sabato 31 maggio 2014

Jorn Oltre la forma


Soggiorno a Zeewijk. Il Ponente rivelato di Marino Magliani



Ci sono luoghi che danno spessore agli incontri. Ieri alla fiera del libro di Imperia, mentre girellavamo per le vie della memoria , abbiamo incontrato Marino Magliani. Non ci sentivamo da tempo. Ci ha raccontato del suo ultimo libro e di come la malinconia si possa tradurre in geografie, forme di luoghi che in realtà sono le stanze più segrete del nostro cuore.


Vittorio Coletti

Soggiorno a Zeewijk il Ponente rivelato di Marino Magliani

Marino Magliani presenta in queste settimane il suo ultimo libro, "Soggiorno a Zeewijk", pubblicato da Amos con tenerissime illustrazioni del suo amico olandese Piet Van Bert. Magliani potrebbe essere un personaggio di Francesco Biamonti. Ligure di entroterra (è di Dolcedo), silenzioso e schivo, dai lavori precari e solitari, torna sempre alla terra antica dopo aver viaggiato mezzo mondo, dal Sud America, alla Spagna all'Olanda, dove attualmente vive facendo il traduttore dallo spagnolo.

Magliani ha però, di suo, una leggerezza e una mitezza ironica che non si trova negli ombrosi personaggi del suo maestro di S. Biagio della Cima e un gusto del racconto che gli viene da un'attitudine a osservare più gli altri che se stesso. I suoi romanzi, racconti e favole hanno il passo calmo e meditativo del ligure e una immediatezza e voracità narrativa sudamericana.

Questo "Soggiorno a Zeewijk" è una piccola perla: Zeewijk è un quartiere di Ijmuiden, sobborgo di Amsterdam, che Magliani percorre spesso pensando alla sua Liguria di Ponente, anche per una singolare somiglianza della topografia (disegnata nel libro) di quella provincia d'Olanda con la nostra regione. Scrivendo questo libro per una bella collana che invita scrittori a guardare luoghi, Magliani esplora con timidezza e curiosità le vie del quartiere dai nomi stellari (Andromedastraat, Planentenweg, Orionweg) e spia educatamente abitudini e stili di vita degli olandesi, in una sorta di diario in cui dialoga col suo amico pittore e tenta un'improbabile seduzione parlando a cartelli in neerlandese elementare con una sconosciuta dietro i vetri.

I tragitti olandesi sono interrotti periodicamente da ritorni della memoria al borgo ligure natio, così diverso e lon- tano, in cui i luoghi si chiamano, con asciutta funzionalità, Case sottane o Case soprane. La piantina urbana e umana del popolare e nuovo quartiere olandese, in cui non c'è edificio che, dopo una decina d'anni, non venga demolito e sostituito con un altro, si sovrappone così alle vecchie e inalterabili mappe catastali della Liguria, in cui tutto, case e campagne, resta inalterato per secoli e l'unica innovazione è data dall'avanzata inesorabile dei rovi e delle erbacce negli orti trascurati e nelle case sfondate.

Ci sono pagine deliziose in questo libro, pieno di una curiosità gentile e senza rancori per il mondo, rallegrato da un italiano pidgin, mescidato (vi si mescolano spagnolo, olandese e dialetto ligure), che a volte traballa con la soavità di una leggera ebbrezza, restando però sempre miracolosamente in piedi.

La repubblica – 16 maggio 2014

Marino Magliani
Soggiorno a Zeewijk
Amos, 2014
14 euro




Marino Magliani

Soggiorno a Zeewijk



Cosa fanno gli abitanti di Zeewijk quando non riescono più a essere indipendenti, come succederà tra non molto a Piet?

Il luogo si chiama bejaarden huis. Ce ne sono almeno tre. Sono a rotazione, anch’essi, come ogni cosa di Zeewijk: ora costruiscono il ricovero in un posto e fra vent’anni in un altro. In questo modo, l’abitante di Zeewijk non riesce mai a identificarsi con un luogo, ma solo con l’idea di un ricovero. Questa destinazione vagamente ignota mette addosso una certa apprensione, si passeggia tra le costellazioni e si indaga, sarà qui sulla piazzetta dell’Acquarius, sarà in cima alla Pegasus?

Di solito questi ricoveri sono molto ben curati, un giardino minuscolo di modo che l’anziano non fatichi, giusto l’angolino di verde “privato”, un premio alla carriera, e la vetrata dalla quale guardare il passaggio della vita. I vecchi dei bejaarden huis sono sereni, possiedono il loro monolocale e là dentro hanno tutto: l’infermiera che passa a sorvegliare, la cucina, il bagno con le maniglie alle quali appoggiarsi, e persino la vista sui ciliegi in fiore.

Li trovo a giugno, seduti sulla sedia di plastica, fuori, alla brezza nordica. Sembra che controllino le ciliegie verdi e raggrinzite, in attesa che maturino, ma non maturano mai perché siamo in Olanda e i vecchi lo sanno. Chissà cosa pensano questi vecchi.

Forse, ci ha ragionato Piet, è come da voi in Liguria, là, in quel posto dove sei nato, che era un ospedale e dove ora la gente anziana seduta sulle sedie bianche guarda con un po’ di desiderio i grappoloni di datteri che non maturano mai.

Non lo so, ho detto a Piet. Non gli parlo mai troppo volentieri o a lungo dell’idea di un ricovero. Non sono la persona adatta, lo confesso, discorrere di un inizio e della fine mi confonde. Vorrei vedere voi se foste nati in un posto che ora ospita il tramonto.

(Da: Marino Magliani, Soggiorno a Zeewijk)


giovedì 29 maggio 2014

Luciana Bertorelli, Terra Madre



Secondo Jung l'archetipo della grande madre rappresenta “la magica autorità del femminile, la saggezza e l'elevatezza spirituale che trascende i limiti dell'intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l'istinto o l'impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l'abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l'ineluttabile”. In una parola il simbolo della vita come sintesi degli opposti (a partire dal principio femminile e di quello maschile). Luciana Bertorelli nella sua ricerca testimonia di come l'arte sia una via privilegiata alla comprensione di questa verità primordiale.

Terra Madre
Mostra di sculture ceramiche
di Luciana Bertorelli

A cura di Catia Monacelli

Chiesa Monumentale di San Francesco, Gualdo Tadino (Pg)
2 giugno 2014, ore 17.00


2 – 29 giugno 2014
Venerdì, sabato e domenica
10.00 – 13.00 / 15.00 – 18.00






Luciana Bertorelli

Terra Madre ( Pangea)


TERRA MADRE è un'installazione composta di 6 sculture ceramiche di grande dimensione che rappresentano la Terra, intesa come nostra Madre.

L'idea è nata a Gubbio nel settembre 2013 da una proposta di Catia Monacelli che guardando la mia Pangea rossa mi ha detto: ” Vedo nella Chiesa di S.Francesco una serie di Pangee che vanno dalla più grande alla più piccola ...”

Quest'immagine della Pangea Rossa, una donna seduta con i gomiti posati sulle ginocchia, che porta sulle spalle la sua creatura e si copre il volto con le mani, in un gesto istintivo di difesa, di abbandono ma anche di dolore... un grido silente di dolore...io l'ho meditata a lungo dentro di me ed alla fine è uscito questo progetto dedicato alla Terra.

Terra Madre. E anche Pangea perchè ho voluto rappresentarla com'era all'origine...delle sculture quasi primordiali.

La Terra è malata , china su se stessa, porta sulla schiena  il fardello pesante dell'Uomo, con infinito Amore ci dona ricchezze incalcolabili di bellezza e generosità e noi dobbiamo ricambiare questo Amore: prenderci cura di Lei e rispettarla ...se non ci prendiamo cura della Terra la distruggiamo e se la distruggiamo essa distruggerà noi stessi. Non è nostra proprietà e ancor meno è proprietà di alcuni di noi, non dobbiamo pensare solo a sfruttarne le ricchezze ma preservarle per il futuro e per la sopravvivenza di tutti gli esseri viventi.

Si comincia da PANGEA ROSSA, la più piccola, h.cm 40, al centro di tutto...la figura è modellata in modo essenziale, con le mani al volto, e porta sulla schiena un sacco dentro il quale appare un bimbo, l'Uomo.

Il rosso è un grido di dolore , il colore del veto, il colore del sangue, della violenza... ma soprattutto dell'Amore.



Poi viene PANGEA FUOCO, h.cm 60, che nel vulcano appoggiato sulla schiena che sprizza lapilli e lava, rappresenta la ricchezza incalcolabile racchiusa nelle viscere della Terra..oro, argento, platino, pietre preziose e fuoco inestinguibile che vengono ghermite senza rispetto.I colori partono dal nero, sfumano nell'ocra e trionfano nell'oro.

PANGEA ACQUA h.cm 8o è una fanciulla che ha sulle spalle, al posto del sacco, una grande anfora dentro la quale finiscono i lunghi capelli a formare una fluente cascata....acqua, mare, fiumi..in una gamma di azzurri, turchesi, blu e verde acqua. Gli alluci dei piedi entrambi alzati danno un tocco di leggerezza e sensualità.

