In uscita in libreria l'ultimo libro di Giuseppe Testa, caro amico di Vento largo, che da anni porta avanti una ricerca attenta e approfondita sulla storia e la cultura del Finalese. Ricordiamo, fra i tanti suoi contributi, "Le strade di ieri", uno studio esaustivo sulla storia delle vie di comunicazione dal neolitico al XIX secolo.
lunedì 27 ottobre 2014
venerdì 24 ottobre 2014
Memoria fossile
Sabato 25 ottobre 2014
alle ore 17.30 verrà presentata, con la presenza dell’autore,
l’anteprima del film cortometraggio Memoria Fossile; una rilettura
metaforica della storia recente della città di Savona.
Il film, della durata di
15 minuti, è stato selezionato in questi giorni al Tirana Film
Festival nella sezione short film competition.
Nato da una coproduzione
gargagnànfilm e Associazione Geronimo Carbonò, grazie al
cofinanziamento della Fondazione De Mari, con la regia di Diego
Scarponi viene presentato per la prima volta al pubblico savonese.
“E’ qui, dove la
natura viene respinta oltre gli altiforni, al di là dei gasometri,
che un giorno sono arrivati a lavorare alcuni dei più celebri
scultori contemporanei. Fra queste strutture, fra i laminati, le
bramme d’acciaio, i pani di ghisa, in un cielo sempre carico di
acri velature, essi hanno realizzato le loro opere. Gigantesca e
apocalittica, si erge tra i fabbricati anonimi della stazione. Le
colline lontane, sembrano appiattirsi nel cielo.” Estratto da
Memoria Fossile (2014)
Il cortometraggio Memoria
Fossile precederà il film in prima visione della normale
programmazione del NuovoFilmStudio da venerdì 24 ottobre a lunedì
27 ottobre.
mercoledì 15 ottobre 2014
Raffaele K. Salinari, Il turbamento dell’altalena. Un gioco sacro
Volare alti nel cielo, staccarsi da terra, salire. Questo in poche parole il senso dell'altalena. Una riflessione affascinante ne delinea origini mitiche e rivisitazioni rituali.
Raffaele K. Salinari
Il turbamento
dell’altalena. Un gioco sacro
«Luce luce lontana,
più bassa delle stelle, quale sarà la mano che ti accende e ti
spegne? Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena, un
giorno la prenderò come fa il vento alla schiena…». Così
Fabrizio De Andrè poetizza, e dunque rinnova,
una vecchia storia: quella di Erigone, la vergine
sposa di Dioniso trasformata poi in costellazione,
che fondò il mito dell’altalena.
Ma che senso ha
ricercare queste ascendenze arcaiche, richiamare
i significati sacri, gli usi visionari? In fondo
l’altalena è solo un gioco, un innocente
passatempo per bambini che però, qui sta l’arcano,
mai lascia indifferenti, sempre turba l’anima in
modo inspiegabile. Forse è perché viene da un
tempo lontano, quando le distanze tra l’umano e il divino
non erano, come oggi, incommensurabili, e quel
gioco simboleggiava la loro congiunzione:
una pratica estatica, per rigenerarsi al cospetto
della zōḗ.
Nell’antica
Grecia zōḗ significava Vita, senza
nessuna caratterizzazione ulteriore
e senza limiti: esistenza incondizionata.
E questa zōḗ, che non ha contorni e neppure
definizioni, ha il suo sicuro opposto in thánatos,
la morte. Ciò che in zōḗ risuona in modo certo e chiaro
è «non morte»: qualcosa che non la lascia avvicinare
a sé; da questo Bataille vedrà nell’erotismo
l’affermazione della Vita sino dentro la morte.
