionari: su questa visione strategica ordinovisti e futuristi sono in assoluta sintonia.

L'attenzione di Gramsci per il fenomeno futurista, che non verrà mai meno neppure nelle avverse condizioni del carcere e dell'isolamento politico, costituisce un'ulteriore conferma, se mai ce ne fosse bisogno, della capacità del leader ordinovista di cogliere la complessità della situazione italiana e di intuire l'importanza non secondaria della questione “culturale” nella battaglia per l'egemonia, ma soprattutto della centralità del tema delle alleanze, raccogliendo e reindirizzando in senso autenticamente rivoluzionario la violenta (ma confusa e contraddittoria) carica antiborghese delle avanguardie intellettuali dannunziane e futuriste.

Dall'osservatorio privilegiato della Torino città-fabbrica, Gramsci capisce che non confrontarsi con i futuristi significa abbandonarli al richiamo forte dell'attivismo fascista che a gran voce rivendica la rappresentanza in chiave antisistema della modernità e della gioventù. Da qui il tentativo operato dall'Ordine Nuovo di inserirsi nei contrasti manifestatisi a Torino fra futuristi e fascisti, agganciandosi a chi, come Fillia e Farfa, sul versante futurista si proponeva apertamente di collegare le iniziative artistico-culturali con la vita quotidiana delle masse operaie a partire proprio dalla fabbrica e dal rapporto uomo-macchina.

E' in questo contesto che va collocato l'articolo sull'Ordine Nuovo del gennaio 1921, e la creazione, sempre nello stesso mese, dell'Istituto di Cultura Proletaria (Proletkultur) con lo scopo dichiarato di rendere i “produttori” protagonisti anche della battaglia di rinnovamento rivoluzionario dell'arte e della cultura, con il compito inedito di contribuire alla creazione una intellettualità di massa di “tipo nuovo” di cui la modernità macchinista della metropoli ha creato i presupposti.

Un progetto, quello gramsciano, che trova autorevoli sponde nel gruppo dirigente dell'Internazionale comunista ed in particolare in quel Lunacarskij, che ben conosceva (anche per frequentazione diretta avendo soggiornato a lungo in Italia fra il 1905 e il 1912) Filippo Tommaso Marinetti e il movimento futurista.

Un tentativo di avvicinamento che si concretizza nella partecipazione organizzata nella primavera del 1922 di una folta delegazione di operai ordinovisti alla esposizione futurista torinese, accolti e guidati dallo stesso Marinetti che, come riportato con rilievo da L'Ordine Nuovo, “si prodigò largamente a spiegare il significato pittorico dei singoli quadri e il valore del futurismo in genere”.
Ancora più significativa (siamo a pochi mesi dalla marcia su Roma) l'iniziativa nel giugno 1922 dell'Istituto di Cultura Proletaria di editare e diffondere in ambiente operaio un libretto di poesie dal titolo “1+1+1=1 Dinamite, versi liberi”.

L'iniziativa, pensata come momento di raccolta di fondi a favore delle vittime della violenza squadrista, veniva presentata su L'Ordine Nuovo come autenticamente futurista: “Gli autori dei versi liberi contenuti in questa Dinamite sono giovani pervasi da quello spirito innovatore che va sotto il nome di... futurismo... e che è nella sua vera essenza eminentemente rivoluzionario”. Fra i collaboratori dell'iniziativa spicca il nome di Luigi Colombo, più conosciuto come Fillia, esponente di primo piano del futurismo torinese e stretto collaboratore di Marinetti. Suoi sono ben cinque degli undici poemi che compongono la raccolta.

Tentativi che non avranno seguito, per il precipitare della situazione con la marcia su Roma, ma anche per l'immediato intervento censorio della direzione bordighista del Pcd'I che sul quotidiano del partito, Il Comunista, condanna drasticamente le tendenze avanguardistiche e le aperture ai futuristi della Federazione giovanile e del Proletkult ordinovista.

