giovedì 30 settembre 2010

75° Anniversario della fondazione del POUM




75° anniversario della fondazione del POUM

Programmata prima della morte di Wilbaldo Solano (ultimo segretario del POUM), la quarta edizione delle Giornate della Fondazione A. Nin avrà luogo a Barcellona il 2/3 ottobre 2010: sono in programma visite guidate e conferenze in omaggio al POUM, a 75 anni dalla sua fondazione.

[Per informazioni: info@fundacioandreunin.com]

Contro l'editoria, ovvero il libro come merce


Roberto Massari, editore contro corrente, da tempo sta sviluppando assieme a Pino Bertelli una riflessione sul mercato della comunicazione che contiene spunti di grande interesse. Non ce ne voglia l'amico Roberto se riprendiamo per Vento largo un estratto di un suo lavoro molto corposo che sta circolando in bozze nel reseau libertario internazionale "Utopia Rossa".


Roberto Massari

Contro l'editoria, ovvero il libro come merce


Con l’avvento della società (civiltà?) borghese, il valore d’uso del prodotto editoriale non si volatilizza, non cessa di esistere e ancora resiste ai nostri giorni, nonostante le crescenti molestie informatiche che subisce per la concorrenza del World Wide Web. Ma esso perde qualsiasi forza d’attrazione o di condizionamento nei confronti dei centri decisionali dell’editoria dominante. Il potere editoriale capitalistico - in fieri in determinati contesti, come all’epoca dell’Encyclopédie, oppure già saldamente installato (secondo un percorso dell’editoria commerciale facilmente ricostruibile da allora ai nostri giorni e molto oltre) - perde via via interesse nei contenuti ideologici del libro al livello di macrosistema, conferendo il compito di regolatore delle scelte (sempre meno) redazionali al nuovo dominatore indiscutibile di ogni aspetto della vita economica e non solo: sua eccellenza Il Mercato.
(...)
I contenuti ideologici, politici o culturali a volte possono ancora interessare la singola impresa editoriale, soprattutto se caratterizzata (e finanziata) in senso confessionale, partitico o associazionistico, ma non possono alterare il ciclo di valorizzazione e riproduzione del capitale investito nel circuito librario dalle grandi imprese editoriali. Basti pensare, per averne un esempio recente tutt’altro che paradossale, alla miriade di libri e libretti rivoluzionari, guerriglieristici, anarchici, situazionisti, luddisti, operaisti, marxisti-leninisti ecc. pubblicati dalle grandi corporazioni editoriali dei principali paesi imperialistici (l’Italia e la Francia in primis) durante la rivolta antisistemica del ‘68 e negli anni seguenti. E non stiamo parlando solo di un imprenditori anomali come la Feltrinelli o Maspero (il Feltrinelli o il Maspero di allora), ma anche di grandi imprese economiche come Mondadori, Einaudi, Laterza ecc. (Sull’itinerario di queste e le altre principali imprese editoriali in Italia, si veda Nicola Tranfaglia-Albertina Vittoria, Storia degli editori italiani, Laterza, Bari 2000, ma anche Mario Sabbieti, Mestieri di carta, La Casa Usher, Firenze 2007.)
Evidentemente, poiché pecuniae unum regimen est rerum omnium [l’unico governo di tutte le cose è quello del denaro], l’editoria dominante nella società del capitale monopolistico non trova più alcuna ragione per impedire la circolazione delle opere antagonistiche, purché esse siano in grado di farsi valere sul mercato. A ciò che può essere scritto dentro il libro, gli azionisti delle grandi imprese editoriali non potrebbero essere meno interessati, purché non si violino leggi o regolamenti che possano poi costringere a pagare multe o a far ritirare le merci dal circuito librario, perdendo così del denaro.
In tale orientamento - fondato sul predominio di criteri commerciali, che per il capitale è un fatto «naturale» e non un prodotto di scelte umane (è casomai l’essere umano che vi si deve adeguare) - l’editoria sistemica è confortata anche dal fatto che tutta la pubblicistica più o meno antagonistica che essa fa circolare, a intervalli determinati dalle ricerche di mercato e dalle mode, non costituisce più una minaccia politica nella stragrande maggioranza dei paesi capitalistici. La pubblicistica cosiddetta «alternativa» ha perso da tempo qualsiasi possibilità di modificare la consapevolezza delle classi subalterne o di incidere sui rapporti di forza tra le classi. E ciò per altre moderne ragioni che accenneremo alla fine del discorso e che possiamo nell’attesa anticipare nella formula del potere assoluto della società spettacolare di massa. Vi ritorneremo.
Per il momento ricordiamo soltanto che la storia dell’arte tipografica e dell’editoria di massa è strettamente legata alla nascita dei partiti, all’avvento dei sistemi parlamentari, alla necessità della propaganda politica, al ritmo convulso che via via hanno assunto le competizioni elettorali, ai grandi interessi economici in gioco nel corso di queste stesse sempre più frequenti consultazioni. Sul tema si rinvia volentieri a un gustoso libriccino (formato mignon di cm 8 x 11,5, ma di 384 pagine) - I comunisti mangiano i bambini. La storia dello slogan politico (Garzanti, Milano 1994) - in cui l’autore, Gianluigi Falabrino, offre alle pp. 6-7 una precisa sintesi della sua tesi di fondo:
«La premessa per la pubblicità commerciale e per la moderna propaganda politica è l’invenzione della stampa: l’una e l’altra potranno nascere quando alla stampa si aggiungeranno l’industria e i trasporti, così che lo stesso messaggio potrà essere distribuito in migliaia di copie (più tardi in milioni di esemplari) raggiungendo anche il pubblico più lontano (...). L’invenzione della stampa porta i primi frutti politici appena tre secoli dopo Gutenberg, alla fine del ‘700, con il fiorire dei giornali americani anticoloniali e con la Rivoluzione francese, contrassegnata, fra l’altro, dal pullulare dei partiti e dei loro giornali».



Nell’era del capitalismo industriale il libro diventa pertanto una merce a pieno titolo che con le altre merci condivide il generale carattere «feticistico», secondo la definizione che ne diede Marx nel I vol. de Il Capitale (tralasciando la ridda d’interpretazioni che il termine ha prodotto nella verbosità tipica degli epigoni del marxismo): e cioè il fatto che alla merce (anche in forma di libro) nella società capitalistica viene attribuita un’esistenza indipendente, un ruolo di rapporto sociale reale, perdendo di vista in tal modo la sua natura intima (l’essere necessariamente un prodotto del lavoro umano, quindi una cosa), e il fatto che, nel momento in cui essa assume tale status, sono i rapporti sociali esistenti tra gli uomini ad assumere nello scambio l’aspetto di rapporti tra cose. Marx lo chiama anche l’«arcano» del rapporto di produzione fondato sullo scambio di merci, e della forza di lavoro tra queste. [Sul tema del feticismo della merce e della merce-spettacolo in particolare devo rinviare al mio intervento al seminario dell’Aquila dedicato a Debord: «Da La società dello Spettacolo ai Commentarii. Note di lettura», in Antonio Gasbarrini (a cura di), Guy Debord. Dal Superamento dell’arte alla Realizzazione della filosofia, Angelus Novus/Massari ed., 2008, pp. 50-1.]
Ebbene, a questo feticismo «naturale» della merce-libro all’interno della società capitalistica, va aggiunto un secondo tipo di «feticismo» che non è deducibile dalle leggi di funzionamento economico del sistema, bensì dalla percezione che gli individui hanno della funzione del libro. In quanto tale, esso accompagna la forma-libro (tavoletta o papiro che fosse) fin dalla nascita. E pur modificandosi radicalmente nei secoli, si può agevolmente pensare che continuerà ad esistere ancora per molto, anche se è praticamente impossibile prevedere quali trasformazioni interverranno in seguito a profonde modifiche materiali cui stiamo assistendo nel processo di programmazone-ideazione, scrittura, fabbricazione e diffusione del libro, o di ciò che andrà ancora sotto tale nome.
Volendo chiarire meglio questo secondo tipo di feticismo, non prodotto specificamente dal capitalismo o da una determinata società di classe, il termine che viene spontaneo alla mente come forma di associazione concettuale è «miraggio». Il libro è un prodotto materiale, tangibile dell’operosità umana, ma è avvolto da un’aura di intangibilità e di prestigio quasi sovrannaturali. Esso sembra promettere la vita eterna o perlomeno una maggiore permanenza nel fluire del tempo. La promette in primo luogo per se stesso, in quanto oggetto materiale sopravvissuto al passare dei secoli e ormai sempre più facilmente riproducibile. E quindi per l’autore, forse per l’editore, ma un frizzico di quell’aura miracolosa finisce col cadere anche sull’animo del lettore. Questi, leggendo un’opera dell’antichità (per es. l’Asino d’oro di Apuleio o i Carmina di Catullo) sente rivivere in sé le emozioni che originariamente animarono gli autori e li spinsero a scrivere quelle opere. Poi, ascoltandosi meglio, sente rivivere la proiezione di quelle emozioni sui tanti altri lettori che prima di lui, nel corso dei secoli o dei millenni (i lettori di Omero, per es.) si sono accostati all’opera: avverte un-non-so-ché di collettivo ed extratemporale nel processo di fruizione, degustazione e archiviazione mentale del libro. Di lì a immaginare che le stesse emozioni potranno essere vissute dai futuri lettori, in epoche e galassie ancora da definire, il passo è breve.
Il feticcio (miraggio) di secondo tipo che il libro produce o evoca (e che spesso si riflette in altri libri ricavati dal libro originario, libri tra loro imparentati, libri che dialogano tra loro...) non è del tutto fittizio, a differenza del segreto arcano della merce di cui sopra, ma può avere anche una sua consistenza visiva e psicologica. Effettivamente il manufatto che giunge sulla nostra scrivania o accanto al nostro cuscino o tra le nostre mani mentre siamo impegnati in una delle funzioni fondamentali dell’organismo umano o in viaggio o nello zaino della guerriglia (Che Guevara) o dopo un lutto o prima di un esame o nelle pause di un grande amore o in una baita in cima a un monte o sotto una palma dopo un’immersione, sembra raccontare una storia antica e autentica allo stesso tempo. A volerci fare attenzione, c’è sempre un momento in cui possiamo sollevare gli occhi dal libro e metterci a pensare che qualcuno lo concepì e lo scrisse in epoche lontane, vicine o lontanissime, e che lo fece con l’amore (fedifrago) tipico degli autori; qualcuno poi gli diede una prima forma materiale, se antico - lo stampò e fabbricò, se moderno; qualcuno lo salvò e lo abbellì con la tenacia degli amanuensi (che noi oggi possiamo apprezzare nei musei o nelle copie anastatiche, per es. dell’editore Arnaldo Forni) o lo archiviò con lo scrupolo dei bibliotecari; e ancora qualcuno lo tradusse o lo rifinì con cura redazionale; qualcuno lo cucì e lo allestì, a volte anche con gusto o inventiva, e qualcun altro si incaricò di farlo girare per il mondo, per la città, per la libreria, per la biblioteca di casa o nello studio. Molti poi ne hanno parlato o discettato, curandone in vari modi la pubblicità, vale a dire la sua proiezione spettacolare.
(Per un rapido sguardo disincantato a uno dei trucchi con cui si alimenta questo aspetto propagandistico, si veda sul Corriere della Sera del 14 sett. 2010, p. 41, «Libri, la dittatura delle classifiche», di Paolo Di Stefano che ci avvisa che è «difficile non pensare alle classifiche dei libri come pubblicità gratuita e occulta». Ma se si vuole una disamina a tutto campo della corruzione fenomenale e fenomenica che regna in questo ambìto àmbito, e in più si vuole ridere con gusto, si veda di Franco del Moro - factotum di Ellin Sellae e nostro collega in disagi da piccolo editore - Il libro è nudo. Rivelazioni sul mondo letterario ai lettori che non sanno, Stampa Alternativa, Viterbo 2000.)
Forse non tutti i libri evocano sensazioni di questo genere o forse ne evocano solo barlumi. Ma la convergenza di un palpito extratemporale (succedaneo per il senso di eternità) e l’impressione di esser partecipi di un rito collettivo (di produzione o di usufrutto), danno la sensazione/ speranza/illusione al povero essere umano che con i libri in qualche modo si possano anche riportare delle vittorie parziali sui suoi due più grandi nemici, gli stessi che lo angustiano nell’arco dell’intera sua vita: la morte e la solitudine.