PANGEA PETRA h. cm 80, ha il colore rosato e cangiante delle pietre di fiume dove appare il rosso sbiadito insieme ad una patina di muschio leggero...il sacco è gonfio delle pietre che pesano e formano una massa scultorea.

PANGEA FLORA h. cm 100, ha le mani sul volto come tutte ma una mano è nascosta da un fiore che la copre quasi totalmente .Porta nel suo sacco fiori e foglie che sembrano scavate nella roccia, ingentilite dai rossi ed arancioni accesi che balenano sulla superficie, alcuni scivolano lungo il collo ad ingentilire una figura dove predomina la scultura essenziale

PANGEA ARIA che le domina tutte è alta 120 cm ed è la più ieratica di tutte. Le gambe unite e le ginocchia appaiate, solo l'alluce dx è rialzato a dare una sensazione di slancio verso l'alto, di movimento che viene ripreso dalla testa asimmetricamente inclinata verso sx.

I piedi sono grandi, importanti, posati saldamente a terra, differenti solo in alcuni particolari. La crocchia di capelli, presente in tutte le sculture, qui ha un movimento leggero e modulato di veli che nascondono un fruscio di uccelli che si susseguono incessantemente.

Così come i fori delle orecchie , presenti in tutte le sculture grandi, permettono di guardare dentro la figura in un gioco di pieni e di vuoti .

PANGEA ROSSA, PANGEA FUOCO, PANGEA ACQUA, PANGEA PETRA, PANGEA FLORA, PANGEA ARIA , tutte nella stessa posizione, sedute con le mani a coprirsi il volto e sulle spalle un sacco che cambia di volta in volta ricco dei doni che la Terra offre incessantemente agli uomini.

E' un grido di dolore che parte dalla Terra e merita di essere ascoltato!



martedì 27 maggio 2014

Dal Passo della Teglia al Passo della Mezzaluna alla ricerca di menhir e pietre sacre



Giorgio Amico

Dal Passo della Teglia al Passo della Mezzaluna alla ricerca di menhir e pietre sacre

Oggi siamo saliti al Passo della Teglia da dove le Alpi si specchiano nel mare. Forse non è la giornata giusta per salire fino a qui, il cielo è plumbeo, ma il panorama resta bellissimo. Da un lato le Marittime ancore coperte di neve, dall'altro grige nella luce caliginosa del mattino le case di Arma di Taggia.















Lasciamo l'auto e proseguiamo a piedi sul sentiero che attraverso la faggeta sale al Passo della Mezzaluna. Avanziamo lungo un cammino millenario, attraversando quello che resta del grande bosco di Rezzo, terra del lupo e del cinghiale.



Di qui salivano le greggi ai pascoli alti, al Passo della Mezzaluna alle falde del Monte Monega. Transumanze millenarie di cui restano tracce indelebili al Sotto di S. Lorenzo (1379 m.)



Su questa pietra i pastori si spartivano gli alpeggi, ma prima sacrificavano un agnello al dio della montagna.



Ancora ben visibile la coppa destinata a raccogliere il sangue della vittima che poi colava al suolo a fecondare terra e greggi.



I ruderi della chiesetta di S. Lorenzo testimoniano del tentativo di cristianizzare questo luogo magico.



Pochi ruderi, ma in alto, al Passo delle Porte, ancora svetta verso il cielo il menhir eretto in età immemorabile a celebrare la sacralità del luogo.



E ancora avanti, sul sentiero, verso il Passo della Mezzaluna, mentre dal Monega scende una nebbia sempre più fitta. Tra gli alberi filtrano suoni di campanacci, l'atmosfera è carica di magia. Avvolte della nebbia mucche al pascolo ci guardano passare.



Per un attimo la caligine si squarcia e un pallido sole ci svela la bellezza della fioritura.



Ma scende di nuovo la nebbia e ci costringe a tornare indietro. Lasciamo i pascoli e rientriamo nel bosco. Sopra di noi il dio della montagna avvolto in una coltre di nubi.


Siamo sospesi in un'atmosfera senza tempo.



venerdì 23 maggio 2014

Imperia. Sul filo dei ricordi. La Riviera ricamata




Mostra "Sul filo dei ricordi. La Riviera ricamata"
25 maggio - 2 giugno 2014


Nella Villa Faravelli di Imperia, in viale Matteotti 151, sabato 24 maggio 2014 alle ore 16,30 s'inaugura la mostra "Sul filo dei ricordi. La Riviera ricamata", realizzata dall'Associazione Magia di Punti insieme alla Fondazione Mario Novaro e al Comune di Imperia. Si potrà visitare dal 25 maggio al 2 giugno, tutti i giorni dalle 10 alle 18, a ingresso libero.


 

Occitanie pour una Europe des peuples


Elezioni europee. In Francia i nostri amici del Partito della Nazione Occitana si presentano in una lista che unisce rappresentanti delle minoranze nazionali occitane, catalane e basche in un paese ultracentralistico che non riconosce statuti speciali per le minoranze linguistiche.


giovedì 22 maggio 2014

Piero Simondo, Manica a vento























PIERO SIMONDO
Manica a vento
Balestrini
Centro Cultura Arte Contemporanea
Via Isola 40, Albissola Marina (SV)
24 maggio - 28 giugno 2014

INAUGURAZIONE:

Sabato 24 maggio 2014, ore 17.30
Orario di apertura della galleria nei giorni a seguire: 16.00 – 18.00
Domenica e lunedì chiuso Ingresso libero




Inaugura sabato 24 maggio, ore 17.30, al Centro Cultura Arte Contemporanea Balestrini (Albissola Marina - SV) “Manica a Vento”, mostra personale di Piero Simondo. Organizzata nei luoghi che accolsero il soggiorno nuziale dell’artista dopo il matrimonio con la moglie Elena nel giugno del 1957, la rassegna, curata da Sandro Ricaldone e Riccardo Zelatore, riunisce opere che a partire dagli anni ’50 documentano un quarantennio di attività. Fra queste la giovanile “Africa” (1950), dove già si rivela l’inclinazione verso un primitivismo di matrice espressionista che negli anni successivi troverà piena manifestazione nell’intensa produzione di monotipi, di cui pure sono esposti alcuni esempi (“Sovraimpresso bianco”, 1954; “Sul blu”, 1955, “Controtipo”, 1960). Al centro della mostra due lavori di grande dimensione: “Parvenze” (1962-67), una sorta di apparizione su uno sfondo cromaticamente acceso, e “Manica a vento” (1975), composito dipinto-assemblaggio creato su un supporto grezzo, a tratti perforato.

Il percorso prosegue con le “Ipopitture”, un “gioco del rovescio” in cui l’immagine viene stesa sul verso della tela e fatta filtrare sul recto con l’impiego di solventi, e i “Raschiati” degli anni ’70, dove il colore è steso e sottratto al tempo stesso con gesti rapidi e casuali, per chiudersi con “Piccolo ipofiltraggio”, una ulteriore elaborazione della tecnica sperimentata con le Ipopitture, realizzata su tela da materasso nel 1993, l’anno stesso della sua precedente mostra nello spazio di Franco Balestrini.

”Chi non ha percorso a quei tempi la linea Bra-Cavallermaggiore- Savona non può immaginare la bellezza dei vagoni con sedili di legno fine secolo. Su quegli scomodi e duri divanetti a tre posti, noi (Elena e Piero), in viaggio di nozze e di luna di miele, discettavamo in francese d’arte e d’avanguardia, con due fra i probabili migliori e relativamente ignoti avanguardisti culturali del momento (Asger e Guy) su cui iniziavano a soffiare lievi e variabili venti di gloria. In quel lontano inizio di giugno faceva un freddo autunnale e noi, gli sposini, attrezzati per l’estate tremavamo nel vento e nella pioggia. Si mangiava, quasi sempre in compagnia, in una delle trattorie del carruggio alle spalle e parallelo alla Via Aurelia lungomare (pasta al pesto e cozze alla marinara, di solito).

La frequentazione più assidua avveniva con Debord: partivamo, a piedi, per i cinque chilometri necessari a raggiungere il porto di Savona e il relativo luogo di sosta dove bevevamo un (e più d’uno) Australian rum, scoperto fra le bottiglie del bar portuale; pare che, par¬lando fra di noi in francese, io fossi stato identificato, dai locali, per i miei capelli cortissimi e biondi, come un probabile ufficiale di nave straniera (svedese, a quanto ricordo). Eravamo giovani e incuranti, più che insolenti; tutto ci divertiva e rallegrava”.

Così Piero Simondo ricorda il soggiorno nuziale ad Albissola nel giugno del 1957, dove poco meno di due anni prima, in occasione di una mostra con Pinot Gallizio nei locali della trattoria Da Lalla, avevano incontrato Asger Jorn e stabilito le basi per la fondazione, ad Alba, del Laboratorio Sperimentale del Bauhaus Immaginista. Anche in questa circostanza qualcosa bolliva in pentola: la creazione dell’Internazionale Situazionista, che giusto il mese successivo doveva nascere in casa Simondo a Cosio d’Arroscia dalla confluenza del M.I.B.I. (rappresentato da Pinot Gallizio, Asger Jorn, Walter Olmo, Piero Simondo ed Elena Verrone) con l’Internationale Lettriste (Michèle Bernstein e Guy Debord) ed il Comitato psicogeografico di Londra (Ralph Rumney). 

