venerdì 31 dicembre 2010

Buon 2011 da Vento largo


sabato 25 dicembre 2010

Auguri di Buone Feste

a tutte le amiche e a tutti gli amici di Vento largo

mercoledì 22 dicembre 2010

Ricordo di Beppe Fenoglio




Giorgio Amico

Beppe Fenoglio, scrittore e partigiano


Per avere una idea precisa dell'universo narrativo fenogliano basta leggere il racconto La sposa bambina che narra del matrimonio combinato della tredicenne Catinina, del suo viaggio di nozze a Savona e del suo triste destino di donna derubata della infanzia e della giovinezza. In questo intensissimo racconto, straordinaria per forza espressiva e essenzialità del linguaggio, sono presenti tutti i temi di Fenoglio: la durezza del mondo di Langa, la donna come vittima, il mare come metafora di un'altra vita possibile, ma comunque irragiungibile, perchè al proprio destino non si sfugge (Il tema che ritroveremo ne La Malora).

A differenza di Pavese che passa la sua vita a Torino e scrive di una Langa liricamente trasfigurata, Beppe Fenoglio è autentico langarolo per nascita e radici.

Beppe Fenoglio (1922-1963) nasce infatti ad Alba (che delle Langhe è da sempre la vera capitale) da Amilcare, macellaio e socialista, e Margherita Faccenda, donna di carattere forte e volitivo. L'anno dopo nasce il fratello Walter e Beppe viene mandato dai nonni paterni a Monchiero. L'esperienza precoce dell'abbandono segna indelebilmente la vita di Beppe e in qualche modo spiega il suo carattere difficile, testardo, chiuso, le sue difficoltà nel parlare, così come il rapporto, intensissimo ma conflittuale, con la madre.

Dal 1933 (l'anno in cui nasce la sorella Marisa) Walter e Beppe fenoglio passano le estati sulle Langhe a San Benedetto Belbo a casa di una cugina del padre, Magna (zia) Pinota. Beppe scopre un mondo diverso, accumula un'immensa quantità di storie, di emozioni, di ricordi che diventeranno poi la base della sua opera narrativa. Nonostante la persistente difficoltà ad esprimersi, il giovane Fenoglio è un ottimo studente che si rivela particolarmente dotato per lo studio delle lingue. La sua insegnante di inglese al liceo lo ricorda così:

C'erano ventotto alunni in quella seconda ginnasiale, e tutti erano impazienti d'iniziare lo studio della Lingua Inglese, materia nuova per essi, e quindi piena di fascino e di mistero. Ma particolarmente affascinato pareva quel ragazzo alto, sottile, modestamente vestito, che pure rivelava una interiore fierezza. Attento ed immobile durante tutta la lezione, assimilava non ogni mia parola soltanto, ma pure l'entusiasmo con cui le pronunziavo. Il suo interesse per la nuova lingua s'accrebbe ancor più allorchè iniziammo lo studio della letteratura. Egli amava soprattutto la poesia, e molti passi mandava a memoria, oltre a quelli da me assegnati come esercitazione domestica.

Un amore per la letteratura inglese che diventa desiderio di fuga dalla piattezza provinciale di Alba, dal grigiore del regime fascista. Una sorta di anglomania che, come Beppe farà dire al suo alter ego Johnny, è prima di tutto “desiderio, esigenza di un'italia diversa e migliore”.

Al liceo ebbe la fortuna di incontrare personaggi significativi come Leonardo Cocito, insegnante di lingua italiana e che sarebbe stato poi impiccato dai tedeschi , Pietro Chiodi, docente di storia e filosofia, grande studioso di Kierkegaard e di Heidegger, in seguito deportato in un campo di concentramento tedesco, don Natale Bussi destinato a diventare un teologo importante. Una frequentazione che rafforzò la sua personalità già profondamente connotata in senso etico.

Nel 1940 si iscrisse alla facoltà di Lettere dell'Università di Torino, che frequentò fino al 1943, quando fu richiamato alle armi e indirizzato prima a Ceva e poi a Pietralata (Roma), al corso di addestramento per allievi ufficiali. In questo periodo ha una intensa relazione d'amicizia con Benedetta Ferrero (Mimma). Lui l'incontra sul treno mentre va a Torino, lei è di quattro anni più giovane di lui ed è bellissima. Beppe se ne innamora follemente. Di questo amore non ricambiato resterà traccia nella dedica (in inglese) di Primavera di bellezza.

L'8 settembre sorprende Fenoglio a Roma. Come migliaia di altri giovani egli ritorna avventurosamente a casa, sfuggendo ai tedeschi che hanno ormai occupato l'Italia centro-settentrionale. Un'odissea che egli ricostruisce nelle pagine finali di Primavera di bellezza in cui offre una vivissima e desolante immagine di una Savona grigia e impaurita, presidiata dalla soldataglia germanica.

Dopo qualche mese di incertezza, descritta nelle prime pagine del partigiano Johnny, Beppe raggiunge nonostante la contrarietà della madre i partigiani monarchici del Maggiore Mauri. Grazie alla perfetta conoscenza dell'inglese svolgerà delicati incarichi di collegamento con le missioni militari alleate paracadutate in Piemonte.

Alla fine della guerra, Fenoglio riprende breve tempo gli studi universitari, ha una intensa storia d'amore con Margherita (Beba) Martinazzi, figlia di industriali. La famiglia di lei la costringe a troncare la relazione. Dopo poco Beba morirà tragicamente in un incidente stradale. Fenoglio non la dimenticherà mai e la farà rivivere nel personaggio di Fulvia in Una questione privata.



Il 1946 è un anno difficile per Beppe che non riesce a tornare alla vita di prima della guerra. Deciso a dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, egli non fà nulla per trovarsi un lavoro scatenando così un aspro conflitto con la madre. Di queste tensioni resta il ricordo nel libro autobiografico della sorella Marisa che ricorda i violenti e ripetuti scontri fra il fratello e la madre. Lo scrittore li rievocherà con grande forza espressiva nelle folgoranti pagine d'apertura di La paga del sabato.

Nel 1947 accetta di lavorare in un'azienda vinicola di Alba come direttore dell'ufficio commerciale. Nel frattempo scrive una serie di racconti partigiani, che verranno ritrovati e pubblicati nel 94. Entra in contatto con l'editore Bompiani che gli pubblica un racconto nella rivista letteraria Pesci rossi, poi inizia la collaborazione con l'Einaudi tramite Italo Calvino che è quasi suo coetaneo ed è stato partigiano come lui. Nel 1950 conosce a Torino Elio Vittorini, che sta preparando per Einaudi la nuova collana "Gettoni", ideata appositamente per accogliere testi di nuovi scrittori. In questa collana uscirà nel 1952 una raccolta di dodici racconti con il titolo I ventitre giorni della città di Alba. Il libro suscita dure polemiche sopratutto da parte comunista. Fenoglio è accusato di denigrare la lotta partigiana, di presentarla in modo ridicolo e offensivo. Viene tirato in ballo il suo passato di partigiano monerchico, quasi che la Resistenza fosse affare di partito. Beppe ne esce profondamente amareggiato.

L'anno seguente Fenoglio completò il romanzo breve La malora, in cui intende raccontare le Langhe, ma non alla maniera di Pavese (Fenoglio si irriterà sempre quando verrà accostato a Pavese) che egli sente falsa, in quanto visione mitica di un mondo che gli è sostanzialmente estraneo.

La malora esce ad agosto 1954 in 2000 copie con una prefazione critica di Vittorini in cui si critica il verismo dell'opera considerato troppo volutamente provinciale, al limite del manierismo dialettale. E' una critica ingiusta e miope. Dalle lettere rimaste si coglie la profonda delusione di Beppe che scrivendo a Calvino rivendica con orgoglio misto a rabbia il suo impegno di scrittore vero, non certo ingenuamente naif come certa critica lo dipinge:

Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustifi care i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti.

Ma ancora una volta lo scrittore reagisce gettandosi a capofitto in una intenso lavoro di scrittura con l'intento di scrivere un grosso romanzo sulla guerra partigiana sulle Langhe. Si tratta de Il partigiano Johnny, il grande romanzo autobiografico che non riuscirà a portare a termine e che uscirà incompleto nel 1968.

Ma i rapporti con la Einaudi e soprattutto con Vittorini si sono fatti tesi. Fenoglio stringe nuovi e più soddisfacenti rapporti con l'editore Garzanti che nell'aprile del 1959 pubblicò nella collana "Romanzi Moderni", Primavera di bellezza, rielaborazione parziale di alcune parti della saga del partigiano Johnny.

Nel 1960 si sposò civilmente con Luciana Bombardi, che conosceva già dall'immediato dopoguerra . Il matrimonio in Comune suscita scandalo ad Alba. Un anno dopo nasce la figlia Margherita. Nel 1962, mentre si trova in Versilia per ritirare il premio "Alpi Apuane" conferitogli per il racconto Ma il mio amore è Paco, viene colpito da un attacco di emottisi. Rientrato precipitosamente a Bra, a una visita medica gli viene diagnosticata una forma di tubercolosi con complicazioni respiratorie. Si trasferisce per un breve periodo (settembre e ottobre) a Bossolasco, a 800 metri d'altitudine, dove trascorre il tempo leggendo, scrivendo e ricevendo la visita degli amici. Ma presto per un aggravamento della malattia deve essere ricoverato in ospedale, prima a Bra e poi alle Molinette di Torino, dove muore la notte del 18 febbraio 1963.


Coerentemente con le sue scelte di vita venne sepolto nel cimitero di Alba con rito civile, senza alcuna cerimonia, solo poche parole dette sulla tomba dal sacerdote don Natale Bussi, amico carissimo e suo vecchio professore di liceo. D'altronde anni prima Fenoglio aveva dichiarato:

"A me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano»

Negli anni successivi appariranno uno dopo l'altro racconti e romanzi trovati in bozze fra le sue carte: Un giorno di fuoco, Una questione privata, Il partigiano Johnny, La paga del sabato, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale. Finalmente viene riconosciuta la grandezza dello scrittore di Alba, si chiarisce il suo progetto di scrivere una grande saga familiare che dalla prima guerra mondiale doveva arrivare fino agli anni del miracolo economico, una sorta di Guerra e pace italiana incentrata nelle Langhe, ma dal respiro universale.

Scriverà Eugenio Montale: "Fenoglio è uno di quegli scrittori che lasciano parlare i fatti, che curano molto la regia e il montaggio della narrazione (...)Tendono, insomma, a trasformare la cronaca in poesia."

Dal canto suo Italo Calvino farà simbolicamente ammenda delle critiche rivolte da sinistra allo scrittore riconoscendo in Beppe Fenoglio il vero, grande, cantore della lotta di liberazione:

"E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l'aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant'anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c'è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita..."

(Trascrizione di una lettura tenuta all'Unisabazia nell'anno accademico 2007/2008)



giovedì 16 dicembre 2010

"Il tempo non ritorna". L'ultimo romanzo di Bruno Marengo



L'ultimo romanzo di Bruno Marengo. Una storia intramente giocata sul filo del memoria in un'Italia che sembra aver completamente dimenticata la sua storia.