Siamo di fronte a delle componenti fondamentali del carattere feticistico caratteristico dei libri, che possiamo associare per analogia al miraggio. Ma non si ferma qui il potere evocativo di questa curiosa merce che saremmo tentati di considerare la Regina delle merci - e che sotto il profilo del fascino feticistico certamente lo è.
È difficile immaginare un’altra merce con pari forza evocativa e continuità temporale, se non passando ai prodotti originali nel campo dell’arte (pittura, musica, cinema ecc.): tutte manifestazioni della creatività umana che si possono comunque ricondurre ancora a dei libri (volumi fotografici per le arti figurative, spartiti, partiture e libretti d’opera, sceneggiature) o che comunque col libro hanno un rapporto privilegiato, anche se non si lasciano possedere altrettanto facilmente, se non nella forma di surrogati del loro prototipo originario (servizi prestati per ora dal libro d’arte, dal Cd musicale, il Dvd filmico, il sito Internet ecc.).
Solo le droghe, l’alcol e altre merci in grado di alterare gli stati di coscienza potrebbero competere in potenza evocativa con il libro, ma non con il suo effetto alleviatore per le paure di morte e solitudine. E comunque, anche se vincessero in quanto a intensità evocativa sul momento (e non è sempre detto), perderebbero sul piano della permanenza degli effetti nel tempo: ultraduraturi quelli dei libri, temporanei ed effimeri quelli delle sostanze «psicotropiche» o variamente alteratrici degli stati di coscienza. Per dare un esempio banale, il sottoscritto ricorda ancora immagini vivide evocate dalla lettura di Stevenson, Verne o London nella sua fin troppo lontana adolescenza (vissuta agli inizi della seconda metà del secolo scorso), laddove non saprebbe redigere a memoria una lista nemmeno incompleta per due terzi dei vini per altro meravigliosi degustati durante il triennio del corso di sommellier di pochi anni orsono. Il paragone semplicemente non è proponibile perché le due categorie di merce sono sostanzialmente incommensurabili. Ciononostante, ci si consenta di suggerire un possibile abbinamento di due distinte forme di merce «alteratrice»: un buon libro e un bicchiere di buon vino o la loro felice sintesi come nel prodotto da me inventato come editore: i Vini da leggere (Literary wines in inglese). L’effetto è garantito...




Figura storica del movimento trotskista internazionale, tra i maggiori studiosi della figura e dell'opera del Che, promotore della "Fondazione Ernesto Che Guevara", editore che ha il merito di aver proposto o riproposto autori e temi di decisiva importanza per una cultura della liberazione e della dignità umana, Roberto Massari è anche autore di una trentina di volumi fra saggi e romanzi.

mercoledì 29 settembre 2010

Espaci Occitan, I libri del giovedì



La rassegna “I Libri del Giovedì”, finalizzata alla promozione del libro e della lettura, propone quattro incontri con autori e interpreti delle valli alpine piemontesi. Storie di vita, pensieri ed umori di gente con la montagna nel cuore. Ogni serata è occasione di contatto e conoscenza diretta di ciascun autore che espone la propria opera raccontando di sé, delle proprie ispirazioni e del proprio lavoro di scrittore. Il programma si svolgerà nel Museo Sòn de Lenga di Espaci Occitan a Dronero, e prevede un ricco calendario di appuntamenti.

Giovedì 7 ottobre alle ore 21 Livia Bernardi presenta “Dall’inferno al Monviso - La vera storia di Giacu Cayenna”, di Giacomo Bernardi (LAReditore, Perosa Argentina). Dal manoscritto di Giacomo Bernardi, la nipote Livia presenta la biografia del nonno,
autore di un delitto involontario che lo porta alla detenzione e ai lavori forzati nelle carceri francesi, nella “colonia penale” della Cayenna. Dieci anni di inferno privi di umanità, poi l’evasione, la fuga nei mari dell’America del Sud e finalmente il ritorno in patria. Conduce l’incontro Alberto Gedda, giornalista del programma TGR Montagne – RAI 2.

Giovedì 14 ottobre alle ore 21 Vincenzo Decarolis presenta il suo libro: “Tra sogno e realtà”, (Fusta Editore, Saluzzo). Dagli occhi e dal cuore dell’autore, riflessioni ispirate dalla bellezza chiassosa e silenziosa della montagna vera. Luoghi incantati pullulanti di vita animale e vegetale rapiscono gli occhi, la mente e restituiscono meravigliose immagini, pensieri struggenti e intime emozioni. Incontro accompagnato da proiezione di immagini.

Giovedì 21 ottobre alle ore 21 Dino Aloi presenta il libro scritto con Claudio Mellana: “Antologia degli umoristi in Piemonte”, (Edizioni Il Pennino, Torino). Viaggio attraverso gli autori più significativi della satira in Piemonte, da Casimiro Teja a Franco Bruna passando per Mussino, Golia e Cavallo. Centinaia di schede esaustive sugli interpreti degli avvenimenti storici più significativi del Piemonte e d’Italia con la presentazione delle riviste satiriche ed umoristiche realizzate in Piemonte, a partire dal Risorgimento, e le mostre e rassegne più significative del settore. Durante la serata i vignettisti Danilo Paparelli e Gianni Audisio disegneranno “in diretta”.

Giovedì 28 ottobre alle ore 21 Giorgio Ferraris presenta: “Alpini dal Tanaro al Don”, (Edizioni Araba Fenice, Boves). La tragedia della Divisione alpina Cuneense nella guerra di Russia che costò la vita a quasi tutta una generazione di giovani che, prima della guerra, sapeva soltanto che la Russia era lontana e fredda. Una fotografia lucida e intensa di uno spaccato storico ben presente nelle vallate alpine del Piemonte e non soltanto... Conduce l’incontro l’insegnante Erica Peirano.

La rassegna “I Libri del Giovedì” rientra nel programma “Ottobre piovono libri” promosso dal Ministero dei Beni e attività culturali. Il programma dell’iniziativa è consultabile sul sito http://www.cepell.it/.



Per informazioni Associazione Espaci Occitan, Via Val Maira 19, 12025 Dronero, tel/fax 0171-
904075, segreteria@espaci-occitan.org e www.espaci-occitan.org .


Premio Mario Novaro a Boris Biancheri


Boris Biancheri


Premio Mario Novaro a Boris Biancheri


L’Ambasciatore Boris Biancheri è il personaggio a cui verrà conferito il Premio Mario Novaro per la Cultura Ligure, XX edizione.

Il 1 ottobre 2010 alle 18 a Ventimiglia presso Villa Hanbury, cerimonia di consegna del Premio Mario Novaro per la Cultura Ligure a Boris Biancheri.
Padrini della cerimonia il Prof. Mauro Giorgio Mariotti Direttore dei Giardini Botanici Hanbury, il Prof. Giorgio Bertone, docente di letteratura italiana all’Università di Genova, l’Ambasciatore Maurizio Moreno, Presidente dell’ International Institute of Humanitarian Law.

Boris Biancheri è nato a Roma il 3 novembre 1930, da famiglia ligure per parte di padre e russa per parte di madre. Ha avuto un’infanzia romanzesca passata a Roma tra gli esuli russi amici della madre. Ha studiato nella capitale, dove si è laureato in Giurisprudenza nel 1953.
Nel 1956 è entrato nella carriera diplomatica, dapprima nel Gabinetto del Ministro Gaetano Martino, poi in Grecia e in Francia. è stato Ambasciatore italiano a Tokyo, a Londra e a Washington.
Come Direttore generale degli affari politici del Ministero Affari Esteri è stato negoziatore italiano del Trattato di Cooperazione Politica europea in vista della stesura del Trattato di Maastricht.
Terminata la carriera diplomatica, dal 1997 è stato presidente dell’ANSA e dal 2004 al 2008 Presidente FIEG. è editorialista del quotidiano «La Stampa» e membro della Fondazione Italia USA. Attualmente è Presidente dell’Istituto di Studio di Politica Internazionale (ISPI) di Milano.
Autore di narrativa con L’ambra del Baltico: carteggio immaginario con Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Feltrinelli 1994), Il ritorno a Stomersee: tre racconti consolari (Feltrinelli 2002), Il quinto esilio (Feltrinelli 2006), e di saggistica con Accordare il mondo-La diplomazia nell’età globale (Laterza 1999), Il nuovo disordine globale. Dopo l’11 settembre (Università Bocconi Editore, 2002).

Boris Biancheri è sposato con Flavia Arzeni e ha due figli. è un appassionato lettore, i suoi autori preferiti sono, come ama dire, esuli: Nabokov e Brodsky; è scrittore, cultore di musica e pianista jazz.
Con la Liguria, dove torna volentieri, ha un legame profondo, è testimone della sua trasformazione ma non nostalgico “laudator temporis acti”; ne ha osservato il passaggio da terra di ulivi a terra di intensa floricoltura, a meta di turismo. Non ha rimpianto per il passato, infatti dice “con 21 traslochi alle spalle essere nostalgico sarebbe una tragedia”.


