TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 30 aprile 2011

Arte per ciascuno e non per tutti


E' disponibile il primo numero di Cambi Auction Magazine , rivista della prestigiosa casa d’aste Cambi di Genova. Pensata come strumento di comunicazione con il mondo dei collezionisti d'arte, la rivista non si limita però solo a fornire informazioni sulle attività della Casa, ma ospita contributi realizzati da critici e storici dell’arte e spazi dedicati a eventi collaterali nel campo dell’arte e dell’antiquariato. Come dimostra l'articolo di Giuliano Arnaldi, amico e collaboratore di Vento largo, che proponiamo oggi.

Giuliano Arnaldi

Arte per ciascuno e non per tutti


Da tempo si nota in Italia un crescente interesse per le arti tradizionali dei paesi extraeuropei e particolarmente africani. La Liguria è protagonista discreta di questo interesse: la mostra in corso a Genova a Palazzo Ducale fino a giugno 2011 ne è un esempio, ma non bisogna dimenticare l’ottimo lavoro sistematico svolto al Museo delle Culture del Mondo presso il Castello d’Albertis, che ha prodotto tra l’altro alcune significative esposizioni, quali “Gli Ori degli Akan” e “L’anima delle piccole cose: arte del quotidiano in Costa d’Avorio”, e a partire dal 2004 il lavoro di Tribaleglobale nel savonese, con la presentazione della Collezione Passaré nella casa-museo di Asger Jorn. Il nostro paese non ha una tradizione coloniale, e questo ha certamente frenato lo sviluppo della conoscenza di quei linguaggi dell’arte non a caso ben radicati in Francia, in Belgio e per altri motivi negli Stati Uniti. Soprattutto in Francia esiste il mercato più articolato e ricco di opere di arti primarie, il più significativo museo (Musée du quai Branly), la più riconosciuta rete di esperti. In realtà questo “ritardo” italiano porta in sé una grande opportunità, segnata anche dalla peculiarità italiana dell’attenzione per l’arte moderna e contemporanea e dal sedimento culturale che fa del nostro paese una grande opera d’arte a cielo aperto. La consuetudine con la bellezza e una grande, discreta e radicata tradizione di collezionismo d’arte fanno del nostro paese il luogo ideale per proporre un altro sguardo sulle arti primarie, ben testimoniato per esempio dal lavoro artistico del genovese Claudio Costa.

Dove esse sono più note e diffuse esiste un “filtro” antropologico ed etnografico tutto occidentale che spesso condiziona lo sguardo su quei linguaggi dell’arte. Comunemente si usa la definizione “arti primarie” come versione più rispettosa per identificare le arti delle culture extraeuropee più distanti dalla nostra idea di arte: non è usata per le arti giapponesi, cinesi o indiane ma quasi esclusivamente per quelle africane e oceaniche, le più distanti, le più “selvagge” e “primitive”. È realistico pensare che anche questa definizione sia quindi riduttiva e in qualche modo ipocrita: “primario” etimologicamente deriva dal latino primus (primo) con il suffisso arius che ne indica l’appartenenza, ovvero “primo nell’ordine gerarchico, principale”. Si può sostenere quindi che sia più adeguato usare questa definizione per quelle opere d’arte che sono insieme rigorosamente figlie del loro tempo e capaci di “parlare” all’uomo in ogni tempo e in ogni luogo, perché scritte con quell’alfabeto metaforico che l’uomo usa dai tempi delle incisioni rupestri quando vuole indagare ciò che è.

Ciò allarga sorprendentemente i confini dell’arte, e di chi la pratica come operatore culturale, collezionista, artista. Si noti inoltre che la stessa definizione politicamente corretta di “arti primarie” fatica ancora a sostituire quella di “arti tribali” o “primitive”, e non è bastata la costante relazione tra gli artisti del Novecento attivi a Parigi nei primi decenni del secolo scorso (da Picasso a Tristan Tzara) per liberare le arti dei popoli extraeuropei da un “recinto” a volte addirittura colonialistico. L’esempio più eclatante di questo atteggiamento è l’affermazione (tipica di tanti mercanti ed esperti d’arte africana) che nel Continente Nero non esistano più opere autentiche. Sarebbe come pensare che nelle campagne toscane non si trovi più un mobile o un dipinto antico… Un altro luogo comune (tanto interessato quanto colonialistico) è sospettare “a prescindere” dei mercanti africani, considerandoli tutti spacciatori di falsi.


Questa considerazione apre uno dei problemi più spinosi legati alle arti africane: il problema dei falsi. Credo si debbano fare alcune premesse. Non è semplice stabilire i criteri in base ai quali un’opera proveniente da quelle culture possa essere considerata autentica, intanto per la profonda differenza del contesto culturale: mentre il nostro antiquariato si fonda sulla definizione di epoche storiche cui corrispondono stili e linguaggi precisi, le arti africane sono vive e in continuo divenire. È arte funzionale a un sentimento trascendente, usata per misurarsi con il mistero della vita e tentare di governarlo e quindi, pur nel solco di una tradizione stilistica identificabile nella visione del mondo di una specifica comunità, essa è in continuo divenire, interagisce con i cambiamenti e con le sollecitazioni che un mondo sempre più piccolo propone anche nelle comunità più periferiche.

Per esempio, a partire dagli anni cinquanta i Baulé rappresentano gli antenati, figure mitiche e centrali nella cosmologia di quel popolo, anche con abiti occidentali, i Dogon dipingono le loro maschere rituali – tuttora usate – con colori acrilici e a volte diversi da quelli indicati dalla tradizione, anche per sottrarle alla bramosia di un turismo “culturale” sempre più invasivo. La relazione tipicamente occidentale epoca-autenticità per stabilire il valore culturale (ed economico) di un’opera risulta quindi assolutamente fuori luogo. Essendo poi l’opera d’arte oggetto d’uso funzionale a una necessità rituale, chi la realizza non si percepisce (e non è percepito) come “artista” nel senso occidentale di questo termine, ma è considerato come il custode di un sapere misterico antico che deve materializzare in un oggetto, rispondente a precisi canoni di tradizione, l’energia necessaria al compimento del rito richiesto.

