TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 28 agosto 2010

10 domande all'Ing. De Benedetti sull'ampliamento della Centrale di Vado L.


Pubblichiamo la lettera (firmata da autorevoli personalità nazionali e savonesi) rivolta all'ing. Carlo De Benedetti, uscita su diverse testate giornalistiche nazionali (Il Manifesto, Libero, Il Secolo XIX, Liberazione, La Stampa, Terra, ecc).
La lettera pone a De Benedetti 10 domande sul perchè la sua ditta Tirreno Power vuole ampliare la centrale a carbone di Vado Ligure, contro ogni logica democratica (contro il volere della grande maggioranza dei cittadini, dei Partiti, di tutti i Comuni, della Regione, dell'Ordine dei Medici, di tutto l'Associazionismo) e ambientale (dopo 40 anni di dati drammatici in termini di mortalità e di inquinamento nella nostra città, con migliaia di morti in più rispetto alla media regionale), un documento frutto del faticoso lavoro di sintesi di molti esperti, amministratori, medici, giornalisti, associazioni e comitati.
E' una battaglia di civiltà, e per la vita. Da settembre la dirigenza Tirreno Power vuole decidere per l'ampliamento, incurante della contrarietà della comunità savonese.

Per firmare contattare: Libreria Ubik Savona - ste.milano@alice.it


10 DOMANDE ALL’ING. DE BENEDETTI SULLA CENTRALE A CARBONE TIRRENO POWER DI SAVONA



“Egr. ing. Carlo De Benedetti,

a Lei che si vanta di essere la tessera numero uno del Partito Democratico, poniamo 10 questioni in merito alla Sua decisione di ampliare la centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure (Savona), da Lei controllata attraverso CIR Sorgenia, con tutte le conseguenze in termini di mortalità prematura della popolazione e nonostante la quasi totale contrarietà di cittadini, istituzioni, partiti, associazioni, medici e biologi.


10 le domande, alle quali Le chiediamo di dare risposta:


1) CONTRARIETA’ DELLA CITTA’ AL PROGETTO
-perché vi ostinate a perseverare nel vostro progetto di ampliamento, in spregio alla contrarietà dell’85%-90% della popolazione savonese, quella dei partiti (tra cui anche il PD), della Regione, dei Sindaci, dei Consigli comunali, delle Circoscrizioni, dell’Ordine dei Medici, di tutto l’associazionismo provinciale, delle principali personalità della società civile?

E’ questo il personale concetto di democrazia del tesserato numero uno del Partito Democratico? Tutto questo non va contro non solo ai valori fondanti sanciti nello Statuto del PD, ma anche ai più elementari principi di democrazia del nostro paese?

Hanno approvato delibere ‘contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power’ tutti i comuni interessati: i Comuni di Savona, Vado Ligure, Quiliano, Bergeggi, Spotorno, Noli, Finale Ligure, Balestrino, Vezzi Portio, Albissola Marina, Celle Ligure, Altare, Carcare, Cairo.

2) DI CARBONE SI MUORE
-perché Lei e la dirigenza Tirreno Power non volete ammettere che le centrali a carbone uccidono? Perché mistificate la realtà dicendo che avete il “carbone pulito” (concetto smentito dalle principali ricerche internazionali), così giocando con la vita della gente?

Secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici di Savona “in tutta la provincia di Savona (con dati che peggiorano quanto più ci si avvicina alla centrale) diversi tumori e altre patologie vascolari, aumentano drammaticamente rispetto alla media nazionale (in particolare i tumori al polmone, vescica e laringe, le patologie cardiovascolari come infarti, emorragie cerebrali, ictus ed altre)”.
Le ricordiamo che in provincia di Savona in 16 anni sono morte circa 2.664 persone in più rispetto all’atteso (in base ai tassi standardizzati di mortalità della Liguria).
I calcoli commissionati dalla Comunità Europea asseriscono che nel nostro territorio savonese abbiamo valori di inquinamento fra i più alti in Italia, cui si associa una significativa riduzione dell’aspettativa di vita (la speranza di vita in Liguria è ridotta di quasi un anno per via dell’inquinamento).
Più in generale, tutti i principali studi mondiali riportano come sale enormemente il livello di mortalità vicino alle centrali a carbone.

Solo per citare alcuni studi, per una ipotetica centrale con emissioni pari a quelle dichiarate per la centrale a carbone di Vado Ligure, i danni in termini di mortalità sono quantificabili in milioni di dollari ogni anno, da un minimo di 42 ad un massimo di 430 milioni, variabili principalmente in base alla numero di persone esposte alle sue emissioni.
Gli studi scientifici hanno per esempio dimostrato in maniera consistente che il cancro e le leucemie infantili sono strettamente correlati con alti livelli di emissioni prodotte da processi di combustione.
I bambini, inoltre, sia nella fase di sviluppo prenatale che nei primi anni di vita, sono esposti al rischio di importanti danni allo sviluppo del loro cervello, con disturbi della sfera cognitiva (deficit di apprendimento e del quoziente intellettivo), comportamentale (da un aumento dell’ aggressività e deficit di attenzione fino all’autismo) e motoria (turbe del coordinamento motorio), causati in maniera particolare dalle emissioni di mercurio e di altri metalli pesanti (in Liguria il 90% del mercurio emesso annualmente nell’ambiente deriva dalle centrali a carbone).
Vi sono poi sottogruppi di popolazione particolarmente a rischio per l’inquinamento da polveri sottili. Solo a titolo di esempio delle numerosissime pubblicazioni in materia, nelle donne in menopausa la mortalità per cause cardiovascolari e ictus aumenta in maniera davvero notevolissima (rispettivamente del 76% e dell’83% per ogni incremento di 10 microgrammi di PM 2,5).
Grazie a studi come questi, nel territorio della California non esiste più neppure una centrale a carbone. Ma non è solo la California a fare queste scelte.
In base ad uno studio analogo, lo stato del Texas nel 2006 ha recentemente bocciato il progetto di costruzione di ben 17 nuove centrali elettriche a carbone altamente tecnologiche.
Le previsioni infatti sono che queste 17 centrali a carbone causerebbero, nel periodo di funzionamento previsto, ben 12.000 morti (dodicimila) e 72 miliardi di dollari di costi sanitari.
Analoghi risultati ha fornito uno studio dell’ OMS del 2008 condotto su 40 milioni di abitanti di 26 città Europee. Riducendo gli attuali valori massimi consentiti delle PM 2.5 ai livelli raccomandati dall’ OMS di 10 µg/m3, si otterrebbe una riduzione delle morti premature annuali da 380.000 a circa 50.000, cioè una riduzione dell’ 87%. In pratica secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità si salverebbero 330.000 (trecentomila) persone.
Rimanendo all'ambito locale, secondo un’altra ricerca a Vado Ligure il tumore maligno al polmone colpisce il 30% in più degli uomini rispetto al resto della Provincia. Per le malattie ischemiche del cuore, a Vado le donne fanno registrare il 71,9% di casi in più rispetto alla media regionale, mentre per le malattie respiratorie croniche ostruttive, a Vado gli uomini fanno registrare il 150% (centocinquanta) in più sulla Regione.

3) IL CARBONE PRINCIPALE MINACCIA CONTRO IL CLIMA
-perché, in collaborazione con il Governo, volete perseverare con il Vostro dannoso progetto di ampliamento della centrale a carbone, quando questo va ancora di più contro gli importantissimi accordi presi dall’Italia e dagli altri Stati nel protocollo di Kyoto?

Il carbone rappresenta la prima minaccia per l’equilibrio climatico mondiale: oltre un terzo delle emissioni mondiali di CO2 si devono all’uso di carbone, che è il combustibile fossile con le più alte emissioni specifiche di gas serra, circa il triplo del gas.
La battaglia per salvare il Pianeta dalla crisi climatica è dunque una battaglia contro il carbone. Tuttavia, agli attuali tassi di sviluppo, le emissioni dalla più sporca fonte fossile sono destinate ad aumentare del 60% al 2030. Se così fosse, non avremo alcuna speranza di limitare gli effetti più devastanti e irreversibili dei cambiamenti climatici.
Il momento di intervenire è ora, e il carbone è alla base del problema. Ogni nuova centrale a carbone o ogni ampliamento è un atto criminale contro la sopravvivenza della vita stessa sul Pianeta. Occorre abbandonare al più presto la nostra dipendenza da questo combustibile fossile, a favore di una rivoluzione energetica basata su fonti rinnovabili ed efficienza energetica.
Greenpeace denuncia che “il Governo italiano è contro il Protocollo di Kyoto, che obbliga il Paese a ridurre i gas serra del 6,5% rispetto al 1990. A oggi le emissioni sono aumentate del 10% e il Governo, già inadempiente e in disaccordo con gli impegni presi, continua ad autorizzare nuovi impianti a carbone, come la nuova centrale Enel a Civitavecchia e l’ampliamento di quella di Vado Ligure (la quale quindi aumenterà notevolmente la produzione di CO2). Il carbone porterà maggiori profitti nelle casse degli amministratori delle centrali, ma saranno i cittadini italiani a pagare le multe per Kyoto”.

4) IMPIANTI NON ALLINEATI ALLE NORMATIVE
-perché continuate a far funzionare i gruppi 3 e 4 della centrale, nonostante non siano allineati alle norme IPPC dell’Unione Europea, alla direttiva 96/61/CE, e al decreto legislativo 59/05, e nonostante siano privi della certificazione AIA?

Perché il solo fatto che il Governo abbia prorogato i tempi per la valutazione dell’istruttoria per la certificazione AIA della Vostra centrale (che dovrà recepire le normative europee e italiane in materia, sulle quali non vi siete ancora allineati), vi fa sentire in diritto di definirvi su tutti i giornali ancora formalmente a norma, quando in realtà siete sostanzialmente e moralmente inadempienti da 40 anni verso la comunità savonese per i livelli di inquinamento che state producendo?
Perché evidenziate sempre sui giornali che siete in possesso del V.I.A. ministeriale (al quale peraltro si oppone il V.I.A. regionale negativo, approvato dalla Regione Liguria) senza invece mai segnalare alla cittadinanza che non siete allineati rispetto alle principali leggi in materia ?
Ricordiamo che il V.I.A. ministeriale è soltanto una Valutazione d'Impatto Ambientale gestito da un organo di nomina politica, fra l’altro dichiarato illegittimo 3 mesi fa dalla Corte dei Conti, e contro il quale la Regione Liguria ha fatto ricorso.
E ancora: perché, come dice l’ex Assessore Regionale all’Ambiente, “non vi siete conformati alle disposizioni regionali in materia, né al Piano Energetico Regionale, né al Piano Regionale di risanamento della qualità dell’aria?”.
Perché secondo i medici del MODA “non si è più discusso della completa metanizzazione degli impianti che la città attende da più di 20 anni, come votato dagli enti locali savonesi fino al 2007 (compreso il Comune di Savona) e come indicava l’Istituto Superiore di Sanità già nel 1988?”
Anche il Segretario Provinciale del PD (del suo Partito) ha dichiarato in questi giorni ai giornali: “Tirreno Power sta dicendo e facendo di tutto meno che l’unica cosa che dovrebbe fare: i monitoraggi, la copertura dei parchi e in generale investimenti per diminuire l’impatto del carbone sul territorio (…) Di questo progetto non ce n’è bisogno, non è in sintonia con i tempi (…) Da anni continuiamo a parlare di cose che avrebbero già dovuto essere fatte e la Tirreno Power non ha fatto (...) Si usa sempre la logica ricattatoria occupazionale per non fare! È ora di finirla (…) È questione di credibilità: mi spiace ma Tirreno Power non è più un interlocutore affidabile”