Una rondine in ceramica, modellata da Umberto Piombino, a riproduzione del logo della Fondazione e montata su una base di olivo è il Premio che l’architetto Maria Novaro, Presidente della Fondazione Novaro, consegnerà a Boris Biancheri nella suggestiva cornice dei giardini Hanbury con questa motivazione:

“A ricordo dei molteplici interessi del personaggio a cui è intitolato, il Premio Mario Novaro è destinato ogni anno, dal 1991, a una personalità, nata o attiva in Liguria, che con la sua opera abbia esaltato i valori della cultura in qualsivoglia forma o linguaggio espressivo.
La scelta di assegnare il Premio, per il 2010, a Boris Biancheri prende in considerazione le varie attività nelle quali il personaggio si è distinto: la diplomazia, il giornalismo, la scrittura, portando nella società una cultura viva e attuale sotto differenti aspetti e angolazioni, un’eredità che discende dalle sue origini nell’estremo Ponente ligure. Va infatti ricordato che Boris Biancheri, ancorché romano di nascita, è stato ed è tuttora molto legato alla terra da cui proviene la sua famiglia.
Terra che ha infatti dato i natali ad un suo illustre antenato, Giuseppe Biancheri, che, dopo aver ricoperto altri prestigiosi incarichi, fu presidente della Camera dei Deputati al tempo del neonato Regno d’Italia.
Non per caso «La Riviera Ligure» (allora «di Ponente»), edita dai Novaro per la Ditta Sasso, riservava nel 1896 alla figura di Biancheri un dettagliato articolo accompagnandolo con l’immagine della casa di famiglia a Ventimiglia: «una casa modesta che non ricorda certo il fasto di dubbia origine di cui si circonda più d’un uomo politico famoso»”.

Il Premio Mario Novaro per la Cultura Ligure giunge oggi alla XX edizione. Dalla sua istituzione lo hanno ricevuto: Ligustro (Giovanni Berio, 2009), Giuliana Traverso (2008), Umberto Albini e Vico Faggi (2007), Eugenio Carmi (2006), Massimiliano Damerini (2005), Lucio Luzzatto (2004), Giuliano Montaldo (2003), Edoardo Sanguineti (2002), Enzo Maiolino (2001), Elena Bono (2000), Ivo Chiesa (1999), Vittorio Gassman (1998), Francesco Biamonti (1997), Renzo Piano (1996), Teatro della Tosse (1995), Luciano Berio (1994), Beatrice Solinas Donghi (1993), Alessandro Fersen (1992), Emanuele Luzzati (1991).

La Fondazione Mario Novaro, è un ente riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività culturali e dalla Regione Liguria, nato, per la volontà degli eredi e di un gruppo di docenti dell'Università genovese, allo scopo di valorizzare il lascito intellettuale dell'imprenditore onegliese Mario Novaro, direttore della rivista «La Riviera Ligure», e di proseguirne le iniziative a favore della cultura ligure del Novecento.
La Fondazione attua il proprio compito istituzionale attraverso la realizzazione di incontri, mostre, convegni e l'edizione di testi. Nello svolgimento dell'attività ha occasione di collaborare con Enti locali, Atenei e varie istituzioni nazionali ed internazionali. Di questo mutevole lavoro culturale, la Fondazione dà rendiconto attraverso i "notiziari" regolarmente pubblicati in appendice ai quaderni quadrimestrali, che hanno ripreso la vecchia testata novariana.
http://www.fondazionenovaro.it/


martedì 28 settembre 2010

Un libro fatto di cose non dette e di silenzi


Continuiamo a parlare di Italo Calvino pubblicando la lettera con cui lo scrittore comunicava a Francesco Biamonti le sue impressioni sulla bozza de L'angelo di Avrigue ricevuta dal comune amico Nico Orengo. La pubblicazione del libro ebbe poi un iter tormentato. Calvino dovette superare forti resistenze all'interno del gruppo di lettura che doveva dare il parere definitivo. L'angelo di Avrigue uscirà solo due anni dopo e sarà ancora Calvino a scriverne la presentazione sulla quarta di copertina.

A FRANCESCO BIAMONTI
SAN BIAGIO DELLA CIMA (IMPERIA)

Roma, 21 ottobre 1981

Caro Signor Biamonti,

Nico Orengo mi ha dato il manoscritto del Suo romanzo L'angelo di Avrigue. L'ho letto con molto interesse, contento di trovare una personalità di scrittore nuova e inattesa.
La storia prende e non si ha voglia di smettere. La compenetrazione del paesaggio e dei drammi umani è molto suggestiva. La tensione dell'inchiesta sulla morte di Jean-Pierre si perde un po' appena si viene a sapere che il ragazzo aveva una malattia incurabile, perchè forse ci si aspettava un retroscena più complesso; ma forse questa è la soluzione che s'accorda meglio al tema della solitudine di ognuno, che domina tutto il romanzo. E' un libro in cui succedono molte cose ma che è fatto sopratutto di cose non dette e di silenzi: e ogni personaggio conserva il suo mistero.
Il lirismo del linguaggio ha la sua efficacia; qualche sbavatura qua e là magari si potrà correggere con piccoli ritocchi. Sopratutto nei dialoghi alle volte vengono delle battute un po' artificiose, mentre direi che proprio nei dialoghi dovrebbe regnare la massima naturalezza.
Quello che Lei vuole fare è una cosa molto difficile: dare al linguaggio la concretezza di un lessico molto preciso (nelle cose della campagna come nei nomi delle stelle) e insieme un alone di vibrazione lirica. Ma per farLe delle osservazioni più precise, a mio gusto Lei ripete un po' troppo le parole “sogno” e “chimere”; però ripensandoci comprendo che sono parole-chiave, l'elemento comune a tutti i personaggi. (Se ho ben capito, alle volte queste parole alludono alla droga, ma non sempre.)
Certo l'attrattiva che ha per me il Suo linguaggio è che sotto c'è sempre il nostro dialetto, ma questo possiamo apprezzarlo solo noi della zona, e per il pubblico credo che sarà indispensabile un glossario che spieghi che pianella sta per “cianéla” cioè piana, che sottana non vuol dire sottana, che ubago vuol dire all'ombra, ecc. ecc. e perfino che marina per noi vuol dire semplicemente mare. Anche il magaiu solo noialtri sappiamo cos'è; e non è nemmeno detto che nel resto d'Italia sappiano cos'è una fascia. (Ci sono poi anche dei termini che non capisco nemmeno io.) Comunque, questa è una grande qualità del Suo libro, d'essere scritto in una lingua così saporosa e radicata al suo terreno.
Suggestiva l'apparizione del pastore provenzale per il corto circuito nel tempo che provoca con le immagini del presente.
Quello che il Suo romanzo è riuscito a rappresentare, credo per la prima volta, è un'immagine della Liguria che comprende insieme la vita agricola dell'entroterra, dura e aspra e povera, e il modello di vita facile della Riviera che ora prende l'aspetto tragico della droga come consumo di massa.
Inoltre viene fuori molto bene la carica tragica che la frontiera porta con sé, con la morte del polacco e quella del giovane suicida. E questo è certo un tema letterario nuovo, inedito.
Il mio parere positivo non vuole ancora dire che il libro sia accettato per la pubblicazione da Einaudi. Devo farlo leggere anche ad altri consulenti e dal confronto tra i nostri giudizi verrà la decisione. Spero di saperLe dire qualcosa presto e La saluto esprimendoLe ancora la mia soddisfazione per la lettura.

Italo Calvino


(Da: Italo Calvino, Lettere 1945-1985, Mondadori 2000)

sabato 25 settembre 2010

Jean-Claude Izzo e Marsiglia: misteri, allegria, disperazione



Jean-Claude Izzo e Marsiglia: impossibile trattare dello scrittore senza parlare della città, la vera protagonista dei suoi romanzi. E' quello che fa Stefania Nardini con un libriccino assai accativante che contiene anche frammenti inediti e numerose poesie per la prima volta tradotte in italiano.

Sandra Petrignani

Jean-Claude Izzo e Marsiglia: misteri, allegria, disperazione


Parigi non sarebbe quello che è se Simenon non l’avesse descritta come ha fatto nei suoi Maigret. Marsiglia, almeno la Marsiglia contemporanea, deve molto a uno scrittore dalla velocissima parabola e dalla scrittura ferma ed essenziale dei nostri giorni, oserei dire dei nostri giorni noir, Jean-Claude Izzo. Figlio di un nabo, un immigrato napoletano, mentre la madre era di famiglia spagnola, Izzo era dunque un rital, marsigliese figlio di immigrati, soprattutto era figlio del Panier, «il quartiere che spunta sulla collina e domina il porto, considerato un covo di ribelli... Un groviglio di vicoli in cui s’intrecciano storie, codici, misteri, allegria, disperazione». Così descrive la Marsiglia del 1945, data di nascita di Izzo, Stefania Nardini, giornalista culturale che viene dalla cronaca e che ha già fatto incursioni nel romanzo ( Matrioska e Gli scheletri di via Duomo , editi da Pironti). Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese racconta un uomo e una città (quasi una doppia biografia) e sarà in libreria il 7 di aprile, edito da Perdisa. Cinquantacinque anni – Izzo è morto nel 2000 per un cancro ai polmoni – pieni di storie, di amori, di ribellioni. Lo ricordo magrissimo e attraente a un convegno di scrittori in Provenza, già molto malato. Ricordo che mi colpì la sua serietà, un rigore che attraversava le sue parole, ma anche il suo modo di muoversi, di camminare. E ricordo l’aura che lo circondava, dovunque andasse era subito raggiunto da amici e fan, soprattutto giovani. Ora lo ritrovo nel racconto di Stefania Nardini con la sua parte d’ombra, di senso di colpa, di irresolutezza: un’umanità contorta e appassionata solo in parte riversata nel suo personaggio più famoso, il poliziotto Fabio Montale, protagonista della trilogia Casino totale, Chourmo, Solea (editi da e/o). Lo ritrovo giovane e innamorato della futura madre dell’unico figlio, Sébastien, che inizia con lei un percorso politico rigoroso, mentre scrive poesie non d’amore, ma sempre impegnate. Ha il mito di Rimbaud e nell’andare a Gibuti e ad Harar, a visitare la casa del poeta, scopre una realtà ancor più sconvolgente di quella miserabile degli operai e disoccupati di Marsiglia: la povertà totale, i lebbrosari. Sceglie una professione al servizio degli sfortunati, il giornalismo di denuncia. Politica, pacifismo, poesia. «E la poesia è nella strada come un senzatetto» dice un suo verso che potrebbe essere il suo manifesto. «Marsiglia non è una città per turisti». «Marsiglia, una verità alla luce del sole...». È sempre questa città a fare da sottofondo, a parte una parentesi parigina, alla sua narrativa come alla sua vita. Ma la narrativa arriva tardi e per caso. Un giorno pubblica un racconto di una ventina di pagine, Marseille, pour finir, su una rivista. Lo notano alla Gallimard e gli chiedono di farne un romanzo. Sarà Casino totale. Un inaspettato successo, l’inizio di una carriera di narratore (molto più interessante del poeta che credeva di essere) che non aveva programmato. Era il 1995. Aveva cinquant’anni: non era più iscritto al partito da tanto tempo, aveva macinato amori soffrendo della sua incapacità a essere fedele, lui così fedele ai suoi ideali, alla sua città. Cominciava una nuova avventura che lo avrebbe imposto anche fuori di Francia. Solo cinque anni. Ma aveva poco tempo, pochissimo. Solo cinque anni per confermare un talento, che gli fu ampiamente riconosciuto da lettori e critica e che rimbalzò nelle trasposizioni cinematografiche e televisive. Nei suoi romanzi ritorna la sua esperienza personale, il suo impegno politico. Riflette in Solea: «L’attività criminale è strettamente associata, per l’opinione pubblica, al crollo dell’ordine pubblico. Vengono evidenziati i misfatti della piccola delinquenza, mentre il ruolo politico ed economico e l’influenza delle organizzazioni criminali internazionali restano invisibili». L’ultimo romanzo, Il sole dei morenti, parla di un clochard, un uomo che insieme all’amore ha perso tutto. Al funerale fu accompagnato dalla musica che preferiva, Aznavour, Ferré, Miles Davis. E «le sue ceneri furono gettate in mare», conclude Nardini. Il mare da cui era arrivato a Marsiglia suo padre, senza altra dote che la forza delle braccia.