Oggi, mentre con l’inaugurazione della restaurata Casa Jorn ai Bruciati, con le mostre ospitate dalla Pinacoteca Civica di Savona e nelle rinnovate sale museali di Albissola Marina si celebra il centenario della nascita di Jorn, Simondo torna nel luogo dove il suo percorso si è incrociato per la prima volta con quello dell’artista danese, con una personale allestita presso il Centro Cultura Arte Contemporanea Balestrini.



CENNI BIOGRAFICI 

Piero Simondo nasce a Cosio d'Arroscia (Imperia) nel 1928. Allievo di Felice Casorati e di Filippo Scroppo all'Accademia Albertina di Torino, dopo aver intrapreso studi di chimica si laurea in Filosofia nell'ateneo torinese. Nel 1952 incontra ad Alba Pinot Gallizio, presso il quale soggiorna e che introduce alla pittura. Nel settembre del 1955 fonda ad Alba con Asger Jorn e Pinot Gallizio il Laboratorio di esperienze immaginiste del Mouvement Internationale pour une Bauhaus Imaginiste (M.I.B.I.) e pubblica il Bollettino del movimento, "Eristica". Nell'estate 1956 (2-9 settembre) Simondo organizza, sempre ad Alba, con Jorn, Gallizio ed Elena Verrone (che sposerà l’anno seguente), il Primo Congresso mondiale degli Artisti liberi sul tema "Le arti libere e le attività industriali".

Nell'estate del 1957 nella sua casa di Cosio d'Arroscia viene fondata l'Internazionale Situazionista, da cui fuoriesce nel gennaio successivo insieme a Elena Verrone e Walter Olmo, in polemica con Guy Debord. Nel 1962 fonda a Torino, con un gruppo di operai e intellettuali, il CIRA (Centro Internazionale per un Istituto di Ricerche Artistiche, 1962-1967) con il proposito di recuperare l'esperienza del Laboratorio di Alba. Con il CIRA progetta – fra l’altro – installazioni sui temi dell’alienazione e della natura dei media.

Nel 1972 entra all'Università di Torino per occuparsi dei laboratori di "attività sperimentali" presso l'Istituto di Pedagogia. Qui insegna poi, sino al 1996, Metodologia e didattica degli audiovisivi.



FRA LE SUE PUBBLICAZIONI

L’alba della logica – Torino, SEI, 1967
Ars vetus, ars modernorum – Torino, SEI, 1971
Spazi educativi e ricerca in situazioni di Laboratorio – Torino, Tirrenia Stampatori, 1981
Che cos’è stato il Laboratorio sperimentale di Alba – Genova, Libreria Sileno Editrice, 1986
La situazione laboratorio – Torino, Tirrenia Stampatori, 1987
Formazione e produzione di immagini – Milano, Franco Angeli, 1989
Il colore dei colori – Firenze, La Nuova Italia, 1990
A mo’ di prefazione, nel catalogo Jorn in Italia. Gli anni del Bauhaus immaginista – Torino, Fratelli Pozzo, 1997
Guarda chi c’era, guarda chi c’è. L’infondata fondazione dell’Internazionale Situazionista – Genova, Ocra Press, 2004
L’immagine imprevista. Rendiconti, opere, interviste, a cura di Sandro Ricaldone – Genova, Il Canneto editore, 2011

PRINCIPALI ESPOSIZIONI PERSONALI (DAL 1980)

1982 – Studio Rolla, Torino
1986 – Libreria Sileno, Genova
1988 – Fondation Musée Hébert, Grenoble
1993 – Centro Balestrini, Albissola Marina
1993 – Il Triangolo Nero, Alessandria
1994 – Studio Leonardi V-idea, Genova
1994 – Libreria Sileno, Genova
1994 – Studio Gennai, Pisa
2004 – Galleria Giampiero Biasutti, Torino
2004 – Studio B2, Genova
2005 – Galleria Peccolo, Livorno
2008 – Chiesa di San Domenico, Alba
2011 – Oratorio dei Disciplinanti, Finalborgo (Finale Ligure)
2012 – ArtGallery La Luna, Borgo San Dalmazzo
2012 – Fondazione Peano, Cuneo
2013 – Spaziobianco, Torino
2013 – Palazzo Ducale, Genova
2014 – Centro Balestrini, Albissola Marina


Mauro Baracco, L'aquilone. Diario artistico savonese

Asger Jorn nella sua casa di Albisola



















Abbiamo chiesto a Mauro Baracco, vecchio amico e osservatore attento del panorama artistico, di affidare ogni tanto al soffio del nostro Vento largo un aquilone (fatto di idee e magari di sogni) da far volare il più alto e il più lontano possibile. Oggi, il primo volo, con una panoramica su cosa bolle in pentola a Savona e dintorni.

Mauro Baracco

L'aquilone. Diario artistico savonese

Capita ogni tanto che il tempo volga al bello e...può quindi succedere che nella nostra sonnacchiosa realtà territoriale, nel volgere di poche settimane si concretizzino eventi positivi e che per tali devono essere riconosciuti; merito certo dell'avvicinarsi delle scadenze elettorali ma altrettanto di qualche (raro) Amministratore in grado di comprendere che nella tragica situazione contingente “la Cultura” intesa nella sua essenza migliore può essere il volano che fa' la differenza e che su di essa occorre quindi investire risorse, anzi che, come d'abitudine, operare miopi tagli.

Se nel frattempo accade pure che arrivino “foresti” in grado di portare ai nostri lidi linfa nuova, energie, competenze e la capacità di fare squadra, gli sprazzi di sereno possono allargarsi.

Se ulteriormente anche qualche privato senza adagiarsi nei lamenti abituali ha la capacità di gettarsi coraggiosamente in nuove e qualificanti avventure...il gioco può dirsi (quasi) fatto.

Dopo mesi e anni di occasioni d'arte utili quasi essenzialmente per qualche incontro similmondano nei quali i Maestri abbondano come e più degli stuzzichini d'ordinanza, nel giro di pochi mesi dalle nostre parti si sono concretizzate, nell'ordine, tre “cose”che in chi scrive queste poche e disordinate righe, hanno acceso un filo di speranza...nell'ordine:

la pubblicazione de “Il Lungomare degli Artisti di Albissola Marina 1963 – 2013” (Silvana Editoriale Milano 2013); l'inizio delle manifestazioni celebrative, in Albissola Marina, del Centenario della nascita di Ansger Jorn; l'apertura del nuovo spazio espositivo di Antonella Gulli, in Corso Italia.

Qualche ortodosso mi tacci pure di mettere insieme cose assolutamente diverse...ha ragione da vendere...



Il primo elemento al quale facevo riferimento, è una sana rilettura del reale divenire della Passeggiata degli Artisti di Albissola Marina (SV), operata dal suo estensore (il Dottor Luca Bochicchio dell'Università di Genova) rifuggendo dagli stereotipi che per anni hanno ricoperto questa avventura di orpelli e leggende inutili (...Albissola che ha sempre voluto bene agli artisti e via fantasticando...).
La storia viene finalmente, nell'opera sopra citata, letta nella sua reale essenza: quella di una decisione assunta da uomini che ne uscivano da poco dalla realtà della guerra (e molti di loro dall'impegno attivo nella Resistenza) e che pur dotati, a volte, di scarsi mezzi di conoscenza, ebbero la grande intelligenza di essere capaci di circondarsi, come utili consiglieri e collaboratori, di intellettuali di assoluto valore.

Uomini ai quali non importava molto delle assurde critiche del loro leader indiscusso (Palmiro Togliatti) all'arte informale e, ad esempio, decidevano “a muso duro” di incaricare l'informalissimo Leoncillo Leonardi di erigere proprio sulla centralissima passeggiata a mare un Monumento ai Caduti di tutte le Guerre, senza vincoli ideologici di sorta.

Il libro del Dottor Bochicchio ricostruisce questa storia in maniera scientifica, doverosamente documentata, dicendo cose intellettualmente oneste, ad esempio, sulla decisione assunta dagli Amministratori locali, nell'anno 2000, di collocare un pannello (che mai sarebbe stato voluto dall'Artista) di Asger Jorn sulla Passeggiata degli Artisti.

Questo libro, del venetissimo Bochicchio, segue al vuoto lasciato dopo la pubblicazione, nel 1990, de “l'Avventura Artistica di Albissola 1920 - 1990” pubblicato a suo tempo dai piemontesissimi Margherita e Luciano GalloPecca...gli dei ci conservino i foresti...



Secondo elemento: dopo anni nei quali ci si è dimenticati, nei nostri lidi, di appuntamenti che non si sarebbero dovuti dimenticare (cito per tutti il Centenario della nascita di Mauro Reggiani o gli ottanta anni della nascita di Ansgar Elde), si sono finalmente dedicate le risorse necessarie alla degna celebrazione del Centenario della nascita di Asger Jorn, un uomo ed un artista che ad Albissola ha dato tanto, fin dal suo primo incontro.