La grande maggioranza, inoltre, degli oggetti africani (con la significativa esclusione della terracotta e dei metalli) ha meno di cent’anni, ed è realizzata in materiali non sottoponibili ad analisi scientifiche. L’arte africana è diventata negli ultimi anni un bene rifugio appetito dagli investitori, aumentando spesso in modo vistoso il proprio valore: l’assenza di regole certe ha generato confusione e situazioni spesso discutibili o addirittura illegali. Certamente esiste un problema di falsi. Chi conosce l’Africa ha avuto modo di vedere vere e proprie “fabbriche” destinate a produrre e invecchiare opere destinate al mercato europeo e magari vendute da occidentalissimi mercanti, ed è davvero difficile orientarsi. Esistono parametri oggettivi: alcune tra le opere più significative – e costose – presentano caratteristiche stilistiche e materiche precise. Per fare solo alcuni esempi, raramente una maschera Dan avrà la parte interna patinata: chi la cede la desacralizza grattandone l’interno; attraverso l’analisi delle scarificazioni si può identificare la comunità di appartenenza: nell’arte africana il segno è linguaggio e non decoro; le maschere Fang hanno erosioni prodotte da termiti presenti solo in quell’area geografica. Essendo però il falso molto remunerativo è possibile trovarsi davanti a copie ben eseguite, e confonde certamente le idee il fatto di vedere oggetti apparentemente simili nelle gallerie e nei musei come sulle bancarelle dei mercatini. Personalmente ritengo utili alcuni principi di fondo: un’opera è autentica quando è fatta in Africa, da un africano, per essere usata da un africano. Stabilirne l’epoca diventa paradossalmente irrilevante, perché condividendo questo punto di vista una maschera fatta negli anni venti per un turista dell’epoca è meno autentica di un oggetto rituale di vent’anni fa.

La bellezza parla, e testimonia la qualità di un’opera d’arte. Siamo fortunatamente strutturati anche neurofisiologicamente per comprendere l’armonia: è necessaria l’onestà intellettuale di riconoscere a linguaggi artistici diversi dal nostro la stessa dignità e profonda complessità. Esistono comunque parametri stilistici, caratteristiche legate ai materiali e alle patine che possono aiutare la comprensione di un’opera.


Altro è il discorso del valore economico. Credo che la cosa più onesta sia riconoscere il fatto che le cifre importanti sono appannaggio di quelle opere note fuori dall’Africa da molti decenni perché presenti in collezioni ed esposizioni documentate. È innegabile che chi spende oltre 10.000 euro per un’opera d’arte africana “acquista” anche una provenienza. Quando si spende però una cifra analoga a quella che si può destinare a un oggetto di arredo o a un’opera d’arte contemporanea di medio valore dovrebbe prevalere la relazione emotiva con l’oggetto, quel misterioso impulso che ogni vero collezionista ben conosce, e che a volte trasforma le collezioni private in suggestivi presidi di memoria consapevole dei popoli e delle loro culture. Ecco perché esiste a mio avviso una singolare opportunità per il collezionismo italiano: abituati, come già ricordato, a una consuetudine diffusa con l’arte, e con l’arte moderna, non è difficile cogliere un’energia vitale archetipica nelle opere provenienti dalle culture africane. Chi ha negli occhi e nel cuore Capogrossi non faticherà a costruire dialoghi con i tessuti rituali dei Bushoong: bisogna infatti ricordare che le arti africane non sono rappresentate solo dalle rare e costosissime sculture e maschere Fang o Punu, ma da una moltitudine di oggetti tanto sublimi quanto ancora abbordabili sotto il profilo economico.

Liberati dal bisogno rassicurante della classificazione etno-antropologica e restituiti alla dimensione senza tempo del mistero della bellezza, essi possono diventare i discreti compagni dei dialoghi infiniti tra il collezionista e i suoi oggetti.


(Da: Cambi Auction Magazine, n. 01, aprile 2011)


Giuliano Arnaldi vive e lavora a Savona. Sovrintendente Generale del MAP, Museo di Arti Primarie di "Saona". Appassionato ed esperto di arte primarie, prevalentemente africane: ideatore e coordinatore del format culturale TRIBALEGLOBALE, ha curato eventi in luoghi diversi : 2000 -London, Black Soul, Nice 2004 Africa Anima del mondo in contempornea in diversi spazi museali e archeologici privati e pubblici, Il Padiglione della Marginalità nell'ambito della 52 Biennale di Venezia , la riapertura ( dopo ven'anni di chiusura) nel 2004 della casa Museo Jorn ad Albissola Marina.

venerdì 29 aprile 2011

PRIMO MAGGIO tra memoria e attualità




Gli stessi che propongono la cancellazione dell'articolo primo della Costituzione, vorrebbero anche che il 1° Maggio non si celebrasse più. E' questo riempiendosi la bocca ad ogni piè sospinto di omaggi ad una presunta "volontà popolare" che darebbe a chi governa ogni potere. Ma la democrazia non è populismo. E il 1° Maggio non si tocca.

Franco Astengo

PRIMO MAGGIO tra memoria e attualità


Primo maggio 2011, festa del lavoro nell' "annus horribilis" di Marchionne, dell'attacco diretto ai residui diritti della classe operaia che ha dimostrato una capacit da molti insospettata, di tenuta, di resistenza, anche di controffensiva che ha fornito a tutti noi, che ancora crediamo in determinati valori, principi, ideali, forza e volontà di lotta.

Un Primo Maggio da ricordare anche perchè da altre parti, si pensa di cancellarlo in nome dei "negozi aperti in una città turistica": si tratta semplicemente di un affronto da respingere seccamente. Certo, ci sarà chi, come sempre lavorerà il Primo Maggio per garantire la vita degli altri, i servizi, l'espletamento di necessità inderogabili: perla nostra sarà un'idea romantica, ma il Primo Maggio vede Città e Campagne ferme, rispettose, nei cortei e nei comizi colmi di bandiere rosse. Rispettose, campagne e città dell'idea del lavoro come riscatto sociale.

Nel nostro Paese il lavoro il fondamento del primo articolo della Costituzione Repubblicana, la rappresentazione più visibile, immediata, della sua importanza all'indomani della Liberazione: lavoro, antifascismo, democrazia, questi i punti discriminanti di una identità dell'Italia Repubblicana che non intendiamo dismettere, anzi vogliamo affermare con forza, uscendo dal tunnel dell'arretramento dentro il quale siamo finiti da qualche anno a questa parte.

Non intendiamo, per scrivendo questo poche note limitarci ad una idea quasi "autarchica" del Primo Maggio: il Primo Maggio non è una invenzione italiana, il Primo Maggio appartiene al mondo. Il Primo Maggio è una data simbolo in tutto il mondo.