(Da: L'Unità, 7 aprile 2010)





Stefania Nardini
Jean Claude Izzo. Storia di un marsigliese
Perdisa Editore, 2010
Euro 14

venerdì 24 settembre 2010

Corneille, l'anima di Cobra



Il 5 settembre è morto Guillaume Cornelis Beverloo, pittore olandese meglio conosciuto come Corneille, uno dei fondatori nel 1948 del movimento d’avanguardia Cobra. Collezionista di arte africana, Corneille aveva attraversato dapprima una fase di lirismo astratto, per poi approdare a una forma di rappresentazione del paesaggio “visto attraverso gli occhi di un uccello in volo”. Vento largo lo ricorda con questo elzeviro di Marco Vallora apparso su La Stampa.

Marco Vallora

Corneille, l'anima di Cobra



Non poteva scegliersi pseudonimo piu' antitetico e provocatorio di CORNEILLE, il pittore olandese del gruppo Cobra, che e' morto alle soglie dei novant'anni, a Parigi, domenica. E' vero che nel suo nome e cognome cosi' fiammingo di Corneil Guillaume (come i reali d'Orange) van Beverloo, la radice tentatrice c'era gia', ma trapiantato a Parigi, con tutte quelle sue intenzioni anarchico-sovversive, che anticipano il Sessantotto protestatario, scegliersi il nome tutelare del tragediografico-poeta piu' aulico e classico della drammaturgia francese e dell'Illusion Comique, non poteva che suonare un sarcasmo ironico e spiazzante.



Il CORNEILLE degli scarti pittorici e dello sterco dipinto. Il suo gruppo Cobra vede la vita in Belgio, a Bruxelles, ma poi si auto-battezza e fonda «nell'effervescenza e nel fervore, d'un angolo di caffe' parigino» in un 1948, ancora cosi' sartriano ed esistenzial-Camus. Era un contro-movimento che amava mettere allegramente i piedi nel piatto della pittura accademica, e rompere persino con le soffocanti catene del Surrealismo, ormai comunistizzato, bretonizzato, sclerotizzato in una scolastica corriva del sogno. Il chiassoso manifesto di CoBrA (che era l'acrostico delle capitali coinvolte: Copenhagen, Bruxelles, Amsterdam) imbandito da Asger Jorn e dal poeta-attizzatore Dotremont, non soltanto ironizzava con le tesi impositive del Surrealismo («la causa e' stata ascoltata») ma esaltava («legame souple dei movimenti sperimentali», senza piu' scomuniche) la fluidita' dei contributi, il nomadismo del talento e lo sconfinamento poetico.

CORNEILLE, che era nato nella sonnacchiosa Liegi di Simenon e di Franck, amava dipingere soprattutto gatti e Giardini erratici. Molto piu' vicino a Dubuffet e all'Art Brut, che non agli eccessi cromatici di Jorn e di Appel, dipingeva spesso come un bambino capriccioso e violento, orizzonti intasati e spazzatura ingioiellata, santoni-vetrata, un po' alla Spazzapan ed annodati geroglifici, dalle accese cromie espressioniste. Come ha annunciato la vedova Natasha, sara' tumulato ad Auvers-sur-Oise, ove era andato a vivere da decenni, accanto alla tomba di Van Gogh, che considerava «suo maestro assoluto».

(La Stampa, 7 settembre 2010)

giovedì 23 settembre 2010

Da leggere: Il Dottor Antonio di Giovanni Ruffini


Monet, Bordighera (1884)

Il Dottor Antonio, scritto in inglese da Giovanni Ruffini (originario di Taggia, patriota mazziniano esule in Inghilterra) e pubblicato ad Edimburgo nel 1855, rivelò agli inglesi la bellezza della Riviera di Ponente. "E' un fatto" dirà nel 1903 Edmondo De Amicis, assiduo ospite di Bordighera "che fra i primi inglesi che vennero qui a passare l'inverno non c'era nessuno che non avesse letto «Il Dottor Antonio»".
Del romanzo - una tenera e disperata storia d'amore e patriottismo – pubblichiamo l'incipit e un passo del XIII capitolo.

Giovanni Ruffini

Il Dottor Antonio


In un bello e splendido giorno di aprile del 1840, una elegante carrozza da viaggio tirata da quattro cavalli di posta correva di pien galoppo nella strada della Cornice, famosa fra gli eleganti giramondo: strada, come ognun sa, che percorre da Genova a Nizza tutta la riviera di ponente.

Poche strade più belle di questa sono in Europa; - e poche certamente, come questa, riuniscono in sè tre condizioni di bellezza naturale: il Mediterraneo da un lato, dall'altro gli Appennini, e di sopra il puro cielo d'Italia. Per sovrappiù, l'industria dell'uomo ha fatto ogni sforzo, se non per superare, almeno per non rimanere inferiore alla natura. Un seguito di città e di paeselli, alcuni graziosamente stesi sulla riva, bagnati ai piedi dalle onde argentine; altri sparsi come una mandra di bianche agnelle sui fianchi della montagna, o pittorescamente elevati sulla cima di una catena di monti sublimi; qua e là qualche santuario sospeso in alto sopra uno scoglio bagnato dal mare, o mezzo perduto sulla collina fra il verde del bosco; palazzi marmorei, e ville dipinte sorgenti fra vigneti aprichi, giardini vagamente fioriti, e boschetti di aranci e di limoni; un'infinità di bianchi casini con gelosie verdi, sparsi per i clivi di quei colli, sterili un tempo, ora coperti di terrazzine, l'una sull'altra elevate a raccorre il poco terreno, e vestiti in cima di oliveti; tutto insomma quanto v'è, creazione della mano dell'uomo, mostra l'operosità e l'industria di una razza di popolo vigorosa e gentile.

Costretta lungo la costiera capricciosamente dentata, la strada va innanzi irregolare e serpeggiante; talora a livello col mare fra spalliere di tamerici, aloè ed oleandri: talora su qualche scosceso fianco di monte, in mezzo a nere foreste di pini, sorgenti in tanta altezza che l'occhio ritraesi spaventato dal guardare l'abisso soggetto; qua nascosta dentro gallerie scavate nel vivo sasso; là scoperta fra una lunga estensione di terra, di cielo e di acqua; talora rivolta verso la terra quasi volesse aprirsi il passo fra il monte; tale altra piegata all'improvviso in opposta direzione quasi volesse precipitarsi a capofitto nel mare. La varietà della prospettiva derivata da quella continua mutazione di punti di vista, richiama all'idea le infinite vedute di una lanterna magica. Se ci venisse fatto dare a questo abbozzo un pochino - soltanto un pochino del reale colorito locale - faremmo una maravigliosa pittura! Ma non possiamo. Ritrarre quest'atmosfera trasparentissima, l'azzurro dilicato del cielo, e l'azzurro cupo del mare, e le dolci graduazioni della tinta di queste montagne ondeggianti, che l'una sull'altra si elevano, vince il potere della parola. Appena vi basterebbe il pennello di D'Azeglio, o di Stanfield.



Una mirabile estensione di coste ondulate di colline sopra un fondo di alte montagne distese in semicircolo da levante a ponente; e di tratto in tratto interrotte da capi e baje, e seminate di città e villaggi singolarmente caratteristici: -Ventimiglia colla sua corona di castelli del medio evo smantellati; - Mentone si gaja sulla riva aprica; - Roccabruna così ben chiamata dalle scure e accigliate sue tinte; - Turbia e il suo monumento romano, memoria del più grande impero che sia
stato in terra, la quale ora adombra sotto di sè il diminutivo principato di Monaco; - Villafranca e il suo faro. Più in là, correndo a mezzodì, traspariva vaporosa in distanza la lunga e bassa striscia delle coste di Francia, con Antibo alla sua estremità; e più in là ancora a ponente, le fantastiche linee azzurre dei monti di Provenza. Qua e là una cima nevosa spiccava arditamente fra le altre; si sarebbe detta qualche canuta alpe progenitrice affacciatasi a vedere se tutto andasse bene tra i suoi più giovani rami.

Gli occhi e l'animo di Lucy tacitamente facevano festa a questa prospettiva; sulla quale le calde tinte del sol cadente projettavano un magico splendore d'indicibile effetto. E come il sentimento delle bellezze fra le quali viveva, ogni dì cresceva più forte nella nostra gentil giovane inglese; a grado a grado incominciò a trovar vane e inadeguate ad esprimere i suoi sentimenti, le stabilite usuali formole di ammirazione, che aveva tanto profuso da principio. Sir John, benchè da lungo tempo famigliare a questa scena, era invece entusiasta nel lodarla; e finiva lamentandosi che l'osteria non fosse da questa parte del Capo di Bordighera.

Ma il golfo di Spedaletti, e que' tre noti promontorii a levante, trovarono un caldo avvocato in Lucy, la quale difendeva la loro superiorità. Confessava che la veduta verso le coste della Francia era più svariata ed estesa; ma dichiarava che non aveva quell'armoniosa unità e il carattere di melanconica grandezza onde era distinta la veduta dell'osteria. - «Un pittore,» disse Lucy, «potrebbe preferire la prima; ma un poeta, ne son sicura, troverebbe quest'ultima più ferace di pensieri e d'immagini insinuantisi nel cuore.»

mercoledì 22 settembre 2010

Rodolfo Badarello: Regina, morte di una "donna sciagurata"



Oggi, 22 settembre 2010, alle ore 17,00, nella Sala Rossa del Comune di Savona verrà presentato il libro FRAMMENTI DI STORIA SAVONESE di Rodolfo Badarello. Il volume, pubblicato a cura dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea della provincia di Savona, ricostruisce momenti della storia cittadina dalla peste del 1600 alla Prima Guerra Mondiale. Ne pubblichiamo una pagina.