I medici del MODA denunciano:
A) Il continuo funzionamento dal 1996 a oggi per più di 10 anni degli obsoleti gruppi a carbone 3 e 4 che non utilizzano la migliore tecnologia disponibile prevista dalla legge, con alti livelli di emissione di inquinanti;
B) Il frequente superamento nel savonese dei limiti di legge (DM 60/02) delle polveri sottili PM10 fino al 2006;
C) La parziale misurazione delle polveri PM 2,5 prevista dalla direttiva 2008/50/CE e la mancata misurazione di Arsenico, Cadmio, Nikel e Benzopirene nelle polveri PM10 in attuazione del D. Lgl 152/07;
D) Il principale contributo della centrale a carbone Tirreno Power di Vado alle emissioni inquinanti in provincia di Savona: Ossidi di azoto (68%) PM10 (35%) Ossidi di zolfo (90%) COV (38%) (Piano Qualità Aria Regione Liguria 2006) quando non era ancora entrato in funzione il gruppo a gas (anno 2007) e la centrale funzionava a metà potenza di quella attuale;
E) La possibilità di bruciare i rifiuti come CDR sui gruppi a carbone, in contrasto con quanto consentito dalla normativa europea, con il rischio di un ulteriore peggioramento delle emissioni per la formazione di diossine e metalli pesanti nei fumi maggiori di quelle prodotte con un moderno inceneritore;
F) Gli studi sui licheni (anche Regionali) che dimostrano come la centrale a carbone sia la principale responsabile per la emissione oltre che di gas fitotossici anche di metalli pesanti come Hg, Cd , Cr e Ni che seguono il modello diffusionale del Vanadio prodotto solo dalla combustione del carbone.

5) MAGGIOR INQUINAMENTO CON IL PROGETTO DI AMPLIAMENTO
-perché continuate a propagandare con ogni mezzo di comunicazione che il Vostro progetto di ampliamento della centrale e di ristrutturazione dei gruppi 3 e 4 esistenti diminuirebbe l’inquinamento, mentre ricerche scientifiche indipendenti dimostrano esattamente il contrario?

Sui giornali avete dichiarato che volete investire e mettere a norma la centrale esistente (affermazione che peraltro, secondo molti esperti, non corrisponde alla verità in quanto le modifiche che apportereste ai gruppi 3 e 4 sarebbero insufficienti****), ma che non lo farete se non si concede in cambio anche l’ampliamento della centrale stessa. Da quando vale il ricatto per cui si seguono le leggi solo se si concede qualcosa in cambio? Perché deve valere per Lei questa deroga che non è concessa ai singoli cittadini?
Una società come Tirreno Power che ha prodotto 100 milioni di euro di utili netti all'anno non è forse economicamente in grado di allinearsi alle normative europee?
E perché riproporre l’eterno ricatto delle centinaia di milioni di investimento e di 40 nuovi posti di lavoro, da mettere sull’altro piatto della bilancia rispetto ai danni ambientali e ai tassi di mortalità? La Provincia di Savona su questo tema ha già storicamente pagato prezzi molto alti, con conflitti laceranti tra ‘salute e lavoro’, e non ha bisogno di essere sottoposta a una nuova prova di forza.
Ricordiamo inoltre che, come dice il Presidente Regionale di Italia Nostra “realizzare l’ampliamento porterebbe Vado ad una potenza complessiva di 1880 MW, al terzo posto in Italia (dopo Montalto di Castro e Brindisi). Ci deve essere un limite al gravame su un territorio, e questo limite a Vado (dopo decenni di industrializzazione in buona parte scomparsa ma che ha lasciato e che continua a lasciare altre pesantissime situazioni negative sul territorio) è certamente già stato superato”.
Secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici “gli attuali gruppi 3 e 4 a carbone della centrale (risalenti agli anni ’60 del secolo scorso e obsoleti da decenni), una volta ristrutturati secondo il Vostro progetto di ampliamento (propagandato come un adeguamento secondo le migliori tecnologie), emetteranno, per ogni Megawatt installato, 3,4 volte in più ossidi di zolfo, 2,5 volte in più ossidi di azoto, il doppio delle polveri primarie rispetto al nuovo gruppo, dimostrazione evidentissima che, pur disponendo di una tecnologia meno inquinante, questa non sarà applicata in modo significativo a tutti i gruppi a carbone, ma solo a uno, al gruppo nuovo”.
Il motivo, più che evidente, sta nel fatto che si vuole risparmiare, incuranti delle ricadute che questo risparmio avrà sulle emissioni di sostanze inquinanti nell’ambiente.
Questi dati hanno indotto comitati e associazioni a sostenere la non ristrutturabilità dei gruppi 3 e 4. Secondo i medici del MODA: “i gruppi esistenti 3 e 4 della Centrale non sono ristrutturabili con le nuove tecnologie, per cui per rispettare le attuali normative si impone da subito la chiusura dei vecchi gruppi a carbone altamente inquinanti per lasciare così i gruppi a turbogas esistenti, che già da soli producono il doppio dell’energia consumata in provincia di Savona” (inquinano comunque, anche se molto meno del carbone).
E’ evidente che solo finalmente con un ampio confronto con i Comuni, la Regione, i comitati, e con l’ausilio di esperti indipendenti (e solo dopo aver rinunciato al progetto di ampliamento), si potrà valutare se l’adeguamento alla legge 59/05 (che prevede l’utilizzo delle migliori tecnologie esistenti) sarà fattibile in modo significativo nella ristrutturazione dei vecchi gruppi 3 e 4, o se (come sostengono efficacemente molte personalità autorevoli in materia) tali gruppi invece risulteranno non più ristrutturabili.

6) CENTRALE COME INCENERITORE
-rispondono al vero le voci che si stanno diffondendo, secondo le quali un vostro obiettivo potrebbe essere quello di usare i gruppi a carbone anche per bruciare i combustibili derivati da rifiuti (CDR), utilizzando quindi la centrale anche come inceneritore?

Questo (la gente non lo sa, ma voi ben lo sapete) aggraverebbe in modo devastante la situazione, perché ai fumi velenosi derivanti dal carbone (polveri sottili e ultrasottili, metalli pesanti, diossine, solfati, nitrati, ecc, oltre che radiazioni superiori a quelle delle centrali nucleari) si aggiungerebbero altre pericolosissime emissioni di diossine, polveri, e metalli pesanti.

7) INSUFFICIENTE MISURAZIONE DEI LIVELLI DI INQUINAMENTO
-perché accetta il paradosso che il controllo delle emissioni dalle ciminiere della Sua centrale a carbone sia eseguito dalla stessa Tirreno Power (per cui gli inquinatori sono i CONTROLLORI DI SE STESSI, senza che sia prevista alcuna verifica da parte di enti terzi) e non invece da un Ente Pubblico, il quale finalmente dopo decenni potrebbe garantire la cittadinanza sui reali livelli di inquinamento?

Per quanto riguarda invece le centraline esterne alla centrale, secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici “i dati sull’inquinamento vengono misurati dall’ARPAL in modo superficiale, obsoleto e insufficiente (per numero e dislocazione delle postazioni, e per tipologia di inquinanti misurati)”.
Come può peraltro la comunità savonese avere fiducia nell’ARPAL, un’agenzia in cui diversi dirigenti regionali sono indagati dalla Procura della Repubblica di Genova per falso, turbativa d’asta ed altri gravi capi d’accusa?
Come si può dire, ing. De Benedetti, che l’inquinamento è sotto controllo, quando si sceglie di non misurare efficacemente le polveri inquinanti?

8) RIFIUTO DEL CONFRONTO
-perché i Responsabili della centrale rifiutano da anni qualsiasi confronto pubblico con l’Ordine dei Medici, con i Medici per l’Ambiente e più in generale con la cittadinanza, lasciando alle migliori agenzie pubblicitarie una massiccia comunicazione fatta di slogan facilmente smentibili dai dati scientifici (“abbiamo la tecnologia”, “carbone pulito”, “ampliamo per migliorare l’aria”)?

Anche questo, ing. De Benedetti, è il Suo personale concetto di democrazia, oppure è solo perché ben sapete che il vostro progetto non può reggere il confronto con le principali istituzioni mediche locali?
Perché su questo tema si è messo in atto da decenni a Savona un fruttuoso e perverso meccanismo misto: da un lato si ‘addolcisce’ (si promette, si sostiene, si sponsorizza…) e dall’altro si minaccia? Sono state minacciate di ritorsioni di vario tipo (“ti faccio licenziare”, “ti querelo”, “ti massacro politicamente”, ed altre pressioni) varie categorie di persone che avevano tentato di spiegare la verità, inclusi importanti amministratori locali, medici e giornalisti.

9) SOVRAPPRODUZIONE
-perché volete perseverare con il Vostro dannoso progetto di ampliamento, in una città come Savona che NON ha bisogno di nuova energia elettrica, dato che la Centrale già attualmente produce una quantità di energia superiore di ben 5 (cinque) volte a quella che viene consumata in tutta la Provincia?

Perché, ing. De Benedetti, deve essere di nuovo la Provincia di Savona a essere martoriata e sottoposta ai Vostri interessi economici, una Provincia che da anni sta cercando faticosamente di sviluppare la sua importante e strategica vocazione turistica?
Ricordiamo che in Liguria (che secondo studi della UE è una delle regioni più inquinate d’Italia), una terra tanto bella a livello paesaggistico e naturalistico quanto devastata dalle industrie e dal cemento, vi sono già ben 3 centrali a carbone (il 27% di quelle rimaste in funzione in Italia), peraltro pericolosamente vicine a città densamente abitate.
Segnaliamo inoltre che gli obiettivi della Comunità Europea, cui aderisce anche l’Italia, prevedono per il 2020 una riduzione del 20% del consumo di energia, ottenuto attraverso il preziosissimo risparmio energetico, un 20% di energia alternativa, e un 20% di riduzione delle emissioni di CO2 (che invece aumenterebbero con il progetto di ampliamento della centrale).

10) ENERGIE RINNOVABILI
-perché volete perseverare nella produzione di energia dal carbone (una produzione più economica, usata ancora tra moltissime critiche in altri Stati, ma estremamente dannosa per la salute e per questo con un consumo in continua riduzione in Europa), senza investire significativamente nel metano e soprattutto nelle energie rinnovabili realmente pulite?

Come ha detto il Premio Nobel Carlo Rubbia proprio sul suo giornale, ‘La Repubblica’: “Il carbone è la fonte energetica più inquinante, più pericolosa per la salute dell'umanità. La CO2 dura in media fino a 30.000 anni. Il ritorno al carbone sarebbe drammatico, disastroso…”.

Perché cercate di disorientare la cittadinanza savonese dichiarando che investirete quasi 200 milioni di euro in energie alternative? il Vostro progetto infatti mira non certo allo sviluppo delle energie rinnovabili ‘pulite’ come eolico o solare (dei 600 MW previsti nel Vostro progetto fra carbone e rinnovabile, si prevedono solo 1,5 MW di fotovoltaico, ovvero un misero 0,2%), ma a cospargere il territorio ligure di centrali a biomasse (catalogate tra le energie ‘alternative’), centrali inquinanti e spesso destinate in realtà a diventare inceneritori di rifiuti.
Ricordiamo invece che con l’utilizzo delle fonti realmente rinnovabili, nei Paesi del Nord Europa riescono a garantire un quantitativo di posti di lavoro che, in proporzione i miseri 40 posti in più garantiti da Tirreno Power fanno sorridere (ad esempio, sono 150.000 i posti di lavoro creati dall’eolico in Europa, che diventeranno 368.000 in meno di 10 anni secondo l’Unione Europea).
In Germania, dove praticamente già il 20% dell’energia totale viene prodotta tramite le fonti alternative (eolico e solare), si prevede un forte aumento nei prossimi anni, dismettendo completamente le centrali nucleari entro il 2018.
Anche il nuovo Presidente degli USA ha orientato grandi risorse verso l’utilizzo delle energie rinnovabili, ritenendolo il nuovo possibile volano, sia per la soluzione della grave crisi economica che per la protezione dell’intero pianeta.