Rileggere un mito,
in realtà, significa renderlo attuale; Schelling dice
che nulla di ciò che è, e di ciò che diviene, può essere
e divenire senza che un’altra cosa
contemporaneamente sia e divenga,
poiché all’interno della natura stessa non esiste nulla
di originario, nulla di assoluto e per sé
stante: gli atti di culto che hanno preceduto quelli
attuali non erano semplici gesti di superstizione
dovuti all’ignoranza dei fenomeni naturali, ma creazioni
possenti generate da questa consapevolezza.
La vertigine
e la maschera
L’altalena è dunque
un gioco originariamente sacro, ma che tipo di
gioco è? Secondo Roger Caillois nel suo La vertigine
e la maschera, essa risponde al principio dell’Ilinx,
della «vertigine»: l’ebbrezza che strappa al mondo
razionale e mette, seppur per un solo momento,
sull’orlo dell’imponderabile, esposti alla visione del gorgo
— questo significa in greco la parola Ilinx- nel
quale gorgogliano le forze che governano il mondo
senza che le si possa mai governare.
Ancora e sempre
l’attrazione per la «vertigine» resta una necessità
della vita psichica; anche se la civilizzazione
odierna l’ha voluta confinare in luoghi separati
— come i Luna Park nei quali l’ebbrezza “normalizzata”
non deve aprire le porte all’incontro con le forze della natura —
una libera e semplice altalena, con il suo movimento
“lunare”, ciclico, può generare un fugace incontro con
l’Intelligenza della zōḗ.
Perché il cielo, ed
il mondo sotto di esso, si muovono con movimento
circolare? Si chiede l’egizio Plotino nelle Enneadi,
e lui stesso risponde: perché imitano l’Intelligenza.
E il movimento
circolare, prosegue il filosofo: «È un
movimento della coscienza, della riflessione, e della
vita che ritorna su se stessa, che non esce mai da sé e non
passa ad altro, appunto perché deve abbracciare tutto in
sé. Ma non l’abbraccerebbe se rimanesse immobile, né
avendo un corpo, manterrebbe in vita le cose che contiene:
infatti la vita del corpo è movimento. Sicché il
movimento circolare risulta composto del
movimento del corpo e di quello dell’anima, e siccome
il corpo si muove per natura in linea retta, e l’anima lo
trattiene, dai due deriva quel movimento che ha del
movimento e della quiete».
E allora, nessun
gioco come l’altalena può simboleggiare meglio la
visione di un corpo e di un’anima uniti nel generare
questa combinazione di quiete e movimento
che riflette, sul piano del microcosmo umano,
l’Intelligenza stessa che ordina ed abbraccia il Cosmo.
«Io, se non lo sapete
figliuoli, vi ho data vita per mezzo della voluttà e del moto»
dice la Venere rinascimentale e neoplatonica
di Marsilio Ficino, divinità della Vita che genera
altra vita secondo «voluttà e moto»; principio
femminile che fornisce alla zōḗ quell’animazione
caratterizzante propria delle vite
particolari: le singole bíos.
Venere, «anima del
Mondo» secondo Plotino, agisce dunque attraverso
il moto ondeggiante che il suo paredro, Eros, suggerisce
ai corpi. E come non associare queste
caratteristiche alle sensazioni
eccitanti, erotiche, che proviamo in altalena:
la voluttà sensuale evoca il suo moto, il suo moto ondeggiante
porta seco la voluttà.
Ma questa
sensualità, l’erotismo del dondolio, arriva
a noi dalla trasformazione di un gioco —
l’altalena — che antichi miti descrivono come
simbolizzazione della morte; per questo il
nesso tra morte ed erotismo sfugge a chiunque non
ne veda il senso religioso! Inversamente, il
senso delle religioni sfugge a chiunque trascuri
il legame che esso presenta con la morte e l’erotismo.
Estendere la trama
delle analogie significa essere sostenuti, nella
nostra ricerca, dalla tela della realtà; questa preziosa
unità analogica potenzia il nostro essere nel
Mondo.