La Memoria: il Primo Maggio nasce a Chicago nel 1886 e, tre anni, dopo, nel 1889 quella data fu assunta dalla Seconda Internazionale, quale giornata di mobilitazione per la riduzione dell'orario di lavoro. Le Otto ore di lavoro sono state il simbolo, l'essenza, dell'internazionalizzazione della lotta del movimento operaio: insieme mito ed obiettivo del riscatto sociale, punto d'arrivo di una diversa idea dello sviluppo, dell'equilibrio sociale, della possibilità di cambiare "lo stato delle cose presenti". Le "Otto Ore" quale piattaforma universale che consentì all'epoca, di rendere la classe operaia in lotta visibile e vincente.

L'Attualità è la rappresentazione più visibile dell'attualità di quella che è stata definita "globalizzazione" (non certo una novità da un determinato punto di vista). Una "globalizzazione" che porta con se ancora il conflitto, la guerra, le divisioni etniche e razziali, l'idea dell'estensione del mercato capitalistico al mondo intero. Bisogna affermare, senza indugi che, in questo senso, la "Storia non è finita": la globalizzazione non rappresenta l'estensione definitiva del dominio capitalistico.

A questo proposito dobbiamo riprendere un cammino di riflessione e di lotta, pensando alle divisioni che gli interessi specifici, particolaristici, corporativi, settoriali che caratterizzano il fenomeno dell'espansione economica nel mondo: la dialettica unità- scissione oggi caratterizza, forse ancora di più che in altre fasi della Storia, la natura del capitalismo in forma fortemente contraddittoria; maggiore l'unità del mercato mondiale, più grande lo scontro tra gli Stati, oggi a dimensione continentale come dimostrano i fatti più recenti.

Questa tendenza va valutata con attenzione, a questi processi in atto va contrapposta una idea unitaria che parta dalle condizioni materiali dello sfruttamento del lavoro, della sua alienazione, della contraddizione irriducibile e principale che questi fenomeni provoca.

Il Primo Maggio come occasione di riflessione, dunque, per una idea unitaria di riscatto sociale, di recupero del concetto di classe, dell'estensione dell'idea di una trasformazione radicale degli equilibri economici, politici, sociali.

Ancora una volta, al di là delle nostre diverse opinioni politiche correnti, si impone la necessità di sviluppare, nei tempi presenti, una idea di fondo: la contraddizione sotto gli occhi di tutti è ancora quella tra le potenzialità che la specie umana possiede e i limiti che l'organizzazione sociale e politica del capitalismo le impongono: lottare perchò si vada oltre l'angustia dello scambio tra capitale e lavoro salariato, prefigurare una societlà ibera dal bisogno.

Queste, molto semplici, le ragioni per cui vale ancora la pena , ora più che mai, di celebrare il Primo Maggio.



Franco Astengo, politogo e storico della sinistra, collabora con la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Genova. E' autore di numerosissimi saggi apparsi su giornali e riviste.

giovedì 28 aprile 2011

Carla Rossi a Percorsi dell'Arte


Meteore di Luciana Bertorelli a Pozzo Garitta


lunedì 25 aprile 2011

Delitti all'ombra della Torretta. Roberto Centazzo e il giudice Toccalossi

Sta avendo un grande successo "Toccalossi e il fascicolo del '44", seconda indagine del giudice savonese. Abbiamo intervistato l'autore, Roberto Centazzo.

Giorgio Amico

Delitti all'ombra della Torretta. Roberto Centazzo e il giudice Toccalossi


Il romanzo che ti ha fatto conoscere è stato "L'elenco universale delle cose tristi". Vuoi parlarcene?
Un libro scritto di getto in un momento di grandi cambiamenti interiori. Apprezzato dalla critica.

Poi arriva il Giudice Toccalossi. Un salto notevole, di toni e linguaggio prima che di genere. Perché la scelta del poliziesco e perché Savona?Il poliziesco perché ero stufo di leggere storie gialle piene di errori dal punto di vista procedurale. Ero e sono convinto che si possa scrivere un giallo di qualità senza “violare” le regole del codice. Perché Savona? E perché no? È una città simile a tante altre città di provincia e poi i grandi centri urbani, si contano sulla punta delle dita, non rappresentano veramente l’Italia. La nostra penisola è fatta per la maggior parte di piccole realtà attorno ai cinquantamila abitanti. E poi Savona si presta molto all’atmosfera gialla, con le sue ipocrisie, la sua riluttanza ai cambiamenti, la sua predisposizione all’immobilismo.

Una Savona cupa, grigia, spenta. Come dicevamo un salto notevole rispetto ai toni solari e magici dell'Elenco universale. Ma Savona è davvero così o è il genere poliziesco che richiede atmosfere cupe?
Savona non è affatto cupa o spenta o grigia. È anzi il contrario: una città ventosa, soleggiata e la descrizione che io ne ho fatto è molto affettuosa (ci sono nato e ci vivo) ma anche molto realistica. Ricevo tutti i giorni complimenti per come ho saputo raccontarla e, mi auguro, per come la racconterò.

Toccalossi è una figura atipica nel panorama della letteratura poliziesca. C'è qualche autore o personaggio a cui ti sei riferito?
Toccalossi è un uomo. Non è un super eroe o un tuttologo onnisciente. Mi riferivo a questo quando prima dicevo che si può scrivere un buon giallo senza ingannare il pubblico con un investigatore che sa tutto, capisce tutto e, almeno a me, diventa odiosissimo. Toccalossi ha la sua vita, i suoi problemi non è nemmeno pienamente convinto che quello che svolge, ossia il lavoro di Procuratore sia quello giusto. A volte vorrebbe tornare ragazzo per fare scelte diverse. È tormentato, insicuro e credo sia questo il motivo per cui piace al pubblico.

So che hai altri libri in cantiere. Ce ne vuoi parlare?
Sicuramente. Ho pubblicato cinque romanzi di cui tre sotto pseudonimo e due gialli della serie Toccalossi, con il mio nome vero. Ho già sotto contratto altre due storie che vedranno protagonista Toccalossi e spero che abbiano la fortuna delle precedenti, ma penso di sì, ormai il pubblico si sta affezionando.

Grazie e auguri per i tuoi prossimi lavori.
Grazie a voi di Vento largo per l’intervista. Un caro saluto a tutti.