In sintesi,
perché Lei che si dichiara il primo tesserato del PD, calpesta buona parte dei principi e dei valori ai quali si ispira il centrosinistra: rispetto della volontà popolare, rispetto della vita umana, rispetto e cura per l'ambiente, confronto e dibattito nelle decisioni, adeguamento alle normative dell’Unione Europea, adeguamento alle leggi non come merce di scambio, considerazione delle opinioni degli esperti e degli organi medici competenti, sviluppo delle energie rinnovabili, ecc.?

Non conviene con noi, ing. De Benedetti, che il rispetto per la vita e per l’ambiente non può e non deve far parte di un mero gioco di interessi politici ed economici, ma deve invece far parte dei valori primari ed inalienabili di ogni popolo civile?

Produrre energia non è un fine ma un mezzo per far funzionare la società in cui viviamo: è etico e doveroso investire capitali per produrre energia con le metodiche meno inquinanti possibili, compatibili con la salute dei cittadini, evitando il più possibile il combustibile più inquinante di tutti che è il carbone.
Nessun calcolo economico può giustificare la richiesta di perpetuare e addirittura incrementare lo scempio ambientale e le morti premature causate dalla combustione del carbone.

Le chiediamo quindi di rispettare la volontà della nostra comunità, desistendo dal Suo progetto di ampliamento della centrale a carbone, e riducendo fortemente i livelli di inquinamento adeguando la centrale alle migliori tecnologie esistenti, così come previsto dalla legge.

Certi di una sua risposta, Le porgiamo distinti saluti”.


venerdì 27 agosto 2010

New Babylon, la città nomade


New Babylon


Le recenti misure anti-rom del governo francese ci hanno riportato alla mente la battaglia di Giuseppe "Pinot" Gallizio in favore degli zingari di Alba. Un episodio che va ben oltre la mera dimensione "artistica" e che mantiene ancora oggi intera la sua portata culturale e politica.

Giorgio Amico

New Babylon, la città nomade



Tutto inizia nel 1956, quando il Comune di Alba vieta la sosta alle carovane di zingari che tradizionalmente si fermano in città durante lo spostamento verso il sud della Francia. Pinot Gallizio, dopo aver difeso i nomadi in consiglio comunale di cui è membro, affigge nelle vie di Alba un manifesto dal titolo L’uomo è sempre l’uomo e annuncia l’inizio della “grande battaglia per la sosta degli zingari”. Il manifesto mostra le foto di Gallizio con i nomadi, ora al mercato ora in riva al Tanaro. Con un’inedita ed efficace performance di comunicazione estetica e politica, Gallizio entra in campo con il ruolo di artista pubblico che vuole che l'arte diventi un modo liberato e umano di vivere la vita quotidiana.
Poi, con un atto che scatena vivaci polemiche in città, decide di donare agli zingari un terreno di sua proprietà, in modo che non siano più costretti a sostare sul suolo pubblico e chiama ad Alba Constant Nieuwenhuys, un architetto olandese, già membro del gruppo CoBrA e amico di Asger Jorn, perchè progetti una “città degli zingari”.



Pinot dichiara quel pezzo di terra “Zona-laboratorio”, anzi “Zona libera dell'Antimondo” e chiede a Constant di progettare strutture abitative flessibili, disegnate secondo criteri ludici e antifunzionalisti (sono gli anni della polemica contro Le Corbusier), che possano essere smontate e rimontate altrove. Una città nomade, insomma.
Constant, amava gli zingari, che spesso sostavano in un terreno abbandonato nelle vicinanze del suo studio di Amsterdam, da loro aveva imparato a suonare “a loro modo” la chitarra. Ne ammirava la libertà e il nomadismo. Nel dicembre 1956 è ad Alba. Di quel soggiorno scrive:

“Gli zingari che si fermavano per qualche tempo nella piccola città piemontese di Alba avevano preso da molti anni l’abitudine di costruire il loro accampamento sotto la tettoia che ospitava una volta alla settimana il mercato del bestiame. Qui accendevano i loro fuochi, attaccavano le loro tende ai pilastri per proteggersi e per isolarsi, improvvisavano ripari con casse e tavole abbandonate dai commercianti. La necessità di ripulire la piazza del mercato dopo tutti i passaggi dei Gitani aveva portato il Comune a vietarne l’accesso. Si erano visti assegnare in compenso un pezzo di terreno erboso su una riva del Tanaro, il piccolo fiume che attraversa la città: un anfratto dei più miserabili. È là che sono andato a trovarli, in compagnia del pittore Pinot Gallizio, il proprietario di questo terreno scabro, fangoso, desolato che gli era stato affidato. Di quello spazio tra le roulotte, che avevano chiuso con tavole e bidoni di benzina, avevano fatto un recinto, una “città dei gitani”. Quel giorno ho concepito il progetto di un accampamento permanente per i gitani di Alba e questo progetto è all’origine della serie di maquettes di New Babylon. Di una New Babylon dove si costruisce sotto una tettoia, con l’aiuto di elementi mobili, una dimora comune; un’abitazione temporanea, rimodellata costantemente; un campo nomade alla scala planetaria”.



New Babylon non uscirà mai dallo stadio progettuale, ma i nomadi di Alba avranno finalmente un loro spazio che resisterà fino ai giorni nostri, dove poter vivere liberi secondo i loro costumi. Pinot Gallizio ne sarà orgoglioso, forse ancora più della sua riuscita artistica, e da allora si definirà “re degli zingari” e indosserà con fierezza i loro tradizionali orecchini a pendente come segno di identificazione con la loro cultura di cui, semplice farmacista di provincia, aveva saputo cogliere la grande dignità.

mercoledì 25 agosto 2010

Retourn: Piero Raina, un poeta




Artivaganti e gli Amici di Piero con la partecipazione di Espaci Occitan proporranno nel mese di settembre “RETOURN – Piero Raina, un poeta” un evento celebrativo dedicato alla figura di Piero Raina, poeta di Elva, scomparso l’8 agosto 2009, ma ancora vivo nel cuore dei valmairesi e di tutti coloro che lo hanno conosciuto.
L’ideazione di questa rassegna, che intende riconoscere l’impegno e l’amore che Piero Raina ha profuso verso la sua gente e la sua terra nel corso della vita, è nata dalla volontà della famiglia e degli amici del Poeta, trovando da subito un ampio consenso tra tutte le persone che lo hanno conosciuto ed apprezzato come uomo, amministratore e scrittore, nonché tra le istituzioni del territorio che hanno volentieri patrocinato l’iniziativa intendendo con questo onorare quella straordinaria figura di letterato e poeta, che ha significativamente arricchito il patrimonio di memorie e suggestioni dell’intera Valle Maira.
Il programma prevede una mostra fotografica allestita nelle vetrine dei negozi dell’isola pedonale di Dronero che rimarrà esposta per tutto il mese di settembre. Gli appuntamenti invece saranno quattro e si svolgeranno in parte a Dronero ed in parte ad Elva.
Il primo incontro dal titolo “I peu- peu din la court” è previsto per giovedì 2 settembre 2010 alle ore 18.00 a Dronero nel cortile del Convitto San Giuseppe in via Roma e proporrà un aperitivo musicale con le poesie di Piero e le musiche di Simonetta Baudino e Simone Lombardo.
Seguirà domenica 5 settembre 2010 alle ore 10.00 a Elva, presso la Biblioteca comunale, Cazei e Vilage, proiezione di fotografie di Luigi Massimo. A seguire, alle ore 12.00, presso l’ Ala Comunale, Lou retourn d’les fernisoles - omaggio a Piero Raina dei poeti contemporanei accompagnato dalle musiche di Simonetta Baudino e Simone Lombardo.
Sabato 18 settembre 2010 alle ore 16.00, nella Biblioteca Civica di Dronero, l’appuntamento è dedicato a Piero Raina l’escrivaire, incontro-dibattito intorno ai libri di Piero. Interverranno all’incontro Giovanni Agresti dell’Università di Teramo, Sergio Arneodo di Coumboscuro edizioni, Ezio Bernardi de La Guida, l’editor Elda Gottero, Ennio Pattoglio de Il Drago, Simone Demaria de Il Maira edizioni, Ugo Giletta di Artivaganti, San Firmino Film e Fusta edizioni, l’antropologo Piercarlo Grimaldi. L’introduzione sarà curata da Carlo Giordano de La Stampa.
Il programma si concluderà giovedì 30 settembre 2010 alle ore 21.00, presso la Chiesa dei Cappuccini di Dronero, con il concerto della corale La Reis, I reis chanten encaro. A curare le immagini, dedicate alla Valle Maira, saranno Giorgio Burzio e Bruno Rosano.
L’iniziativa, realizzata in collaborazione con i commercianti dell’isola pedonale di Dronero, l’Associazione Turistica Proloco di Dronero e la Proloco “La Deseno” di Elva, è patrocinata dal Comune di Dronero, dal Comune di Elva e dalla Comunità Montana Valli Grana e Maira.

Per informazioni: Espaci Occitan, Via Val Maira 19 a Dronero, tel. 0171.904075, segreteria@espacioccitan.
org, www.espaci-occitan.org

Laura Macchia a Pozzo Garitta di Albisola

sabato 21 agosto 2010

Dell'utopia situazionista o l'immaginazione al rogo



Ancora un testo sull'Internazionale Situazionista, tratto dal volume "Dell'utopia situazionista" di Pino Bertelli

Pino Bertelli

Dell'utopia situazionista o l'immaginazione al rogo


A Gilles Ivain, che non abbiamo mai conosciuto, se non attraverso la bellezza del suo pensiero ereticale

“Sono in un ambiente privilegiato per lo studio del gruppo e delle funzioni degli individui in gruppo. La Deriva (sul filo delle azioni, con i suoi gesti, la sua passeggiata, i suoi incontri) è esattamente per la totalità ciò che la pisicanalisi (quella buona) è per il linguaggio. Lasciatevi andare sul filo delle parole, dice l'analista. Egli ascolta, fino al momento in cui denuncia o modifica (si può dire détourne) un a parola, una espressione, una definizione. La Deriva è appunto una tecnica, quasi terapeutica. Ma come l'analisi Senza altre cose è quasi sempre controindicata, allo stesso modo la Deriva continua è un pericolo nella misura in cui l'individuo Si inoltra troppo in là (senza basai, ma…) senza protezione e rischia Di esplodere, di dissolversi, di dissociarsi e di disintegrarsi. Ed è così la ricaduta in ciò che si dice vita corrente, o meglio dire, «la vita pietrificata». Perciò io adesso denuncio la propaganda della Deriva continua del Formulario. Si continua, come il gioco di poker a Las Vegas, ma continua per un dato periodo di tempo, limitato alla domenica per alcuni, ad una settimana per un buon numero di soggetti; un mese è molto. Abbiamo toccato nel 1953-54 tre o quattro mesi di Deriva; è il limite estremo, il punto critico. È un miracolo se non siamo morti. Possediamo una cattiva salute di ferro”.