Un obiettivo
esistenzialmente ed essenzialmente politico
dunque, poiché questi termini sono aspetti di
uno stesso divenire, di una potenza dell’esserci che
manifestiamo attraverso la nostra singolarità
pienamente dispiegata.
Il mito greco: Erigone
Ecco, allora, il mito
delle origini: un pastore di nome Icario ricevette da
Dioniso il segreto del vino. Di questo nettare egli
fece dono ai suoi colleghi pastori che, credendosi
avvelenati, lo uccisero. La fedele cagna Maira corse
a cercarne la figlia Erigone che, di fronte al
cadavere del padre, lanciò una maledizione prima
di impiccarsi per il dolore: da quel giorno, nella ricorrenza
del suo gesto, tutte le vergini si sarebbero impiccate
sino a quando gli assassini del padre non fossero
stati trovati ed il suo sacrificio espiato.
E così andò; di fronte
a quel susseguirsi di impiccagioni
verginali gli abitanti di Atene si rivolsero
all’oracolo delfico, che sentenziò la necessità
di inventare un gioco che potesse simboleggiare
l’impiccagione senza causare la morte. Così nacque il
rito dell’altalena.
Ma, per comprendere
appieno il mito, dobbiamo situarlo all’interno della sua
evoluzione: le storie non vivono mai vite solitarie,
sono inserite in un grande albero del quale dobbiamo
ritrovare le radici attraverso i rami.
Il fondamento
storico cultuale sul quale si basa questa
ricostruzione del rito tratto dal mito risale ad un’epoca
molto più remota: alla taurocatapsia minoica in
onore della Grande Dea mediterranea. Il salto tra le
corna del toro, infatti, simboleggiava il moto
oscillante dell’altalena sulla quale stava seduta la Dea,
mentre l’animale era una sua ipostasi teriomorfa.
A riprova di ciò, nella
zona che circonda il palazzo di Aghia Triada, presso Phaestos,
venne trovata una statuina di terracotta,
risalente al XVI secolo a.C., che rappresenta una
figura femminile che si dondola in altalena. Il
luogo di rinvenimento era un piccolo
reliquiario e la statuetta, sormontata
da due uccelli che stanno per spiccare il volo, forse mediatori
tra il mondo dei mortali e quello degli dei, evoca,
all’interno dell’arte minoica, l’ipostasi della divinità
che, in questa cultura, significa l’altro da sé, lo
«spettatore divino».
A Malthi in
Messenia e a Mari in Mesopotamia si
trovarono altre due statuette della Dea, risalenti
allo stesso periodo, seduta e approntata per la
sospensione.
Una figura femminile
in trono che doveva essere destinata a dondolarsi
la troviamo anche in un santuario della dea
babilonese Ninhursag, risalente al III
millennio a.C., come pure in varie parti della Grecia
sono state rinvenute figure preistoriche
che, come gli oscilla romani, erano destinate allo
stesso scopo.
Alle origini,
dunque, la sfera del mito e del suo rito appare molto più
ampia e decisamente meno tinteggiata di toni
oscuri rispetto al mito greco, essendo certamente presente
il tema della morte ma, più ancora, quello della rinascita.
E di morte e rinascita
parla il simbolo più conosciuto di Cnosso, il regno della
Grande Dea: il labirinto. «Una grande figura femminile
della cerchia dionisiaca apparve su una tavoletta
di Cnosso, in un contesto di poche parole senza nomi;
e tuttavia fu il primo personaggio
divino della mitologia greca che poté essere
immediatamente conosciuto […] è la
Signora del Labirinto: essa deve essere stata una Grande Dea.
[…] Socrate, nel dialogo che Platone pubblicò con
il titolo di Eutidemo, nominò il labyrinthos e lo
descrisse come una figura in cui è facilissimo
riconoscere una linea a spirale o a meandro
che si ripete all’infinito. […] Sia la spirale sia il
meandro vanno intesi come percorsi che si fanno
involontariamente avanti ed indietro, se si
continua a seguirli»; così ci dice Kerényi nel
suo Dioniso.