Roberto Centazzo, savonese, ispettore capo della Polizia di Stato, è autore di cinque romanzi fra cui L'elenco universale delle cose tristi, Giudice Toccalossi e Toccalossi e il fascicolo del '44.

giovedì 14 aprile 2011

L'occhio di Germano Lombardi


E' disponibile in libreria l'ultimo numero di Resine, interamente dedicato alla figura e all'opera di Germano Lombardi, lo scrittore onegliese morto a Parigi nel 1992. Membro del Gruppo 63, autore d'avanguardia, Lombardi è stato poi colpevolmente dimenticato dalla critica, nonostante sia stato uno dei protagonisti più interessanti di quell'epoca di grande fermento intellettuale e politico. Resine colma ora questo vuoto, rendendo omaggio ad un autore importante e nello stesso tempo permettendo così una migliore comprensione di quei primi anni '60 tanto importanti per gli sviluppi successivi della vita culturale (e non solo) del nostro Paese. Ne pubblichiamo l'editoriale.


Pier Luigi Ferro

L'occhio di Germano Lombardi




A partire dalla fine degli anni Cinquanta e, grosso modo, per tutto il decennio successivo un'ondata di rapidi e violenti cambiamenti investì l'Italia che, appena uscita dai disastri della guerra e del ventennio fascista, si era avviata, con una cospicua zavorra di contraddizioni e nodi irrisolti, a diventare una moderna società industriale e di consumo. A fronte di questo l'esperienza dei Novissimi e del Gruppo 63 ha rappresentato una dirompente spinta di opposizione polemica ai valori dominanri nel mondo letterario, ancora condizionato da una parte dal bellettrismo tardo ermetico e dalla prosa d'arte, che affondavano le loro radici nella cultura del rappel à l'ordre maturato nel ventennio, dall'altra dalle ultime espressioni del neorealismo, che aveva rivitalizzato la poetica del realismo romantico e naturalista, raccontando le macerie lasciate sul campo dal conflitto e le dure vicende della fabbrica e del mondo operaio nell'epoca della riconversione postbellica. Ma già Vittorini, in alcune famose pagine apparse sul Menabò, nel fascicolo dedicato a letteratura e industria, aveva avvertito come fosse ormai giunto il momento di guardare i problemi della contemporaneità non più "con gli occhi dei padri e dei nonni", invitando gli scrittori ad abbandonare gli schemi descrittivi e linguistici di matrice tardo-naturalista, per scegliere nuovi linguaggi e nuove modalità formali capaci di caricare nel corpo stesso del linguaggio "tutt'intero il peso delle proprie responsabilità ideologiche". a sostegno di tale prospettiva citava il recente esempio dell' école du regard, che non a caso sarà al centro della riflessione teorica della neoavanguardia.


Elio Vittorini

Si trattava di uno snodo decisivo, anche perchè proprio allora stava prendendo vita la cultura di massa industriale e diventava impellente l'elaborazione di una efficace prospettiva critica nei confronti della trivialliteratur e dell'incipiente bestsellerismo - ossia di quella mercificazione estetica che è il rovescio della medaglia dell'estetizzazione delle merci - di cui dava peraltro conto l'enorme e pervasivo sviluppo del linguaggio pubblicitario negli anni del boom economico. Appariva indispensabile, insomma, e questo ebbero ben chiaro gli esponenti del Gruppo 63, ripensare il sistema delle scienze umane, che appariva completamente disarmato, attestato com'era su posizioni sostanzialmente arretrate e inadeguate.

Questo fascicolo monografico di Resine è un tributo a Germano Lombardi (Oneglia, 10 ottobre 1925 - Parigi, 12 dicembre 1992), uno dei protagonisti più trascurati e oggi quasi dimenticato di tale stagione. Un oblio ingiusto perchè l'opera narrativa dello scrittore ligure, che abbraccia quasi un trentennio, costituisce, insieme a quella di Balestrini, forse il più cospicuo e coerente contributo nell'ambito della neoavanguardia all'elaborazione di un nuovo e originale modello di narrazione. Fra tutti gli esponenti del Gruppo 63, lombardi fu probabilmente quello che più di ogni altro ebbe il passo e il respiro del romanziere e dell'affabulatore.


Germano Lombardi

Nelle pagine di questo numero, accanto ai saggi di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, suoi compagni di cordata in quegli anni, e a quelli di Mario Lunetta e Francesco Muzzioli, che si occupano appunto dell'opera narrativa di Lombardi, appaiono alcuni scritti a carattere memoriale di amici e familiari di Lombardi, come i poeti Nanni Cagnone e Giulia Niccolai, Maurizio Spatola, Martina e Orio Vergani, nipote di Lombardi, nonchè altri contributi critici che esplorano le peculiarità del suo originale linguaggio e aspetti meno noti della sua produzione: quella teatrale, quella poetica e quella giornalistica. Siamo lieti che alcuni di questi saggi siano opera di giovani studiosi, perchè speriamo ciò possa valere anche come segnale di un rinnovato interesse per l'opera di Lombardi presso la nuova generazione di critici.

(...)


Pier Luigi Ferro, insegnante e critico letterario. Collabora a “Il Ponte” e a "Resine" con scritti sulla poesia, sulla narrativa e sul teatro italiano contemporaneo. Tra i sui lavori, “Messe nere sulla Riviera. Gian Pietro Lucini e lo scandalo Besson”, UTET 2010.

Per informazioni e richieste di copie contattare resine.rivista@yahoo.it

mercoledì 13 aprile 2011

Passeurs, il cammino della speranza



La blindatura da parte francese dei valichi di frontiera ha fatto rinascere la figura del passeur, la "guida" capace di far passare il confine ai clandestini, conducendoli in Francia attraverso i vecchi e dimenticati sentieri dei pastori e dei contrabbandieri. Riceviamo e con molto piacere pubblichiamo questo scritto di Laura Hess Seborga che riprende cose scritte dal padre e da Francesco Biamonti, testimoni e cantori di un'epoca che speravamo almeno per questo aspetto definitivamente tramontata.