(Da una lettera di Gilles Ivain, spedita all’Internazionale Situazionista nel 1964, dall'ospedale psichiatrico. Gilles Ivain, pseudonimo del francese Ivan Chtcheglov, membro dell'IS, internato in manicomio nel 1959. Nel primo numero della rivista “Internazionale Situazionista”, pubblicò il testo. “Formulario per una urbanistica”).

I

Dalla rivolta dei cobra al “Joli Mai” '68. L'Internazionale Situazionista è stato un movimento anomalo, un vento culturale, politico, esistenziale… che sulle strade del mondo non ha seminato soltanto tempeste ma anche fraternità, solidarietà e amore… là dove regnava la stupidità, la mediocrità, la schiavitù… “Parla un po', così che possa vederti” (Socrate), diceva… possono parlare della miseria soltanto coloro che hanno avuto fame. La cultura, nella sua interezza, è una sequela di cadaveri in croce.
Tra i senza patria dei saperi, pochi si sono inventati le parole, il plagio e la disinvoltura o il calambour di tutti i linguaggi del comunicare… nessuno, o quasi, sfugge alla cittadinanza della propria mediocrità o intelligenza insorta.
Un cattivo maestro che abbiamo incontrato sulla nostra strada di cani perduti senza collare: “Più della metà di coloro che, nel corso degli anni, ho ben conosciuto aveva soggiornato, una volta o varie, nelle prigioni di diversi paesi; molti, certo, per ragioni politiche, la maggior parte tuttavia per reati o crimini di diritto comune. Ho quindi conosciuto soprattutto i ribelli e i poeti… solo alcuni crimini di un genere nuovo, di cui certamente non si era potuto udire nel passato, avrebbero potuto non essere indegni di me” (Guy Debord). Non si tratta di svaligiare banche e ri/distribuire il denaro rubato ai poveri… né di ammazzare qualcuno nel nome santo di una qualche rivoluzione… gente come noi che è stata allevata nella pubblica via non immagina altra rivolta che non sia la - prossima! … perché ci saranno sempre poeti capaci di passare dalla pagina al colpo di pugnale al cuore dell'ultimo tiranno. “Sparate sempre prima di strisciare” (Benjamin Péret, sui tetti in fiamme della Rivoluzione sociale di Spagna). L'abolizione dell'avidità passa sul cadavere dei despoti, sempre. Perché nessun uomo è un'isola.

II

Nella società dello spettacolo, la vita quotidiana è una tragedia che finisce in farsa. Il sistema dell'apparenza e del colpo in canna si è sostituito alla bellezza sapienziale dell'uomo autentico… che è l'aristocratico che sa bere il Martini con l'oliva senza il mignolo alzato e senza sporcarsi la cravatta o il maestro carbonaio che beve il vino rosso dal fiasco senza bagnare un'oncia di polvere da sparo utile per accendere il fuoco nella notte (girando in tondo…). Già nel '400 il vescovo Basilio di Cesare diceva: “Il ricco è un ladro o un erede di un ladro”. San Basilio considerava ricchi gli uomini che nella sua epoca vivevano nell'ozio e nell'arroganza… egli chiamava ladroni non chi assaliva e rubava… ma chi sfruttava e vessava l'altro. Pertanto non è possibile slegare la libertà personale dalla libertà sociale.



III

L'Internazionale Situazionista sorge il 28 luglio 1957 a Cosio d'Arroscia (Imperia). I disertori dell'ordine mercantile che ne gettano le fondamenta (tra un'alzata di vino e invettive iconoclaste sull'arte, la politica e gli scribi delle sante scritture) sono Giuseppe Pinot-Gallizio, Piero Simondo, Elena Verrone, Michele Bernstein, Guy Debord, Asger Jorn, Walter Olmo, Rulph Rumney, si dice. L'I.S. è stata la fucina di alcuni gruppi d'avanguardia (Cobra, Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista, l'Internazionale Lettrista, il Comitato Psicogeografico…) e i loro volantini, opuscoli, libri, film, espressioni artistiche, interventi sull'urbanistica… sono materiali che esprimono una filosofia della vita quotidiana “presa al volo”, dove la verità (politica, culturale, comunitaria) era rivoluzionaria perché nessuno l'adorava come verità unica. L'amore per il grande banditismo cementava le loro idee con le loro opere.

IV

La - critica radicale - dei Situazionisti si sottraeva alla logica artistica e progettuale della cultura mercantile… le abrasioni buttate contro l'insieme del sapere mondano, la dissoluzione dei valori correnti, la decostruzione del prestabilito… divenivano i grimaldelli della libera creatività individuale e ponti da at/traversare per andare a raggiungere quelle spiagge dell'utopia coperte dall'asfalto della post/modernità e dalle ghigliottine seducenti delle ideologie e dei simulacri.
Il “Rapporto sulla costruzione delle situazioni e sulla condizione dell'organizzazione e dell'azione della tendenza situazionista internazionale” di Guy Debord (1957), getta le basi teoriche dell'azione situazionista e i punti centrali sono il superamento dell'arte borghese, il sabotaggio dell'industria culturale e la rivoluzione comunicazionale delle classi (non solo) proletarie legate ai partiti, ai sindacati, ai dogmi di famiglia, lavoro e stato.
Sulla scia ereticale dell'Anarchismo di fine '800 o del Surrealismo degli anni '30 o del Lettrismo degli anni '50… i Situazionisti affrontavano la vita corrente mettendo insieme l'arte/espressione con la politica/esistenza. I modi di comportamento sociale erano anche interventi urbanistici, ecologici, poetici… la fotografia, il cinema, i fumetti, la pittura… tutto veniva détournato, violato, disgelato… per tornare a risplendere nei percorsi di altre realtà, scoprire nuovi territori - piste dei sogni - dove l'immaginazione andava a prendere il potere, non per possederlo ma per distruggerlo… metterlo al rogo. Le democrazie dello spettacolo devono la loro prosperità al genocidio.

V

I Situazionisti hanno preso i loro sogni per la realtà… non avevano paura di disvelare il mondo nuovo a morsi, perché lo portavano dentro i loro cuori… nel Maggio rosso, il loro slogan migliore è stato - “Presto! -, quello più efficace - “Con le budella dell'ultimo prete impiccheremo l'ultimo padrone!” -. L'evoluzione delle “classi pericolose” verranno dopo… mai più le giovani generazioni saranno belle così! Quella sbornia di libertà è d'amore tra le genti ci accompagnerà per tutta la vita. Nessuna speranza, nessuna paura… aveva inciso sul suo coltello il Caravaggio. Sapevache le stelle sono i diamanti dei poveri e soltanto i grandi poeti sono liberi.



VI

L'attività artistica e politica dell'Internazionale Situazionista va oltre le intenzionalità del “gruppo” stesso. Le idee, i lavori, le utopie… dei Situazionisti sono sparsi ovunque qualcuno voglia esprimere una critica radicale del presente… la pratica artistica e progettuale dei Situazionisti nasce dal rifiuto del mercantilizio, della logica capitalistica o borghese della fruizione dell'arte, della comunicazione, della creatività… come mitologie di un mondo edulcorato e accordato ai valori dominanti. Vi sono mattini commoventi ma difficili, quelli che annunciano le barricate della prossima rivoluzione… li facciamo nostri come un'eterna sbronza… in un mondo unificato non ci si può che esiliare o fare baldoria. “Sapete cosa c'è, adesso seppelliscono i cattolici nei cimiteri protestanti, quelli vivi, naturalmente” (da IL LUNGO GIORNO FINISCE, 1992, di Terence Davies). Per non dimenticare: nei padroni d'ogni risma, si celano anime di schiavi.

VII

Nel “Rapporto sulle situazioni…” Debord assembla le tracce eversive dell'I.S. e dissemina ovunque il cianuro della libertà nel concetto espresso bene dal nostro irmão di strada, fra' Marcelo Barros: “la libertà non si dà. Si conquista”. La Teologia d'ogni liberazione è tutta qui. Le invettive di Debord le ritroviamo nella critica della vita quotidiana di Henri Lefebvre, nella filosofia radicale di Jean-Paul Sartre, nella rivolta individuale di Albert Camus, nella scoperta del negativo della “scuola di Francoforte” (Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse, Max Horkheimer)… più ancora è la lezione di vita che divampa negli scritti di D.A.F. De Sade, Charles Fourier, Joseph Proudhon, Walter Benjamin e nel pensiero libertario d'ogni tempo.
La “rivolta situazionista” non è mai stata una rivoluzione culturale, politica, economica soltanto… l'insorgenza situazionista è stata una fusione tra arte e politica… l'esplosione di un flusso esperienziale e di aggregazione di “nuovi soggetti sociali”… la loro politica era “sporcarsi le mani” con gli operai che si sollevavano contro i loro oppressori e insieme ai giovani, ai “quasi adatti”, al popolo insorto… andavano a sognare quell'utopia possibile (dell'amore dell'uomo per gli altri uomini) che era già (non solo allora) nelle teste di molti. Si trattava di non fare prigionieri, perché poi bisognava dare loro non solo il pane ma anche la libertà e le rose. La pietà non è rivoluzionaria, diceva. Rivendicare se stessi, significa combattere per il diritto di far rispettare i più elementari diritti dell'uomo. Sotto ogni cielo.

VIII

A partire dalla devalorizzazione dell'arte, della politica, della fede… i Situazionisti disseminavano i loro veleni libertari contro il fascio dai saperi stabiliti. La decostruzione di ogni forma di comunicazione audiovisuale era l'inizio di “qualcosa” che stava morendo e di “altro” che nasceva dalle sue ceneri o dai suoi morti al limitare del bosco.
La “pittura industriale” di Pinot-Gallizio, la “guida psicogeografica di Parigi” o il “cinema détournato” di Debord, i quadri “fuori gioco” di Jorn, la “pratica del rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato” di Vaneigem, l' “urbanismo unitario” di Costant… anticiparono il grande scoppio e/o la grande festa del '68 e segnarono anche il passaggio dalle armi della critica alla critica delle armi con la dialettica musicale del sampietrino. Gianfranco Sanguinetti (con lo pseudonimo di Censor) scriveva “Rapporto veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia” e più tardi “Del terrorismo e dello stato. La teoria e la pratica del terrorismo per la prima volta divulgate”. La concezione poliziesca della storia era rappresentata come la forma più estrema di alienazione politica e ogni forma di terrorismo non era che il proseguimento della politica con altri mezzi.
Di contro, Pinot-Gallizio vendeva la sua pittura a metri… Debord invitava a vivere dentro una gioia prolungata e nei percorsi di un quotidiano ludico (la dérive) che smascherava la società dello spettacolo… Jorn modificava l'insignificante, il pseudoartistico, il kitsch della società di massa attraverso il grottesco… Vaneigem disgelava le “banalità di base” dell'ordinario sul piano inclinato della rivoluzione dell'intelligenza e nel détournement di tutti i linguaggi… Costant propose un'“urbanistica sociale” che prevedeva altri modi abitare, di lavorare, di comunicare dell'insieme sociale… al fondo della loro arte di sovversione non sospetta della società tutta, mostravano che ogni uomo che abbia il senso profondo dei piaceri e che viva secondo i suoi desideri, non può che lavorare (come una talpa rossa e nera) alla rovina di una simile epoca. Le rovine non ci fanno pura, perché noi erediteremo la terra, diceva (Buenaventura Durruti). Si tira un aforisma come si spara in bocca a un dittatore (sempre troppo tardi). La violenza non c'entra, c'entra la resa dei conti. È la libertà a riscattare la storia. Il ribelle senza la grazia è come Voltaire senza la penna d'oca o il boia di Londra senza la sugna per ungere il collo degli impiccati… il fascino del potere è un vizio, la rivolta dell'intelligenza è una passione senza freni che libera l'esistenza degli oppressi nell'utopia del quotidiano.