Sulla grandezza del medesimo non sta a me scrivere parole in libertà; vorrei solo ricordare che il rapporto suo con Albissola fu contrassegnato anche da incomprensioni, accuse di voler compiere degli scempi edilizi (...e sì...proprio un argomento tanto desueto, normalmente, dalle nostre parti..); blasonatissimi politici locali tuonavano:“...si credono di venir qua a far quello che vogliono...”; dal momento della sua morte, trascorsero decenni prima che un'Amministrazione Comunale si decidesse a svolgere le pratiche necessarie all'accettazione della generosa eredità della sua Casa (..che non l'ha ancora visitata provveda...capirà che non si può scrivere minuscolo..).

Ora finalmente si è iniziato a compiere le scelte dovute: si è dato incarico in un primo tempo all'indimenticabile Prof. Franco Sborgi e successivamente alla sua morte al Dottor Luca Bochicchio (..e sì..di nuovo lui...teniamocelo caro..) di seguire tutta la partita che ha portato tanto alla riapertura al pubblico della Casa finalmente resa accessibile e restaurata come si deve e contemporaneamente si sono resi efficienti gli spazi di quel contenitore che un po' comicamente, dalle nostre parti si osava definire “Museo di Arte Contemporanea”.

Doverosamente, devo ricordare il grande contributo dato dal Prof. Sandro Ricaldone, “scienziato” dell'operato artistico di Asger Jorn e persona fin troppo discreta...di questi tempi può nuocere gravemente.

Ora è necessario che tutto ciò non diventi un fuoco effimero e che le risorse per questa operazione “qualità” vengano reperite in maniera strutturale; se ciò accadrà, forse non sentiremo più parlare di Albissola unicamente per le polemiche della movida ferragostana, ma potremmo lentamente tornare a godere di una brezza che non spirava più...da troppo tempo.



Il terzo elemento che citavo all'inizio come momento di speranza è l'apertura del nuovo spazio espositivo dell'Atelier Gulli in Corso Italia 201 r., a Savona.

La cara vecchia città nella quale sono nato, continua a perdere un'occasione dietro l'altra, quando si parla di Cultura: gli spazi della nostra memoria (Sant'Andrea, San Michele, Cona e via elencando) son tutti finiti; begli spazi di proprietà comunale, magari collocati al centro del salotto (..”buono” lo scriverò quando sarà decentemente ripiantumato e abbellito come si conviene per una città capoluogo) sono stati impegnati per far “pronta cassa” perdendo così un'occasione di oculato investimento sul piano dell'immagine e dell'offerta culturale.

La brava Antonella Gulli, incurante dei cattivi esempi, ha gettato tutte le sue energie in una nuova avventura per la quale ci vuole veramente del gran coraggio...a lei l'onore e l'onere di tener alto il livello, con un'offerta degna di cotanto sforzo.


Per intanto, in questi giorni, godiamoci la bella mostra di Sandro Lorenzini, savonesissimo artista di livello internazionale, presente in spazi espositivi privati ed istituzionali di tutto il mondo che qua da noi si presenta, in questa occasione, per offrirci una mostra che definisce “..un incontro tra gli amici...”...modestia e signorilità...da non perdere...


domenica 18 maggio 2014

Raffaele K. Salinari, L'angelo dell'anima, la trama del vivente



Come cogliere la totalità di cui facciamo parte, l'immagine del mondo, la manifestazione stessa del nostro essere: una genealogia visionaria che parte dai platonici d'Oriente per arrivare a Walter Benjamin.*

Raffaele K. Salinari

L'angelo dell'anima, la trama del vivente

«Chi se io gridassi mi udirebbe mai dalle schiere degli angeli?… Ogni angelo è tremendo»; così canta Rilke nell’aprire le sue Elegie Duinesi. Ma forse esistono altri tipi di angeli, meno distanti e terribili di quelli invocati dal poeta. Nella chiesa di San Martino in Bologna, ad esempio, è visibile una tela di Francesco Brizzi: è un’immagine degli Angeli Custodi che li ritrae sorridenti e bellissimi accanto ad alcuni bambini che giocano, come nel quadro di Antonio Giovanni Galli detto Lo Spadarino, della scuola di Caravaggio. Osservando questi dipinti si rimane colpiti dalle fattezze dei bambini e dei loro Angeli: sono identiche; gli stessi tratti nei volti dei bimbi si ritrovano in quelli della loro Daēnā.



L’Angelo dell’anima

Chi è la Daēnā? È l’«Angelo dell’Anima»; così Henry Corbin ne introduce la figura nel suo famoso saggio sul misticismo iranico Corpo spirituale e Terra celeste.

«Alla domanda dell’anima stupefatta che chiede ma chi sei? alla fanciulla che avanza all’ingresso del Ponte Chinvat e la cui bellezza risplende più di ogni altra bellezza mai intravista nel mondo terrestre, essa risponde sono la tua propria Daēnā – ciò che vuol dire: io sono in persona la fede che hai professato e quella che te l’ha ispirata, quella per cui hai garantito e quella che ti ha guidato, quella che ti ha riconfortato e quella che ora ti giudica, poiché io sono in persona l’Immagine voluta infine da te stesso. Non è nel potere di un essere umano distruggere la propria idea celeste, ma è in suo potere tradirla, separarsene, non avere di fronte a sé, all’ingresso del Ponte Chinvat, che la caricatura abominevole e demoniaca del suo io abbandonato a se stesso».

Il Ponte Chinvat è il luogo di passaggio tra la vita e la morte, il momento in cui ognuno di noi vede la propria Daēnā e comprende, in un istante di rivelazione suprema, se andrà verso la luce o le tenebre. Ma ad ognuno, in ogni momento della vita, è possibile averne una prefigurazione osservando il riflesso di se stessi rispecchiato nel volto di un Angelo che tutti ci comprende, del quale siamo solo un tratto del Volto: l’Angelo del Mondo.

L’Angelo dell’Anima come personificazione e destino delle nostre stesse opere in vita è dunque la matrice di quella figura della devozione popolare cristiana che è l’Angelo Custode, oggi ridotto a semplice guida subalterna a Potenze superiori, nell’originale precristiano, invece, vera e propria Potenza egli stesso, come risuona ancora nell’etimologia greca anghelos: cioè il messaggero che mantiene vivo il dialogo tra noi e l’insieme delle altre manifestazioni che compongono il Volto dell’Angelo del Mondo; per questo ogni giorno egli ci sussurra lo stesso messaggio: «Oggi è il Giorno del Giudizio!».

Forse Wim Wenders ha umanizzato il suo Angelo Custode e messo le ali alla sua trapezista proprio perché essi meglio svolgessero questo compito. «L’Immagine che ho creata è quella che accompagnerà la mia morte e in questa immagine avrò vissuto» dice l’Angelo fattosi uomo mentre finalmente accompagna nelle sue acrobazie sulla corda la trapezista angelicata de Il cielo sopra Berlino. Un pensiero che compendia la visione di se stesso prima come Angelo e poi come uomo di quello stesso, Daēnā finalmente attualizzata nel Mondo attraverso l’amore per la figura che, incrociando il suo cammino, si fa Angelo a sua volta.

E, curiosamente, chi coglie questo stesso aspetto è un altro scrittore che tratta anch’esso di pratiche circensi: «Una solitudine mortale… Ma l’angelo si fa annunciare, devi riceverlo da solo. Per noi l’Angelo è la sera, scesa sulla pista sfolgorante. Non importa se, paradossalmente la tua solitudine è in piena luce e l’oscurità formata da migliaia di occhi che ti giudicano, che temono e sperano che tu cada: danzerai al di sopra e al centro di una solitudine desertica, gli occhi bendati, se puoi, le palpebre sigillate.

Ma nulla – soprattutto non gli applausi o le risate – ti impedirà di danzare per la tua immagine. Tu sei un artista – ahimè – non puoi sottrarti alla voragine spaventosa dei tuoi occhi. Narciso danza? Civetteria, egoismo, amore di sé; no, si tratta di ben altro. Forse della Morte stessa… La Morte – la Morte di cui ti parlo – non è quella che seguirà la tua caduta, ma quella che precede la tua apparizione sul filo…

Tu entri e sei solo. Apparentemente, perché egli è là. Egli viene non so da dove, forse lo portavi tu entrando, o lo evoca la solitudine, è lo stesso. È per lui che fissi la tua immagine».

Così Jean Genet vede Abdallah, il suo amante funambolo, nel libro omonimo. Un testo nel quale l’autore ripercorre, non solo la sua storia d’amore per il giovane, ma le fasi della sua iniziazione all’arte della corda anche attraverso la figura del suo Angelo Custode.

E dunque l’immagine della corda tesa come metafora del Ponte Chinvat attraversa entrambe le scene.