E «Io sono il tuo
labirinto… », dirà Dioniso ad Arianna nella
poesia di Nietzsche. Arianna «moglie di Dioniso»,
come dice Euripide nell’Ippolito, è una divinità
lunare, legata alla parte umbratile dell’esistenza, come
Persefone e Demetra.
Su alcune monete di
Cnosso la troviamo raffigurata su una faccia,
mentre su quella opposta compaiono i meandri
del labirinto con iscritta una falce di luna. Questa sua
caratteristica affinità con la costruzione
dedalica le consentirà di orientare Teseo, ma
anche di identificarsi con il movimento
dell’altalena, che riproduce le fasi lunari nel loro
continuo mutamento: come i meandri del
labirinto.
Le tre fasi della luna si
riflettevano anche nella figura della Grande Dea come
vergine, ninfa e vegliarda. Altra identificazione
fu quella che vedeva la vergine associata all’aria, la
ninfa alla terra e la vegliarda al mondo infero.
Queste letture
gettano luce anche sulla modalità della morte di Arianna,
o di una delle sue morti, quella per suicidio mediante
impiccagione, che la identificherà poi con
Erigone. Il mito, in questo caso «esistenziale»
— come lo storico delle religioni Raffaele
Pettazzoni definiva quelli che simbolizzano
le fasi della vita — non va separato dal rito che lo richiama
e lo attualizza.
E allora possiamo
pensare all’altalena come ad un gioco che “svolge” il
labirinto; una sorta di trasformazione del
percorso terrestre, forse in origine una danza,
in moto pendolare: la traiettoria, che
richiama la falce di luna, ne risolve i meandri in eterne
oscillazioni.
Luna ed altalena
divengono così le facce di una metafora aerea che richiama
le fasi di una perenne ricerca interiore, mai terminata,
inesausta; una prova continua, a tratti
mortale, che sembra tornare incessantemente
al punto di partenza, e della quale il labirinto
è sempre stato il simbolo più immediato.
Anche
nei Misteri di Eleusi le danze labirintiche
rappresentavano il cammino dell’anima
verso la sua liberazione; i motivi a meandro,
presenti in maniera ubiquitaria in ogni tempo
e luogo, sono un simbolico riferimento
alla zōḗ non passibile di interruzioni.
Seguendo queste suggestioni capiamo perché nel
palazzo di Cnosso il corridoio dal soffitto a meandri
conduce verso la principale fonte di luce della
costruzione, chiara simbologia della rinascita.
Dioniso e l’altalena
Questi riferimenti
iniziali ad Arianna, ed al labirinto come percorso
ripetitivo, un «avanti ed indietro», servono ad
inquadrare le ascendenze dionisiache del
mito fondatore: la storia di Erigone, l’«Arianna
di Ikarion» che diverrà la prima baccante, vergine
e amante del dio; una delle tante personificazioni
della Grande Dea che, all’inizio della storia mediterranea,
presiedeva al rinnovamento eterno
della Vita.
E allora entriamo più
a fondo nel mito greco che, per primo, come tutti i miti,
ci descrive la festa delle altalene, e facciamolo
guardando al firmamento, alla costellazione
celeste in cui è fissato per sempre. Se l’andare
in altalena è un riferimento polare nel cielo
microcosmico delle nostre immagini archetipiche,
è naturale che abbia un corrispettivo
proprio nella costellazione che ci narra la sua
storia: la Vergine o, in altre versioni, Sirio.
Nel mito, ripreso da
Eratostene, Sirio appare come la cagna Maira, la
“scintillante”, un nome proprio per una tale
stella. È la «luce lontana» che si vede in inverno cui
fa riferimento De Andrè nella sua canzone Ho
visto Nina volare, dove il mitologema dell’altalena viene
ripreso in ogni suo aspetto.