IX

Il grande botto del '68 esplose ai quattro venti della terra e fece tremare alle fondamenta l'impero… la decadenza generale, che era al servizio di vecchie e nuove servitù era smascherata… siccome siamo fatti della stoffa o del piombo di cui sono fatti i nostri sogni… le cadute del Palazzo erano auspicate e le “strategie del ragno” lavoravano in clandestinità nei sotterranei dei parlamenti… per accedere alla fine del tempo degli equivoci… si diceva… le giovani generazioni resero la vergogna più vergognosa e la denunciarono pubblicamente… la critica dell'ideologia divenne la premessa di ogni critica e come ogni volta che i popoli si sono assunti il rischio di cambiare lo stato delle cose, la memoria globale della storia è cambiata. Da qualche parte la ricchezza critica, radicale, libertaria dell'Internazionale Situazionista ha attecchito, ma non è ancora una foresta di torce quella che brucia il disordine domestico della creatività, senza amarlo mai.

X

La società dello spettacolo si fonda sulla menzogna… già nel '700 l'abate Augustin Barruel, studiava le congiure degli illuminati di Baviera e nelle loro carte segrete scopriva fini e trame: “Noi dobbiamo aprire tutte le sorgenti delle cognizioni, sollevare i talenti oppressi, innalzare gli uomini dei genio dalla polvere, in cui giacciono, impadronirci dell'educazione della gioventù, formare una lega indissolubile fra le migliori teste… Favorire le rivoluzioni, rovesciare tutto, scacciare la forza con la forza e la tirannia con la tirannia” … i miscredenti, gli atei, i ribelli a tutto… hanno la nostra simpatia, perché sono loro che nella storia hanno messo a nudo le menzogne e i castighi di coloro che si approfittavano della gente comune e dei pavidi… sono loro che hanno denunciato l'ineguaglianza sociale e chiesto di essere o tutti poveri o tutti ricchi… sono loro che ci hanno invitato a legge la vita con i nostri occhi e pensare con la propria testa… la proprietà privata delle idee è sempre stata un furto e la schiavitù dell'uomo la sua legittimazione. Si tratta di dare a Cesare quello che è di Cesare… ventitrè pugnalate e un secchio di sangue.
I Situazionisti hanno rubato, détournato, rovesciato i disegni degli specialisti dello spettacolo integrato, minato alla radice la democrazia spettacolare e decretato che ovunque regni lo spettacolo, sono erette anche le sue forche. La critica sociale della civiltà dell'apparenza è ora al vaglio di nuove cospirazioni e l'assassinio dei suoi miti non è più irrefutabile… i congiurati sono sempre più numerosi e una nuova generazione di uomini planetari si affaccia ai bordi dell'esistenza per mettere fine all'idiozia culturale e fare dell'imbecillità istituzionale un cumulo di rovine. Un mondo che non prevede nessuna E-utopia (il buon-posto), non vale niente.


(Da: Pino Bertelli, Dell'utopia situazionista, Massari Editore 2007, pp. 129-137)


Pino Bertelli è una delle figure centrali del neosituazionismo italiano. Attivo da anni nella critica cinematografica indipendente, è sicuramente il più originale dei fotografi di strada operanti in Italia. Tra le sue molte pubblicazioni ricordiamo: Cinema dell'eresia, Dell'utopia situazionista, Contro la fotografia

venerdì 20 agosto 2010

Messe nere sulla Riviera



30 luglio 1907: le pagine della cronaca locale savonese annunciano uno scandalo dalle tinte fosche, destinato a divenire drammaticamente noto in tutta Italia e all’estero. "Il cittadino", un quotidiano locale, parla della scoperta di “turpitudini” nel Collegio Salesiano di Varazze, dove frati e monache risulterebbero coinvolti in atti osceni e di corruzione sui giovani studenti minorenni ospitati nel convitto, sede dell’ unica scuola cittadina.


Messe nere sulla Riviera. Gian Pietro Lucini e lo scandalo Besson, di Pier Luigi Ferro è un saggio di estrema attualità, purtroppo, perché racconta le oscure vicende legate allo scandalo delle messe nere e dei preti pedofili che più di cento anni fa avevano portato alla ribalta delle cronache nazionali la piccola cittadina di Varazze. Il libro nasce per caso dagli studi sull’archivio di Gian Pietro Lucini, poeta italiano, che il critico letterario Pier Luigi Ferro sta portando avanti da anni e che gli hanno permesso di realizzare un’analisi complessa della situazione politica e sociale dell’Italia di primo Novecento dove, tra i tanti temi, ampio spazio è dedicato alla scarsa scolarizzazione.
Nel luglio del 1907 sui quotidiani italiani divampa lo scandalo degli abusi sulle piccole ospiti dell’Asilo della Consolata di Milano, di cui furono accusati due sacerdoti. Nello stesso momento, a Varazze il Collegio dei Salesiani è investo dalle clamorose rivelazioni del diario di Alessandro Besson, uno studente quattordicenne che descrive messe nere e riti orgiastici tra monache, preti e giovani convittori.
In due giorni il caso Besson passa dalle gazzette locali ai quotidiani nazionali e fa scoppiare in tutto il Regno d’Italia manifestazioni di piazza, disordini, violenti scontri che a La Spezia provocano l’incendio di alcune chiese, un morto e un centinaio di arresti. E’ crisi fra il governo Giolitti e la Santa Sede, la Massoneria viene accusata di aver architettato segretamente lo scandalo.
Il fronte democratico dei blocchi popolari cavalca lo sdegno collettivo per affermare la necessità di una scuola pubblica e laica, mentre quello cattolico si compatta e trova sostegno tra i moderati interessati a contenere l’avanzata socialista. Attraverso questa vicenda, scatenata dall’inquietante diario Besson, ritrovato e qui reso pubblico per la prima volta, emerge un quadro avvincente e torbido dell’Italia giolittiana.
L’autore ci racconta quindi una storia che vede coinvolti in primo piano il poeta Gian Pietro Lucini, figura chiave della cultura letteraria italiana tra Otto e Novecento, ma anche famosi psichiatri e criminologi come Cesare Lombroso e Enrico Morselli, una storia ricostruita e raccontata in questo saggio con minuzia di particolari, attraverso epistolari, documenti d’archivio e la vivace faziosa pubblicistica dell’epoca.

Pier Luigi Ferro ha esordito come critico letterario sulle pagine de “La Rassegna della Letteratura italiana” diretta da Walter Binni e su “Esperienze Letterarie” di Mario Santoro. Dal 1994 collabora a “Il Ponte”, dove sono apparsi suoi scritti sulla poesia, sulla narrativa, sul tetro italiano contemporaneo, in parte raccolti in Attestature.


Pier Luigi Ferro
Messe nere sulla Riviera. Gian Pietro Lucini e lo scandalo Besson
UTET Libreria 2010
€ 21



Una vignetta di Galantara dalla rivista l'Asino del 1904


Mario Baudino

1907, guerra civile per i preti pedofili
Uno scandalo a Varazze infiamma d'anticlericalismo l'Italia giolittiana



Ci furono moti di piazza, assalti alle chiese, portoni date alle fiamme, altari saccheggiati, l'esercito per le strade a Milano alla Liguria, e persino un morto, a la Spezia. Nell'Italia giolittiana d'inizio Novecento uno scandalo di preti pedofili scoppiato a Varazze e dilagato per tutto il Nord Ovest evocò spettri di guerra civile. Scatenò addirittura la corsa al porto d'armi da parte di sacerdoti che non si sentivano troppo sicuri, e uno di loro, a Savona, sparò per disperdere un gruppo di giovanotti che sembravano volerlo schernire. I giornali cattolici usarono toni violentissimi contro il «complotto massonico» e le presunte vittime, quelli liberali non furono da meno quanto a fair play. Tutti pubblicarono dettagli quanto meno scabrosi, approfittando della loquacità degli inquirenti e delle parti in causa.
Furono i torridi mesi della orge in Riviera, anzi «orgie» come scrivevano preferibilmente allora, prima che il processo più importante venisse cautamente insabbiato e la grande indignazione collettiva scivolasse verso l'oblio. Di quanto avvenne nell'estate del 1907 non si è serbata memoria, anche perché i documenti chiave sono spariti. Ora uno studioso, Pier Luigi Ferro, ha ritrovato il memoriale che fu al centro dello scandalo, scritto da Alessandro Besson, un convittore dei salesiani di Varazze, e ricostruisce la vicenda in Messe nere sulla Riviera (Utet), con prefazione in forma di intervista a Edoardo Sanguineti, il critico e poeta scomparso di recente. Al centro, il diario che accusa: è una sorta di racconto gotico, morboso e fantastico, dove la verità è coperta e resa obiettivamente incredibile dalla furia visionaria. L'aspetto più romanzesco dell'intera vicenda è che questo scritto è tornato alla luce tra le carte di un poeta molto caro a Sanguineti, Gian Pietro Lucini, che all'epoca frequentava Varazze e voleva trarre un libro dallo scandalo.
Anche lui non ne fece poi nulla, come se gravasse una sorta di maledizione, o una coazione a lasciar perdere. Lucini era un animo critico e ribelle (Revolverate si intitola significativamente la sua raccolta di versi più nota) e ne voleva ricavare un fremente atto d'accusa, forse alla Zola. La denuncia del ragazzo Besson (o meglio della madre) era del resto molto grave, e toccava un tema che era insieme tabù e attualissimo. Perché i fatti di Varazze non erano un fenomeno isolato. Lanciò la notizia il quotidiano savonese Il Cittadino, edizione del 30 luglio 1907. Strillava il titolo: La scoperta di turpitudini nel Collegio Salesiano di Varazze, e il catenaccio completava: Frati e monache compromessi. Il giorno prima un nutrito gruppo di carabinieri, col «sottoprefetto» Domenico Silva, erano infatti piombati nel collegio, «a seguito d'una denuncia anonima», avevano interrogato tutti, sottoposto alcuni adolescenti a visita medica e arrestati sei «reverendi, che negarono naturalmente ogni cosa». Il giornale sembrava specificava gli addebiti: «atti di corruzione su allievi minorenni» commessi «sulla spiaggia del mare, nella camerate, ovunque», ma anche «fatti osceni» che «si consumavano fra i reverendi istitutori colla partecipazione delle reverende suore di un convento vicino», messe nere «con scene conseguenti, degne del più turpe lupanare».
La scintilla divenne subito un incendio: non solo volò lontano, fino al New York Times, ma deflagrò in Liguria. Nella socialista Savona un migliaio di persone scesero in piazza minacciose, dirigendosi verso il locale oratorio salesiano. All'inizio di agosto a La Spezia, dove socialisti e anarchici erano ovviamente ben radicati, la folla assalì una Chiesa, venne respinta, tornò il giorno dopo e la saccheggiò. Venne incendiato un oratorio dei cappuccini, mentre a Genova sfilavano 25 mila persone. E ancora a La Spezia, alla fine, un carabiniere perse la testa e sparò sui manifestanti che, dopo aver liberato a sassate alcuni compagni arrestati, assediavano una chiesa salesiana; un giovane operaio fu colpito a morte. La situazione pareva ingovernabile, mentre i cattolici reagivano con altrettanta energia. A Varazze, considerata città «clericale», mille donne sfilarono in segno di solidarietà con i preti accusati e contro madre e figlio Besson. Un giornale cattolico, scoperto che il ragazzo era in realtà stato adottato, si chiese a caratteri cubitali come si potesse dar credito «a un bastardo».
I medici avevano diagnosticato lesioni inequivocabili su alcuni convittori, ma nel corso delle indagini i genitori, per i più svariati motivi, cominciarono a ritirare le querele. Il codice Zanardelli prevedeva che per i reati sessuali si potesse procedere solo su querela di parte. L'indignazione nasceva dal fatto che scandali simili erano già emersi: ora sembravano tutti confluire in un solo affresco. Un anno prima ad Alassio, ancora in un convitto salesiano, un sacerdote era stato accusato dai ragazzi perché «si dilettava di produrre godimento manuale», ma venne subito allontanato. A Milano, dove una suora torinese - in dissidio col vescovo sabaudo - aveva trasferito la sua comunità di assistenza, l'Asilo della Consolata, si erano scoperte ogni genere di violenze e maltrattamenti sulle bambine lì accolte. Il terreno era pronto, le «orgie» della Riviera scatenarono gli animi: l'intero sistema educativo religioso sembrava ormai in discussione.
Alessandro Besson scriveva nel suo memoriale che preti e suore, a Varazze, non solo si davano al sesso ma celebravano messe nere punzecchiando simulacri del Re, di Cavour e di Garibaldi; narrava di ragazze svestite in presenza dei loro compagni, per premiarli dei buoni risultati scolastici; e dell'annuncio piuttosto esilarante che il parroco di Altare, «se staremo buoni», «si spoglierà nudo». Nei convitti le fantasie - e non solo quelle - dovevano andare a mille, aiutate dalla frustrazione sessuale e certo da romanzetti che evidentemente circolavano alla grande. Il memoriale era buffo, pornografico e grottesco; poco credibile, e infatti non venne creduto. Nel giro di pochi mesi tutti furono prosciolti, salvo due sacerdoti troppo compromessi che però erano spariti dalla circolazione. Il sottoprefetto Silva venne trasferito, Besson e la madre, accusati di calunnia - ma prosciolti anche loro - fuggirono all'estero. E il poeta Lucini si ritrovò messo fuori gioco dai velocissimi tempi italici. Il suo lavoro era ancora lontano dall'essere concluso, e già lo scandalo che aveva fatto tremare il Paese non sembrava più interessare nessuno.