Ma a che serve, in questa modernità, rivedere la figura dell’Angelo dell’Anima come manifestazione del nostro stesso essere nel Mondo? O meglio, come possiamo utilizzare questa Immagine per cogliere il Mondo nella sua totalità in atto, come un «chi è» del quale facciamo intrinsecamente parte?

La filosofia occidentale è stata la scena di ciò che si può definire un «combattimento per l’Anima del Mondo». Da una parte troviamo, quali «cavalieri» difensori di questa anima i Platonici, da Platone stesso a Plotino, sino a Pico della Mirandola e Jacob Boheme e la sua scuola con tutti coloro che gli sono affini, premoderni potremo definirli, sino a Walter Benjamin ed alla sua strenua perorazione dell’apocatastasi rivoluzionaria. Dall’altra parte i suoi antagonisti: dagli Atomisti ionici a Descartres, sino agli attuali teorici bioliberisti del «sorvegliare e punire».



Si tratta di un combattimento definitivamente perduto avendo perso il Mondo la sua Anima, di una disfatta le cui conseguenze pesano, senza comprensione, sulle nostre visioni moderne del Mondo? Forse no se proviamo a dotarci di strumenti immaginali che possano contrastare la progressiva perdita di senso del nostro esserci col Mondo e non solo nel Mondo.

In un libro Sul problema dell’anima, G.T. Fechner l’autore di Nanna o L’anima delle piante, racconta come un mattino di primavera, mentre una luce di trasfigurazione cingeva d’aureola la faccia della Terra, fu colpito non solo dall’idea estetica, ma dalla visione e dall’evidenza concreta che «la terra è un Angelo, un Angelo così sontuosamente reale, così simile ad un fiore!». Ma, aggiunge malinconicamente, un’esperienza come questa passa ai nostri giorni per immaginaria. Questa perspicua percezione presuppone invece il perfetto esercizio di quella facoltà di cui Fechner precisamente lamenta la degradazione ed il rifiuto.

Il fatto che l’esperienza dell’Angelo della Terra possa essere confinata nell’irreale, significa e rivela che, al contrario, questa maniera di percepire e di meditare la Terra è legata ad facoltà noetica affatto particolare che dobbiamo riscoprire, per valorizzare i mezzi di conoscenza di cui ancora, nonostante tutto, disponiamo.

E certamente incontrare la Terra non come insieme di fatti fisici, ma nella persona del suo Angelo, questo è un accadimento essenzialmente psichico che non può «aver luogo» né nel mondo della «illusione», né sul piano dei semplici dati sensibili.

E allora dov’è questo «luogo» mentale in cui il Mondo può essere visto come un Angelo, e noi come parte di esso? E ancora, qual è la particolare facoltà noetica che ci consente di coglierlo? La percezione dell’Angelo della Terra si compirà nel nostro Mundus Imaginalis, attraverso la pratica dell’Imaginatio Vera.



Mundus Imaginalis

Ecco, allora, che Corbin definisce, nel capitolo introduttivo di Corpo spirituale e Terra celeste, il Mundus Imaginalis come il «luogo» in cui avviene la percezione del «Mondo come Angelo».

La chiave interpretativa di questo mondo spirituale come matrice di una visione perspicua delle connessioni che attraversano il mondo fenomenico si ritrova nella posizione di coloro che vengono chiamati i «Platonici di Persia»: gli Ishrāqīyūn del ceppo spirituale di Sohravardī (XII secolo).
L’espressione Mundus Imaginalis è l’equivalente latino dell’arabo ‘ālam al-mithāl, al‘ālam al-mithālī, in italiano «Mondo Immaginale», termine-chiave, poiché i termini latini hanno il vantaggio di fissare le tematiche, preservandole da traduzioni aleatorie. E qui che agisce la nostra Imaginatio Vera, quella facoltà cognitiva – Nous Poietikos o Intellectus Agens, in arabo al-‘aql al-fa’āl – di cui parla anche Aristotele: la capacità dell’intelletto non solo di cogliere le essenze che accomunano degli oggetti, ma di attualizzarle, dando forma così alla realtà sui generis che forma la nostra Geografia Immaginale.

«Da molto tempo la filosofia occidentale, quella ‘ufficiale’ trascinata nella scia delle scienze positive, ammette soltanto due fonti del conoscere. Vi è la percezione sensibile, che fornisce i dati chiamati empirici. E vi sono i concetti dell’intelletto, il mondo delle leggi che regolano tali dati empirici. Per essa era pacifico che l’Immaginazione emette solo dell’immaginario, vale a dire dell’irreale, della finzione, ecc. A questa stregua non resta speranza alcuna di ritrovare la realtà sui generis di un mondo soprasensibile, che non è il mondo empirico dei sensi né il mondo astratto dell’intelletto».

Nel recuperare le intenzioni costitutive di questo intento per cui la Terra è figurata, meditata, e incontrata nella persona del suo Angelo, si scopre così che si tratta non tanto di rispondere a interrogativi concernenti la posizione spaziale delle forme, «che cosa è?, dov’è?», quanto di empatizzare con delle sostanze, dei «chi è?», per trovare come ci corrispondono.

Basti solo pensare alla definizione di Bene Comune che scaturisce da questa visione per comprenderne la portata: Bene Comune significa qui non che la «cosa in sé» è a disposizione di noi tutti, ma che siamo noi tutti ad avere qualcosa in comune con essa, che siamo parti comuni allo stesso Bene, forme diverse della stessa sostanza.

E questa comunanza, come dice il Talmud di Gerusalemme, implica delle responsabilità: «Un giorno renderai conto di tutto ciò che il tuo occhio ha visto e da cui non hai tratto beneficio e piacere».



Dove gli Angeli esitano

La pratica dell’Immaginazione Vera è la stessa che troviamo espressa da Jung nel Fiore d’oro, quando introduce il concetto di «disciplina» immaginale» in relazione all’osservazione dei mandala; è lo «sguardo dell’anima» di cui parla Platone nel Sofista (254-B), cioè la volontà di vedere il numinoso che attraversa e sostiene tutte le cose, noi stessi inclusi.

E di questa «disciplina» parla anche Gregory Bateson, nel suo tentativo di creare una nuova epistemologia per svelare la «struttura che connette» il vivente; egli propone l’identità essenziale tra tutte le manifestazioni del Mondo come definizione stessa di ecologia: «Ciò che noi crediamo di essere, dovrebbe essere compatibile con ciò che crediamo del Mondo intorno a noi».

Nel suo ultimo libro, che non a caso si chiama Dove gli Angeli esitano, egli dedica la sua estrema riflessione alla ricerca di questo «intermondo», cercando il Volto dell’Angelo nell’evenienza di una «trama che connette» tutto il vivente attraverso livelli sempre più analogicamente complessi di comunicazione, che egli definisce come mente, intendendo con questo ogni sistema capace di scambiare informazioni tra manifestazioni vitali, qualunque ne sia il livello di sensibilità o autoconsapevolezza. Una posizione decisamente anticartesiana che ribalta la distinzione fondamentale del «moderno» tra res extensa e res cogitans attribuendo ad ogni aggregato materiale una qualche forma di entità.

In altre parole le risposte che cerchiamo non sono solo dentro di noi ma giacciono nell’intelligenza collettiva formata da tutte le manifestazioni viventi; il Mundus Imaginalis serve come luogo di connessione con queste Immagini del Mondo in atto che divengono così la guida per il nostro esserci.

Bateson parla spesso della responsabilità dei «costruttori di miti collettivi», tra cui i poeti e gli scienziati, che dovranno lavorare sempre più insieme per far emergere, alla consapevolezza dell’umanità, non solo i luoghi dove «si incontrano il mentale ed il materiale», ma anche che esistono modalità di sensibilità, e vitalità, diverse da quella umana, ma concorrenti a formare i tratti del Volto dell’Angelo del Mondo.

Ma, come già sottolineato da Jung, tutte le operazioni efficaci, inclusa la pratica dell’Immaginale, fanno correre rischi; Corbin ammonisce su come sia possibile scivolare facilmente verso un suo utilizzo distorto, apolitico, sganciato dalle condizioni fattuali di chi abita il Mondo; potremmo dire new age. L’immaginario può essere innocuo l’Immaginale non lo è mai.



Lo storico dell’arte Didi-Huberman, da parte sua, coglie questa opportunità sottolineando come per portare alla luce una funzione così cruciale – così antropologicamente formatrice – delle Immagini che connettono, occorre aprire gli occhi su tutto ciò che avviene, secondo il concetto benjaminiano dello «storico straccivendolo» che guarda la realtà anche con gli occhi sbarrati e rivolti all’indietro dell’Angelo della Storia. Ma occorre anche chiudere gli occhi per lasciar venire a noi i blocchi di relazioni, le condensazioni, gli spostamenti, le analogie inosservabili a occhio nudo.

Se è vero che Aby Warburg, prima di Benjamin, col suo progetto Mnemosyne chiede alla storia delle immagini di assumersi il «compito di interpretare i sogni» (die Aufgabe der Traumdeutung) allora si deve accettare che l’interprete diventi parte ricevente: così, in una sorta di «principio di indeterminazione» di Heisenberg immaginale, in cui l’osservatore diviene il fenomeno osservato, il cerchio si chiude.