Laura Hess - Franca Sergi

Passeurs

"Guardò fuori, c'era una fetta di luna, ma anche nuvolaglia grigiastra in cielo, che forse avrebbe rlcoperto quel noioso pezzo di luna. Indicò agli uomini quattro sentieri diversi, che facendo giri si ritrovavano tutti ai piedi del colle più alto, che avrebbero dovuto salire.” (Guido Seborga “Una notte al confine”, Corriere Mercantile, 12 agosto 1959)

…..“sono le una – disse- direi che si potrebbe partire”……Uscirono nella notte in tre ore andando forte si poteva giungere al passo,….vide in fondo valle Grimaldi, il ponte Saint Louis;…sentì di fronte a sè l’alto pezzo nero della montagna ,.. ”( Guido Seborga, “Contrabbandiere”, Corriere della Liguria, 22 settembre 1956)

“Tutti dicono che Stella è anche una buona”guida” per i passaggi di frontiera senza i documenti regolari, via monte perché è più sicura della via mare dove un guardacoste può più facilmente mettere in difficoltà e individuare i clandestini. I liguri chiamano “feni­cotteri” quei meridionali che in gruppo, senza docu­menti e carte di lavoro, cercano di espatriare…” (G. Seborga, “I Barboni del mare”, Corriere Mercantile, 17 novembre 1960)

“Giovanni non è soltanto abile in mare, ma anche sulle colline e in montagna nessuno gli sta dietro; e co­nosce i passaggi e i colli meglio di ogni altro. Pro­prio per queste qualità….” (Guido Seborga, ” Storia di uomini del paese vecchio”, 8 aprile 1959)

“…si vendono quel poco che hanno per pagarsi la guida,una specie di contrabbandiere di carne umana o un uomo caritatevole chi lo sa?.…ma i fenicotteri non hanno tempo per pensare a queste cose, devono emigrare …e la guida o le guide..conoscono tutti i luoghi meglio di chiunque, ...I valichi sono di preferenza superati di notte, in quelle notti senza luna, favorevoli ai passaggi clandestini, è così ampio il retroterra, neppure un’intera armata potrebbe controllarlo tutto,… (Guido Seborga, “Il passaporto delle ginestre”, Corriere Mercantile,11 novembre 1959)

Seborga in questi racconti narra episodi e situazioni legati alla fine degli anni 50 durante l’immigrazione dei calabresi in Liguria e i loro tentativi di passare in Francia. La loro condizione era quella di disperati che non conoscono il territorio e non sanno come muoversi.
Il ciclo della storia sembra ripetersi con uomini, situazioni e tempi diversi : gli oppositori al regime negli anni del fascismo, i nostri meridionali che cercano lavoro in Francia, gli espatriati algerini e tunisini, rappresentano realtà sociali e culturali differenti ma i passaggi e gli attraversamenti sono quelli noti agli esperti della montagna da secoli.
Seborga e Biamonti raccontano di uomini che accompagnano i fuggiaschi oltre confine con abilità e conoscenza del territorio. Sono i passeurs, coloro che guidano gli emigranti clandestini oltre frontiera (secondo la definizione del dizionario francese - italiano). Oggi questa stirpe è ormai quasi scomparsa, ma i migranti da soli o con altre guide forse più improvvisate e con meno scrupoli e esperienza tentano il passaggio illegale spinti dalla loro situazione angosciosa.

“Prese una mulattiera che saliva in una gola buia e raggiunse un dosso di pietrischi. Lo aggirò e riprese a salire per le fasce di Aùrno. . “ (Francesco Biamonti, Vento Largo, Einaudi 1991)

lunedì 11 aprile 2011

Savona: presentazione di "Svastica verde"



Martedì 12 aprile

Savona, Corso Italia
ore 18:

“Svastica verde. Il lato oscuro del Va’ Pensiero leghista”


Incontro con gli autori WALTER PERUZZI e GIANLUCA PACIUCCI.
Visione di un documentario sulla Lega Nord.
Introduce lo scrittore GIORGIO AMICO.


La Lega spiegata con le sue stesse parole. Un'antologia del lato oscuro del Va' pensiero leghista: discorsi, dichiarazioni, interviste e comunicati di numerosi esponenti, anche molto importanti, del partito più radicato d'Italia. Un viaggio inquietante attraverso il meglio del peggio delle camicie verdi. Per la prima volta in Italia un'inchiesta svela tutti i segreti della Lega Nord: i riferimenti culturali con le ideologie più retrive del '900, la xenofobia, il razzismo. Ma anche la corruzione, la gestione disinvolta delle casse degli enti pubblici, i rapporti inconfessabili con le banche, la partecipazione alle spartizioni di poltrone. Un libro che segnerà lo spartiacque su come l'opinione pubblica percepirà il fenomeno Lega, una vera e propria casta del settentrione, un gruppo di potere forse anche peggiore di quelli romani. Un evento editoriale che susciterà polemiche e discussioni.

Tra Paese e Nazione: il caso italiano dal Risorgimento a oggi

sabato 9 aprile 2011

Femminismo e Pacifismo


"Le donne, il conflitto, le guerre", questo il titolo dell'ultimo numero di Guerre & Pace, in gran parte dedicato al rapporto fra due movimenti, quello femminista e quello pacifista, dati per finiti e invece prepotentemente riapparsi sulla scena politica italiana e non solo. Una riflessione collettiva che va oltre l'attualità per proporre una "lettura di genere" degli accadimenti internazionali come momento ineludibile della riedificazione di un pensiero autenticamente critico. Ne proponiamo l'editoriale.


Floriana Lipparini e Gianluca Paciucci


Femminismo e pacifismo



In questo numero ci occupiamo, nella parte monografica, della “condizione femminile” così come si è presentata negli ultimi anni. La manifestazione del 13 febbraio l'ha riportata alla luce in uno di quei momenti di emersione del rimosso che ogni tanto vengono stabiliti. Allo slogan ufficiale “Se non ora, quando?”, le donne di Femminismo a sud e del Comitato per i diritti delle prostitute hanno risposto con un semplice avverbio, “sempre!”, a sottolineare l'ottusità delle periodiche riscoperte di ciò che c'è ed è sempre stato, e che solo la violenta miopia del mondo dell'informazione e della politica istituzionale ignora e vorrebbe impedire di vedere. Il femminismo, come la classe operaia e il movimento studentesco, sono stati più volte spacciati per morti, e chi ne parlava veniva puntualmente sommerso di ingiurie sia da parte dei nemici storici, che assaporavano il trionfo, sia da ex amici e compagni, la cui spocchia era ed è ormai pari all'insignificanza più completa a livello culturale e politico (ma non elettorale, perché le clientele e il servilismo funzionano ancora). E invece esistono, e sono sempre esistiti, liberi canali di comunicazione supportati dall'informazione in rete unita alla tradizionale militanza, che hanno tenuto alta la soglia di resistenza anche quando, da destra come da sinistra, partivano e partono raffiche micidiali.