Sergio Giuliani

Il tempo non ritorna

Il compiacersi di ricordi e un uso troppo chiuso e parziale del patrimonio della memoria è davvero un cattivo padrone ed è la spia di una irrisolta situazione di dialogo col prossimo per cui troppo si privilegiano le emozioni individuali e non rielaborate.
Ciò spiega il perché tanta cosiddetta “letteratura” ci venga a noia come un eccesso di miele e ci costringa a ricercare messaggi che siano davvero “libri” e non taccuini da psicanalisti a buon mercato.
Bruno Marengo non corre di certo questo rischio perché, da sempre nell’agone politico, ha rastremato ed educato le proprie pulsioni individuali e scrive ormai, dopo tante altre prove letterarie, in maniera concreta e piana.

Sgomberato il percorso da alcune insistenze memoriali che un poco facevano velo ai suoi esordi, ormai scrive senza ricorrere al !”fantastico”, al posticcio delle quinte di teatro e fa della sua esperienza un pretesto per costringerci a farci di una ragione del ribaltarsi dell’Italia così come l’abbiamo conosciuta e voluta e dell’improgrammabile, ma necessario futuro dei giovani.
Per questa tensione politica in senso lato ha scritto, a brevissima distanza di tempo, due romanzi che insistono precisi sullo stesso arco storico ed emotivo: il diventare “senza età” della generazione che era fanciulla o poco più (ma non tanto da non ricordarla o non averla imparata dalla cultura di casa ) al tempo della Resistenza

Due romanzi di sogno: in “Esperando Sevilla” un viaggio mai compiuto in una Spagna del tutto immaginata e poco ingrigita dal franchismo e in questo ultimo, “Il tempo non ritorna”, l’aquilone trascinante è la ricerca della gozzaniana “Isola non trovata” che qualcuno dice di aver visto, ma…..
Il secondo libro è, materialmente, la metà del primo. Marengo ha sfrondato i tanti episodi che gli vengono alla mente e la sua scure rigorosa non ha lasciato spazio all’intenerimento, al sorriso complice, alla confidenza, allo strizzar d’occhi al lettore. Solo apparentemente il breve romanzo è di intrattenimento piacevole: è un documento di bilancio di più di sessant’anni di storia visti da una città, Torino, allora avanguardia dell’antifascismo di Gramsci, di Gobetti, Di Foa, Di Bobbio, di Galante Garrone e quanti altri e dell’industria metalmeccanica italiana.

E’ la Torino che abbiamo allora scoperto con Pavese e con le edizioni Einaudi, la Torino che ci riallattava di cultura dopo il digiuno retorico del fascismo. E’ un romanzo d’amore per la città del barocco più leggero che esista, dei guasti architettonici mussoliniani (la torre littoria,il tratto iniziale di via Roma) e dell’incanto di angoli come Piazza Carlina, ma anche dell’amore di due ragazzi d’allora, nato a scuola, seguitato nella Resistenza e poi affidato a reincontri casuali, senza che sia mai stato negato e senza l’ultimo tocco che sarebbe parso ovvio, il vivere insieme.
Ma forse, sembra far intendere Marengo,proprio questo è l’inspiegabile crisma di un sentimento d’eccezione; non certo le contingenze della vita che non hanno potuto scalfirlo più di tanto.

Nell’ondante muoversi dell’esistenza, i due si ritrovano e si riallontanano con la stessa naturalità, fino a percorrere un lungo arco di vita legati da un affetto forte proprio perché estraneo ad angosce zuccherose. Lavorano ognuno a progetti diversi, ma quello che Tobino definì “..il giglio di quell’amore.”, ovvero il làscito della Resistenza è rimasto, eccome.
Per una rimpatriata voluta dai compagni di scuola, ormai tutti “senza età” i due si ritrovano (o, meglio, si ri-scontrano). La Torino di metà Novecento è molto mutata e l’uomo-senza-età deve rispondere duramente ai decerebrati degli slogans “Turin ai turineis” con l’antico canto anarchico “Nostra patria è il mondo intero/ nostra legge la libertà…”

E si è fatta l’ora del bilancio di un’esperienza: il grande inno porta via con sé le “canzonette” di gioventù e riprecipita l’uomo-senza-età, ci riprecipita in una società ribaltata e a contatto di giovani lontanissimi da chi li ha generati, pieni di ingenuità affettuose e di durezze, che non vogliono guardare in un futuro di cui nessuno sa e può dir loro nulla di preciso, di sensato.
Tutto all’aria, dunque? Tutto inutile: la fede politica, la militanza, le linee di comportamento sociale di chi ormai è senza-età? Inutile ricercare il punto dove si è deragliati? Esiste? E i sogni muoiono per consunzione o perché assassinati?

Gran tema, che rode un uomo scrittore come Marengo che l’agire politico lo ha ben conosciuto (è stato, tra l’altro, sindaco di Savona e di Spotorno ed ora è Presidente dell’Anpi savonese) e noi tutti. Egli lo vive senza recriminazioni, senza bestemmie, al di là del suo protagonista che ha un risentimento libertario per difendere immigrati e ragazzi che protestano (almeno quello: il diritto di rovesciare per non essere rovesciati!) E chissà – lo aspetta con fiducia – che dai nebbiosi comportamenti di oggi non nasca (e dovrà pur nascere!) un futuro per i giovani.

Non condivido l’apoditticità del titolo. Forse il nostro tempo non ritorna, pieno di rughe come ormai è. Ma ritorna qualcosa dell’esperienza, che ci matura con dolore, certo! Ne condivido, però, l’allerta “politico”il divenire sociale non fa mai due passi eguali, ma ha degli scarti: E Bruno Marengo, fatto saggio d’esperienza, ci invita ad ascoltarci e a capirci, senza pigrizie e viltà, come forse fa l’albero che perde le foglie, sopravvive al gelo che l’affatica e, in qualche modo, sa di rimetterle. Non eguali a quelle finite a terra, non durevoli oltre l’estate, ma sicuramente rinate.


Bruno Marengo
Il tempo non ritorna
De Ferrari ed.re 2010
€ 12


Sergio Giuliani, insegnante appassionato e controcorrente, è stato per molti anni una delle voci libere della scuola savonese. Esperto d'arte, critico letterario, cura la pagina delle recensioni librarie del giornale "Il Letimbro".


mercoledì 15 dicembre 2010

Francesco Biamonti, La terra decaduta. Considerazioni su Boine


Un testo breve, ma carico di significati e di echi. Quanto Francesco Biamonti parla di Boine, voce sublime e dimenticata del Ponente ligure, e quanto in realtà di se e del proprio scrivere lirico e tormentato?

Francesco Biamonti

La terra decaduta


V'è in Boine un contrasto fra la solarità mediterranea e l’esperienza interiore tra la concretezza e la spiritualità, la corposità della parola carica di forza espressionista e l’evocazione lirica che tende alla commozione e al silenzio. La scrittura, che sembra d’impeto, vortica in un rovello morale e la franchezza del vivere rude si assottiglia in dolorose querelles. Il suo animo s’accende all' improvviso, ma altrettanto all’improvviso si turba e si stanca; è radicato alla terra (agli ulivi, ai muri ferrigni) e se ne distacca nel contempo; la pace e l’onda vi si alternano.

Dagli ulivi e dal mare di Liguria Boine si apre all’ascesi e al misticismo delle terre di Spagna, Ma rimane il contadino che limosina il sole e la vita, aggrappato alle sue terrazze, e che pone la vicenda del suo uliveto a paradigma, a fondamento della storia del mondo. È una visione oscillante e piena di scoscendimenti, da solitario che nulla rassicura se non qualche preciso ricordo.

La sua polemica è semplice e umana. Recrimina, si lamenta del presente: il suo uliveto è decaduto e il fantasma di ciò che era lo perseguita. Quel fantasma prende le forme rustiche e dolci di una chiesa romanica. Come nell’Angelus di Millet, vede tralucere le zolle sacralizzate dalla fatica. Tutto ciò in cui il sacro in qualche modo non affiora gli pare di poco conto, anzi gli pare castigo e diversione.

La fatica tradotta in opere: ecco il suo punto fermo. I muri e i loro costruttori provocano la sua emozione, le "fasce" ora ridestinate al gerbido. Allora la sua scrittura si effonde, si rafforza nei tramandi delle generazioni.

Dalla vagheggiata eternità degli ulivi alla religiosità il passo è breve, "La religiosità è la germinale inquietudine, [...] è l’affacciarsi dello spirito oltre le forme che questo prodigioso sforzo d’ordinamento dell’uomo (della natura) ha definite e accordate. Tra forma e forma, per le rime, per le fessure, attraverso ogni forma con sforzo, scostando, ansiosamente guardare".

Ma poi la disperazione dell’io, la desertica contemplazione lo riprende. Quando si appresta ad abbandonare il mondo è un uomo spoglio.

"A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia. Però non si sa dove.
E sia per dove sia! il vento mi strappi via, della disperazione. [...]
Ormai non ho più nulla da via buttare son nudo fino all’anima non sono che un’anima tutto son fatto di tristezze amare e di sgomento. Senza meta e per disperazione reggo contro me in ribellione ma il nulla fa spavento. [...]
Giunsi all'amaritudine bieca di questa solitudine. E sosta mi fu il nulla oh amici! A tagliare gli ormeggi il vento via ci soffia. Però non si sa dove".

Ritorna, braccato dalla morte, l’uomo di vallata: "Ci sono angosce rapide- vaste come bitume di nubi sopra le valli... Così è che chiaronero, chiaronero per gli affannosi crepuscoli preme il respiro l’ottuso cielo dell’impotenza e tutti gli sbocchi son sbarri biechi, tutti". E un uomo che ha contemplato la terra, ma decaduta, una "tierra tan triste que tiene alma",

(Da: La città di Boine, Centro culturale polivalente Imperia 17 Dicembre 1987- 31 Gennaio 1988)


domenica 12 dicembre 2010

La nascita delle Società Operaie e il problema sociale nel Risorgimento


Seminari Risorgimentali a Carcare
Sala Riunioni Biblioteca "A.G. Barrili"

Mercoledì 15 dicembre 2010
ore 17.00-19.00

il Prof. Giorgio Amico

parlerà sul tema:

La nascita delle Società Operaie e il problema sociale nel Risorgimento

Stalin in Italia ovvero "Bepi del giasso"



Un piccolo libro di quaranta pagine che racconta una storia affascinante come un fumetto di Hugo Pratt

Valerio Evangelisti

Stalin in Italia ovvero "Bepi del giasso"


Un libretto veramente curioso, questo di Raffaele K. Salinari (medico, docente universitario, animatore della ONG Terre des Hommes, esponente della Federazione della Sinistra). Vi si narra di come, nel 1907, Stalin, di passaggio in Italia, cercasse lavoro come portiere all’hotel Roma e Pace di Ancona, che conserva ancora oggi il ricordo di quel postulante destinato a diventare sin troppo famoso. L’accordo non si fece, e il giovane Stalin proseguì il suo viaggio in direzione di Venezia. Qui forse trovò alloggio nel convento adiacente alla chiesa di San Lazzaro degli Armeni, sita su un’isoletta al largo della città.