Alla fine di questa genealogia visionaria che parte dai platonici di Oriente per arrivare a Benjamin, il Volto della Daēnā, di volta in volta Angelo dell’Anima, Angelo Custode, o Angelo della Storia, risulta essere la figura paradigmatica del nostro stesso volto, la cui intelligibilità empatica ci conduce alla visione dell’Angelo del Mondo; alla visione del Mondo come angelofania.

Questa Mappa Mundi formata dalla nostra Geografia Immaginale è dunque il «luogo degli avvenimenti dell’anima»; senza, essi non hanno più un luogo: cioè «non hanno più luogo».E tra gli «avvenimenti dell’anima», ci dice il nostro Angelo Custode, ci siamo anche noi, poiché nulla di meno del nostro «luogo» nell’esistenza, il suo senso stesso, è anima.


Il Manifesto Alias – 3 maggio 2014


* Le immagini sono tratte dal film Il cielo sopra Berlino

mercoledì 14 maggio 2014

Il governo ombra. Come gli americani hanno condizionato la politica italiana


1978: gli americani e la politica italiana

Giorgio Amico

Il governo ombra. Come gli americani hanno condizionato la politica italiana

Il 1978 è un anno cruciale per la politica italiana. Il PCI entra nell'area di governo per uscirne subito con il rapimento Moro. Si dimette il presidente della Repubblica Leone e al suo posto viene eletto Sandro Pertini. Moro viene assassinato al termine di un lungo sequestro dai risvolti ancora oggi oscuri, mentre nel PSI si afferma definitivamente la leadership di Craxi che di fatto blocca prima e disarticola poi il progetto berlingueriano di compromesso storico. E' anche il periodo di maggior peso della P2.

Un anno intenso e difficile ricostruito da Maurizio Molinari, corrispondente da New York della Stampa, in un libro, “Governo ombra. I documenti segreti degli USA sull'Italia degli anni di piombo”, pubblicato nel 2012 da Rizzoli.

Con pazienza Molinari ricostruisce sulla sorta di 184 documenti riservati del Dipartimento di Stato, ottenuti in base alle norme (ben più liberali delle nostre) americane sul diritto di informazione, l'atteggiamento dell'amministrazione USA nei confronti degli sviluppi della politica italiana.

Il primo dato che emerge è la ferma contrarietà degli Stati Uniti ad ogni forma di apertura anche indiretta al partito comunista e l'amministrazione Carter, da sempre presentata dalla stampa italiana come aperturista, non fa eccezione.

Il carteggio quasi quotidiano con l'ambasciatore Gardner evidenzia un atteggiamento di estrema preoccupazione nei confronti degli sviluppi della situazione romana. Questa preoccupazione, condivisa dai vertici NATO, porta l'amministrazione Carter a contrastare in modo sistematico la politica dei leader DC Andreotti e Moro, considerati ormai inaffidabili e pronti a cedere alle richieste comuniste.

Caduto Leone, gli americani diffidano profondamente del nuovo presidente, Sandro Pertini, eletto con i voti comunisti e dunque ritenuto non sicuro. Preoccupazioni, condivise anche dai governi inglese e tedesco che pure invitano gli americani alla prudenza.

Il risultato sarà l'appoggio deciso a Bettino Craxi in funzione anticompromesso storico. Nei suoi rapporti a Washington l'ambasciatore Gardner accenna a ingenti finanziamenti da parte della SPD (il partito socialdemocratico tedesco) e della Germania al politico italiano per consolidarne la posizione nel PSI.

Quanto alla DC, la politica americana consiste in un deciso intervento sui vertici vaticani perchè premano sul partito cattolico per bloccarne la politica di cedimento ai comunisti. Dai documenti raccolti e commentati da Molinari risulta come il Vaticano (prima di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II) sia considerato dagli USA come un partner strategico, un alleato fondamentale nella lotta al comunismo. E non solo in Italia, se solo si pensa al ruolo che papa Wojtyla avrà a partire dalla Polonia di Solidarnosc (e dall'intreccio CIA-IOR di Marcinkus-Calvi) nella disintegrazione del blocco sovietico.



“Nell'offensiva contro la DC di Moro e Andreotti – scrive Molinari – l'alleato più importante di Washington è il Vaticano di Paolo VI, i cui stretti collaboratori sin dal 5 gennaio [1978] esercitano pesanti pressioni sui leader democristiani per evitare l'intesa con il PCI”.

Colpisce nel libro l'insistenza servile con cui esponenti della politica (e non solo di destra) come Ugo La Malfa, e del giornalismo (Indro Montanelli) contattano i rappresentanti USA per dichiarare la loro contrarietà alla linea del compromesso storico e la loro disponibilità ad attivarsi in funzione anticomunista e antidemocristiana.

Inquieta, in un quadro già di grande ambiguità, il riferimento costante da parte dell'ambasciatore Gardner al comando (americano) delle forze NATO in Europa. Un dato che, unito al suggerimento al presidente Carter di attivare “le Commissioni del Congresso per allargare il fronte politico dell'opposizione al compromesso storico”, cioè i canali parlamentari per l'autorizzazione e il finanziamento di azioni “coperte”, fa nascere più di un pensiero sul coinvolgimento attivo americano nella strategia dalla tensione, dal rapimento Moro alla P2.



Maurizio Molinari
Governo ombra
Rizzoli, 2012
Euro 18.00

martedì 13 maggio 2014

Raffaele K. Salinari, Walter Benjamin e l’omino con la gobba



Dunque nel rito messianico che Benjamin amministra attraverso l’accurata scelta delle immagini, all’«omino con la gobba» viene affidata una promessa di salvezza”

Raffaele K. Salinari

Walter Benjamin e l’omino con la gobba

C' è un per­so­nag­gio che accom­pa­gna, nasco­sto nel pro­fondo per­ma­nente ed immu­ta­bile degli arche­tipi infan­tili, tutta la vita di Wal­ter Ben­ja­min; un «chi è» che tro­viamo armeg­giante nei nascon­di­gli imma­gi­nali in cui il filo­sofo dei Pas­sa­ges ha voluto espli­ci­ta­mente col­lo­care la sca­tu­ri­gine del suo pen­siero. Un essere meta­fo­rico che si nasconde nel buio più recon­dito da cui ori­gi­nano le sue fol­go­ranti intui­zioni, e che da quella posta­zione gli disa­mina la visione delle cose.

Que­sto per­so­nag­gio ha solo una spe­ciale richie­sta, che fa per per­pe­trarsi nel tempo e nel ricordo di altre gene­ra­zioni, eter­niz­zare la sua essenza mutan­done la forma, come avviene per ogni immor­ta­lità sim­bo­lica: chiede che il suo nome resti segreto. In caso con­tra­rio egli spa­ri­rebbe, e con lui il mondo che lo ospita. È il dyb­buk di Wal­ter Ben­ja­min: l’«omino con la gobba» che tro­viamo nasco­sto anche nell’automa gio­ca­tore di scac­chi della prima Tesi sul con­cetto di sto­ria. «È noto che sarebbe esi­stito un automa costruito in un modo tale da rea­gire ad ogni mossa di un gio­ca­tore di scac­chi con una con­tro­mossa che gli assi­cu­rava la vit­to­ria.

Un mani­chino vestito da turco, con una pipa in bocca, sedeva davanti alla scac­chiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di spec­chi veniva data l’illusione che vi si potesse guar­dare attra­verso da ogni lato. In verità c’era seduto den­tro un nano gobbo, mae­stro nel gioco degli scac­chi, che gui­dava per mezzo di fili la mano del mani­chino. Un cor­ri­spet­tivo di que­sto mar­chin­ge­gno si può imma­gi­nare nella filo­so­fia. Vin­cere sem­pre deve il mani­chino detto «mate­ria­li­smo storico».



Esso può com­pe­tere senz’altro con chiun­que se prende al suo ser­vi­zio la teo­lo­gia, che oggi, com’è a tutti noto, è pic­cola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere». Ma que­sto «nano gobbo», per ammis­sione dello stesso Ben­ja­min, è in realtà un suo «dop­pio», il dyb­buk che lo pos­siede e lo spinge a fare ciò che vuole, così dirà nel suo sag­gio Avan­guar­dia e rivo­lu­zione, citan­dolo come impa­ren­tato ai per­so­naggi scan­zo­nati, vaga­bondi e gio­iosi di Robert Wal­ser «che si muo­vono nella notte, dove essa è più nera; una notte vene­ziana, se si vuole, illu­mi­nata dai deboli lam­pioni della spe­ranza, con qual­che luce di gioia negli occhi».

Il dyb­buk, nella tra­di­zione popo­lare ebraica polacca e tede­sca, è lo spi­rito disin­car­nato al quale è stato vie­tato l’ingresso in para­diso per aver com­messo pec­cati mor­tali, come il sui­ci­dio per amore. Ad alcune di que­ste anime, per imper­scru­ta­bili motivi, viene data la pos­si­bi­lità di emen­darsi con­di­vi­dendo l’anima di un altro corpo, ed avere così una seconda possibilità.