(Da: La Stampa, 11/08/2010)

giovedì 19 agosto 2010

I volti dell'Africa. Progetto internazionale di Arte Postale e Digitale





SACS - SPAZIO ARTE CONTEMPORANEA SPERIMENTALE

I volti dell’Africa
Progetto internazionale di Arte Postale e Digitale

Inaugurazione 28 agosto 2010 ore 17.30

28 agosto/5 settembre 2010
Villa Maria, piazza della Costituzione - Quiliano (Savona)

Orario:
28 agosto/1 settembre 17.30-19.30
2/5 settembre 17.30-22.00

lunedì 16 agosto 2010

Ricordando Oscar Marchisio





Un anno fa mancava improvvisamente Oscar Marchisio, lo ricordiamo oggi riproponendo uno dei suoi ultimi scritti.

Oscar era un compagno e un amico.
Era spuntato a Savona nell'autunno del '69 con Ornella, la compagna di tutta la sua vita, dopo essere stato costretto a lasciare Sanremo dove non gli perdonavano di aver organizzato la contestazione del Festival della canzone e il lavoro di organizzazione degli immigrati calabresi della Pigna, trattati allora come gli extracomunitari di oggi: lavori in nero, alloggi fatiscenti, emarginazione sociale, pregiudizi di ogni genere. Oscar e Ornella avevano pagato con la bocciatura all'esame di maturità del 1969 la loro critica di una scuola classista e selettiva. Un'azione culminata con la contestazione del "nuovo" esame di maturità e conclusasi con la bocciatura di tutti coloro che in qualche modo si erano troppo esposti. Bocciatura di massa, apertamente politica. 14 su 50 candidati del Liceo Classico "Cassini" respinti per chiarire che la Sanremo benpensante e bacchettona non gradiva contestazioni, tantomeno nel luogo dove da sempre si formavano i figli dei notabili. E così Oscar, cuore e mente del movimento studentesco sanremese, aveva dovuto lasciare la città ed era venuto a studiare al Liceo Classico di Savona, mantenendosi facendo il guardiano notturno in un cantiere edile e continuando a far politica come poteva in quelle condizioni non certo facili, conservando però sempre quelle che per tutta la vita saranno le caratteristiche del suo impegno: la straordinaria lucidità analitica (era sempre un libro avanti nelle letture), la grande umanità che si traduceva in una insolita per l'ambiente (allora era maoista) disponibilità al confronto, e soprattutto una enorme trascinante allegria. Allegra era anche la sua voce l'ultima volta che ci siamo sentiti per programmare un'iniziativa a Savona per l'autunno. Poi il 6 agosto all'improvviso è partito per l'ultimo dei suoi viaggi.


Oscar Marchisio

Dalla crisi si esce “smontando” la logica del capitale
.

"La forma della valorizzazione richiede sia nella fase di produzione, sia in quella del consumo sia in quella nuova, geneticamente nuova dello smontaggio, delle modalità costitutive che contraddicono alcune delle attuali morfologie della proprietà privata.
Da questa discrasia nasce una fase di instabilità che sta determinando le rotture e collisioni delle diverse “zolle capitalistiche”.
Tali eventi possono provocare a seconda delle tensioni in atto “terremoti sociali”, “orogenesi economiche”, “faglie tecnologiche”, ovvero la dinamica delle varie azioni e reazioni determina una trasformazione, una convergenza o una divergenza rispetto alle varie piattaforme economico-sociali.
Il ciclo produzione-consumo-smontaggio non più recepito completamente dalla forma della proprietà privata potrà eruttare con differenti modalità e configurazioni a seconda della geografia dei suoi margini.
Nel caso della produzione è evidente che il telelavoro modifica il concetto spaziale d’impresa, il recinto della proprietà privata manifatturiera, con la necessità di ridefinire lo spazio pubblico/privato, il privato/privato, mette insomma in discussione una delle forme sociali base del processo di valorizzazione: la fabbrica.
Nel caso del consumo abbiamo poi la forma più evidente di crisi, infatti proprio il simbolo stesso della forma del consumo capitalistico è in crisi: l’auto.
La proprietà privata dell’auto nega se stessa quando impedisce le funzioni chiave per cui è stata realizzata ovvero la libertà e l’autonomia.
È nella forma del consumo la crisi più profonda, in quanto si è esaurita una delle modalità più tradizionali di proprietà e cioè quella della “scatola di lamiera” chiamata auto.
La proprietà privata dell’auto nega la possibilità di consumo per il singolo proprietario, ovvero la quantità dei proprietari annulla la qualità delle sue prerogative.
Ah il buon vecchio Marx, e soprattutto il rivoluzionario, come sempre, capitalismo.
L’auto è l’emblema della crisi del rapporto fra proprietà e sviluppo capitalistico anche per quanto attiene la nuova fase della valorizzazione, una fase geneticamente nuova dall’angolo manifatturiero, intesa come ciclo dello smontaggio.
Qui si apre un capitolo strategico che attiene a quella che potremmo chiamare la s-valorizzazione o ri-valorizzazione del prodotto/merce attraverso il suo smontaggio.
L’analisi marxiana aveva messo a fuoco principalmente il processo costitutivo non la de-costruzione, mentre il capitalismo dovrà imboccare decisamente la determinazione industriale dello smontaggio.
La “memoria dei materiali” diventa il luogo dove si incrociano due grandi cicli dello sviluppo delle forze produttive, da un lato la retificazione e dall’altro l’industrializzazione dello smontaggio.
Oggi siamo giunti alla soglia di questo incrocio, come attraversarlo dipende da noi. Dipende dai soggetti sociali se trasformare questo incrocio in un tragitto di liberazione o una via al vincolo perenne.
Rete e smontaggio sono le premesse tecno-produttive per una radicale messa in crisi dell’attuale assetto proprietario: si tratta di interpretare chi trasformerà i vincoli in opportunità.
La lettura di queste aree di crisi diventa quindi il contesto entro cui cogliere il costituirsi di identità nuove, capaci di coniugare la globalità nell’azione locale.
Ripassiamo i luoghi dove si percepisce la tensione fra i margini e da questa lettura intravediamo le forme possibili dello sviluppo capitalista e del suo possibile pro-antagonista.
Infatti la capacità di intervento sulle reti e sulle montagne di cose che ci circondano è sempre più bassa e sempre più ampio, drammaticamente vasto il gap fra decisioni e tecno-struttura.
Il pericolo non viene tanto dal gap smisurato, quanto dall’inesistente rappresentazione del problema. Non c’è nessuna rivendicazione, nessun movimento, nessuna domanda di democrazia delle cose. Tutto è ancora affidato ad una visione funzionale ed astratta della scienza e della sua applicazione, basata sulla separazione degli ambiti, agli scienziati la natura, ai politici la società.
Ci avvolgono reti, cablature e sistemi wireless, ci sovrastano reti di trasporto e cicli del petrolio e della chimica, ci allagano la vita milioni di auto e di televisori, galleggia su un mare di rifiuti dalla sconfinata profondità la nostra isola del consumo.
È ora di aprire la democrazia alle cose, è ora di aprire il lavoro di riprogettazione collettiva delle forme oggettuali, delle interfaccia mediatiche e delle tipologie veicolari. Quanto interviene il ceto politico sulla memoria dei materiali? Poco o meglio nulla, mentre petrolio e plastica deformano pesantemente la nostra vita quotidiana. Quanto intervengono i cittadini sull’emissioni nocive e sui veleni nella nostra atmosfera? Poco o nulla, in ogni caso solo dopo l’emissione, nascono sforzi volti a contenere e a tamponare, non a progettare.
C’è un gap radicale, una discrasia sottile e profondissima, una frattura totale fra sistema tecno-scientifico e decisioni. Mancano le parole per descrivere tale profonda jattura fra gli effetti continui e pervadenti del sapere “morto” e l’atomizzazione del “sapere vivo”.
Basta per tutti gli altri problemi il contrasto esponenziale fra le risorse immense alimentate ogni anno per produrre 38 o 40 milioni di automobili e la vana e superficiale azione dei sindaci e degli amministratori rivolta ad arginare ex post questa valanga di lamiera e stupidità con qualche inconcludente brandello di corsie preferenziali.
È evidente che di deve spostare la democrazia sulla progettazione della mobilità, piuttosto che confinare la democrazia a discutere di effetti alla cui cause non è mai invitata a partecipare.
Ma oggi si apre un una crisi per molti prodotti il cui valore d’uso è negato dal loro stesso volume quantitativo. La crescita quantitativa si trasforma in cambiamento qualitativo delle funzionalità, per cui il sistema stesso è obbligato a ripensarsi. Nel 1961 c’erano in Italia 6 milioni di auto, oggi ne girano 32 milioni per le strade italiane,crescita dell’ordine di cinque volte. Non potranno essere 150 milioni nel 2020, per cui è evidente che si deve trasformare l’apparato produttivo che si è modellato su tale crescita. Sarebbe folle accettare tale dimensione tra produzione e crescita, ma questa relazione va ripensata e rimodellata su altri prodotti e servizi, trascinati dalle nuove funzioni per la mobilità.
Proprio la stasi dell'auto è il simbolo eloquente di questa dilemma fra bisogni e produzione ,infatti, per la prima volta, la proprietà privata non risponde allo sviluppo.
In tale vuoto naviga la macchina politica, sospesa fra vincoli non decisi e problemi da affrontare. O meglio scivola sempre sugli effetti enormi di processi non decisi, ma subiti.
È fra questi processi ne è apparso uno finalmente contraddittorio con il suo stesso fine e cioè lo sviluppo mondiale delle reti.
Si attrezza con la ‘retificazione’ del pianeta la prima grande opportunità di navigare non fra le reti ma fra vincoli tecnologici e democrazia. Si può finalmente spostare il tema del potere dal Palazzo d’Inverno all’Inverno.
Con l’avvento della seconda pelle digitale attorno al globo si manifesta per la prima volta la forma dell’intelligenza collettiva sotto le specie fisico-tecniche, per cui il ciclo dalla produzione al consumo sino al riciclaggio può essere veicolato attraverso questo “cyber general intellect”.
Si dipana lo svolgersi della forma tecnica dell’intelligenza collettiva, per la prima volta nella storia dell’umanità, attraverso una rete che esprimendo direttamente i rapporti fra gli uomini pone le basi per l’esplosione del feticcio della merce.
L’attuale dispositivo della proprietà privata emerge sicuramente come un vincolo per il completo sviluppo delle forze produttive rappresentate dalle reti, infatti l’immane sforzo volto alla difesa del copyright del software è la prova palpabile della sua debolezza. Altre sono le forme dello sviluppo, altra è la rappresentazione della democrazia che l'attuale dilatazione delle reti rende possibile e proponibile.
Compito del soggetto sociale è trasformare questo spazio opaco, questo luogo paludoso derivante dalla squartata immagine del mondo in un civile percorso per aprire la porta alla democrazia attraverso le cose, per far emergere la comunità implosa nella attuale groviglio tecnologico.
I percorsi, quindi, delle forme rivoluzionarie non saranno giacobine e da ghigliottina, ma fluiranno come marea attraverso i pori della rete spalancando attraverso la noosfera i dispositivi di olografia sociale, atti alla democrazia diretta.
Infatti le figure della valorizzazione, sia nella fase di produzione, sia in quella nuova, geneticamente nuova dello smontaggio, reclamano delle modalità costitutive che contraddicono alcune delle attuali morfologie della proprietà privata.
Da questa discrasia nasce una fase di instabilità che sta determinando le rotture e collisioni delle diverse “zolle capitalistiche”.
Tali eventi possono provocare a seconda delle tensioni in atto “terremoti sociali”, “orogenesi economiche”, “faglie tecnologiche”, ovvero la dinamica delle varie azioni e reazioni determina una trasformazione, una convergenza o una divergenza rispetto alle varie piattaforme economico-sociali.
“D’altro canto, il socialismo stesso sarà importante semplicemente perchè condurra all’individualismo”1, così Oscar Wilde sottolinea l’obiettivo centrale del socialismo come realizzazione dell’individualità rispetto ai vincoli della proprietà privata.
Vorremmo dire che più che bloccare lo sviluppo del socialismo l’attuale contesto della proprietà privata sta diventando un limite per il pieno sviluppo del capitalismo ovvero il processo di valorizzazione trova le barriere proprio nella forma in cui si esprime il dispositivo di comando insito nella proprietà privata.
Ci troviamo nella situazione che lo spazio “politico” del castello feudale esprimeva rispetto alla formazione delle reti del sapere e del commercio dei liberi comuni.
Infatti la diatriba Mercato/Stato in cui si esprime il dibattito politico rispetto anche al tema delle reti esclude completamente la novità della situazione, cioè lo sviluppo autonomo della socialità.
Sia destra che sinistra usano le categorie del “castello” per acchiappare una realtà che ne sta fuori.
Qui sta l’arcano della completa obsolescenza di numerose “maschere” politiche attuali, cioè l’insorgenza della socialità come luogo in cui i valori d’uso possono incontrarsi fra attori sociali invece che essere scambiati.
Vi sono le premesse attraverso la rettificazione globale (wireless o no, poco importa) per cui il rapporto relativo all’uso e soprattutto allo smontaggio dei prodotti venga regolato attraverso un “colloquio” fra produttori. O meglio spingendo al massimo le possibilità di “produttività collettiva” determinate dalle rete si imballa l’attuale motore politico e si aprono le possibili forme di “autovalorizzazione” del lavoro sempre create e nascoste dal processo capitalistico.
La forma esplicita quindi di una compiuta democrazia richiesta dall’attuale potenzialità delle forze produttive è quella dell’ologramma, cioè di un dispositivo “politico” dove da ogni punto del sistema si possa vedere ed interagire con tutti gli altri.
Questo è il livello da progettare per rispondere all’attuale innovazione rivoluzionaria del processo capitalistico, mentre il ceto politico, agente conservatore parla di presidenzialismo più o meno “italico” come nuova formula di guida fra globalizzazione e reti.
Si apre una fase costituente da parte dei soggetti sociali che pone la possibile traduzione della rete da tecno-oligarchia in tecno-democrazia, da potere mediatico in “Cyber-soviet”."