Ma perché Stalin si trovava in Italia? Si stava recando in Svizzera per fare visita a Lenin, forse per illustrargli l’impresa che avrebbe condotto a termine di lì a pochi mesi: una rapina spettacolare effettuata a Tiblisi per finanziare i bolscevichi, con l’aiuto del bandito abituale complice di Stalin in quelle operazioni, il ferocissimo Kamo.

Fin qui la storia, che Salinari ricostruisce, per la prima volta, con l’ausilio del poco materiale disponibile. Unendovi un’appendice parzialmente di fantasia. Hugo Pratt, veneziano, dovette venire a conoscenza del passaggio di “Bepi del giasso” (“Giuseppe del ghiaccio”, così detto per il carattere freddo) sulla costa adriatica. In un’avventura di Corto Maltese, La casa dorata di Samarcanda, inserì una telefonata tra il suo eroe e Stalin, in cui era rievocato il passaggio in Italia di “Bepi”. Quelle tavole sono riprodotte in appendice al testo di Salinari.

Testo che non vuole avere nessun significato politico – l’autore non è per nulla stalinista – ma solo valore di piccola curiosità storiografica. In linea con le “chicche” intelligenti che, in forma di opuscoli garbati e stimolanti, produce la mini-casa editrice Ogni uomo è tutti gli uomini, fondata dall’architetto Roberto Fregna, personalità di rilievo della vita culturale bolognese.

Raffaele K. Salinari
Stalin in Italia ovvero “Bepi del giasso”
ed. Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna, 2010
€ 3,50





martedì 14 dicembre · 18.00 - 23.00

SMS Serenella
corso Vittorio Veneto 73r
Savona

Presentazione del volume "Stalin in Italia".

Intervengono:

Raffaele K. Salinari autore del libro, Docente di Diritto della cooperazione, Università di Bologna, Parma, Urbino e Presidente di Terre des Hommes.
Giorgio Amico, scrittore.

Seguirà cena di autofinanziamento.

venerdì 10 dicembre 2010

Guy Debord, Son Art et Son Temps




Pubblichiamo oggi un testo, assai corposo e molto stimolante, dell'amico Pino Bertelli, forse davvero l'ultimo vero situazionista ancora in circolazione

Pino Bertelli

Guy Debord, Son art et Son temps


Il testamento spirituale, etico, poetico di Guy E. Debord (non solo nel cinema) è GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS, realizzato con Brigitte Cornand nel 1994, ma dietro sua richiesta scritta, sarà mandato in onda da Canal+ il 9 gennaio 1995, insieme a LA SOCIÉTÉ DU SPETTACLE e RÉFUTATION DE TOUS LES JUGEMENTS, TANT ÉLOGIEUX QU’HOSTILES, QUI OM ÉTÉ JUSQU’ICI PORTÉS SURE LE FILM LA SOCIÉTÉ DU SPETTACLE… nel frattempo Debord si era sparato un colpo al cuore.

Le opere cinematografiche di Guy-E. Debord praticano e allargano la critica radicale della civiltà dello spettacolo. L’utopia situazionista disseminata in questi film s’incentra su una poetica del fuoco e sulle tentazioni di appiccarlo a tutti i Palazzi d’Inverno. È l’utopia che guida le passioni e moltiplica i contrasti e i sogni, spezza destini e annuncia nuove epifanie dell’anima. Dove la merce ha seminato la sua seduzione non spunta più che la sua tirannia. I falsi bisogni si sostituiscono all’autenticità dei desideri e la psicologia individuale, la ripetizione dei comportamenti, la seduzione dei corpi in disfatta, prende forma nella filosofia balorda dei grandi magazzini. “Un umanesimo astratto ha sparso ai quattro venti i diritti della libertà e della dignità e coloro che li raccolgono non sono soltanto privati del loro uso, ma vedono per di più impoverirsi una sopravvivenza che, per quanto insufficiente, era almeno necessaria al superamento e al compimento di una vita fondata sull’emancipazione dei desideri.
La sola libertà effettiva è quella che la merce si attribuisce, di scambiarsi con se stessa e di non aver altro uso. Il futuro così immaginato si lacera tra la volontà di vivere e la potenza del denaro che ne fa la parodia e la nega assolutamente” (Raoul Vaneigem). Tutto vero. Gli arrivisti della fatalità e della chiacchera da portinai sono all’origine di tutte le persecuzioni della storia. Chi si schiera con i palafranieri del proprio tempo, seppellisce il proprio genio nel letame. “Tremare è facile, ma saper dirigere il proprio tremito è un’arte: da qui derivano tutte le ribellioni” (E.M. Cioran). Chi non ha mai conosciuto la barbarie di un confine, non possiederà mai la saggezza dell’esilio.

URLA IN FAVORE DI SADE (1952), SUL PASSAGGIO DI ALCUNE PERSONE ATTRAVERSO UN’UNITÀ DI TEMPO PIUTTOSTO BREVE (1959), CRITICA DELLA SEPARAZIONE (1961), LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO (1973), CONFUTAZIONE DI TUTTI I GIUDIZI, TANTO OSTILI CHE ELOGIATIVI, CHE SONO STATI FINORA DATI SUL FILM «LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO» (1975), IN GIRUM IMUS NOCTE ET CONSUMIMUR IGNI (1978) e GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS (1994) di Debord, realizzato da Brigitte Cornand, sono invettive, bestemmie, provocazioni contro tutto quanto figura la degenerazione dei chiasmi di dominio approntate dall’uomo contro l’uomo. Qui Debord insegna che “lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa” ed è anche la principale produzione di consenso della società moderna. Lo spettacolo è il monologo elogiativo delle proprie forche, è l’autoritratto del potere di un’epoca. “Là dove domina lo spettacolare concentrato domina anche la polizia... Lo spettacolo non vanta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni” (Guy E. Debord). Ecco perché ogni merce è anche una confessione e la coscienza del desiderio o dei piaceri inconfessati si trascolora in genuflessione d’infelicità e solitudini senza desideri.

«Il cinema è morto! Viva la Banda Bonnot!, si canta nel cinema sovversivo di Guy E. Debord. Sparate allo schermo, prima di strisciare in quella fabbrica di sogni che mortifica l’intelligenza dei poeti. La magia del cinematografo è altra cosa. La menzogna hollywoodiana (e delle sue indegne emulazioni planetarie) è un simulacro spettacolare dove le puttane e le madonne, i mostri e gli eroi, la catastrofe e il lieto fine… sono parte del linguaggio sequestrato delle scimmie e i loro fantasmi si manifestano come semidèi di celluloide in attesa di assurgere al più alto dei loro compiti, quello dell’istupidimento dell’immaginario collettivo. I codici del cinema dominante sono gli stessi messi in opera nelle galere, nei manicomi o nei parlamenti: la promessa di felicità… insomma che “gli ultimi saranno i primi”… e le umiliazioni saranno rimesse con i peccati, nei confessionali della storia. Sull’orlo della preghiera o nei calchi del consenso non si chiede nessuna libertà vera, ma soltanto l’illusione della libertà. Questo perché ogni libertà, come ogni religione, “è finita quando smette di generare eresie” (E.M. Cioran). Le rivoluzioni non sono mai state attuali, pretendevano di rovesciare il potere con gli stessi mezzi. La rivoluzione, come la volgarità, è contagiosa, specie nei momenti in cui i rivoluzionari di professione hanno già venduto l’entusiasmo dei loro sostenitori al miglior offerente.

La delicatezza non fa parte dei comitati centrali di qualsiasi ordine, solo in punto di morte i fanatici del potere si rendono conto della loro inutilità, ma i mostri che hanno partorito sono già ascesi alla gloria dei cleri e dalle segrete delle banche hanno appestato i banchi del sapere, contaminato gli asili pubblici, oliato la lama della ghigliottina economica… e senza un filo di nobiltà hanno eretto il dogma del mercato globale. I morti non si contano più. La vendita di armi sì. La Borsa internazionale accomuna i morti per fame e le vacanze degli operai. I bambini si possono uccidere, vendere, stuprare… basta un poco di riservatezza. I prezzi sono buoni. Ci sono tanti padri di famiglia, timorati di Dio e dello Stato, che non sanno rinunciare alla tentazione di violare una bambina, specie se nera, ma vanno bene anche asiatiche, russe, bosniache... occorre soltanto un paio di dollari. È la stessa gente che chiede il rigore, la serietà, la coerenza ai parlamentari che crede di eleggere… porta i vessilli nelle parate militari, impalma la politica della rapina pubblica… e non trova nemmeno il coraggio di mortificarsi delle proprie tenebre o di spararsi un colpo in bocca. Non ci sono governi buoni né governanti che non siano ladri di bellezza.



Fare la festa al cinema. Alla macchina/cinema, è un modo di pensare. Iniziare a sognare una nuova storia desacralizzata del mezzo cinematografico, non importa se in pellicola, in digitale o con i “bastoni animati”. Disneyland, McDonald`s o Coca-Cola fa lo stesso. Rappresentano la peste del gusto ma tutti i “poveri cristi” non riescono a farne a meno. Come il cinema, la televisione o la carta stampata. Il fatto è che nessuno può continuare a essere istupidito in questo modo e a questo prezzo. Cochise, Falco Nero, Nuvola Rossa, Joseph, Seattle, Toro Seduto, Cavallo Pazzo o Geronimo non hanno accettato il “cavallo d’acciaio” del progresso e sono stati uccisi e le loro tribù sterminate soltanto perché sostenevano, a giusta ragione, che “sviluppo” non significa sterminare i bisonti, profanare la terra, inquinare i fiumi… il massacro di Wounded Knee è l’apogeo di uno sterminio continuato che mostra di che pasta sono fatti i fucili delle democrazie a stelle e strisce.

Lo spettacolo concentrato, come la galera, è alla base del controllo sociale delle burocrazie totalitarie e lo spettacolo diffuso, come il genocidio, è al fondo delle società di consumo e del consenso neoliberista. L’alibi dell’ipocrisia democratica è stabilito nel delirio del più infame o nel cannibalismo della politica istituzionale. Siatene certi, nessun partito ci terrà mai conto sulle abolizioni dei privilegi dell’economia politica. Nella follia umiliante della politica gli stilemi telematici del consenso sono anche le candele del sacro. I dissennati, gli eretici, i disobbedienti… vanno lapidati, denunciati, impedito loro qualsiasi forma di resistenza. Inginocchiarsi davanti alla mediocrità della politica, significa fare parte dei cortigiani, dei vassalli, dei servitori ciechi della marchiatura del potere. Ormai anche i proletari sono tutti addomesticati dai sindacati, dai partiti, dalla bonomia mistificata della democrazia dell’apparenza, e hanno smesso di scendere davvero in piazza con i pugni chiusi, e anche di parlare. Sono “parlati” dall’omologazione e dall’idiozia collettiva che trionfa nella merce della società dei consumi.


GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS è un contenitore di segni, tracce, icone dell’intera opera cinematografica di Debord. La critica radicale di Debord rinnova qui la negazione dell’ovvietà e attacca la produzione del nulla nei suoi esiti non solo formali, ma anche e soprattutto etici e politici... Le anime candide del cinema d’avanguardia o di quello detto “sociale” restano all’interno del pianeta mercantile e senza fare della cattiva dietrologia, non è difficile riconoscere i falsari della ragione storica, quanto i maestri innocui della mitologia dello spettacolo come evento personale... La mediocrità è la professione del pensiero post-moderno e la felicità o il ricatto del consenso passano attraverso l’impostura e la simulazione… Il clamore degli applausi si misura sulla morte delle idee.

L’imbecillità della macchina/cinema non basta a distruggere ciò che il cinema di Debord ha detto sull’arte, il proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo, lo spettacolo… il linguaggio dei situazionisti è sparso ovunque e ha reso ovunque tutti un po’ più intelligenti o un po’ più stupidi... Nell’ideologia mercantile, la pubblicità stradale, l’intrattenimento televisivo, le parole d’ordine delle sinistre al potere, le sciocchezze cinematografiche che passano nei festival internazionali del cinema “impegnato”, fino alla “rivoluzione in sartoria” delle ondate giovanilistiche… sono ormai parte delle baracconate circensi assemblate dai mercanti d’illusioni contro la messa a morte dell’immaginale liberato e della poesia della bellezza.

GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS si apre su Parigi e alcuni “ritratti” di situazionisti negli anni ’60 (Debord, Alice Becker-Ho, Asger Jorn, Gilles Ivan, Gil J. Wollman…). Il film prende il volo intrecciando “lotta libera” tra donne, pompe e trivelle per l’estrazione del petrolio... La distruzione di interi quartieri popolari è accostata a foreste pietrificate dalle piogge acide... L’avvento di Hitler al potere è montato con l’uccisione di John F. Kennedy... Le repressioni con i carri armati degli studenti cinesi di Piazza Tienammen sono contrapposte alle miserie e alle imbecillità da parata della Russia comunista... poi l’Africa... le rivolte, le uccisioni, i colonialismi... la lapidazione di una donna africana, una puttana (forse), da parte di una folla inferocita.
Guerriglia urbana, attentato in una scuola, informazioni pubblicitarie sono mescolati a frasi filosofiche, cartelli, musiche, montati secondo i moduli dei cinegiornali di guerra... La catastrofe di Chernobyl è descritta come caduta della stupidità politica sovietica e nella quale s’innesta il rigurgito dei fascisti in Europa... La citazione amorevole del poeta Arthur Cravan (morto suicida nel 1920) in un incontro di boxe del 1916, cancella il mortuario artistico del neodadaismo. Le centrali nucleari in Francia (in filmati dolcificanti) sono circondate da fiori e greggi di pecore brucanti, quanto false... Silvio Berlusconi, strappato da un telegiornale, è visto (giustamente) come un pagliaccio e la sua ridicola pomposità è contrapposta alla falsità spettacolarizzata dei funerali di Stato.
Il film si chiude su turisti in fila per vedere “La Gioconda”... I ragazzi cinesi picchiati dalla polizia... Arafat che parla nella sede dell’UNESCO... Un dibattito televisivo sulla cultura e l’economia in Francia e nel Mondo... Le inondazioni del pianeta... Un plastico animato che mostra le città future... Il lavoro per il recupero dei detenuti nei penitenziari francesi... Ancora i volti di alcuni situazionisti (Asger Jorn, Gilles Ivan, Gil J. Wollman e Alice Becker-Ho negli anni ’90)... Bill Clinton che corre in un parco pubblico, intervistato sul mercato globale... Una scheda avverte che la riunione dei G-7 ha ormai sistemato il mondo in affamatori e affamati... Il presidente di Francia, Mitterand, con una rosa in mano, entra nel palazzo del potere.

GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS è un manifesto contro il “buon governo della cattività” (Omar Wisyam)… un testo audio/visivo che non spiega né dimostra nulla se non l’intollerabilità dei poteri e dei saperi che la civiltà dello spettacolo deborda come valori e dogmi all’umanità tutta. La critica trasversale del film non implica (solo) una teoria o una parodia dell’ovvio e dell’ottuso che fuoriescono dalla produzione di nullità mercantili ma centra le proprie invettive nell’origine del male, nei commerci di fedi, di armi, di menzogne che i potenti della terra chiamano “sviluppo” e fanno delle genuflessioni di massa il porcile dei loro misfatti.



II. ELOGIO DELLA DISOBBEDIENZA

La poetica sovversiva di Debord è stata quella di elaborare il centro della rottura con i gangli della sopravvivenza statuale e individuare nella “società dello spettacolo” l’origine di tutte le oppressioni e le mediocrità dell’uomo sull’uomo. La critica radicale/situazionista di Debord ha rotto il fascio dei confessionali e ha manifestato la necessità e l’urgenza di “una notte di San Bartolomeo degli uomini di lettere” (E.M. Cioran), di fede e di quelli in divisa… gli uomini di genio sanno che le persecuzioni nascono dall’odio e l’intolleranza dagli ideali imposti… ecco perché scelgono il limitare del bosco, l’esilio o la rivolta estrema. Sabotare il servaggio mercantile, politico, dottrinario delle democrazie dal volto umano (comandate dalla banda dei G-8) non è solo un bisogno di bellezza ma soprattutto è un desiderio di libertà.

Della Terra di Utopia

Digressione necessaria per comprendere al meglio quanto la filosofia radicale/situazionista, libertaria, sovversiva di Guy Debord, Raoul Vaneigem, Asger Jorn e uno straccivendolo della mia città che si chiamava Lenin, finito poi in manicomio per aver sputato contro la Madonna in processione… quanto questa visione anarchica dell’esistenza — dicevo — abbia inciso sulla mia poetica della rêverie applicata alla critica della vita quotidiana… sono i luoghi comuni che rendono stupidi… il vero uccide la vita, che solo il piacere rende possibile… ho sempre pensato che qualunque ideologia, qualunque religione, qualunque simulacro sono dispositivi di violenza e oppressione e solo l’utopia che si riprende le tracce d’una bava originaria può essere il rizoma o la deriva della felicità o della comunità che viene. “Ciò non toglie che l’idea degli anarchici di annientare qualsiasi autorità resti una tra le più belle che siano mai state concepite” (E.M. Cioran)… nulla è più sospetto delle democrazie dello spettacolo o dei regimi comunisti… le vie della crudeltà sono infinite e l’unico ordine di grandezza al quale è giunta la civiltà della demotivazione sociale è quello del suo fallimento.

Mi ricordo sì, mi ricordo… di una “favola” che mia madre (sia benedetta tra le rose di campo) mi ha lasciato in sorte sin da bambino (o forse l’ho solo sognata). Era una parabola dell’eccellenza ebraica che non so dove avesse preso e nulla aveva a che fare con quelli di Israele, diceva:

— “Un rabbino, un vero cabalista, disse una volta: per instaurare il regno della pace, non è necessario distruggere tutto e dare inizio a un mondo completamente nuovo; basta spostare solo un pochino questa tazza e quest’arboscello o quella pietra, e così tutte le cose. Ma questo pochino è così difficile da realizzare e la sua misura così difficile da trovare che, per quanto riguarda il mondo, gli uomini non ce la fanno ed è necessario che arrivi [qui mia madre si fermava, ridendo anche, e diceva NON] il messia”, ma l’uomo libero, l’uomo in amore, l’uomo della bellezza, il messaggero di pace” —.

Il commento di mia madre a questa parabola [NON il messia ma l’uomo libero è messaggero di pace!] non mi ha più lasciato e mi sono commosso quando — molti anni dopo — ho ritrovato la stessa storiella chassidica in un meraviglioso libriccino di Giorgio Agamben e prima ancora negli scritti di Walter Benjamin. Proprio Benjamin mi ha disvelato la Terra d’utopia, dove tutti sono ricchi perché nessuno è povero:
“Fra gli chassidim si racconta una storia sul mondo a venire, che dice: là tutto sarà proprio come è qui. Come ora è la nostra stanza, così sarà nel mondo a venire; dove ora dorme il nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo in questo mondo, lo porteremo addosso anche là. Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso”. Per cambiare il mondo intero, dunque, basterebbe fare solo un piccolo spostamento delle nostre certezze. “Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso”. Con queste idee in testa la società che viene è già qui.

Mi ricordo sì, mi ricordo… una storia che mi raccontava sovente mio padre (che sia benedetto nel vento di scirocco di mare) e che aveva ricevuto in sorte dalla madre sua. Non so quanto era vera, però mi ha sempre commosso e ho pensato a quelle parole quando nei giorni dello slancio e della tempesta della mia generazione, mi sono trovato a scegliere tra le parole di piombo e le lacrime della libertà.

— “Una sera di mezza estate, quando la madre di mio padre accompagnava alla macchia alcuni giovani che si erano nascosti sul tetto della nostra casa e sotto il letto di mia madre… incontrarono lungo un sentiero di nidi di ragno… un gruppo di giovani partigiani che avevano stretti al collo degli straccetti rossi… stavano per fucilare un giovane fascista che doveva avere la loro stessa età. La madre di mio padre disse: «Chi fa nascere i fiori nei prati?». Uno dei giovani partigiani: «Il sole di primavera, vecchia signora dagli occhi color del mare». E la madre di mio padre: «E chi siete voi per giudicare e uccidere? Voi non siete neanche il sole». I giovani dissero che i fascisti erano feroci e impiccavano i partigiani ogni volta che li prendevano. «Non facciamo la stessa guerra di quei bastardi…», rispose la madre di mio padre. I ragazzi ripresero il cammino, scomparvero nel bosco e andarono insieme a cantare i giorni della meglio gioventù che dettero vita a nuove speranze di democrazia partecipata. Quel fascistello morì qualche anno dopo, senza amici, senza amore e senza mai più trovare un sorriso. Infelice è quell’uomo o quel popolo che ha bisogno di martiri e di eroi per mostrare la bellezza della libertà —.

I colpevoli di ingenuità stanno tutti dalla parte del boia… le sinistre lo sanno bene… hanno battuto tutti i marciapiedi del potere e conosciuto tutte le forme della decadenza, compreso quella di governare con successo contro i lavoratori, i poveri, i migranti… bisognerebbe essere fuori dal mondo come un bambino o come un cretino per credere che quest’accozzaglia di bastardi lavori per il bene comune… è inconcepibile aderire a un partito o a una religione fondata sulla servitù volontaria… la libertà è un delitto d’indiscrezione e la lusinga elettorale un confortorio della rassegnazione istituzionalizzata... un mandato a vita a uomini dalle mani sporche… a giustificazione di tutti i crimini che saranno commessi contro i popoli impoveriti — nel nome santificato dello sviluppo globale —.



Il cinema ereticale di Debord si scaglia contro lo spettacolare integrato che regna nel mondo… chiede il rispetto delle differenze e disvela l’ordine oligarchico della partitocrazia come sistema accettato della società regolata dal potere della merce… i diritti umani sono divorati dalla dittatura dei media e larghi pezzi di popoli assoggettati sono sterminati per alzare i dividendi delle multinazionali, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale… Debord viola la “sindone dello schermo” e si sbarazza dell’imbecillità farisea di farsi comprendere da tutti e in ogni modo… lavora sul disinganno e rivendica la speranza del folle o dell’impiccato: le grandi verità si dicono sulla soglia di un manicomio o sul patibolo con il cappio al collo… la sofferenza è intollerable e non ci sono matti o ribelli che non hanno mai confuso l’inferno col paradiso… l’innegabile piacere del sapere non ha nulla a che fare con il tempo del mercimonio… a parte la bellezza della verità (o viceversa), tutto è menzogna.