Un altro soggetto era inserito nell'elenco dei dispersi: il movimento pacifista, che è effettivamente mal messo. La crisi della militanza in questo settore è andata di pari passo con la rinascita a livello collettivo di un forte (e drogato) sentimento patriottico teso a impedire qualsiasi azione e riflessione sulla politica estera, anche se siamo in guerra in Afghanistan, e fingiamo di ignorarlo, e le “missioni di pace” vengono rifinanziate, nella disattenzione più totale, con voto pressoché unanime. La retorica del tricolore e dell'unità nazionale sta coprendo ogni possibilità di dissenso: per non lasciare alla destra razzismo, bellicismo e patriottismo, la “sinistra” è diventata razzista, guerrafondaia e iperpatriottica. Anti-italiano è il nuovo insulto rivolto a chi si oppone: sono anti-italiani gli operai che votano contro Marchionne, chi si batte con e per le/i migranti, e ogni disertore/disertrice dal pensiero unico.

Pur appannato, però, il soggetto pacifista è riuscito a ribadire la contestazione delle menzogne del potere, anche se non più sostenuta da quella “massa critica” che per decenni ne aveva costituito la forza. È proprio unendo la riflessione sulle guerre e il loro sviluppo su scala planetaria con quella sulla nuova visibilità del movimento delle donne che questo numero di “Guerre&Pace” è stato pensato e realizzato. Abbiamo riflettuto sul fatto che il discorso sul “femminile” allude e apre a quello sul “maschile” e alla discussione sulla “virilità” come elemento attorno al quale si gioca molto del presente: una neovirilità, meglio, che si esercita in campi antichissimi e ipermoderni quali l'identità sessuale, l'uso intimo e pubblico dei corpi, il rapporto di tutto questo con il denaro e con la sfera politica, e infine la violenza del patriarcato e delle religioni che è ormai da troppi percepita come accettabile, nella generale regressione (backlash, contraccolpo) degli ultimi decenni. Su corpi che mai sono stati schiavisticamente denudati ed esposti sul mercato come oggi o mai così altrettanto schiavisticamente coperti (a due passi da noi, e nelle nostre stesse città), vengono poi effettuate violenze private e politicissime, senza tregua. La violenza della porta accanto e quella effettuata in un Cie, quella ad opera di alcuni rifugiati nella sede che fu dell'ambasciata somala a Roma e quella attuata da carabinieri in una prigione dello Stato (la donna sarebbe stata “consenziente”, nel linguaggio feroce di certi uomini in divisa) - solo per citare alcuni dei casi più recenti - rimandano a un universo maschile colpevolmente in crisi per non essersi mai interrogato sui fantasmi del proprio immaginario sessuale, fatto crescere in una pedagogia della conquista, di un corpo come di un territorio. Ecco la connessione, banale e vera: uomini che hanno la presunzione di conquistare donne come territori, oppure si arrogano l'onere di difendere le proprie donne in un gioco penoso che produce frequentissimi femminicidi (in Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa da mariti, amanti, ex, familiari ecc.) o riattualizza lo stupro come arma in tempo di guerra e di pace. Ecco la connessione: “Il femminile è anche simbolo della nazione, della patria, dell'appartenenza etnica, anche se la patria è in realtà una 'matria', un volto d'uomo su un corpo femminile, chiamato a dare l'unità organica e la sicurezza della riproduzione. Il genocidio di un popolo è spesso femminilizzato: nella donna viene colpita la sua continuità. Lo stesso si può dire per lo stupro etnico: le donne sono depositarie dell'onore e del disonore famigliare e nazionale...” (Lea Melandri, Oltre i poteri sostitutivi. Gli stereotipi della femminilità e le donne reali, Alfabeta2, marzo 2011).

Questa connessione abbiamo indagato chiedendo a collaboratrici e a collaboratori, ad amiche e ad amici, di intervenire con articoli o per il tramite di interviste da noi raccolte. Floriana Lipparini riflette sul nesso tra guerre, violenze e religioni, e intervista la psicoanalista Paola Zaretti: questi due testi aprono l'ampia sezione che ragiona sul rapporto tra patriarcato e femminicidio in “Occidente” (sapendo della debolezza di questo termine, ma anche della sua utilità concreta) grazie all'intervista alla docente universitaria Patrizia Romito e ai due articoli di Stefano Ciccone (associazione “Maschile Plurale”) e della sociologa Daniela Danna. Nella terza sezione si analizzano singole aree geografiche e vengono evidenziati alcuni tentativi di resistenza organizzata delle donne (Colombia, Haiti, Bosnia Erzegovina, Afghanistan, Somalia e Repubblica Democratica del Congo) che mostrano come sia difficilissimo ma possibile, anche in situazioni estreme, agire e ricucire rapporti. Accanto agli interventi delle donne della Organización Feminina Popular e dell'Afghan Women's Network, vi sono quelli di Mario Boccia, Simone Sarcià e Nadia Demond, che scrivono a partire da esperienze direttamente vissute, e l'intervista di Floriana Lipparini a Kaha Mohamed Aden. Completano la sezione gli articoli della direttora di “Marea”, Monica Lanfranco, e di Giselle Donnard il cui testo di una conferenza del 2003 è stato tratto dal trimestrale “Multitudes”. Chiude la parte monografica una riflessione di Mirella Scriboni sull'opposizione femminista alle guerre di fine Ottocento e inizio Novecento. La foto di copertina e altre all'interno del numero sono di Mario Boccia, mentre quelle da Haiti sono di Simone Sarcià. Cogliamo l'occasione per ringraziare di cuore tutte e tutti coloro che hanno permesso di costruire questo numero della rivista. Una rete felice di amicizie antiche, o appena nate e già profonde.

E un'ultima considerazione. Il numero è spostato, rispetto all'attualità, ma forse proprio in questo scarto sta la sua forza, garantita dal semplice prestigio delle firme. Travolte, travolti come siamo da continue emergenze, rischiamo di non afferrare più quanto si muove sul medio e lungo periodo, su quella “lunga durata” che ha fatto la meritata fortuna degli storici delle Annales, e così prendiamo decisioni vitali sotto la spinta di umori momentanei. Nostra convinzione è invece che proprio una lettura di “genere” delle vicende possa aiutarci ad andare più a fondo nelle cose, e di non essere sorpresi almeno dalla differenza costitutiva del nostro essere al mondo, ovvero quella del “maschile/femminile”, nel nomadismo e nella costruzione culturale dei sessi che è concetto cardine del sapere, per cui non si nasce donna, uomo o altro, ma lo si diventa. A chi di noi è diventato uomo, proponiamo queste parole di Lea Melandri, dall'articolo sopra citato: “...Occorre, soprattutto, che gli uomini, anziché occuparsi delle donne, per usarle e proteggerle, comincino a deporre la maschera di neutralità e a interrogare se stessi, le loro paure, i loro desideri, la cultura prodotta da secoli di dominio maschile, riconoscendo quanta poca libertà e scelta sia stata lasciata anche a loro, nel dover indossare la corazza virile”. Anche da qui parte la riedificazione di un pensiero militante che non sia narcisismo o riproduzione degli apparati, ma sincero investimento basato sull'autocoscienza. A chi di noi è diventata donna proponiamo di continuare nell'impegno di sempre, magari consolidando con più robusti fili il legame tra le generazioni, che in molti si erano messi a recidere.