sabato 14 agosto 2010

Unit Five ad Altare



MUSEO DELL'ARTE VETRARIA ALTARESE

SABATO 14 AGOSTO 2010, ore 21.00
Villa Rosa - Altare

Concerto Jazz della band "Unit Five"




Unit Five è la band del contrabbassista e compositore genovese Massimiliano Rolff. Attivi dal 2005, come band di riferimento della scena ligure, è stata protagonista di numerosi concerti nei più rinomati clubs e festival della penisola, con anche importanti apparizioni in festival europei. Nel 2006 Rolff ha pubblicato il suo primo album “Unit Five” con l'editore “Music Center” ed è stato premiato come MIGLIOR ALBUM DI JAZZ LIGURE 2006, con il premio JazzLightHouse, e con decine di recensioni entusiastiche sulla stampa specializzata europea e americana.
Il quintetto è in procinto di pubblicare un nuovo lavoro discografico e presenterà in questo concerto molte delle nuove composizioni, sempre contraddistinte da una importante ricerca nel linguaggio hard-bop in cui temi, specials e shout chorus si alternano agli interventi dei solisti supportati da una sezione ritmica con swing "metronomico". La vasta ed eclettica esperienza di palco dei cinque musicisti, da quest'anno anche impreziosita dalla presenza del trombonista Luca Begonia offre alle composizioni originali, così come ad alcuni classici del jazz una chiave di lettura assolutamente "vera" e piacevolmente aderente al linguaggio più tipico del jazz, senza tralasciare momenti di assoluta modernità soprattutto nell’ambito armonico.

mercoledì 11 agosto 2010

Da leggere: Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava di Marino Magliani





E' da poco disponibile in libreria "Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava" l'ultimo romanzo di Marino Magliani ed anche la prima pubblicazione della appena nata casa editrice Senzapatria. Un libro, forse più racconto lungo che romanzo, dal taglio fortemente autobiografico e di forte impatto emotivo grazie anche ad una scrittura asciutta ma di grande lirismo. Presentiamo la bella recensione di Antonio Celano apparsa su Il Quotidiano della Calabria e cogliamo l'occasione per ringraziare ancora una volta l'amico Marino per il sostegno prezioso da sempre offerto al nostro piccolo blog.


Antonio Celano

Della morte e della rinascita


Ho conosciuto Marino Magliani, autore del libro Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava (Senzapatria, 2010), al Salone internazionale del libro. Un uomo dallo sguardo mansueto, il sorriso lontano di una vecchia fotografia, con cui ho scoperto di avere parecchi amici in comune. Magliani, ligure classe 1960, abita oggi in Olanda, sradicato in Olanda: «In quel mondo totalmente altro Marino non può attecchire in radice, e per questo fiorisce mondi» e scrive, aggiunge Rovelli. Mentre quando torna in Liguria «vive, ma non scrive» pur solo là sentendosi pienamente scrittore. E Colonia alpina è un racconto lungo denso, scritto con una liricità sempre molto ben controllata, alla maniera antica, come direbbe il suo amico Vincenzo Pardini.
La storia nasce da uno spunto semplice. Davanti alle dune della spiaggia sempre mutevole di un paese nordeuropeo uno scrittore ricorda la sua infanzia in una stretta vallata della Liguria. Ricorda un padre già vecchio e lontano per lavoro, ricorda la madre dedita ai lavori della terra e alla raccolta delle olive. Ma soprattutto rivive (è altro il ricordare?) la sua infanzia divisa attorno ai due centri della vallata, la propria casa (sotto tutte le altre case, gravata da tutto il loro peso) e la chiesa di San Giovanni del Groppo (di cui diviene chierichetto), legate da un paese «piantato al selvatico, come si intende da noi quando il sole se ne va presto».


E buio è la parola che più ricorre nell’intera narrazione, un’oscurità che non è quella della notte, ma quella dei corridoi, dei portici, delle navate «che assomigliava a quella delle chiese, al buio che si forma distante attorno ai candelabri e ai lampadari, il buio che esiste soltanto perché da qualche altra parte esiste una concentrazione di luce». Un buio e un silenzio (anche questo mai perfetto, abitato da fruscii e piccoli rumori) che hanno un qualcosa di non esattamente definito, di non realizzato, di sconfitto. Lo stesso buio delle stalle, «in un tepore di code, gesti inutili e perdenti dall’eternità, con cui le bestie tentavano di togliersi di dosso le mosche». Il che coglie pure una pendolarità dello sguardo che all’autore consente di saper immedesimarsi e guardare da punti di vista contrari, sorprendenti e stranianti: «La notte nel letto guardavo la fessura di luce che formava la persiana. Il mondo di fuori attraverso la mia stalla». Una vallata chiusa, una condizione antiedenica che tuttavia, insieme agli uomini, alle mosche, alle lumache, alle mulattiere e agli olivi, alla paura e al destino, sono comunque misticamente tutta la vita possibile del luogo. Un posto che si può rifiutare fuggendo, ma sempre con la coscienza che lo si farà mettendo a repentaglio tutto, la vita stessa.

Anche così, agisce nel protagonista (che poi è Marino Magliani) un malessere che si concretizza in una vertigine che è solo la coscienza della sua inquietudine, una premonizione del suo futuro: «cominciai a chiedermi cosa avrebbe mai combinato nella vita uno come me, figlio di olivicoltori, se non riusciva a salire sugli alberi come faceva il popolo degli ulivi». Il piccolo Magliani sogna così luoghi, amici e attività che siano una possibilità nuova, un’illusione di diversa condizione di vita. E opera uno di quegli «strappi», di quelle partenze improvvise e rischiose così frequenti nel libro e nella sua scrittura.

Convince i genitori a trasferirlo per la continuazione delle elementari in un collegio a Nava e poi in altri a Mondovì e Velletri. Un mondo che in realtà scopre anaffettivo e opprimente, un limbo che si rivela una nuova sconfitta (anche fuggire alla fine è una sconfitta) e che resta sospeso tra un’acuta nostalgia del ritorno e i tentativi di nuovi esili volontari. Un tema ricorrente in Magliani, già trattato in altre prove, ad esempio in Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo, scritto a due mani con il toscano Vincenzo Pardini (Transeuropa, 2010, libro che ha or ora vinto l’importante premio Terre di Mezzo che si tiene a Mortara, Pavia). Ma se là i protagonisti erano due gemelli eterozigoti, qui i due personaggi sembrano usciti da una gestazione dagli effetti teratologici e surreali. E tutto Colonia Alpina è in realtà un racconto che tiene avvinta in unità una lacerante dualità. Come già detto due i centri del paese, ma poi anche due le chiese, persino il numero 66 che la madre ricama sul grembiule del bimbo che parte per la colonia (un gemellare 6 + 6, che è anche un maledetto doppio 9 rovesciato, pur senza alcuna implicazione luciferina).