Lo spirito pubblico e la pubblica felicità sono al fondo d’ogni principio di libertà. Rendersi padroni della nostra esistenza significa imparare a dire no!, fare delle passioni, dei desideri, dei giudizi estremi il principio di tutte le rivolte e mostrare che la disobbedienza in permanenza non è solo un’azione, ma una partecipazione delle differenze al mutamento della vita quotidiana. In questo senso, Debord considerava la progettualità rivoluzionaria nel rovesciamento dei saperi e turbamento della legalità e sosteneva, a ragione, che gli uomini sono liberi di cambiare il mondo e costruirne uno nuovo a partire dal cambiare loro stessi.

Solo ciò che invita alla disobbedienza civile, merita di essere ascoltato… la critica radicale delle democrazie dello spettacolo e dei regimi comunisti è una sorta di odio profondo che gli uomini della disobbedienza allevano, custodiscono e scagliano contro ogni forma di autoritarismo… le istituzioni che pretendono di incarnare il potere del popolo… sono espressione di odio, corruzione, violenza... tengono i loro sudditi nella paura e nel terrore di riduzione materiale dei beni acquisiti… non ci sono governi buoni se i cittadini sono esclusi dalla fruizione (su basi egualitarie) delle ricchezze che contribuiscono a produrre… il 20% dei saprofiti delle democrazie spettacolari e dei regimi comunisti si mangiano l’80% di quanto produce l’intera umanità… uccidono l’ecosistema del pianeta… fanno del genocidio l’arte di esportare la democrazia con le armi e del mercato globale la forca consumerista di nuovi colonialismi… la perversione delle moderne forme di tirannia implica anche la nascita, l’emersione, l’insorgenza di libere azioni di uomini in rivolta contro le istituzioni del male… la ricerca della publica felicità è al fondo delle democrazie parecipate o delle democrazie dirette… e quando gli uomini sono ridotti a soggetti elettorali o consumatori d’illusioni… gli uomini della disobbedienza sono liberi di cambiare il mondo e introdurvi il nuovo.

La disobbedienza libertaria che filtra ad ogni taglio di montaggio di GUY DEBORD, SON ART ET SON TEMPS, combatte la criminalità costituita nei parlamenti e nelle economie di sfruttamento dell’uomo sull’uomo... sfida l’autorità, la tortura, la galera… e si fa portatrice di altri diritti. La legalità è il patibolo dei diritti dell’uomo. La “legalità” si fonda e si modifica giorno dopo giorno e i politici hanno la pretesa di renderla valida per tutti. “In realtà ci troviamo di fronte a un ordine senza leggi, ma non di fronte all’anarchia, perché un ordine del genere può essere conservato da un’organizzazione e da mezzi di forza” (Hannah Arendt). L’Anarchia (che non è caos, lo sanno anche i bambini con i piedi scalzi nel sole e la pioggia sulla faccia) è “governo della giustizia tra eguali” o luogo-felice (eu-topos) del non-governo. La sola obbligazione che ogni uomo ha nei confronti della propria comunità, è fare ogni cosa, anche la più estrema, con amore. Né dio né stato, né servi né padroni!


Pino Bertelli è una delle figure centrali del neosituazionismo italiano. Attivo da anni nella critica cinematografica indipendente, è sicuramente il più originale dei fotografi di strada operanti in Italia. Tra le sue molte pubblicazioni ricordiamo: Cinema dell'eresia, Dell'utopia situazionista, Contro la fotografia

Beatles a fumetti




BEATLES WEEK A SAVONA: INCONTRO ALLA LIBRERIA ECONOMICA



Dall' 8 al 12 dicembre la città di Savona dedica una serie di concerti ,spettacoli e incontri per ricordare l'anniversario della morte di John Lennon (1980-2010), oltre che per celebrare il mito del gruppo musicale che ha segnato la storia della musica.
L'iniziativa è stata proposta dall'Assessore alla cultura Ferdinando Molteni e dall'Assessore ai Quartieri Francesco Lirosi in collaborazione con Radio Savona Sound, Coop Liguria e con l'ausilio
di diverse associazioni del territorio; il programma è ricchissimo, e testimonia la vocazione culturale e musicale di questa città, anche nei riguardi di una icona del nostro tempo come i Beatles.
Nel contesto di tale iniziativa, la Libreria Economica venerdì 10 dicembre ore 18 presenterà al Teatro Sacco (Via Quarda Superiore 1, Savona) il volume “I Beatles a fumetti” Skira Ed. con gli autori Enzo Gentile e Fabio Schiavo intervistati da Chiara Giuria.
Il libro dimostra l'incredibile fenomeno di costume che furono i Beatles rapppresentati attraverso il fumetto,oltre che l'interesse che editori e appassionati hanno mostrato con una vastissima produzione che arriva fino ai giorni nostri.
Aprono l'evento le note dei The Lonesome Pines.

Ingresso libero.

giovedì 9 dicembre 2010

mercoledì 8 dicembre 2010

Una serata per Renzo Aiolfi




Teatro “Gabriello Chiabrera” in Savona
17 dicembre 2010, ore 21

UNA SERATA PER RENZO AIOLFI nel decennale della scomparsa

con Triade Ensemble Silvia Da Boit (pianoforte) Renata Sfriso (violino) Manuela Evangelista (violoncello) in “Pagine operistiche per piano-trio”
e Mattia Pelosi (tenore) Anita Frumento (pianoforte) in “Arie di Donizetti e Rossini”
e con la presentazione del libro “I teatri di Renzo Aiolfi” a cura di Emanuela E. Abbadessa e Silvia Bottaro

Nel corso della serata sarà conferito il Premio “Pino Cirone” al Direttore d’Orchestra e ompositore Aurelio Canonici

Conduce la serata Ferdinando Molteni

Per l’occasione è emesso un annullo speciale presso l’Ufficio Postale temporaneo istituito nell’Atrio del civico Teatro “Chiabrera” dalle ore 20,30 alle ore 23,00.

Ingresso libero

Associazione Culturale “R. Aiolfi” no profit - Savona

domenica 5 dicembre 2010

A Fil de Ciel



A Fil de Ciel
Concerto di Natale


8 dicembre ore 21
Borgo S. Dalmazzo (Cuneo)

“Si intitola come una gloriosa etichetta di progressive rock la nuova produzione di un ensemble folk che «progressivo» è nella sostanza e non nella bandiera.
Intendiamoci anche sulle insegne: gli A Fil de Ciel sono un supergruppo occitano, intendendo con la dizione quell'area culturale e linguistica che, in Italia, riguarda le vallate nordoccidentali al confine con la Francia, dove si parlava la lingua d'oc. Lì è nato un movimento di recupero delle proprie radici di confine che ha ben poco a che spartire con i deliri campanilistici nordisti dei riccastri con il Suv e con il Sole delle Alpi sulle scuole (a loro rubato indebitamente).
Questa è musica, e Signora musica: nati come formazione acustica intenta alla valorizzazione del lascito trobadorico, hanno poi aggiustato il tiro con classe, eleganza, e quel «quid» in più di fantasia che fa la differenza. La voce fatata di Rosella Pellerino, che sembra reincarnare la Jenny Sorrenti dei tempi dei Saint Just, e naturalmente ghironde, flauti, organetto diatonico, ma anche tastiere, slide guitar, e arrangiamenti che hanno la maturità dei Bellowhead:succede ad esempio in La Vierge, dove entrano violini in dissonanza, lame di chitarra, un trombone che si muove nel «traditional» come fosse sempre stato lì. Immenso”.

Guido Festinese, Il Manifesto, Alias 20/11/2010



L’appuntamento, ad ingresso gratuito, è organizzato per raccogliere fondi da destinare alla famiglia di Laura, giovane borgarina che versa in coma da sette anni. alle ore 21 presso l’Auditorium di Palazzo Bertello in Via Vittorio Veneto a Borgo San Dalmazzo. Nella serata saranno proposti i brani dell’ultimo cd, Vertigo, e antiche canzoni della tradizione natalizia occitana, francese, spagnola, scozzese.Con Gabriella Brun, ghironda, semiton, flauti; Silvio Ceirano, percussioni, chitarra; Roberto Fresia, tastiere; Marco Lovera, cornamusa, trombone, galobet e tamborin ; Helga Niederwald, violino, viola; Rosella Pellerino, voce; Michele Piantà, contrabbasso, basso elettrico.



Libri da gustare 2010



Riceviamo e pubblichiamo questo comunicato dell'Accademia Aleramica di Alba, un'occasione per ricordare ad un anno dalla sua scomparsa l'amico Raoul Molinari

Libri da gustare 2010

Per la sezione Prime Pagine, la vittoria ad un cuneese doc e a un bolognese

Giovedì 2 dicembre, presso gli spazi dell’Hotel Le Méridien Lingotto di Torino, si è svolta la cerimonia di premiazione di Libri da Gustare 2010. L’iniziativa, giunta quest’anno alla XIV edizione, è stata ideata dall’Associazione Culturale Ca dj’Amis di La Morra (Cn), presieduta da Claudia Ferraresi, per valorizzare l’editoria enogastronomica e di territorio.
Tra i venti titoli in lizza si è classificato al primo posto, nella sezione “Prime pagine”, la favola Tobi e il tesoro del tartufo bianco d’Alba, scritta dal giornalista albese Raoul Molinari e dallo scrittore bolognese Giordano Berti, studioso di tradizioni popolari e dal 2010 presidente dell’Accademia Aleramica di Alba.
Al momento di ritirare il premio, Berti ha commosso il folto pubblico ricordando che, esattamente un anno fa, Raoul Molinari spirava all’ospedale di Alba. Proprio questa coincidenza è sembrata il riconoscimento postumo ad un uomo che ha dedicato gran parte della vita a far conoscere la sua terra: Alba, le Langhe e più in generale il Sud Piemonte, che Molinari identificava con l’antica Marca Aleramica.
Anche l’organizzatrice dell’evento, Claudia Ferraresi, si è voluta soffermare sul ruolo svolto da questo personaggio nella sua più che trentennale opera di promozione del territorio. Ha ricordato come Molinari sia stato l’antesignano di un modo spettacolare di fare cultura, finalizzato alla riscoperta di prodotti alimentari tipici e di tradizioni contadine, come pure di personaggi e vicende che la grande storia ha lasciato in disparte. E poi, Molinari fu tra i primi, nei lontani anni 60, a denunciare i danni irreparabili che i nuovi insediamenti urbanistici e industriali, attuati senza alcun criterio, avrebbero portato nelle Langhe e nel Roero. Anche all’epoca in cui era presidente della Fiera Nazionale del tartufo bianco d’Alba, Molinari continuò a battersi per la salvaguardia del territorio.
Non a caso, la favola Tobi e il tesoro del tartufo d’Alba (edita da Araba Fenice e illustrata dall’artista fanese Adriana Galoppi.) contiene forti tematiche ambientaliste, inserite all’interno di una trama avventurosa in cui si trovano altri elementi educativi, come il valore degli affetti familiari e l’amicizia tra esseri umani ed animali, nella fattispecie il “tabui”, il cane da tartufo.

sabato 4 dicembre 2010

Sulla funzione dell'arte



Riceviamo e pubblichiamo questo contributo dell'amico Claudio Carrieri, voce importante del panorama artistico savonese, le cui opere adornano i giardini antistanti la Fortezza del Priamar di Savona.