Nelle vec­chie sina­go­ghe di Ber­lino, quando Ben­ja­min era ancora bam­bino, si nar­rava anche che i dyb­buk fos­sero fug­giti dalla gehen­naa, un ter­mine ebraico tra­du­ci­bile libe­ra­mente con «luogo dei mia­smi». Ma ciò che dà il senso ultimo del dyb­buk è l’etimologia della parola, che deriva dall’ebraico davok, «attac­carsi»: il dyb­buk dun­que è un qual­cosa che si attacca ad un vivente per coa­bi­tare in esso, in senso ampio una «pos­ses­sione». Que­sta sim­biosi forma un dib­bu­kim, ed è così che descrive la pro­pria rela­zione con l’«omino gobbo» il filo­sofo ber­li­nese in una let­tera all’amico Ger­shom Scho­lem: «con­serva le mie imma­gini, io non posso divi­dermi da lui», come ad evo­care qual­che cosa di deter­mi­na­tivo per tutto il suo essere.



















Que­sto per­so­nag­gio appare la prima volta nella rac­colta di imma­gini Infan­zia ber­li­nese, edita postuma nel 1950 a cura dell’amico Theo­dor Adorno: «Nel 1932, men­tre ero all’estero, ini­ziai a ren­dermi conto che pre­sto avrei dovuto dire addio per molto tempo, forse per sem­pre, alla città in cui ero nato… Nella mia vita inte­riore avevo più volte spe­ri­men­tato come fosse salu­tare il metodo della vac­ci­na­zione, lo seguii anche in que­sta occa­sione e inten­zio­nal­mente feci emer­gere in me le imma­gini — quelle dell’infanzia — che in esi­lio sono solite risve­gliare più inten­sa­mente la nostal­gia di casa.

Cer­cai di con­te­nerla restando fedele non al cri­te­rio della cau­sale irre­cu­pe­ra­bi­lità bio­gra­fica del pas­sato bensì a quella, neces­sa­ria, di ordine sociale. Ciò ha com­por­tato che i tratti bio­gra­fici che si deli­neano piut­to­sto nella con­ti­nuità che nella pro­fon­dità dell’esperienza, in que­sti brani restino del tutto sullo sfondo. E con essi le fisio­no­mie — quelle della mia fami­glia al pari di quelle dei miei com­pa­gni. Mi sono invece sfor­zato di impa­dro­nirmi di quelle imma­gini in cui l’esperienza della grande città si sedi­menta in un bam­bino della bor­ghe­sia. Ritengo pos­si­bile che a tali imma­gini sia riser­vato un par­ti­co­lare destino. Non sono ancora attese da forme ben model­late come quelle di cui, nel sedi­mento della natura, da secoli dispon­gono i ricordi di una infan­zia tra­scorsa in cam­pa­gna. Le imma­gini della mia infan­zia nella grande città invece sono forse ido­nee a pre­for­mare nel loro intimo l’esperienza sto­rica suc­ces­siva. Almeno in que­ste, spero, appare com­pren­si­bile quanto colui di cui qui sui parla in una fase suc­ces­siva fece a meno della sicu­rezza che era toc­cata alla sua infanzia».

Così Wal­ter Ben­ja­min motiva la ricerca delle sue immagini-guida nell’introduzione di Infan­zia ber­li­nese. Qui il tema del ricordo, della recher­che di tipo prou­stiano, si ali­menta, ma solo in appa­renza, di un per­corso metro­po­li­tano che, però, fini­sce ine­vi­ta­bil­mente per con­ver­gere verso quel per­so­nag­gio attorno al quale, per espli­cita ammis­sione e scelta dell’autore, gra­vi­tano tutte le imma­gini capaci di «pre­for­mare nel loro intimo l’esperienza sto­rica suc­ces­siva». Qui Ben­ja­min allude, ancora una volta, alla «debole forza mes­sia­nica» di certe imma­gini, forse in grado di sal­vare un futuro pre­sente sul quale già si sten­deva minac­ciosa l’ombra incom­bente del nazi­smo. Theo­dor Adorno bene iden­ti­fica que­sto nesso quando, nella post­fa­zione alla prima edi­zione della rac­colta afferma: «Infan­zia ber­li­nese è stata scritta all’inizio degli anni Trenta… Le imma­gini che il libro fa emer­gere fino ad una scon­cer­tante vici­nanza, non sono né idil­lia­che né con­tem­pla­tive. Su di loro si stende l’ombra del reich hitle­riano. Come in sogno, con­giun­gono l’orrore che que­sto suscita a ciò che è stato. Di fronte alla dis­so­lu­zione del pro­prio pas­sato bio­gra­fico, l’intellettuale bor­ghese, con ter­rore panico, prende con­sa­pe­vo­lezza di se stesso come parvenza».

E cosa ci può essere di più par­vente, fan­ta­sma­tico, ma al tempo stesso reale e per­ma­nente, di un per­so­nag­gio infan­tile con il quale si è col­lo­quiato durante i lun­ghi anni della pro­pria for­ma­zione psi­chica? La sua cen­tra­lità è tale, nell’economia di Infan­zia ber­li­nese e non solo, che Adorno, nella post­fa­zione, dice chia­ra­mente che: «L’omino con la gobba doveva ser­vire da conclusione».

Dunque nel rito messianico che Benjamin amministra attraverso l’accurata scelta delle immagini, all’«omino con la gobba» viene affidata una promessa di salvezza



La scan­sione delle imma­gini di Infan­zia ber­li­nese, infatti, ci guida verso l’«omino con la gobba» attra­verso la descri­zione di luo­ghi defi­niti, come il Kai­ser­pa­no­rama, un pre­cur­sore del cinema con imma­gini da vedere attra­verso ste­reo­scopi davanti ai quali sede­vano gli spet­ta­tori, o i ricordi del Tier­gar­ten, il grande parco al cen­tro della città con i suoi favo­losi ani­mali, la lon­tra, i pavoni le far­falle, o della sua casa immersa nella luce lunare che «non è desti­nata al nostro vivere diurno», con tutto il cor­teo dome­stico di armadi, cal­zini, la sca­tola con gli stru­menti per cucire, o il tele­fono che, all’epoca, se ne stava «incom­preso ed esi­liato». Dun­que nel rito mes­sia­nico che Ben­ja­min ammi­ni­stra attra­verso l’accurata scelta delle imma­gini, all’«omino con la gobba» viene affi­data una pro­messa di salvezza.

Dopo que­ste «stanze», a mo’ di intro­du­zione, ecco ad un tratto appa­rire un essere, una entità, total­mente distinta, un tota­li­ter ali­ter cui Ben­ja­min, ina­spet­ta­ta­mente, attri­bui­sce il ruolo di alter ego, ma di un tipo affatto par­ti­co­lare, dato che è lui a vedere, senza essere visto, tutte le imma­gini pre­ce­denti: «Quando com­pa­riva restavo con un palmo di naso (nell’originale tede­sco Ben­ja­min usa l’espressione das Nach­se­hen haben, alla let­tera «seguire le cose con lo sguardo»). E intanto le cose si ritrae­vano, sino a che, pas­sato un anno, il giar­dino divenne un giar­di­netto, la mia camera una came­retta, la panca una pan­chetta. Le cose si assot­ti­glia­vano, ed era come se spun­tasse loro una gobba che le assi­mi­lava all’omino. L’omino mi anti­ci­pava sem­pre. E nell’anticiparmi intral­ciava il mio cam­mino. In realtà non faceva che riscuo­tere di ogni cosa cui vol­gevo la mia atten­zione, la metà del dimen­ti­care… Fu sem­pre solo lui a vedere me. Mi vide nel nascon­di­glio e davanti al recinto della lon­tra, nei mat­tini d’inverno e davanti al telefono…».

L’«omino gobbo» dun­que, assi­mila pro­gres­si­va­mente il mondo visio­na­rio ed infan­tile di Ben­ja­min nella sua gobba, riscuo­tendo inol­tre la «metà del dimen­ti­care». Ecco per­ché il filo­sofo, alla fine, lo ritiene il suo dyb­buk, una entità che vive con lui, che con­di­vide i sui pen­sieri più nasco­sti, ed anche che li pro­tegge dalla sto­ria nella sua mistica gobba. Come non richia­mare un’altra immagine-guida di Ben­ja­min, quella dell’Angelo della sto­ria con il volto alle mace­rie del pas­sato e le ali già spie­gate verso il futuro?



Non è forse il mondo che l’omino con la gobba pre­serva nella sua defor­ma­zione a costi­tuire il pos­si­bile futuro verso il quale l’Angelus Novus viene spinto? Come dirà delle immagini-costellazione nei suoi Pas­sage pari­gini, l’«omino con la gobba» vive in un luogo in cui «un’epoca sogna la successiva».