Per richiesta di copie o informazioni rivolgersi a guerrepace@mclink.it

giovedì 7 aprile 2011

Dal Mediterraneo al Mediterraneo


Cos'è davvero il Mediterraneo? Difficile dirlo. Autori importanti (Braudel, Matvejevic per citare solo i più noti) lo hanno posto al centro dei loro lavori. Qualcuno (Anne Ruel) ha parlato di "invenzione" moderna di geografi e letterati, di una creazione dello spirito, di un luogo dell'immaginario più che di una realtà riconducibile a dati oggettivi.


Luigi Lirosi


Dal Mediterraneo al Mediterraneo

Là tutto è ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà (Baudelaire)


Là, quando per un istante il sole si ferma e la natura si contempla e gioisce, allorché siamo al mezzogiorno del mondo, è il Mediterraneo. Non sono i bassi di Napoli o le periferie asiatiche ed africane di Marsiglia, che ci negano il Mediterraneo, se risuona Eugenio Bennato e profuma la menta di Izzo. L’arte del Mediterraneo è luminosa come la luce del Sacro. Tra il caldo del Sud – gli uragani e gli eccessi delle forme e dei colori - e le brume del Nord – le nebbie e gli ambienti protettivi, dei paesaggi e dei colori sfumati - l’aria nitida e secca del Mediterraneo ci offre colori netti ma non accentuati. Sinfonie di colori, non di sfumature. Un’atmosfera pura e quindi dalle forme comprensibili, logiche e razionali. Grazie al clima temperato del Mediterraneo, molti trovano gradevole risiedervi, non solo i nativi. Spesso gli artisti, alla ricerca di terre mitiche o mitizzabili. Bisogna pur dire che i fumi di porto Marghera o di Fos non sono propriamente un esempio di luce mediterranea, come del resto i quadri di Sironi o di Burri, ma i popoli, gli uomini e le donne, e quindi anche gli artisti, che respirano e vivono questa luce sono totalmente immersi in un mondo che è indifferente alle piccole, e sostanzialmente ridicole, ambizioni e vanità individuali. Le civiltà dei popoli mediterranei sono abbagliate dalla luce, fissate nella pratica della contemplazione, irrobustite nel lavoro intellettuale del << dolce far niente >>. Passeggiate come preghiere, caffè come oratori, teatri come chiese. Insomma chi vive lungo le Riviere del Mediterraneo non sempre ne vive i valori, ma sempre ne subisce, come il sole, più o meno prepotentemente, il fascino performativo. Così come tutti sono soggetti alla forza della natura ed al fascino del paesaggio, o di quel che ne resta, e dei miti fondativi. E’ per questo che l’espressionismo di Asgern Jorn ha un prima ed un dopo. Prima della sua permanenza a Gerba, dopo la sua permanenza a Gerba.. Così Matisse nei confronti del Marocco, e così per tutti gli altri artisti. In uno scambio che desideriamo continuare tra due territori del Mediterraneo, la doppia Nizza - Cemenelum e Νίκαια - e la doppia Savona - Vada e Savo - con la primavera sbocceranno alla Providence le opere di un nutrito gruppo di artisti del ponente ligure e del sud Piemonte. Ma questa è solo la prima tappa, a cui ne seguiranno, ma forse non ne seguiranno, altre. L’arte mediterranea è prima di tutto la conoscenza di oggetti, esperienze e manifestazioni, considerate dal sistema dell’arte, artistiche. Poi è l’incontro umano ed il confronto intellettuale tra gli artisti che vivono nei reciproci territori. In seguito, sarà la memoria consapevole di tutti coloro che producono oggetti artistici, che sarà costretta a confrontarsi con le proprie motivazioni e le reciproche ragioni. Lentamente si passerà dal vivere casuale tra le terre ed i popoli mediterranei, al subirne l’influsso, al farne fonte di ispirazione, fino a far parte della cultura mediterranea. Infine alcuni artisti riusciranno a produrre cultura mediterranea. Gli artisti, come gli artigiani, devono produrre oggetti utili e belli. L’utilità degli artisti consiste nel produrre immaginario. Agli artisti del Mediterraneo si chiede di produrre il senso del Mediterraneo.

Luigi Lirosi, studioso della cività mediterranea, animatore culturale, esponente dell'AIG (Associazione Italiana Alberghi per la Gioventù), è presidente delle associazioni "Le Alpi del Mare" e "Asso di Cuori"


martedì 5 aprile 2011

Pietre che cantano: Rainer Kriester



In memoria di Rainer Kriester (1935-2002). Scultore, ma più di tutto, uomo libero.




Angela Ravetta




Incontri con uomini straordinari: Rainer Kriester




Lasciata la costa, saliamo fra oliveti e alberi di pino. Ad Arnasco ci fermiamo a bere in una vecchia trattoria di campagna con i tavolini di legno, mentre gli altri avventori mangiano pane e salame. Sulle facciate delle case ci sono murales un po’ stinti con orribili fiorellini azzurri. Dopo Vendone sbuchiamo in cima alla collina. Ci fermiamo e scendiamo dalle moto. Una griglia a rete chiude una spianata coperta d’erba secca sulla quale s’innalzavano obelischi di pietra, occhi di Horus enormemente ingranditi che fissano il mare in lontananza. Sono una trentina disposti in circolo. Ci aggrappiamo alla recinzione cercando di sbirciare. Un giovane lavora con un trapano. Ci vede e ci viene ad aprire. S’indovina che un tempo quel corpo è stato forte, forse massiccio. Ora pare scavato dall’interno, tornato ad essere ragazzo. Si siede di fronte ad una pietra. Sta incidendo una serie di numeri. Davanti a sé ha un libro aperto, sciupato dalla polvere.