Rodolfo Badarello

Regina



Morì Regina, la tenutaria della casa di tolleranza di Vico Crema, il 21 novembre 1894, un mercoledì.

(...)

Morì la detta Regina – per l'anagrafe Gonella Maria Regina, nubile, d'anni cinquantasei, agiata, di S. Damiano d'Asti - “sciagurata donna”, chiedendo nei suoi ultimi momenti un prete, che le portò il desiderato conforto e dispose anche per il suo funerale nella chiesa parrocchiale di S. Pietro, senza però – non avendolo autorizzato il vescovo - il successivo accompagnamento religioso fin sulla piazza della Consolazione, come si usava, oltre il Letimbro.

Si mosse dunque dopo la funzione il carro funebre di seconda classe, accompagnato unicamente da un omnibus sul quale stavano, vestite di buono ed un poco spaesate, tutte le ragazze della casa; ma nemmeno ebbe la comitiva percorso quel breve tratto di via Untoria verso la piazza dell'Ospedale che una ignobile marmaglia di ragazzi straccioni, istigati per uno stupido gioco da qualcuno, prese a seguirla gridando, fischiando, lanciando ingiurie sulle poverette e sulla morta, sempre più crudeli dietro la blanda riprovazione dei passanti e l'indifferenza irresponsabile delle guardie municipali. E riuscì a dare spettacolo, il forsennato codazzo, per quasi tutta la vecchia via Letimbro, fino quando per disperderlo senza tanti complimenti, a piattonate, con le sciabole, non sopraggiunse una pattuglia di carabinieri.

Era una bella giornata di sole, ma faceva sempre freddo: le due carrozze passarono il ponte di legno sul torrente, attraversarono senza fermarsi piazza della Consolazione e si inoltrarono quietamente raccolte nella mestizia di quel loro viaggio verso il nuovo cimitero di Zinola.

(Da: Rodolfo Badarello, Frammenti di storia savonese, ISREC, Savona 2010, p. 123)

martedì 21 settembre 2010

Frammenti di storia savonese



Mercoledì, 22 settembre 2010
ore 17,00
Sala Rossa del Comune di Savona
Presentazione del libro

FRAMMENTI DI STORIA SAVONESE
di Rodolfo BADARELLO

Programma

Presiede: Umberto Scardaoni
Presidente dell'ISREC
della provincia di Savona

Saluti: Federico Berruti
Sindaco di Savona

Angelo Berlangieri
Assessore al Turismo, Cultura
e Spettacolo della Regione Liguria

Roberto Romani
Presidente della Fondazione De Mari
della Cassa di Risparmio di Savona.
Presentazione del libro

Silvio Riolfo Marengo
critico letterario

Sarà presente l'autore Rodolfo Badarello

A tutti gli intervenuti sarà fatto omaggio del libro

sabato 18 settembre 2010

Giorgio Caproni Paolo Conte Genova....


Giorgio Caproni

Per Heine Genova "giace in riva al mare come lo scheletro sbiancato di una bestia gigantesca trascinata lì dalla marea". Per Nietzsche è un'oasi di solitudine: "un'isola dell'arcipelago greco e tutto intorno infinite catene di monti". Genova, miraggio bianco, sospesa fra cielo e mare, continua a affascinare il cuore dei poeti.


Giorgio Caproni

Litania



Genova mia città intera.
Geranio. Polveriera.
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.

Genova città pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria scale.

Genova nera e bianca.
Cacumine. Distanza.
Genova dove non vivo,
mio nome, sostantivo.

Genova mio rimario.
Puerizia. Sillabario.
Genova mia tradita,
rimorso di tutta la vita.

Genova in comitiva.
Giubilo. Anima viva.
Genova in solitudine,
straducole, ebrietudine.

Genova di limone.
Di specchio. Di cannone.
Genova da intravedere,
mattoni, ghiaia, scogliere.

Genova grigia e celeste.
Ragazze. Bottiglie. Ceste.
Genova di tufo e sole,
rincorse, sassaiole.

Genova tutta tetto.
Macerie. Castelletto.
Genova d'aerei fatti,
Albaro, Borgoratti.

Genova che mi struggi.
Intestini. Caruggi.
Genova e così sia,
mare in un'osteria.



Genova illividita.
Inverno nelle dita.
Genova mercantile,
industriale, civile.

Genova d'uomini destri.
Ansaldo. San Giorgio. Sestri.
Genova in banchina,
transatlantico, trina.
Genova tutta cantiere.
Bisagno. Belvedere.
Genova di canarino,
persiana verde, zecchino.

Genova di torri bianche.
Di lucri. Di palanche.
Genova in salamoia,
acqua morta di noia.

Genova di mala voce.
Mia delizia. Mia croce.
Genova d'Oregina,
lamiera, vento, brina.

Genova nome barbaro.
Campana. Montale, Sbarbaro.
Genova dei casamenti
lunghi, miei tormenti.

Genova di sentina.
Di lavatoio. Latrina.
Genova di petroliera,
struggimento, scogliera.

Genova di tramontana.
Di tanfo. Sottana.
Genova d'acquamarina,
aerea, turchina.



Genova di luci ladre.
Figlioli. Padre. Madre.
Genova vecchia e ragazza,
pazzia, vaso, terrazza.

Genova di Soziglia.
Cunicolo. Pollame. Trilia.
Genova d'aglio e di rose,
di Pré, di Fontane Marose.

Genova di Caricamento.
Di Voltri. Di sgomento.
Genova dell'Acquasola,
dolcissima, usignuola.

Genova tutta colore.
Bandiera. Rimorchiatore.
Genova viva e diletta,
salino, orto, spalletta.

Genova di Barile.
Cattolica. Acqua d'Aprile.
Genova comunista,
bocciofila, tempista.
Genova di Corso Oddone.
Mareggiata. Spintone.
Genova di piovasco,
follia, Paganini, Magnasco.



Genova che non mi lascia.
Mia fidanzata. Bagascia.
Genova ch'è tutto dire,
sospiro da non finire.

Genova quarta corda.
Sirena che non si scorda.
Genova d'ascensore,
paterna, stretta al cuore.

Genova mio pettorale.
Mio falsetto. Crinale.
Genova illuminata,
notturna, umida, alzata.

Genova di mio fratello.
Cattedrale. Bordello.
Genova di violino,
di topo, di casino.

Genova di mia sorella.
Sospiro. Maris Stella.
Genova portuale,
cinese, gutturale.

Genova di Sottoripa.
Emporio. Sesso. Stipa.
Genova di Porta Soprana,
d'angelo e di puttana.

Genova di coltello.
Di pesce. Di mantello.
Genova di lampione
a gas, costernazione.

Genova di Raibetta.
Di Gatta Mora. Infetta.
Genova della Strega,
strapiombo che i denti allega.

Genova che non si dice.
Di barche. Di vernice.
Genova balneare,
d'urti da non scordare.

Genova di "Paolo & Lele".
Di scogli. Furibondo. Vele.
Genova di Villa Quartara,
dove l'amore s'impara.
Genova di caserma.
Di latteria. Di sperma.
Genova mia di Sturla,
che ancora nel sangue mi urla.

Genova d'argento e stagno.
Di zanzara. Di scagno.
Genova di magro fieno,
canile, Marassi, Staglieno.

Genova di grige mura.
Distretto. La paura.
Genova dell'entroterra,
sassi rossi, la guerra.

Genova di cose trite.
La morte. La nefrite.
Genova bianca e a vela,
speranza, tenda, tela.

Genova che si riscatta.
Tettoia. Azzurro. Latta.
Genova sempre umana,
presente, partigiana.

Genova della mia Rina.
Valtrebbia. Aria fina.
Genova paese di foglie
fresche, dove ho preso moglie.

Genova sempre nuova.
Vita che si ritrova.
Genova lunga e lontana,
patria della mia Silvana.

Genova palpitante.
Mio cuore. Mio brillante.
Genova mio domicilio,
dove m'è nato Attilio.

Genova dell'Acquaverde.
Mio padre che vi si perde.
Genova di singhiozzi,
mia madre, Via Bernardo Strozzi.

Genova di lamenti.
Enea. Bombardamenti.
Genova disperata,
invano da me implorata.

Genova della Spezia.
Infanzia che si screzia.
Genova di Livorno,
Partenza senza ritorno.

Genova di tutta la vita.
Mia litania infinita.
Genova di stoccafisso
e di garofano, fisso
bersaglio dove inclina
la rondine: la rima.


(Da: Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Garzanti 1999)



Paolo Conte

Genova per noi


Con quella faccia un po’così
quell’espressione un po’così
che abbiamo noi prima andare a Genova
che ben sicuri mai non siamo
che quel posto dove andiamo
che ben sicuri mai non siamo
non c’inghiotte e non torniamo più.

Eppur parenti siamo in po’
di quella gente che c’è lì
che in fondo in fondo è come noi selvatica
ma che paura che ci fa quel mare scuro
e non sta fermo mai.

Genova per noi
che stiamo in fondo alla campagna
e abbiamo il sole in piazza rare volte
e il resto è pioggia che ci bagna.

Genova, dicevo, è un’idea come un’altra
Ah… la la la la

Ma quella faccia un po’così
quell’espressione un po’così
che abbiamo noi mentre guardiamo Genova
ed ogni volta l’annusiamo
e circospetti ci muoviamo
un po’randagi ci sentiamo noi.

Macaia, scimmia di luce e di follia,
foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia.
E intanto nell’ombra dei loro armadi
tengono lini e vecchie lavande
lasciaci tornare ai nostri temporali

Genova ha i giorni tutti uguali.
In un’immobile campagna
con la pioggia che ci bagna
e i gamberoni rossi sono un sogno
e il sole è un lampo giallo al parabrise.

Con quella faccia un po’così
quell’espressione un po’così
che abbiamo noi che abbiamo visto Genova

venerdì 17 settembre 2010

Da leggere: Nico Orengo, Il salto dell'acciuga



Ci sono libri che non invecchiano, che come i buoni vini acquistano col tempo sapore e aroma, che reggono alla prova decisiva di una seconda lettura. E' il caso de Il salto dell'acciuga di Nico Orengo, un viaggio dalla Liguria al Piemonte lungo le vie del sale al seguito degli acciugai della Val Maira, di cui proponiamo una pagina e il risvolto di copertina.