Claudio Carrieri

Sulla funzione dell’arte

Le società sono in rapido cambiamento, spinte, nello svolgimento inarrestabile della rete globale, a nuovi processi di relazione, a nuove connessioni.
Esercizio continuo dell’arte è adeguarsi ai nuovi aspetti con il compito di definire quali saranno i nuovi canoni del bello.
Il concetto di bello è compreso in quello di modo di vedere, e quindi, più in generale, di “Metodo”. Ma sono convinto che il Metodo, quand’anche tentassimo di circoscriverlo al campo della Phisis, non possa prescindere dal nostro sentire morale Ecco perché il fare artistico è una delle più ardue attività umane e perché è necessario, oggi più che mai, che la sua funzione si rivolga verso nobili scopi come quello di porsi a trait d’union fra le persone e le loro comunità.



L’arte è complementarietà.
Il “manufatto” artistico a questo punto si definisce anche attraverso le qualità che derivano dalla sua funzione, funzione che l’arte non può più trovare dialogando con se stessa, tramite un dibattito intellettuale che rischia di essere solo auto referenziale, bensì partecipando al dibattito civile, non per rappresentare fazioni o ideologie, ma intervenendo direttamente nella definizione dei valori.
La leva emotiva, centrale nella tessitura di un migliore equilibrio sociale, appartiene, nella sua accezione più alta, all’arte.
Pensieri e culture apparentemente lontani, se non addirittura inconciliabili, attraverso l’arte possono trovare affinità, possibilità per un completamento che non resti congelato in cieli puramente intellettuali, ma venga assimilato nelle coscienze, diffuso attraverso una luce anche spirituale.

Questo tentativo è il valore aggiunto che salverà l’arte dal rischio di arrendersi a quelle attività intellettualistiche che svettano dalla torre d’avorio del concettuale o si compiacciono di rivisitare il già visto o si ammantano dei neri estetismi nichilisti, tradendo il limite di un concetto borghese del bello che, sviluppato ormai in tutti i suoi aspetti, non riuscendo a superarsi, decade e, decadendo, dell’arte annuncia la morte.
L’intento è quindi rivoluzionario: innovare, cambiare i parametri, assumere nuovi canoni di riferimento, fare piazza pulita del vecchio.
Ma Rivoluzione qui non significa sovversione dell’ordine sociale, al contrario, significa integrazione, reciproca acquisizione, sinergia valoriale: un processo di sviluppo culturale, dove l’arte diventa elemento catalizzatore, capace di stimolare la curiosità per l’altro, favorendo l’incontro, l’armonia fra le diversità con lo scopo di una crescita civile comune.

Cairo Montenotte ottobre 2010




Claudio Carrieri. Nato a Prince George (Canada) nel 1956 e oggi residente a Savona, lavorando nelle fabbriche di Albissola entra presto a contatto con artisti e ceramisti del posto e dal 1977 inizia a esporre come pittore e scultore in numerose mostre personali e collettive in Italia, Spagna, Portogallo, Canada.

venerdì 3 dicembre 2010

Nuove prospettive per il Museo di Arti Primarie di Savona

Il MAP di Savona

Riceviamo dal Sovrintendente del MAP Giuliano Arnaldi questo comunicato che volentieri pubblichiamo



Il MAP, Museo di Arti Primarie è una rete di presidi museali che propone esposizioni temporanee e permanenti di opere d'arte provenienti da diverse culture e di diverse epoche. Il filo rosso che lega le diverse attività è il convincimento dell'esistenza di un linguaggio metaforico che l'uomo usa da sempre per porsi in relazione con il Mistero della vita, e che tale linguaggio sia riconoscibile attraverso il godimento e l'analisi dei linguaggi dell'arte visti oltre la classificazione spazio/temporale.

Per questo motivo ogni evento si articola tentando di con/fondere lo stupore che genera la bellezza generata da un'opera d'arte e il rigore scientifico che la colloca in un preciso ambito storico, filosofico e morale.

Il MAP è strutturato in Presidi per favorire l'idea che il vero Museo sia il territorio nel suo complesso e che le diverse esposizioni servano a favorire il consolidamento di una memoria consapevole del nostro patrimonio paesaggistico e culturale. Per questo motivo i presidi sono insediati in luoghi inusuali per la fruizione tradizionale dell'arte ma significativi per la relazione con il territorio: il Presidio di Savona- che ospita la Biblioteca, le attività multimediali ed esposizioni temporanee - è ospitato ad esempio nel Mercato Civico.

A tutto il 2010 sono operativi i presidi di Albisola Marina, Albisola Superiore e Savona. Vi sono esposte opere d'arte moderna, prevalentemente provenienti dalla Collezione Passaré e da Collezioni Pubbliche e private di molti artisti moderni e contemporanei tra i quali Baj, Biagioli, Burri, Fontana, Lam, Matta, Tancredi, mentre la collezione di Arte Primaria nella disponibilità permanente del MAP è costituita da un fondo di oltre trecento opere di epoche diverse (dal neolitico ad oggi) di culture provenienti da ogni Continente.

E' prevista per il 2011 una significativa azione di radicamento ulteriore in altri siti, e la riorganizzazione dei Presidi in relazione ai materiali in cui sono realizzate le opere: avremo così i Presidi del Tessile, della Terracotta, dei Metalli, del Legno, delle Nuove Materie dell'Arte ( fotografia e video).
Il MAP si pone l'obiettivo di interagire fortemente con le realtà nelle quali è presente, anche per favorire concretamente la crescita di opportunità professionali e di sviluppo sopratutto verso le giovani generazioni.

Il MAP è promosso e gestito da TRIBALEGLOBALE, laboratorio permanente di idee e azioni in un mondo che cambia tra appartenenze e globalizzazione, attivo dal 2004 e il cui obiettivo è esplorare linguaggi attraverso l'uso delle arti e la loro contaminazione nel tempo e nei luoghi, con l'obiettivo di coglierne la dimensione archetipica e di rappresentarla con il linguaggio del nostro tempo.

TRIBALEGLOBALE è costituito da studenti, intellettuali, artisti e sostenuto da soggetti no-profit Nato nel 2004 ha ottenuto il patrocinio sulle diverse iniziative da molti soggetti istituzionali pubblici e privati tra cui Il Parlamento Europeo, il Consolato d'Italia in Corsica, la Regione Liguria, La Regione Sardegna, molte Amministrazioni Comunali, l'Istituto Internazionale di Studi Liguri.

Ha coinvolto nel proprio lavoro di approfondimento culturale artisti e studiosi come Giorgio Amico, Pierre Amrouche, Emmanuel Anati, Paolo Angeli, Ivan Bargna, Mirella Bentivoglio, Carlo Benzi, Massimo Cacciari, Luigi Cavalli Sforza, Giuseppe Conte, Philippe Daverio, Aldo Maria Pero, Vittorio Sgarbi, Malik Sidibè, Arturo Schwartz, Lucille Reyboz,Guido Rodriguez, Aldo Tagliaferri, Joyce White, Franca Zoccoli.

Ha organizzato eventi in importanti sedi museali pubbliche e private come la Casa Museo Jorn ad Albissola Marina, da noi riaperta dopo vent'anni proprio nel 2004 e sede dei principali eventi di Tribaleglobale fino al 2008 , i civici Musei Archeologici di Savona, Finale e Ventimiglia, La Biblioteca Bicknell di Bordighera, L'Oratoire de la Providence di Nice, la Galerie Berggruen di Paris, il Museo di Castelsardo, la Fortezza del Priamar di Savona, la Palazzina Liberty di Imperia.

Ha collaborato a missioni archeologiche in Israele, sotto la guida del Prof. Emmanuel Anati e organizzato il Padiglione della Marginalità nell'ambito delle manifestazioni per la 52 Biennale di Venezia.

GLI EVENTI E LE STUTTURE UTILIZZATE SONO SOSTENUTE IN LARGHISSIMA MAGGIORANZA DA RISORSE PRIVATE E ANCHE AL FINE DI OTTIMIZZARE TALE SCELTA TRIBALEGOBALE SI CONFIGURERA' IN FONDAZIONE A PARTIRE DAL GENNAIO 2011, CON SEDE A VENDONE (SV) presso un immobile privato messo a disposizione da uno dei soci fondatori della Fondazione e pensato per diventare sede espositiva e operativa dell'intero progetto.

Per sostenere le attività del 2011, MAP lancia una campagna di finanziamento vendendo opere d'arte messe a disposizione da Collezionisti.
Saranno posti in vendita:
25 piatti di diverse dimensioni di Antonio Sabatelli.
Si tratta di opere provenienti da un servizio da tavola, tutte pezzi unici provenienti da un collezionista genovese che le acquistò dall'Artista negli anni sessanta.

12 sculture rituali di cultura Namchi ( Camerun)
Si tratta di sculture antropomorfe in legno, vetro, metallo, pelle legate a riti di fertilità alte mediamente 30 cm.
15 tessuti rituali di cultura Shoowa (RDC)
5 cortecce battute e dipinte di diverse culture Oceaniche
Tutte le opere di culture extraeuropee sono di epoche diverse, sono originali e non copie per turisti.
Ogni opera è proposta al prezzo di euro 200, ed è acquistabile fino all'8 dicembre presso la sede del MAP di Savona sopra il Mercato civico ( più info telefonando al n. 329.9611927a partire da quella data le opere saranno in vendita sullo store Ebay TRIBALEGLOBALESHOP .

IL RICAVATO CONTRIBUIRA' A FINANZIARE LE ATTIVITA' DEL MAP E SARA' DOCUMENTATO NEL DETTAGLIO SUL SITO WWW.TRIBALEGLOBALE.INFO.

Prosegue inoltre l'attività editoriale di TRIBALEGLOBALE che pubblicherà in dicembre Ricomporre Ipazia, a cura di Eredi Biblioteca delle Donne. Il libro trae origine dal dibattito svolto al MAP di Savona in seguito alla visone del film Agorà.
Dopo l'esperienza al British Museum, il MAP terra' la Seconda Conferenza Internazionale a San Francisco a febbraio nell'ambito del SFTribal ART show


Giuliano Arnaldi
Sovrintendente Generale del MAP
Museo di Arti Primarie
Corso Mazzini 1 17100 Savona
telefono e fax +39.019.821245
contatto diretto +39.334.8559850

giovedì 2 dicembre 2010

Stupori, finzioni e altre geometrie



E' con emozione, e lo diciamo senza retorica, che pubblichiamo questo testo del Maestro Sandro Lorenzini, caro e vecchio amico di Vento largo, consapevoli come siamo che le sue opere e le sue riflessioni travalichino il campo limitato, per quanto importante dell'arte, per parlare a chi oggi si interroga sul senso del vivere e del fare.