Tutto ciò che si pro­duce nell’ebraismo, ha scritto Rosen­z­weig in La stella della reden­zione, com­porta una dop­pia rela­zione, da una parte con que­sto mondo e dall’altra con un mondo che deve venire: Ben­ja­min ricava il suo spa­zio in que­sta tra­di­zione. Ecco per­ché l’«omino con la gobba» di Infan­zia ber­li­nese, nasco­sto nel buio not­turno della can­tina, così come il suo cor­ri­spet­tivo nasco­sto nel buio dell’automa gio­ca­tore di scac­chi nelle Tesi sul con­cetto di sto­ria, verrà da Ben­ja­min con­ti­nua­mente citato, richia­mato, allu­si­va­mente evo­cato in una plu­ra­lità di saggi, come quello su Kafka, al fine di essere poi uti­liz­zato come vei­colo meta­fo­rico, affi­da­bile pro­prio per la sua spe­ci­fi­cità for­male, per quella carica pro­iet­tiva che in Ben­ja­min, come in tutti i grandi visio­nari, cam­biava di pola­rità mutando la defor­mità in sal­vezza.

La genia dell’omino con la gobba. Ma chi erano i sodali dell’«omino gobbo», la sua genia occulta, nasco­sta nella buca del pal­co­sce­nico infan­tile del filo­sofo ber­li­nese? Tra quali per­so­naggi della tra­di­zione ebraica egli lo aveva scelto per la capa­cità di tra­sfor­mare in visione mes­sia­nica le angu­stie e le paure della sua vita erra­bonda, in deflusso esca­to­lo­gico le ansie infan­tili? Il filo sot­tile che lega que­sti per­so­naggi viene costan­te­mente evo­cato da Ben­ja­min come in una for­mula alche­mica, in cui ciò che si legge non cor­ri­sponde a nulla di frui­bile se non per un ini­ziato che pos­segga la chiave di let­tura. L’«omino gobbo» appar­tiene, lo abbiamo accen­nato, a quella stirpe di figure che Ben­ja­min rife­ri­sce all’arte di Robert Wal­ser; in spe­ci­fico a quella parte che «ci rivela donde pro­ven­gono i suoi diletti. E cioè dalla fol­lia, e basta».

Si tratta però di una forma di «fol­lia» par­ti­co­lare, più defi­ni­bile come «mania», avrebbe detto Pla­tone nel Fedro (244 A-C), come quella che «viene dalle Ninfe», che porta i doni più ambiti, una fol­lia che «illu­mina».

Anche in una let­tera al suo amico Ger­shom Scho­lem, Ben­ja­min scrive che «la fol­lia è l’essenza dei per­so­naggi di Kafka; da Don Chi­sciotte, agli assi­stenti, fino agli ani­mali», e aggiunge che solo l’aiuto di un folle è vera­mente un aiuto.



«Vi è, come dice Kafka, un’infinita spe­ranza, solo non per noi». Ecco che il dyb­bu­kim Wal­ter Benjamin-omino con la gobba, al tempo stesso lui e non lui, può lan­ciare uno sguardo sull’infinita spe­ranza. Nel sag­gio su Kafka, Ben­ja­min ci spiega che «que­sto ometto è l’inquilino della vita distorta; e sva­nirà quando verrà il Mes­sia, di cui un gran rab­bino ha detto che non intende mutare il mondo con la vio­lenza, ma solo aggiu­starlo di pochis­simo». E allora, que­sto «aggiu­stare di pochis­simo», que­sto rad­driz­zare i torti, come forse la gobba dell’omino, met­tono il per­so­nag­gio «kaf­kiano» in diretta rela­zione col Messia.

Il «gran rab­bino» a cui Ben­ja­min fa rife­ri­mento è Rabbi Nach­man di Bre­slav, uno dei padri fon­da­tori del chas­si­di­smo, il movi­mento mistico popo­lare che vedeva la spe­ranza palin­ge­ne­tica depo­si­tata negli emar­gi­nati, i folli e gli inetti. Rabbi Nach­man soste­neva, con disar­mante sem­pli­cità, che «la venuta del Mes­sia non cam­bierà nulla, salvo che ognuno si accor­gerà della pro­pria insipienza».

Da que­sto rife­ri­mento capiamo anche l’attitudine di Ben­ja­min rispetto al mondo miste­rioso dell’infanzia, a quei segreti nasco­sti all’interno della gobba dell’omino come nel buio dell’automa gio­ca­tore di scac­chi. Per que­sta cor­rente del misti­ci­smo ebraico, infatti, il solo nomi­nare que­sti segreti senza sve­larli, poteva affret­tare l’avvento dei tempi mes­sia­nici. Per capire il chi è dell’«omino con la gobba» si deve dun­que tor­nare alle visioni infan­tili che egli ritro­vava nelle espe­rienze con l’hashish, dove ad un certo punto dice: «La male­du­ca­zione è il dispia­cere che il bam­bino prova per il fatto di non essere capace di magia. La sua prima espe­rienza del mondo non è che gli adulti sono più forti, ma la sua inca­pa­cità di pra­ti­care la magia».

L’«omino con la gobba» è dun­que un essere favo­loso che ci riporta ai momenti esta­tici, auro­rali, dell’entusiasmo infan­tile: il tempo del mistero e del segreto, quando «tutto era ancora possibile».

«Non cre­diate il destino sia più che l’intensità dell’infanzia» dice Rilke, e nes­suno più di Ben­ja­min, che ha teso tutta la sua vita tra le pola­rità di una fede poli­tica mate­ria­li­sta e una reli­gio­sità mistica, può capirlo.

Anche nel romanzo di Elias Canetti Auto da fé (nell’originale Die Blen­dung, acce­ca­mento), com­pa­riva un gob­betto gio­ca­tore di scac­chi, l’ebreo Fischerle, anche lui sim­bolo del legame che l’uomo deve avere con le rovine del pas­sato se vuole pro­get­tare il futuro. Sia per Ben­ja­min che per Canetti, allora, l’«omino gobbo» è il fan­ta­sma dell’identità che per nascon­dersi e sal­varsi, ma anche per agire sot­til­mente sul mondo, deve pren­dere forme deformi.Sullo sfondo di que­ste sto­rie si sta­gliano infine figure come quelle del Golem, creato da Jehuda Löw ben Beza­lel, rab­bino in Praga nel sedi­ce­simo secolo, o dell’Homun­cu­lus di Para­celso: simu­la­cri di vita pro­dotti arti­fi­cial­mente ed al ser­vi­zio del loro padrone certo, ma solo in quanto ani­mati dalle stesse forze misti­che che donano la vita, o la morte, agli esseri umani che li hanno concepiti.



La con­fes­sione

Que­sta chiave di let­tura intima, per­so­na­lis­sima, ci viene data da Ben­ja­min in punto di morte, come estrema con­fes­sione che ritro­viamo in una let­tera alla ado­rata Gre­tel Adorno, alla quale ha affi­dato il segreto dei suoi ricordi. Siamo qui a poche ore della morte sui­cida, nel Set­tem­bre del 1940 a Port-Bou in Spa­gna, men­tre ten­tava di emi­grare negli Usa. Ben­ja­min ha con sé una borsa nera nella quale, forse, si trova la ste­sura finale, «asso­luta» dirà lui, delle Tesi, che egli vedeva come pre­messa neces­sa­ria al grande affre­sco dei Passage.

Il suo stato d’animo è ben descritto dalla let­tera nella quale ritorna il con­te­nuto inti­mi­sta delle imma­gini di Infan­zia ber­li­nese: «Per quanto con­cerne la tua richie­sta di appunti che pos­sano risa­lire alla con­ver­sa­zione sotto gli alberi di mar­ron­niers, ebbene, si è pre­sen­tata in un momento in cui pro­prio que­gli appunti mi hanno dato da fare. La guerra, e la costel­la­zione che l’ha por­tata con sé, mi ha con­dotto a met­tere per iscritto alcuni pen­sieri che posso dire di aver tenuto per almeno vent’anni custo­diti in me, anzi pre­ser­van­doli pure da me stesso. Que­sto è anche il motivo per cui per­sino a voi non ho con­cesso altro che un fug­ge­vole sguardo su di essi. La con­ver­sa­zione sotto i mar­ron­niers fu una brec­cia in que­sti vent’anni. Ancora oggi te li con­se­gno più come un maz­zetto di erbe sus­sur­ranti messe insieme in pas­seg­giate medi­ta­tive che come una rac­colta di tesi (…).

Esse mi fanno sup­porre che il pro­blema del ricordo (e dell’oblio), che vi appare ad un altro livello, mi terrà occu­pato ancora per molto tempo». In realtà egli non ebbe tutto il tempo che avrebbe voluto, pochi giorni dopo una dose di mor­fina lo stron­cherà, ma nella mis­siva respi­riamo l’aria che aleg­gia intorno ai miste­riosi per­so­naggi che ven­gono diret­ta­mente dai giorni dell’infanzia, la loro sca­tu­ri­gine oni­rica ed allu­siva, che li ren­deva pas­sage dei pen­sieri segreti che solo in punto di morte Ben­ja­min si era deciso a sve­lare. E allora capiamo che la pre­ghiera finale di Infan­zia ber­li­nese dedi­cata al per­so­nag­gio kaf­kiano, è in realtà per se stesso: «Prega bam­bino mio, per l’omino con la gobba prega Iddio».


Il Manifesto – 17 maggio 2013