Nico Orengo

La bagna caoda



Da tempo Vasco voleva portarmi verso Cuneo a cercare un acciugaio che da ragazzo girava i paesi con la bicicletta e il suo barattolone legato al portapacchi, dietro al sellino.
- Prima, - gli ho chiesto, - fammi vedere come si fa una bagna caoda.
Sono andato in cucina, a casa sua, in via Casteggio, dove una volta abitavo nell'alloggio dove ora sta lui. Mi fa vedere un mucchietto di acciughe belle grassottelle. -Piú le lavi e meno forte rimane la bagna, - dice. - Se son buone le devi spaccare longitudinalmente, ricorda. Devi metterle per una decina di minuti in un piatto fondo coperte d'acqua e un po' d'aceto di buon vino. Perdono sale e si sgrassano leggermente. Poi l'aglio. Se ce l'hai di Cap d'Ail, quello rosato, meglio. Una testa a persona. Togli per bene la pellina e anche l'anima, che fa solo pesantezza di stomaco. Poi ti prepari le verdure. Il cardo, di Nizza Monferrato, è il piú delicato. Lo tagli e lo tieni a bagnomaria in acqua e limone perché non ossidi. Fai lo stesso anche con i topinambur. Ricordati le foglie del cavolo, quelle vicine al cuore e ricordati di prendere, a Porta Palazzo li trovi, i peperoni sotto raspo d'uva, lavali con cura. E lava bene le barbabietole. Fai cuocere una cipolla al forno, con la buccia, che peli dopo. Ci vuole anche una bella noce, senza pelle. Per levarla si butta nell'acqua bollente e poi sotto il rubinetto della fredda. Poi pesta bene la noce.
Vasco prende le acciughe dal piatto, le apre, le lava ancora sotto l'acqua fredda e poi le asciuga su fogli di scottex. Si avvicina a una terrina e ci versa due bei bicchieri d'olio e una noce di burro.
A questo punto ci versa la noce tritata e accende a basso fuoco. Con una paletta di legno amalgama olio, burro e noce. E ci lascia cadere con religiosità le acciughe, una per volta e gira con polso di velluto. A parte ha fatto bollire nel latte l'aglio e ora, che è freddo, dopo averlo asciugato, lo schiaccia con il palmo della mano e lo butta nella terrina.
- Ti faccio una bagna delicata, - dice.
E continua a girare, ad amalgamare. Tiene il fuoco ancora per un quarto d'ora, poi dice che è pronta.
Ci sediamo a tavola, con la terrina di fronte.
Vasco ci íntinge un pezzo di pane. - Non male, - dice.
Non è il «brodo» di Ernè, ma il suo ricordo è forte.
Dico a Vasco che la bagna caoda viene dalla Liguria. Ride. Gli dico che poco prima di Natale l'abbiamo mangiata a Dolceacqua. E che non credo che sia solo la presenza di «foresti» torinesi ma anche di un ricordo tornato alla memoria, dopo secoli. Cosi, all'improvviso.
Vasco è scettico. - In Piemonte la facevamo già con l'olio di noci.
Io penso ai Saraceni di Moschiéres, al fumo dei loro camini che sapeva d'acciuga e aglio.




Il salto dell'acciuga

Nico Orengo va disegnando da anni una sua speciale geografia poetica che è al tempo stesso reale e fantastica, concreta e fiabesca. Un paese dell'anima, anche se è identificabile in quelle terre di Liguria tra Francia e Italia, dove il mare e le colline, le piante e le rocce, i fiumi e i boschi si confondono in una continua 'dogana d'amore', come recita il titolo di uno dei suoi libri più fortunati.

L'adesione che Orengo sente per quel suo mondo si traduce in storie di ieri e di oggi, in delicati acquerelli, in cataloghi portentosi di animali d'acqua e di terra, di erbe e piante di orto e di giardino che sulle sue pagine sembrano acquistare suggestioni, incanti e profumi mai provati prima.

In questo nuovo libro, che ha l'agio divagante di una conversazione tra amici, Orengo prova a superare la cresta delle colline e dei monti che cingono i 'suoi' territori, e a spingersi verso il Piemonte. Lo fa seguendo una traccia antica e avventurosa: quella del commercio del sale e delle acciughe, un traffico che si perde oltre il Medioevo nella notte delle fiabe e dei miti.

Il mondo marinaro si fonde a quello contadino; antiche leggende evocano scontri e contese di timbro epico, ma anche improvvise pacificazioni; il nome di un paese può diventare la chiave per scoprire un enigma. Sono stati forse gli arabi, stanchi di troppe guerre e scorrerie, a farsi mercanti di quel "pesce di montagna" che si conserva nel tempo? quali agguati attendevano i carretti degli acciugai? fin dove arrivavano i loro commerci? quali paesi sono il centro di una ragnatela di rapporti che sono anche culturali? quali sono i riti e i canti che accompagnano la 'bagna caoda'? ed è possibile che sia nata proprio sulle spiagge di Liguria, magari nei recipienti in cui tre vecchi pescatori pestano all'alba frammenti di pesce secco?

Orengo racconta, ricorda, intreccia notizie storiche e storie di paese (tra cui spicca quella della Olga, misteriosa figura al centro di una vicenda di passione e di violenza), insegue mestieri perduti, odori e colori, si incanta, ci incanta, accompagnandoci alla scoperta delle verità poetiche e umane che si nascondono nei viaggi millenari del sale e dell'acciuga.

Nico Orengo
Il salto dell'acciuga
Einaudi
€ 9,00

giovedì 16 settembre 2010

Proposta "Energia e lavoro" sul futuro della centrale Tirreno Power di Vado Ligure

Il 28 agosto avevamo pubblicato la lettera aperta all'Ing. De Benedetti sull'ampliamento della centrale Tirreno Power di Vado apparsa su diversi quotidiani. Riceviamo ora e pubblichiamo questo ulteriore contributo che ipotizza una possibile risposta alle tesi avanzate da Tirreno Power e indirettamente a quanto affermato in merito dalla CGIL.



Proposta "Energia e lavoro" sul futuro della centrale Tirreno Power di Vado Ligure


In merito al futuro industriale dello stabilimento Tirreno Power di Vado Ligure, i sottoscriventi propongono alle parti interessate un Progetto che, benchè consapevoli non rappresenti la soluzione ideale per la città di Savona, può riscontare un ampio consenso nelle istituzioni e più in generale nella cittadinanza (soluzione che peraltro ricalca quella già raggiunta 20 anni fa).
La proposta viene incontro a ben 5 dei 6 punti più volte richiesti dalla dirigenza Tirreno Power e dai sindacati (aumento potenza, mantenimento dimensioni di produzione, maggior efficienza produttiva, consolidamento occupazionale, commesse per la costruzione del nuovo gruppo).

Il progetto prevede:

SOSTITUZIONE DEGLI ATTUALI DUE GRUPPI 3 E 4 A CARBONE DA 660 MW (OBSOLETI E RISALENTI A 40 ANNI FA) CON UN NUOVO GRUPPO A CICLO COMBINATO DA 760 MW A GAS NATURALE (PREVIO ADEGUAMENTO DEI SISTEMI DI ABBATTIMENTO DEGLI OSSIDI DI AZOTO ANCHE NEL GRUPPO A GAS NATURALE ATTUALE).

Questa proposta va incontro a 5 richieste di Tirreno Power:

AMPIAMENTO POTENZA

1) aumento della potenza totale della centrale di 100 mw (da 1.420 a 1.520 mw), che va nella direzione richiesta di un ampliamento della capacità di produzione energetica;

MANTENIMENTO DIMENSIONI DI PRODUZIONE

2) mantenimento di una potenza complessiva della centrale che permetta, secondo Tirreno Power, di conservare la necessaria massa critica per stare in modo bilanciato sul mercato dell'energia.
Verrebbe quindi meno l’ipotesi prospettata inizialmente dai Comitati di lasciare soltanto il gruppo attuale a ciclo combinato da 760 mw, che secondo la dirigenza Tirreno Power per dimensioni non permetterebbe all’unità produttiva di essere competitiva;

MAGGIORE EFFICIENZA PRODUTTIVA

3) l’efficienza della produzione sarebbe del 58%, e quindi con un aumento notevole rispetto al 30-35% degli attuali obsoleti gruppi a carbone 3 e 4. L’uso del ciclo combinato consente infatti un’altissima resa elettrica, con coefficienti di trasformazione dell’energia termica in energia elettrica molto più elevati rispetto al carbone.
Questo andrebbe incontro a quanto ripetutamente richiesto dalla dirigenza Tirreno Power, e anche dalla cittadinanza (più efficienza significa meno inquinamento a parità di kwh);

CONSOLIDAMENTO OCCUPAZIONALE

4) nella situazione attuale sarebbe comunque inevitabile la dismissione dei gruppi 3 e 4 obsoleti e non allineati alle normative, con conseguente riduzione delle unità occupate. Con l’aggiunta del nuovo gruppo a ciclo combinato invece si otterrebbe il risultato del mantenimento e consolidamento dei livelli occupazionali, venendo incontro in parte alle richieste dei sindacati locali.
E’ previsto inoltre l’utilizzo di un numero significativo di unità lavorative durante il periodo di edificazione del nuovo impianto a turbogas, e di adeguamento dell’impianto a turbogas esistente;

COMMESSE PER LA COSTRUZIONE DEL NUOVO GRUPPO
5) attivazione delle commesse a favore delle aziende specializzate (con preminenza per quelle regionali e locali), per la costruzione del nuovo gruppo a ciclo combinato. Questo verrebbe incontro anche alle richieste più volte manifestate dai sindacati regionali;

MIX DI PREZZO

6) l’unico punto su cui non si potrà andare verso la direzione prospettata dall’azienda (e a cui l’azienda dovrà rinunciare per arrivare a un accordo) è di utilizzare ancora il carbone come combustibile, e quindi su questo punto l’azienda non potrà ottenere un miglioramento del mix dei costi di produzione (che comunque rimarrà ben al di sotto del prezzo di mercato dell’energia, permettendo quindi a Tirreno Power di ottenere comunque un significativo margine di profitto).
D’altronde Sorgenia (la controllante di Tirreno Power) sta ultimando entro l’anno l’apertura in Italia di altre 3 centrali da 800 mw, tutte a gas naturale (e non a carbone).
La dirigenza Tirreno Power dovrà quindi rinunciare a una parte del suo cospicuo utile annuo di esercizio (negli ultimi anni ha anche superato i 100 milioni annui) per arrivare a tale compromesso con la comunità savonese (Regione, Comuni, associazioni, Ordine dei medici, ecc), e per poter ridurre i dati drammatici di mortalità e i costi esterni per il territorio, valutati dalla Cominità Europea (Progetto Externe) in 140 milioni di euro annui in termini di danni sanitari, all’agricoltura, agli edifici, al turismo, alle multe dovute all’eccessiva emissione di CO2.

In sintesi, questa soluzione permetterà, a fronte di una modesta riduzione dei profitti di Tirreno Power, di ridurre di circa il 90% il danno ambientale in termini di inquinamento, riducendo di conseguenza in modo assai significativo i tassi di mortalità prematura della popolazione savonese.

(secondo i calcoli riportati nel grafico del referente scientifico dell’Ordine dei Medici dott.Paolo Franceschi, che è stato consultato per avere un parere tecnico, con questo nuovo progetto si diminuirebbero i livelli di inquinamento delle emissioni di polveri sottili ( PM primario + PM secondario) della centrale di Vado Ligure di circa il 90% sia rispetto allo stato attuale della centrale, e sia rispetto a come sarebbe stata la centrale dopo il progetto di ampliamento prospettato dalla dirigenza Tirreno Power).