Sandro Lorenzini

STUPORI, FINZIONI E ALTRE GEOMETRIE

Ci sono attimi speciali nella vita, in cui d’un tratto, cogliendoci sempre impreparati, lo stupore ci spiazza, invade la mente, si fa spazio fra gli altri pensieri e li zittisce e rimane lì al centro di tutto per un tempo fuori dal tempo, a nutrirci di gioia, sorpresa,nuovi pensieri. In un attimo ci troviamo immersi in una geometria nuova, certamente non euclidea, messi in cammino a nostra insaputa sulla linea sottile e smisurata di una spirale lungo la quale ci muoviamo al contempo sia verso la vertiginosa precisione del suo centro, sia nella direzione opposta attraverso distanze rarefatte e ineffabili che sfumano nell’infinito.
Le porte per cui lo stupore entra e ci invade la mente sono semplici e note, sono quelle della vista, dell’udito, del tatto.
Al contrario i meccanismi per cui uno sguardo, un suono, una forma diventano altro da sé sono lievi e sottili come tele di ragno.


Uno di questi è senz’altro quello della finzione.
Un racconto non è mai il fatto che narra. Appena il fatto narrato inizia a prendere forma nella mente del suo narratore, ben prima di uscire nel mondo, incomincia a mutare, si specchia nella forma del pensiero di chi lo sta pensando e la fa sua, aderisce alle pareti di quella mente e ne assume i contorni, come l’acqua in un vaso che la contiene e ne è colmo. Quando infine dalla bocca del vaso l’acqua è versata e bagna e si spande e dilaga, coglie ciascuno in un modo diverso eppure vero. Il fatto narrato diviene mille volte sé stesso e diverso da sé. Il narratore lo intuisce e in qualche modo lo teme, vorrebbe che quell’acqua mantenesse anche fuori la forma del cavo del vaso, ma sa che non può. Ciò che può fare (e il farlo è un atto leale e fedele) è insaporire quell’acqua, vestire il fatto narrato di vesti diverse, mutarne un poco l’aspetto, sapendo che il viaggio di quel nuovo viaggiatore raggiungerà mille impensabili mete così lontane da quella partenza che era così certa all’inizio, così una e così vera, così misurabile e netta. Ciò che il narratore fa è un atto d’amore: finge che il fatto sia altro, gli confeziona un diverso vestito, gli muta l’aspetto e la voce e la storia. Allora il fatto può andare a cercarci, a raccontarci con voce mutata le cose.
Ci visita una finzione.
L’acqua si versa entro noi, ne riempie il cavo, ci colma.
Nell’attimo speciale ci nutre, ci sorprende, genera nuovo pensiero.
E’ il mistero dei fatti che, narrati, sono altri fatti, percorsi lungo spirali cosi’ ampie da essere rette, rette che si snodano sinuose per altri destini, verticali tese fra due opposti abissi che nella mente diventano un unico punto.
Mistero. Ma bello.



Sandro Lorenzini nasce a Savona nel 1948. Diplomatosi in scenografia all'Accademia di Belle Arti di Brera lavora alla Scala e al Piccolo Teatro di Milano. Intorno alla metà degli anni Settanta prende a frequentare l'ambiente artistico albisolese e a dedicarsi alla ceramica e poi alla scultura. Dal 1984 tiene corsi di ceramica all' Università di Berkeley e alla California State University di San Josè. Intensa la sua attività espositiva in Italia e all'estero, soprattutto in Francia, Germania, Stati Uniti, Cina e Giappone.

Pigmenti, rivista dell'Associazione Culturale "R. Aiolfi"



E' disponibile il n.21 di Pigmenti, la bella rivista curata dalla Associazione Aiolfi, da cui riprendiamo questo articolo sulla Chiesa di San Fiorenzo di Bastia, uno degli esempi più interessanti dell'arte tardo gotica delle Alpi Marittime.
Pigmenti, che viene distribuito gratuitamente, può essere richiesto alla Associazione Culturale “R. Aiolfi” – Via. P. Boselli 6/3, 17100-Savona
E-mail: ass.aiolfi@libero.it

Un gioiello dell'arte tardo gotica delle Alpi Marittime: San Fiorenzo di Bastia


Le piccole cappelle che, girovagando per le Langhe, si incontrano un po’ ovunque ci trasportano con le loro storie in un mondo ingenuo, sincero e ricco di fede. Costruite anticamente per riparo e riposo dei pellegrini, sono state in seguito abbellite ed affrescate traducendo in immagini le preghiere di ringraziamento e devozione, ma anche di invocazione di aiuto nei fl agelli della peste e della guerra.

Arte popolare, semplice e spoglia, ma densa di spirito religioso e mistico rapimento, con un gusto pronunciato per i lunghi sviluppi pittorici e le storie ad episodi multipli. Tutto doveva parlare al cuore ed alla mente di chi guardava i soggetti rappresentati; più che per diletto, dovevano servire per istruire, confortare ed ammaestrare il popolo. Vera e propria “Biblia Pauperum” che raccoglie in sè tutti gli insegnamenti ed i valori della fede ad iniziare dal Cristo, dagli Evangelisti, dalla Vergine e dai Santi.


A questi concetti, che rientrano nei canoni stilistici del XV secolo dell’arte delle Alpi Marittime, si ispira l’arte gotica o tardo–gotica che troviamo nel ciclo di pitture murali della Chiesa di San Fiorenzo di Bastia. Edificata verso la metà del XIII secolo (1220-1230), è stata in seguito ampliata ed affrescata con un nuovo ciclo pittorico coprendo, nel nucleo primitivo, antiche pitture bizantine ancora parzialmente visibili. Le attuali sacre rappresentazioni sono datate 24 giugno 1472 ed occupano una superficie di ben 326 mq. Come in un gigantesco “fumetto”, ecco illustrate le gesta e la vita dei santi e dei martiri tra i quali San Fiorenzo, San Martino, San Giorgio, San Sebastiano, San Michele, Sant’Antonio abate e molti altri ancora. Assisi nelle vele della volta del presbiterio, il Cristo creatore e gli Evangelisti. Particolare importanza rivestono due riquadri di circa 50 mq, ciascuno raffiguranti il Paradiso e l’Inferno.



Il primo gioioso, festoso e bello con sei schiere di Santi in contemplazione dell’incoronazione della Vergine attorniata da una moltitudine di angeli musicanti, alla base le opere di misericordia quale insegnamento da seguire per giungere alla salvezza e alla gioia eterna.
Il secondo, l’Inferno, tetro, lugubre e spaventoso con a capo Satana che sevizia e tortura sotto i piedi avvocati e procuratori. La cavalcata dei vizi, che unisce e lega i sette peccati capitali, ci conduce attraverso le fauci del “Leviatano” a terribili pene.

Molto delicate e ricche di simbolismi le scene dell’infanzia di Gesù ispirate ai Vangeli apocrifi con riferimenti a credenze popolari. Dipinte come stazioni della “Via Crucis” le 22 iconografie della Passione che occupano tutta la parete sinistra della navata. Ultimo riquadro la resurrezione simbolo di vita eterna e nuova.

Associazione Culturale S. Fiorenzo

La chiesa di San Fiorenzo è aperta al pubblico con visite guidate gratuite tutte le domeniche dalle ore 15 alle 19 dal mese di aprile a tutto il mese di ottobre. Per visite fuori orario contattare: Associazione Culturale S. Fiorenzo O.n.l.u.s. Tel.338/4395585

mercoledì 1 dicembre 2010

Sandro Lorenzini, Stupori finzioni e altre geometrie



Sandro Lorenzini

" Stupori, finzioni e altre geometrie"
sculture in ceramica
opere inedite

Porticato del Crescent civ.16
antica darsena
Savona

4 dicembre-31 gennaio 2011

inaugurazione
sabato 4 dicembre
ore 17.00

la mostra rimarrà aperta tutti i giorni
9.00-13.00 15.30-19.30

informazioni 335-7502050
sandro.lorenzini@gmail.com


martedì 30 novembre 2010

Morire all'occidentale. La Bella, la Bestia e l'Umano



Ad assimilare specismo, sessismo e razzismo è l'attribuzione agli «altri», alle donne, ai non umani di una natura diversa, inferiore o mostruosamente superiore, da controllare e soggiogare. Questa la tesi di fondo di un libro, non facile, ma di grande interesse e attualità.

Gianluca Paciucci

Morire all'occidentale


Se, come afferma Norberto Bobbio, la tendenza verso l'uguaglianza caratterizza tutte le sinistre politiche del Novecento (anche se sulle sinistre vili d'oggi ho più di un dubbio...), mentre la gerarchia è l'elemento distintivo delle destre, è certo che non ci siamo mai trovati in una fase più a destra di quella odierna. La gerarchia non è accettata più solo in ambito burocratico (“trasmettere la documentazione per via gerarchica”) o militare, ma si è estesa a tutti i campi dell'esistere sociale, in misura variabile riportati al dato biologico. Sessismo, razzismo e specismo ovvero, rispettivamente, superiorità del maschio sulla donna e sugli altri sessi; superiorità dell'uomo bianco e cristiano su tutte le altre razze; superiorità della specie umana su tutte le altre, animali o vegetali che siano. All'interno di questi tre universi, si intrecciano diverse possibilità di gestire la propria inferiorità a danno di chi sta più in basso (penso a quella superba descrizione della violenza gerarchica che è la novella Rosso Malpelo di Giovanni Verga, fortissima perché non populista); e tutti e tre fanno i conti con le differenze di classe. Di tutto questo, e in modo assai dettagliato e profondo, si occupa l'ultimo volume di Annamaria Rivera, La bella, la Bestia e l'Umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo (Roma, Ediesse, 2010, pp. 193). L'autrice ha la peculiarità di unire rigore scientifico - che non vuol dire indiscutibile possesso della verità, ma proprio l'inverso e cioè la discutibilità attenta e radicale delle opinioni avanzate -, passione militante e soggettività di chi pensa, vive, gioisce e soffre. Il libro è dedicato alla sorella Paola, “animalista e femminista critica della prima ora (...). Avevo scommesso con me stessa e col destino che sarebbe riuscita a vederlo, ma ho perso la scommessa: Paola è morta alcuni giorni prima che il libro fosse stampato, distrutta da una malattia che fino all'ultimo ha fronteggiato con forza, coraggio, dignità...” (1).
È la fase storica che ci fa avvicinare a questo volume come a una risorsa preziosa. Quel backlash (contraccolpo, rivincita maschile) che “già nel 1992 Susan Faludi denunciava” (p. 37) rispetto al femminismo, sembra si sia esteso a tutti gli altri campi fino a farsi mentalità dominante: se “per le donne, il neoliberismo, la crisi del welfare state, l'esaltazione del modello del libero mercato e la mortificazione del ruolo dello Stato hanno significato (...) arretramento in tutti i campi” (p. 37), tutti gli altri soggetti deboli ne hanno subito le conseguenze e sembra di essere tornati alla sbrigatività sociale ottocentesca-primonovecentesca, di puro capitalismo, che vedeva nell'inferiore un intralcio allo scorrere del progresso, un ostacolo da eliminare o da isolare, con più o meno compassione. Apartheid totale e usa-e-getta: carceri, manicomi, fabbriche prefordiste, istituzioni totali e separate, ma anche scuole classiste, campi di prigionia per asociali, ed eugenetica.