Davanti alle dune del mare, l’uomo ricorda tutto questo. La memoria pare forte e vivida. In realtà sta tentando da tempo di forzare i «lucchetti arrugginiti» che resistono agli innumeri tentativi di ricordare compulsivamente i luoghi dell’infanzia, che appare più volte rimemorata e riattraversata. Soprattutto un lapsus tormenta Magliani, un dettaglio per l’anno scolastico 1970-71, in quinta elementare: scopre, contrariamente al precedente biennio, di non ricordare dove ha dormito tutte quelle notti. Decide così di partire, scavato dal tarlo, un giorno di ottobre del 2009, dall’aeroporto di Schiphol.

Il ritorno sulle tracce della memoria è difficile. Già da tempo, infatti, la vallata gli era apparsa «estranea, chiassosa. Bestie nelle stalle non ne vivevano più, neanche le stalle s’erano conservate, al loro posto i muratori avevano costruito alloggi per i turisti». E il lapsus della memoria scandalizza l’archivista della colonia, che indaga intanto su quei suoi anni trascorsi in colonia: scandalizza il fatto che il protagonista possa essere tornato in quel luogo (intanto anche quello sostituito da un centro sportivo) per un dettaglio così poco fondamentale, ma che invece per l’uomo è tutto, la possibilità stessa di esorcizzare una paura che ha inizio proprio quando da Velletri i frati, per una sorta di angosciosa incompatibilità con l’ambiente, lo riesiliano a casa, in un mondo che ormai gli sbarra il passo per il ritorno.

Insomma, il tentativo di fare luce esalta ancor di più il buio della penombra, la mancanza di un preciso ricordo di quelle notti finisce per risvegliare la dolorosa memoria del servizio militare che lo ha allontanato nuovamente da casa e dal padre morente, e che scatena in lui una depressiva insubordinazione che gli costa il carcere, dove viene imbottito di psicofarmaci che gli dilavano ogni reminiscenza. E l’infruttuosità della ricerca ostina l’uomo che decide di non ripartire per l’Olanda iniziando a confondere le piste dell’andare e del tornare lungo un confine dilatato e allo stesso tempo soffocante che ha le sembianze di un bosco di notte.

L’uomo fugge, è braccato dai carabinieri mandati dalla moglie a cercarlo o forse dalla forestale che però potrebbe essere anche una squadra di cacciatori che inseguono un cinghiale. Si inizia pure a dubitare se l’uomo sia solo: il protagonista incontra un bambino, sul grembiule ricamato un sinistro numero 90 (la paura, certo, ma pure i suoi 9 + 0 espressione del nulla della morte), o forse è solo un ricordo, o il delirio. Più avanti l’inseguito insegue un altro fuggiasco, viene a sapere dall’archivista che è morto, che si è gettato da una finestra alla fine della sua depressione in una caserma militare nel 1979. E dunque, ci veniamo a trovare di fronte all’assurdo.

Come scrive Giulio Mozzi nella sua deliziosa introduzione al volume: «c’è qualcuno che dovrebbe essere vivo e invece è morto, o qualcuno che dovrebbe essere morto e invece è vivo» perché il chiarore dell’alba che dirada il buio del bosco altro non è che una fucilata di un cacciatore che coglie la preda: un bimbo di nove anni fuggito quella notte da una colonia. Nei romanzi di Magliani, scrive con precisione Mozzi, «succedono sempre le stesse cose, e questo è meraviglioso. Succede sempre ciò che è questione di vita e di morte; e nient’altro ha importanza». E forse ha ragione Francesco Improta, che questa morte (queste due morti, quella dell’andare e del tornare, racchiuse come in una matrioska) è un tentativo di Magliani «di esorcizzare quel periodo della sua puerizia». Mi restano dubbi, invece, che il libro possa essere con certezza la fine di un vecchio modo provinciale di narrare che aprirà finalmente a delle novità tematiche meno ossessive. Perché se la morte è un mistero, lo è anche la rinascita, che spesso usa in forme nuove la stessa creta e in modi vecchi la creta nuova. E la paura della morte e l’ossessione della rinascita, mi pare soprattutto in Magliani, proprio come scrive Mozzi, sono temi di nessun provincialismo e il segno di un grande scrittore.

(Da: Il Quotidiano della Calabria, 11 luglio 2010)


Marino Magliani
Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava
Edizioni Senzapatria 2010
7 EURO

sabato 7 agosto 2010

Vertigo, concerto degli A Fil de Ciel a Acceglio




Il Comune di Acceglio ed Espaci Occitan in collaborazione con la Pro Loco di Acceglio propongono per giovedì 19 agosto alle ore 21.15 ad Acceglio nella Chiesa Parrocchiale il concerto, ad ingresso gratuito, del gruppo musicale A Fil de Ciel.
Il gruppo costituito da Gabriella Brun (ghironda, semiton e flauti), Silvio Ceirano (percussioni e chitarra), Roberto Fresia (tastiere), Marco Lovera (cornamusa, trombone, galobet e tamborin) e Rosella Pellerino (voce), nasce come formazione acustica con l’intento di riportare in vita melodie della tradizione medioevale/trobadorica dell’area mediterranea. In seguito il quintetto matura un proprio stile attraverso una cura attenta degli arrangiamenti e delle sonorità, arricchendo il repertorio di nuovi brani anche di composizione personale e aggiungendo alla formazione originaria suoni di pianoforte, organo e clavicembalo e una vasta sezione ritmica.
Del 2004 è il primo lavoro discografico del gruppo edito dall’etichetta Folkclub/Ethnosuoni, che vede la partecipazione straordinaria di Riccardo Tesi.
Nel secondo cd, Vertigo, edito sempre da Folkclub/Etnhosuoni, sono raccolti brani sacri e profani a partire dal XIV secolo in lingua d'òc, ebraico sefardita, francese, spagnolo, fino a nuove composizioni del gruppo. Hanno collaborato a questo lavoro il violinista Davide Arneodo, già membro del gruppo ed ora in forza ai Marlene Kunz, il violoncellista Marco Allocco ed il bassista Michele Piantà.


mercoledì 4 agosto 2010

Serrature africane: Dogon e Bamana del Mali






Giuliano Arnaldi

Serrature africane: Dogon e Bamana del Mali

Le serrature sono tra gli esempi più significativi della visione del mondo e della funzione comunicativa dell'arte presso i popoli africani. Esse sono composte di due parti lignee incrociate, tipologia remota che risale ai Sumeri ( una chiave Sumera è esposta al Louvre) ed è certamente rappresentata sui bassorilievi nel Tempio di Luxor) . Attraverso il Nord Africa, dove questo manufatto è rappresentato privo di segni secondo la tradizione islamica, si diffonderà in tutta l'Africa. Nel caso delle culture qui interessate (Dogon e Bamana) la realizzazione di questi oggetti d'uso risponde a diversi criteri in parte ben noti, come l'idea che la bellezza per lo scultore africano sia " l'adeguamento dell'oggetto a rappresentare il perchè è stato creato" ( Griaule). ' già interessante e innovativo pensare all'arte come all'ambito in cui si costruiscono risposte al domanda sul "perchè" dei fenomeni e non sul "come" essi si manifestano-ponendosi quindi in una prospettiva ontologica e non gnoseologica- ma la struttura stessa di questi oggetti e i segni incisi su di essi dicono molto di più.
Le dimensioni delle serrature sono spesso sovradimensionate rispetto alla necessità contingente. L'obiettivo è evocare un corpo ( di essere umano o di animale) affinchè l'energia del soggetto mitico evocato si insedi nell'oggetto e vi trasferisca energia positiva. I Dogon ad esempio definiscono letteralmente le parti delle serrature chiamando "testa" la parte alta, "corpo" quella centrale e "gambe" la parte terminale. Due gli aspetti plastici fondamentali, diversi ma complementari: il realismo della testa - spesso rappresentata in modo più figurativo con rappresentazioni antropomorfe, zoomorfe o riferite a specifici oggetti- e l'astrazione geometrica del segno che è in stretta relazione simbolica e funzionale con il primo. La forma dell'elemento centrale centrale rappresenta l'arca con la quale il Nommo discese sulla terra , la barra traversale l'opera di Amma che crea le quattro porte del cielo per consentire all'arca di passare con il proprio carico di doni ( evidente il riferimento ai quattro punti cardinali est- ovest-nord sud).
La contiguità tra le culture Dogon e Bambara rende simili ma non identiche le serrature. Entrambe si riferiscono a cosmologie che pensano il mondo come creato da un'entità suprema ( Amma per i Dogon, Faro per i Bambara ) che ha generato coppie di gemelli ( i Nommo dei Dogon) all'origine della razza umana. L'interazione con figure mitiche animali , ognuna portatrice di uno specifico valore, si raffigura nella serratura, così come gli elementi naturali descritti con il segno: l'acqua rappresentata dal motivo a zig zag, la croce di Sant'Andrea - dove l'incrocio delle due linee divide un quadrante in quattro parti così leggibili: a destra in alto il cielo, in basso la terra; a sinistra in alto la pioggia, in basso la terra che la assorbe-. , il segno a V ( detto la clavicola di Amma) evoca l'apertura delle porte del cielo. Nel caso dei Dogon spesso sono i Nommo a dare forza e valore simbolico all'oggetto, presso i Bamana ( o Bambara - infedeli- come li chiamano i vicini mussulmani) sono le figure femminili o il copricapo della importante società Komo. in entrambi i casi la raffigurazione del coccodrillo , che per i Bamana rappresenta il fiume e quindi la fertilità e la forza mentre per i Dogon è l'antenato più vecchio e conosciuto della famiglia. Tecnicamente simili, le serrature Dogon ( ta koguru, parola composta da porta e chiudere) e Bamana ( kon barabar) si differenziano nell'aspetto: le prime prive di patina , le seconde spesso protette da una patina realizzata probabilmente con polvere di carbone mescolata con olio ricavato dai semi di "lannea acida". Si tratta di un olio che riveste grande importanza rituale essendo usato anche per spalmare il corpo dei giovani adolescenti durante i riti di iniziazione.Nella cultura Bamana la serratura evoca la relazione tra femminilità e mascolinità attraverso la disposizione a croce delle sue parti lignee. Attribuite prevalentemente alle donne, che spesso le donano al compagno in segno di affetto e stima, sono impegnate nell'ambito civile nelle "lu" grandi case comuni che ospitano più realzioni affettive: chiudono sia le porte dei granai, sia i vani abitatiivi. In ambito religioso invece servono nei "santuari delle cose astratte( ko so)" conservare gli oggetti sacri.
Una simile complessità non testimonia solo la ricchezza e la profondità di culture spesso definite primitive, ma la relazione tra le superfici materiche ( in questo caso il legno) e il bisogno di comunicare, di lasciare una traccia. Il linguaggio usato è frutto di un sapiente equilibrio tra la plasticità delle forme e l'evocativa efficacia del segno. Ne risulta a nostro avviso un'evidenza archetipica di sorprendente attualità.

referenze

"Porte e serrature dogon e bambara- galleria del vicolo quartirolo" 1980 testi di Beppe Bargna
Serrature in legno Dogon e Bambara: cosmologia, arte e tecnica . Curatore Adalberto Biasotti Modena 1995
Immagini dell'invisibile, leonardo Vigorelli Bergamo 1991
Bamana, un art et un savoir-vivre au Mali, Museum Rietberg Zurigo 2003











Al MAP, Presidio di Albisola Superiore, Terre d’Asilo
fino al 30 agosto 2010