Noi ci aggiriamo fra le sculture. Un portale di pietra rosa incornicia il mare verso Finale nel punto in cui, d’estate, sorge il sole. Il costone a fianco dell’altura forma un canyon. Abbiamo rallentato i passi e la nostra curiosità ci pare stonata, sacrilega, come se potessimo disturbare. Lo scultore depone il trapano e ci guarda. Indica il libro aperto: “Parla anche lui di terra rossa e di terra nera. Chissà se conosceva l’importanza di questi termini per gli Egizi. Io ne sono affascinato. Ecco la terra rossa!” Ed indica il costone argilloso che spicca contro il verde scuro della pineta. “E quella è la terra nera!” Le fiamme degli incendi hanno carbonizzato la macchia mediterranea in lunghe strisce morte. “Ci vorranno anni perché si riprenda.”




È Rainer Krister. Mi scrive il suo nome con un segno appuntito, come se stesse incidendo la carta. Ci aggiunge il suo indirizzo. Io non so chi sia né perché i monoliti si trovino in quel luogo. Vuole che gli legga qualcosa dal libro. È “Lavorare stanca” di Pavese. Ascolta con grand’attenzione come per imprimere il suono nella memoria. Gli dico: ”Pavese è vissuto a Torino dove c’è un importante Museo Egizio e tutti i ragazzini ci vanno. Senz’altro ci sarà stato anche lui.” Pare stupito. Noi sfioriamo le pietre, osserviamo i numeri incisi, cercando di cogliere un ordine, una progressione. Non sembra esserci alcun metodo. “È pietra rosa di Finale, ma ormai la cava è esaurita. Questi sono gli ultimi pezzi.” “Ed ora come farà?” “Non so.” Accenna un movimento con la mano come ad intendere che cercherà più lontano, ma in un tempo futuro. Le pietre sono tagliate come se un coltello affondasse in un blocco di manna.




“Sono tedesco, nato nella Germania orientale. Vivo a Berlino. Ho sempre sognato di scolpire all’aperto ed ora ne ho l’opportunità. Potevo finire in Toscana come hanno fatto tanti miei connazionali ma non mi sarebbe andato bene. Quella è un’Italia per i turisti. Qui è stato difficile, nulla è facile. I liguri non s’interessano del mio lavoro, e mi va bene così.” Kriester fa tutto da solo, come noi lo abbiamo trovato quel giorno. Il suo desiderio di scolpire la pietra nasce dal bisogno di compiere tutte le fasi della lavorazione. Non ultimo della schiera d’artisti solitari che hanno realizzato il loro sogno, per le sue opere Heinz Ohff conia la definizione: ”Folclore di una stirpe sconosciuta” che Kriester ama e ritiene azzeccata.




C’è in lui un sentimento profondo d’appartenenza all’umanità e il desiderio di esprimerlo. Un quadro di Van Gogh: “La strada per Tarascona” è per lui l’essenza dell’ispirazione, il contatto intimo fra la materia e l’artefice senza mediazioni ed aiuti. Il pittore ha rappresentato se stesso che va a Tarascona per dipingere all’aperto. In una vecchia villa di Grunewald, in Wissmannstrasse 6, a Berlino, Kriester lavora, quando il clima lo rende possibile, in giardino. Aveva iniziato come pittore ma, ben presto, lo spazio della tela diviene per lui una prigione, un vincolo. Inizia così a fare oggetti tridimensionali: terrecotte a colori violenti, grandi mani di legno e di pietra arenaria, e nel 1972, bronzi. È il periodo delle teste trafitte, bendate, incise. I visi sono chiusi da elmi e da scafandri. Solamente le orecchie molli e cesellate come conchiglie sporgono all’esterno per ascoltare tutto ciò che è percepibile. Due di queste teste del periodo berlinese insieme a disegni di sua mano appaiono in una mostra che Torino gli ha dedicato nell’estate del 2003: “Forma, materia, segno, 5 scultori tedeschi nel giardino di palazzo Cisterna”.


Il giardino è ombroso, fresco, e le grandi teste si trovano in un cortiletto di raccordo fra la corte esterna e il giardino interno.Sono lucide, lisce, perfettamente fuse. Non si può fare a meno di ricordare i grandi testoni di Lenin, i busti di bronzo di Stalin nella vecchia Unione Sovietica. Kriester li sfregia, li tortura, lega il viso con funicelle che impediscono la vista. L’uomo che lo scultore tedesco rappresenta non vuole vedere o ciò che vede lo ferisce. Ma fin d’allora, fin dall’epoca delle teste, è forte in lui il richiamo della scultura all’aperto in un paese mediterraneo. Abbandonata l’idea della Spagna, Kriester nel 1982 affitta dal comune di Vendone la collina di Castellaro con la torre saracena e vi si stabilisce. Lo scopo è la creazione di un gruppo di manufatti stilizzato, diremmo astratto, in cui i numeri incisi rappresentino la matrice originaria, i simboli che costituiscono la realtà. I monoliti di Castellaro guardano verso Albenga, nella piana in cui si eleva la Cattedrale. Il fiume Centa, trascinando i detriti, l’ha interrata. Quella è un’opera collettiva, testimone del lavoro degli artigiani diretti dal maestro, nata dalla fede e compiutasi nelle certezze di una civiltà intrisa di Cristianesimo.




Per Kriester è impossibile che una comunità d’artisti lavori con uno stesso scopo e con purezza d’ispirazione, non crede nelle installazioni, nelle opere collettive.Solamente l’artefice, sulla strada di Tarascona, porge orecchio alla materia che chiede di essere sbozzata, di rappresentare la contemporaneità. I grandi occhi di Horus fissano le stelle, gli stargate di pietra si proiettano sul mare, le scale di marmo bianco di Carrara sono il nostro Calendario, un percorso ascensionale tutto occidentale ed europeo. Nulla può ritornare di ciò che è finito, tutto è frantumato. Castellaro è detta la Stonehenge italiana forse per quel sole che sorge nella porta rosa al solstizio d’estate. Ci rappresenta? Forse nella sua frantumazione, nella mancanza di un progetto, in quest’artista solitario che lavora in faccia al mare.




Resine


Presentazione del fascicolo
L’ occhio di Germano Lombardi

Tavola rotonda con Angelo Guglielmi -Pier Luigi Ferro - Silvio Riolfo Marengo Stefano Verdino

Savona - Sala della Sibilla -

Sabato 16 aprile 2011 ore 10