FURIE OCCIDENTALI-ORIENTALI

È in Occidente che il contraccolpo è più evidente (essendo stata più radicale la critica) in relazione a un Oriente che, imitandoci, ci minaccia, e a un Sud del mondo alla deriva, terra di rapina e luogo di scontro per i due “primi mondi”. È in Occidente che le pratiche di assoggettamento e i tentativi di liberazione possono essere visti come esemplari, anche se non esclusivi. La grande lotta in corso vede alcuni princípi cardine scontrarsi con forza: l'Universalismo, insieme all'Eurocentrismo, contro il Relativismo. È questa la lotta principale che sta avvenendo sotto i nostri occhi e che, anzi, ci vede protagonisti. Annamaria Rivera sottopone a severo esame l'Universalismo-Eurocentrismo occidentale la cui “polemica antirelativista tende a insinuare che chiunque dubiti che il sistema sociale e culturale dominante possa essere assunto a metro di misura universale intenda disconoscere le conquiste della razionalità occidentale, rifiutare ogni principio universale, assumere un atteggiamento scettico o addirittura nichilista in campo morale” (p. 144). Da qui deriverebbe la consapevolezza della superiorità del nostro sistema e anche l'obbligo a esportare i nostri valori perché i soli veramente estendibili. Corollario: questi valori possono, o addirittura devono, essere imposti con la forza. E sappiamo dove ci ha condotto questa ideologia, di cui si è fatta portavoce anche una pseudosinistra ex sessantottina, soprattutto dopo l'11 settembre. Di un ben strano universalismo, si tratta, che in realtà ignora la complessità del mondo e si basa sulla figura retorica della sineddoche, in una delle sue forme, la “parte per il tutto”: la nostra parte di mondo si erge a globalità e riduce il resto a inferiorità irredimibile, al massimo da stipare nello scaffale del folklore (pensiamo alla fortuna dell'aggettivo “etnico”: cucina, artigianato, musica ecc.) e dell'umanitario. L'autrice invita a superare questa chiusura che si spaccia per apertura, sottolineando che “preliminare a ogni possibilità di comprensione, di confronto, di dialogo, sono il rifiuto della concezione che intende le culture come universi autonomi (...) e il riconoscimento che, viceversa, anche i mondi sociali e culturali altrui sono attraversati dal mutamento, da differenze e disuguaglianze di potere, di classe, di genere, da divergenze di interessi e di valori, quindi da conflitti, anche riguardanti le relazioni di genere” (pp. 144-5). È l'essenzialismo l'arma di ogni “universalismo escludente”, ovvero quella sensibilità che pensa unica e incontaminata ogni cultura, e in qualche modo immutabile (tranne, ovviamente, la nostra, che è oltre, che supera e comprende tutte le altre...), mentre sappiamo che l'ibridismo è stato da sempre la modalità di relazionarsi tra individui, gruppi, genti, popoli. L'inferiorità dell'altro/a è nella sua resistenza al cambiamento: noi siamo superiori perché mutanti. Quale contraddizione maggiore di questa pretesa superiorità basata sulla continua metamorfosi? Il vento e il leone, titolo di un film di John Milius (1975): il vento è l'Occidente, che viaggia, soffia, muta e prende diversi nomi; il leone è l'Oriente, inchiodato a un luogo, nobile d'antichi miti, ma ora scoronato, in riserve o zoo. Ma quando l'Oriente viaggia, ovvero accetta i dettami dell'Occidente, esso è “migrante”o “nomade”, e punibile solo per questo.
Come uscire da questa impasse? Annamaria Rivera propone una “postura critica e relativista”, la sola che “insieme con la tensione verso il superamento delle asimmetrie di status e delle diseguaglianze sociali e di genere, può permettere il superamento dell'etnocentrismo e al tempo stesso la costruzione di un progetto transculturale di liberazione del genere femminile” (p. 145). L'autrice ridimensiona il relativismo ad aggettivo di un sostantivo (postura): pur nella sua complicatezza, non mi sembra una brutta soluzione, dato anche il fallimento dei due termini avversi, universalismo e relativismo. Questa postura, sulla scorta di Fanon (che parla, meno astrattamente, di “universalità” e “relatività” - p. 175), non è altro che “un modello di universalità concreto, situato, sessuato, il quale non può che nascere dalla pluralità dei 'particolari', anche se deve trascenderli” (p. 176). È così che si possono affrontare temi estremi e quotidiani, come quello delle “mutilazioni genitali femminili” e del velo che hanno spaccato, e spaccano, il pensiero - anche delle donne, anche del femminismo - in schieramenti opposti. Non so se le soluzioni proposte da Annamaria Rivera a questi due ultimi temi siano le più efficaci, perché in entrambi i casi il potere del maschio e degli apparati politico-religiosi sulla donna è talmente forte che parlare di “libera scelta” o di “protagonismo femminile”, sia nel caso di donne migranti sia nei paesi d'origine, è assai difficile; mi convince invece il metodo, e quel verbo, “situare”, che permette di affrontare (e magari di risolvere) le “situazioni”, appunto, caso per caso, senza fanatismi laici né violenze. Peraltro è sul concetto stesso di “libera scelta” che occorrerebbe ragionare: se ne sono serviti islamisti e cattolicisti reazionari, come uomini e donne “progressisti” oppure esponenti della Lega Nord (in quest'ultimo caso la “libera scelta” delle prostitute serve alla campagna per la riapertura delle case chiuse). Penso che sia importante unire queste riflessioni all'esame critico dei regimi e dei codici della famiglia, nonché allo studio antropologico delle società d'origine e delle società “migranti”, per trovare soluzioni che eliminino la più grande quantità di sofferenza possibile, ma sempre e solo con il contributo attivo delle donne e degli uomini direttamente interessati, che altrimenti resterebbero solo inanimati oggetti di salvazione.

ARMI DELLA CRITICA

Molti sono i momenti forti di questo libro, che ci permette di ricordare ciò che è appena passato e di cui siamo prodotto diretto. Colpisce la rievocazione di alcuni fatti. Innanzitutto “la lunga teoria di morti violente e oscure (108 quelle accertate fino al momento in cui scrivo) fu inaugurata dalla morte di Amin Saber, nel Cpt di Agrigento. Accadde nell'estate del 1998, poco dopo l'approvazione della legge 40, detta Turco-Napolitano, che istituiva per la prima volta in Italia la detenzione extrapenale, riservata agli ‘extracomunitari’ trovati in condizione di irregolarità sul territorio italiano” (p. 97): questo fatto introdusse un'anomalia pericolosa nello Stato di diritto, ovvero la sanzione della “normalità dello stato di eccezione”, per cui è possibile internare uomini e donne che non hanno commesso alcun delitto e solo per la loro provenienza (il “reato di clandestinità”, introdotto dai successivi governi di destra, non è che un corollario a questo primo arbitrio). Morti “naturali” e suicidi, nei Cpt/CIE, come nelle prigioni italiane (centinaia, negli ultimi anni), su cui cala un vile silenzio, sono uno scandalo degno di un paese totalitario.
E il secondo: l'omicidio di Giovanna Reggiani del 30 ottobre 2007. Questo “femminicidio, attribuito a un rom di nazionalità rumena, fu oggetto di una campagna politica e mediatica forsennata che vide, fra le iniziative istituzionali (si era al tempo del secondo governo Prodi), la distruzione spettacolare dell'accampamento in cui viveva il presunto omicida e la convocazione urgente e straordinaria di un Consiglio dei ministri: una sorta di consiglio di guerra (...). Nello stesso periodo altre persone di sesso femminile, bambine comprese, venivano stuprate, brutalizzate e/o uccise da uomini. Gli episodi per i quali non fu possibile additare come colpevoli degli alieni furono quasi ignorati dai media; comunque questi casi non meritarono convocazioni urgenti del Consiglio dei ministri.” (p.138). Ricordare ricordare ricordare, piuttosto che il mediocre e compiaciuto resistere...: ricordare il ruolo che il centrosinistra ebbe in quello scatenamento di follia collettiva, che nulla aveva a che vedere con il rispetto della vittima e con la ricerca della giustizia (2); per poi andare avanti e ricordare che il ministro delle pari opportunità Mara Carfagna ha detto di volersi costituire parte civile nel processo per l'uccisione, il 4 ottobre nel modenese, della pakistana Shanhaz Begum per mano del marito, ma non per l'omicidio (con risvolti atroci, di familismo amorale e ferocissimo) di Sarah Scazzi e di tante altre donne ammazzate da familiari e da conoscenti, né per quello recentissimo, ma già dimenticato dai media, di Maricica Hahaianu. Ricordare tutte, e quest'ultima: “Maricica, 32 anni, ora è morta. Per una lite banale e un pugno ricevuto in piena faccia. Alessio, 20 anni, ora si dice 'pentito amaramente' e si definisce 'sfortunato' perché non voleva uccidere. Fine della storia avvenuta alla stazione Anagnina di Roma. Derubricata a qualche titolo in cronaca. Ci chiediamo cosa accadrebbe oggi se le parti fossero invertite. Se a colpire fosse stato un ragazzo rumeno e a morire una donna romana. I titoli sarebbero in politica e non in cronaca, si urlerebbe all'invasore violento, si darebbe la caccia all'untore...” (3). Qui non è più Annamaria Rivera a scrivere, ma un giornalista del quotidiano della Confindustria, in un attacco d'umanità. Così per finire torniamo alla forte riflessione dell'autrice e alla nostra domanda: cosa vuol dire “vivere all'occidentale” se si producono mostri concettuali e politici come questi sopra riportati? O piuttosto, cosa vuol dire “morire all'occidentale”? È il caso di cominciare a ribaltare il pensiero dominante, con armi forti, di cui ci rifornisce il libro appena recensito.

NOTE

1) Annamaria Rivera, A mia sorella Paola, Carta, n° 36, 22-28 ottobre 2010.
2) “...Più rapidamente che in altre occasioni, i politici e i media hanno fatto a gara per passare da un singolo caso alle responsabilità collettive degli immigrati...”, e poi, in nota: “...Il legame tra criminalità e immigrati è stato apertamente sostenuto, per esempio, da Walter Veltroni in alcune dichiarazioni alla tv romena, rilanciate dal Tg1 e riportate sulla stampa il 2 e 3 novembre ('C'è una prevalenza assoluta di reati compiuti da cittadini romeni' …)...” (in Roberto Biorcio, La rivincita del Nord, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 177).
3) “Se a morire è una rumena”, “Il Sole 24 ore”, 17-10-2010.

Annamaria Rivera
La Bella, la Bestia e l'Umano
Ediesse, 2010
12 euro

Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’ “Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico “Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la "Casa della Poesia".