Questa non è certamente la soluzione ottimale per la città di Savona e per i suoi abitanti, ma per venire incontro alle esigenze dell’azienda e dell’occupazione i sottoscriventi sono disposti a sedersi finalmente intorno a un tavolo con la Regione, i Comuni, e l’azienda per discutere di questa soluzione, che è l’unica soluzione di compromesso possibile.

In tale accordo, l’azienda rinuncerà quindi al suo Progetto iniziale di ampliamento della centrale a carbone di Vado Ligure, rifiutato dalla quasi totalità della comunità savonese.
Tutte le ricerche internazionali e le direttive comunitarie concordano infatti nel ritenere irricevibile un Progetto atto a costruire (e a far funzionare per altri 50 anni, con effetti devastanti per le nostre future generazioni) un nuovo gruppo a carbone (insieme ai due gruppi già esistenti) vicino a una grande città come Savona, e in un territorio che è già stato sottoposto da decenni a pesantissimi effetti di inquinamento.

CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE

Di seguito, gli oneri richiesti a Tirreno Power e dovuti alla cittadinanza e alle istituzioni savonesi, a fronte dell’attivazione di questo progetto alternativo di ampliamento della centrale:

A) prima dell’attivazione del progetto, la dirigenza Tirreno Power, in collaborazione e sotto il controllo degli enti pubblici preposti, deve provvedere a istituire un’efficace e capillare struttura di monitoraggio di misurazione delle polveri sottili, andando anche al di là dei limiti di legge (in particolare per le misurazioni delle pericolosissime PM 2,5) per garantire una maggiore sicurezza per la collettività;

B) prima dell’attivazione del progetto, la dirigenza Tirreno Power dovrà fornire alla Regione e ai Comuni coinvolti un Progetto ben definito e vincolante di sviluppo delle fonti energetiche alternative (in particolare, fotovoltaico e solare).

C) è fortemente auspicabile che Tirreno Power, con altri operatori locali pubblici e privati (Depuratore, Enigas, ecc) e con la collaborazione di Regione e Comuni, avvii una società allo scopo di sviluppare il teleriscaldamento (ovvero il procedimento di riscaldamento di abitazioni, scuole, ospedali alimentato dal calore residuo della centrale a turbogas), come ormai operativo nelle comunità più avanzate dal punto di vista del risparmio energetico.
Questo permetterebbe di ottenere un grande beneficio per la città di Savona, sia in termini di un minor inquinamento (il teleriscaldamento è alternativo alle caldaie delle abitazioni), sia di un maggior risparmio sul costo del riscaldamento per le famiglie, e sia di una maggior crescita occupazionale legata all’attuazione di questo alternativo procedimento di riscaldamento abitativo.

mercoledì 15 settembre 2010

Le spiagge dove nuoto con Seborga


Dal volume “Guido Seborga. Scritti, immagini, lettere” riprendiamo il contributo di Marino Magliani. Ringraziamo Marino Magliani e Laura Hess, curatrice del volume, per l'autorizzazione a riprodurre il testo.

Marino Magliani

Le spiagge dove nuoto con Seborga


Vado a Bordighera un paio di volte all'anno, mi trattengo giusto un giorno. Presento dei libri, miei o di altri.
Di solito in un bar sul lungomare. Se arrivo qualche ora prima faccio un bagno in quell'acqua nervosa che muove sassi e diventa bianca.
Seborga è in quell'acqua nervosa. Penso a lui anche guardando il resto, dalla passeggiata.
Ci sono posti che appartengono a un nome, al nome di uno scrittore. Ai suoi libri. A ciò che si è sentito di lui.
Spesso, purtroppo, non da lui. E ci sono destini di scrittori che si legano. Di solito a un paesaggio. A quel paesaggio.
Quello di Seborga e il mio sono legati ad una questione di quote. Lui da Torino ha scoperto Bordighera. Io da Dolcedo ho scoperto le dune del Noord Zee. Ci siamo scambiati i ruoli. Siamo passati, lui, da una pura, nuda, geometrica orizzontalità torinese alla verticalità ligure. E io viceversa. Naturalmente ciò non è bastato a farci assomigliare. Leggo Seborga soltanto da qualche anno. Ho un amico, Elio*, che quando sono in Liguria incontro al caffè del porto di Oneglia. E' stato lui a parlarmi di Seborga. Io ne conoscevo il nome e qualche notizia solo per via della mia passione per le cose biamontiane.
Con Elio si passeggia sulla banchina, fin sui bordi, dove l'acqua del porto è stranamente verde e nervosa come a Bordighera. E di Bordighera mi racconta com'era una volta, la gente che si radunava in un bar e parlava di arte, Seborga che era stato un po' la guida di quel cenacolo, le nuotate che faceva, le passeggiate, le tele, il suo fuoco.
Così un giorno gli ho chiesto un titolo e ho scoperto che Elio possedeva tutti i libri di Seborga. La prima lettura è stata Occhio folle, occhio lucido. Un diario, uscito per Ceschina nel '68 mi pare. Fu una folgorazione. Poi il resto.
E ora quando vado a Bordighera lo cerco sulla spiaggia, sott'acqua, nell'acqua nervosa, sul fondo di ciottoli che rotolano, e dal lungomare, nella visione verticale delle terre che rampano subito verso il Piemonte.
Lui e te, con lo stesso destino incrociato di paesaggi che si annullano, mi dico. Verticalità e orizzontalità che s'incontrano, si spezzano, si danno battaglia... Ma perchè allora tu e lui così distanti.
La risposta l'ho avuta uno di questi giorni, mentre pensavo a questo racconto che un amico mi aveva commissionato in estate. E' successo sul Mare del Nord, dove, l'ho detto, vivo da vent'anni. Passeggiando sulla spiaggia chilometrica che va da IJmuiden a Zandvoort. E' là che incontro per la prima volta i personaggi delle mie storie, è una spiaggia talmente vasta che si riesce a parlare da soli senza che nessun camminatore o spiaggiante ti senta. Là incontro i disertori di battaglie dell'ottocento che popolano i miei romanzi, i vecchi soldati tedeschi che son tornati sui campi di battaglia in Liguria, i giovani invecchiati che erano scappati dalle terrazze, da Dolcedo, da Molini di Prelà, donne, bestie, paesaggi. Poco altro.
Seborga era là, guardava il mare e mi aspettava. C'erano cani che facevano il bagno. I padroni lanciavano un pezzo di legno in mare e i cani facevano a gara chi lo raggiungeva prima. E c'erano grosse meduse sulla risacca, il mare le aveva lasciate morire ed erano diventate azzurre come l'acqua di Bordighera. E c'era gente lontano che correva e faceva ginnastica, o seduta su infernali seggiole con le ruote, che manovrava teli gonfi di vento. E c'erano aquiloni.
Perchè siamo così diversi nella scrittura, pur avendo negli occhi gli stessi paesaggi, la questione delle quote, Guido...
Gli dissi così, ci pensò, non sorrise.
Guarda come sono diverse le spiagge, questa da Bordighera, eppure è acqua e pietroline e sabbia. Disse così, ma sapeva che non mi bastava. Allora disse altre cose.
E' questione di tempi, Magliani, tu scrivi il mondo devastato dal fuoco, io provo a scrivere il fuoco. Il fuoco senza misteri. Quel pezzo di legno lanciato in acqua dal padrone del cane... Il mistero non è che dandogli fuoco possa bruciare, ma che gettandolo a bagno galleggi.
Poi, si,sorrise.

IJmuiden, 4 settembre 2008

* Elio Lanteri. E' stato pubblicato di recente il suo romanzo La ballata della piccola piazza (Transeuropa)

(Da: Laura Hess – Massimo Novelli, Guido Seborga. Scritti, immagini, lettere, Spoon River, Torino 2009)



Marino Magliani (Dolcedo, Imperia, 1960), scrittore e traduttore, ha soggiornato a lungo in Spagna e in America Latina prima di stabilirsi in Olanda, dove attualmente vive e lavora. Ha pubblicato: L'estate dopo Marengo (Philobiblon 2003), Quattro giorni per non morire (Sironi 2006), Il collezionista di tempo (Sironi 2007), Quella notte a Dolcedo (Longanesi 2008), La tana degli alberibelli (Longanesi 2009) e, con Vincenzo Pardini, Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa 2010). Con La tana degli alberibelli ha vinto la prima edizione del Premio Frontiere-Biamonti "Pagine di Liguria".

martedì 14 settembre 2010

Guido Seborga a Berlino




BERLINO 28 SETTEMBRE 2010
A CURA DELL’ISTITUTO ITALIANO DI CULTURA
PRESSO LA ZENTRAL UND LANDES BIBLIOTHEK
PROIEZIONE DI “GUIDO SEBORGA, RITRATTO D’ARTISTA” DI GABRIELE NUGARA.
INTERVERRA' LA FIGLIA DI SEBORGA LAURA HESS

Coppia al bar


Edward Hopper, Nighthawks (1942)

Un brevissimo racconto, tratto da una raccolta in preparazione ispirata alla pittura di Edward Hopper.


Giorgio Amico

Coppia al bar



Camminavo lungo i portici della grande piazza alberata che un tempo erano stati il cuore di quella città. Ora ospitavano bar, pizzerie e un paio di ristoranti cinesi contornati da polverose lanterne rosse. Leggevo nomi esotici, fasulli come il cibo che si poteva trovare all'interno. Non che altrove ci fosse più autenticità. Quella città era un enorme equivoco.

Camminavo assorto nei miei pensieri. Non avevo chiaro dove stessi andando. Mi lasciavo portare dai ricordi, dalle sensazioni che quei luoghi mi suscitavano dentro.

Non era tardi, ma le strade erano semideserte. Non era stato sempre così. Lo sapevo bene. C'era stato un tempo fatto di sere animate e di vie affollate, ma era finito da un pezzo. "Dopo le otto in giro non si vede più nessuno – mi venne di pensare - La gente ha paura e si chiude in casa. Paura di che, poi?" Il fatto è che era una città di vecchi, senza passioni, senza speranza.

Pensieri inutili, di una malinconia malata.

Svoltai l'angolo che dava sul corso alberato, attraversai la grigia piazza e mi infilai nei vicoli. Anche lì il deserto. Entrai nel primo locale che vidi aperto, quasi sotto la volta della antica torre comunale.


Nighthawks, particolare

Superata la soglia, passai davanti al bancone e mi diressi nella saletta posteriore. Luci soffuse, divanetti, musica di sottofondo. La stanza era quasi deserta, solo una copia sedeva ad un tavolo d'angolo conversando a bassa voce.

Lei era bella. Di una bellezza non appariscente, ma che colpiva al primo sguardo. Era quasi senza trucco, lunghi capelli biondi, occhi azzurri profondi e tristi. Aveva un corpo sodo. Fianchi robusti che mettevano in evidenza la vita sottile e due piccoli seni. Non sapevo perchè, ma quella donna mi attirava, non riuscivo a staccarle lo sguardo di dosso.