(Estratto da: Giorgio Amico, Futurismo a Savona. Omaggio a Stelio Rescio, Savona 2009)

domenica 15 novembre 2009

Il Museo delle arti primarie di Savona, intervista a Giuliano Arnaldi


Giuliano Arnaldi

Giuliano Arnaldi

Il Museo delle arti primarie

Perchè un museo delle arti primarie?
 
Esistono moltissimi musei di arte contemporanea, molti musei archeologici, qualche museo etnologico, pochissimi musei di arti primitive, questi ultimi nei Paesi ex colonialisti (Francia, Belgio, eccetera) e negli Stati Uniti, ma (con la lodevole eccezione del Quay Branly di Parigi) non esiste ancora nessun museo di arte primaria, dedicato cioè alle arti tribali extraeuropee. Siamo da sempre tra coloro che ritengono che le culture cosiddette "primitive" siano in realtà complesse, articolate e ricche di valore esattamente come le nostre e che il termine "primitivo" sia quindi riduttivo, se non offensivo. Il MAP è prima di tutto una dichiarazione di curiosità, di rispetto e di passione verso le diversità
 
In concreto ciò cosa significa?
 
Pensiamo al MAP come ad una rete di presidi attivi, di fabbriche di idee e di emozioni costruite attorno a nuclei di opere di grande interesse storico e di suggestione emozionale, veri e propri testimoni di una bellezza fuori dal tempo.
 
Tutto molto affascinante, anche se non troppo in sintonia con l'andazzo corrente nel mondo dell'arte...
 
Non bisognerebbe mai dimenticare che la bellezza è "sovversiva", nel senso che sovverte i cuori e libera energie: chiunque sia innamorato conosce questa condizione. Camus diceva che la "bellezza senza dubbio non fa le rivoluzioni, ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza" e la rivoluzione del cuore è in fondo la conseguenza reale del contatto con l'arte.
 
Accennavi a una "rete", puoi precisare meglio il concetto?
 
L'idea è quella di obbligare il visitatore a compiere un viaggio, a misurarsi con il contesto nel quale l'opera è collocata, a disporre del proprio tempo con ritmi diversi. Il principio di fondo è quello di superare l'idea di arte per tutti e di pensare all'arte per ciascuno. Da un'idea del genere l'opera d'arte esce rafforzata, diventa origine per dialoghi con opere di altri luoghi e di altri tempi, stimolo per il lavoro dei giovani artisti, strumento di ri-scoperta di opere seppellite a volte sotto la crosta noiosa del museo tradizionale che espone, magari celebra, ma difficilmente propone.
 
Perchè a Savona?
 
La sede permanente del MAP è a "Saona" (ovvero quel lembo di Liguria che inizia ad Alba Docilia e finisce ad Alba Ingauna) intanto perchè è quantomeno curioso che sia stato un savonese (il Papa Giulio II) a dare inizio all'arte come celebrazione dell' "involucro uomo", e che sempre a Saona cinquecento anni dopo uomini diversi provenienti dai posti più lontani (Fontana, Lam, Jorn, ecc.) abbiano creato nuovi impulsi che tornano a misurarsi con il Mistero.
 
E per incominciare...?

Abbiamo iniziato con due presidi: il "Mercato delle Idee" a Savona (al piano superiore del civico mercato di Corso Mazzini) e "Terre d'asilo" ad Albisola Superiore (nei locali dell'ex asilo antistante la chiesa parrocchiale di S. Nicolò). Ogni presidio si fonda su un aspetto dei linguaggi dell'arte e le opere ospitate sono scelte in base alla "vocazione" del sito. Ad Albisola, ad esempio, il presidio ospiterà in modo permanente terrecotte antiche provenienti da diversi continenti e mostre temporanee legate al tema della materia.

E Savona?
Lo spazio di Savona ospita una biblioteca dedicata all'Arte Moderna e alle Arti Primarie comprendente il Fondo Stelio Rescio. E' presente inoltre un centro multimediale per la promozione e la produzione di videoarte e fotografia, nonchè la sede della web tv di TRIBALEGLOBALE.
Un progetto affascinante e ambizioso. Auguri!

(Intervista raccolta da Giorgio Amico)