Lui era il tipo dell'intellettuale, più vecchio di lei, fra i cinquanta e i sessanta. Le teneva la mano e le parlava concitato, tutto proteso in avanti.

E ad un tratto tutto mi sembrò privo di senso. Anche il loro parlare. Le parole che si scambiavano erano suoni indistinti, segni di solitudine, echi d'ombra.

Lei ora piangeva silenziosamente, le mani a nascondere il viso. Vedeva le sue spalle sussultare e il suo petto sollevarsi affannoso. Lui restava lì, seduto accanto a lei, immobile, incapace anche del più piccolo gesto.

Spinsi indietro la sedia e mi alzai.

Fuori il cielo si era fatto completamente buio. La notte mi avvolgeva silenziosa.

Una notte come tante che non lasciava memoria.

domenica 12 settembre 2010

François Fontan (1929-1979)


A tutt'oggi non esiste alcuna opera complessiva sulla vita e l'opera di François Fontan, teorico dell'etnismo e fondatore dell'occitanismo politico. Riprendiamo da Lo lugarn, rivista teorica del Partito della Nazione Occitana (PNO), questa nota biografica.

Eric Possenti

La vita e l'opera di François FONTAN
(1929-1979)


François FONTAN nasce il 7 febbraio 1929 a Parigi ( …) autodidatta, preferisce studiare solo, rigettando "l'irregimentazione liceale" e la mediocrità conformistica della cultura borghese (...). Nell'adolescenza, le sue letture sono numerose e varie. Molto incline al confronto dialettico ed alla discussione politica, il giovane François cerca di collocarsi ideologicamente, ma il suo spirito fondamentalmente libertario che verrà a rinforzare la sua omosessualità dichiarata, gli impedisce di fissarsi in una cornice politica troppo rigida o troppo dogmatica.

Uscito da una famiglia monarchica (…), suo padre è membro dell'azione francese, (…) non sopporta a lungo il conservatorismo di questo ambiente che abbandona senza rimpianti. Si iscrive allora nel 1980 come uditore, all'istituto Nazionale delle Lingue e Civiltà orientali a Parigi, poi all'istituto di studi Politici di Tolosa che è appena stato creato (1948). Fontan, ventenne, scopre e fiancheggia i circoli anarchici, medita sugli scritti di Proudhon così come sui principali testi marxisti e leninisti, e finisce per aderire nel '51 alla Federazione Anarchica. Si colloca nella tendenza Fontenis, marxista libertaria, che diventa maggioritaria al congresso di Bordeaux del 1952. Sottoscrive totalmente la base teorica di questa tendenza, secondo cui non si può affrontare a fondo il problema della lotta di classe senza risolvere prima la questione coloniale.

François Fontan è colpito particolarmente dal sorgere dei movimenti per la liberazione nazionale e la decolonizzazione nel Terzo Mondo. Comprende che il dopoguerra vede avviarsi il crollo dei vecchi imperi, e che è necessario dare di questo vasto processo decisivo della storia contemporanea una spiegazione teorica globale ed adeguata. Tra il 1952 e il 1954, Francesco Fontan integra la sua riflessione con altri elementi che gli serviranno ad affinare ed a completare la sua futura teoria dell'etnismo e del nazionalismo rivoluzionario. Scopre, da una parte, i lavori di Wilhelm Reich, il solo psicanalista che abbia ridefinito veramente, secondo lui, il problema dell'alienazione sessuale nella sua piena dimensione sociale e politica. Trova nel reichismo " una giustificazione teorica dell'anarchismo"

Altra parte, pensa già che solo il dato linguistico determina l'esistenza o l'inesistenza effettiva di una nazione e permette di tracciarne i confini esatti e che la decolonizzazione e la ristrutturazione delle entità politiche nazionali debbano essere effettuate sulla base di questo criterio. Ora, grazie alla conoscenza di Pierre Bec, occitaniste di Carbonne, apprende l'esistenza di una lingua occitana sopravvissuta, bene o male, su un terzo del territorio della Repubblica francese, il sud.



Questa scoperta ha su di lui l'effetto di una bomba: se esiste una lingua d'oc ancora praticata, anche nelle dimensioni ristrette di una parte della popolazione, ciò significa che esiste un nazione occitana caratterizzata in senso etno-linguistico e che questa nazione alienata deve liberarsi dell'occupazione di un etnia straniera, l'etnia francese di lingua d' oil, per costituirsi poi in Stato politico indipendente.

Nel 1953-1954, si mette in contatto con l'Istituto di studi Occitani (IEO) che raggruppa dalla sua creazione nel 1945 un numero importante di occitanisti dediti al rinnovamento culturale e linguistico del Sud della Francia, l'Occitania. Le idee avanzate da Fontan che auspica apertamente la liberazione nazionale di tutte le etnie del globo e, di conseguenza, la secessione pura e semplice dell'Occitania dalla Francia coloniale, incontra immediatamente l'opposizione della maggior parte degli occitanisti culturalisti. Questi ultimi gli rimproverano di volerr politicizzare il dibattito occitano e di fare della situazione occitana un problema politico. François Fontan appare a queste persone come un ideologo pericoloso i cui propositi sovversivi cominciano a sedurre un buon numero di occitanisti avanzati e a farli allontanare dalla via tracciata dall'I.E.O.

Da allora, due sensibilità politiche occitaniste vanno nettamente ad opporsi e ad attraversare tutta la vita dell'ambiente occitanista contemporaneo fino ad oggi: la corrente regionalistico-culturalista, chiamato ancora " autonomista" che chiede semplicemente una larga regionalizzazione culturale, economica, amministrativa, creando le basi politiche di una vera regionalizzazione in seno alla Repubblica francese, e la corrente nazionalista indipendentista che rifiuta ogni forma di potere francese sulla terra occitana colonizzata e spossessata del suo destino storico, difendendo la tesi della separazione politica totale e necessaria dei due popoli.

François Fontan va ad essere l'iniziatore di questo secondo movimento, mentre i regionalisti vanno a raggrupparsi intorno alla persona di Robert Lafont, universitario di rinomanza, che creerà coi suoi compagni di strada il Comitato Occitano di Studi e di Azione (C.O.E.A.), di cui una parte delle idee sarà ripresa dal movimento Volèm Viure Al País (V.V.A.P.). I due movimenti si mostreranno sempre ostili ai nazionalisti, che considereranno come i loro avversari diretti.

Parallelamente, Francçois Fontan annoda delle relazioni con differenti gruppi trotskisti della IV° internazionale. Legge con interesse la rivista "Socialisme ou Barbarie", diretta da Cornelius Castoriadis, e riflette allora sul concetto nuovo di tecno-burocrazia sviluppato da questo. Sebbene i suoi contatti coi trotskisti siano forti, Fontan non aderisce a nessuno movimento specifico. Tuttavia, un dissenso teorico esplode in seno a questa corrente di idee riguardo alla necessità di conservare o meno una classe tecno- burocratica nel processo rivoluzionario di edificazione del socialismo. Fontan si pronuncia in favore della necessità storica di una tappa tecno burocratica, destino ad assicurare una pianificazione più razionale dell'economia che sfoci in una più giusta ripartizione dei mezzi di produzione.

Continua a militare alcuni mesi nel gruppo tolosano della vecchia Federazione Anarchica, diventata la Federazione Comunista Libertaria (F.C.L). Poco a poco, guadagna questo gruppo alle sue idee etniste. Ma il disaccordo su questo punto è troppo forte e il gruppo di Tolosa rompe col Comitato Nazionale del F.C.L. alla fine del 1954, inizio del 1955.

In seguito allo scioglimento del gruppo tolosano, FONTAN va a vivere a Nizza, dove entra in contatto con l'ambiente della " Nuova Sinistra" ed aderisce all'Unione della Sinistra Socialista (U.G.S.) antenato del P.S.U.. È escluso velocemente fin dalla fine dell'anno 1958, a causa di certe delle sue posizioni di sostegno critico al gollismo (...). Decide allora di dedicarsi interamente ala battaglia etnista. Nel 1959 fonda il Partito Nazionalista Occitan (P.N.O.), legalmente dichiarato alla Prefettura delle Alpi Marittime. Il movimento è groppuscolare. François Fontan vive miseramente, grazie ad una piccola rendita che gli manda sua madre. (...) Con lo sviluppo della guerra d'Algeria, il P.N.O. non nasconde il suo sostegno al F.L.N. algerino ed aiuta particolarmente i disertori dell'esercito francese a passare in Italia. Denunciato, Fontasn è condannato per aiuto alla diserzione e incitamento all'insubordinazione (…)



Nel 1961, Fontan pubblica il suo lavoro maggiore, " Etnismo, verso un nazionalismo umanistico" in cui espone le basi del suo progetto etnista. Egli si scontra con l'ostilità generale; screditato dalla maggior parte dei regionalisti culturalisti, minacciato anche fisicamente dall'estremo destra nizzarda. Le autorità cercano di sbarazzarsi di questo personaggio scomodo. A questo scopo, grazie ad un caso montato ad arte, l'omosessualità di Fontan è messa in rilievo ed egli è condannato per oltraggio al pudore. Scontati alcuni mesi di prigione, Fontan nel 1964 lascia il territorio francese, per rifugiarsi in Italia, nelle valli occitane del Piemonte. Di là, segue l'attività del P.N.O. che fa fatica a svilupparsi. Gli effettivi del Partito restano molto ristretti, malgrado un certo ascolto negli ambienti studenteschi e nel movimento del '68. Per i nazionalisti occitani, è l'inizio di un periodo non facile destinato a durare.

Stringendo amicizia colla gente della Val Varaita, Fontan diffonde la coscienza della loro occitanità; fonda il Movimento Autonomista Occitano (M.A.O.), che va ad affermarsi progressivamente (...). Da allora, pure conservando dei legami stretti e regolari col P.N.O., il M.A.O. va a seguire una via specifica, perché il contesto politico dello stato italiano è differente del contesto francese. Le valli occitane d''Italia diventano la regione dove i nazionalisti occitani avranno la più grande eco.

Fontan continua in Italia il suo lavoro di ricerca politica, linguistica e sociologica pubblicando atri testi. Seguendo attentamente la politica internazionale e il dibattito culturale attraverso giornali e riviste come Le Monde, Arguments, Esprit e l’Observateur.
Debilitato dalla sua intensa attività, scoraggiato dalle bassezze di cui è stato da sempre oggetto, François Fontan viene ricoverato all'ospedale di Cuneo nel dicembre 1979 dove, il giorno 19, muore di una congestione cerebrale. I suoi resti riposano nel piccolo cimitero di Frassino-Frayse, dove egli aveva trovato l'aiuto e l'amicizia di una popolazione che lo aveva saputo accogliere.


(Da: Lo lugarn n.92-93, 2007)