È questa cagna, poi trasformata da Dioniso in luminoso astro, che troverà il cadavere di Icario, l’eroe del dêmos di Ikarion, al quale il dio aveva deciso di far dono del vino. Ma, come spesso accade nelle relazioni diseguali tra uomini e dei, nell’asimmetria che vige tra la finitezza dell’umanità e l’indifferenza delle divinità — direbbe Varrone: parchissime di misericordia — il segreto procedimento si rivela, per il suo portatore, una maledizione.
È questa cagna, poi trasformata da Dioniso in luminoso astro, che troverà il cadavere di Icario, l’eroe del dêmos di Ikarion, al quale il dio aveva deciso di far dono del vino. Ma, come spesso accade nelle relazioni diseguali tra uomini e dei, nell’asimmetria che vige tra la finitezza dell’umanità e l’indifferenza delle divinità — direbbe Varrone: parchissime di misericordia — il segreto procedimento si rivela, per il suo portatore, una maledizione.
Icario, infatti,
viene ucciso dai suoi amici — mandriani dei boschi di
Maratona presso il monte Pentelico — poiché
accusato ingiustamente di averli avvelenati
proponendo loro di gustare il nettare senza tagliarlo
con l’acqua, come Enopione più tardi consigliò di
fare. Dioniso dunque, il dio che muore e rinasce,
protagonista della tragedia greca,
signore della zōḗ, è all’origine del mito greco
dell’altalena, che a lui sarà legata anche da altre
pratiche tutte riconducibili all’essenza
del «dio dell’ebbrezza», quella situazione particolare
di «vortice» del quale il vino è l’araldo.
Gli antichi
mitografi, quelli precedenti Eratostene,
dicono che dopo l’uccisione di Icario da parte dei pastori che
si credevano avvelenati, la cagna Maira, fedele
compagna dell’emissario dionisiaco, torna da
sua figlia Erigone per avvertirla della tragedia
paterna. Comincia così l’angosciante erranza della ragazza
alla ricerca del corpo amato, un topos che include, tra
molti altri, la ricerca del cadavere smembrato di Osiride
da parte della sorella-amante Iside.
Significativa
prefigurazione di quello che sarà lo strumento
simbolico che libererà le vergini attiche
dalla sua maledizione, l’altalena appunto, Erigone,
«copiosa figliolanza», traduce il suo nome Graves,
oppure «nata all’alba» — tutti appellativi che la
includono in uno degli aspetti della Grande Dea — viene, nei
miti più antichi, chiamata Alêtis, l’errante,
con riferimento non solo all’errabonda e disperata
ricerca del cadavere, ma anche al suo carattere lunare, di
perenne mutazione astrale.
La luna e la morte —
aspetti della Grande Dea — si sovrappongono alla figura
di Erigone sulla sua altalena, così come lo sbocco del
mito sarà verso la rigenerazione e la vita.
Erigone erra dunque
come la luna nel cielo, senza posa. A volte scompare, nera
ed invisibile, minacciosa, come inghiottita dal
mondo infero. Se per la civiltà greca Dioniso è oramai
il dio dellazōḗ, la vita senza caratterizzazioni,
Erigone, figura epigona della Dea, ne è il
principio animatore, caratterizzante:
colei che dà l’anima alle bíos.
La zōḗ indifferenziata,
infatti, cerca l’animazione: per caratterizzare le
sue forme, le sue bíos, ha sempre bisogno del
principio femminile. Questo «fare anima» —
mutuando la celebre espressione di Keats — è necessario
alla zōḗ per trascendere il suo stadio
seminale, totipotente ma indistinto,
e trasformarlo in atto. Erigone, quindi,
è il principium individiationis di
Dioniso.
Qui la
complementarietà simbolica tra le due
divinità è evidente; si può dire che siano aspetti
dello stesso Principio che si esprime attraverso
attributi diversi; dalla relazione tra Erigone
e Dioniso nascerà anche un figlio, Stafilos,
che può essere inteso come la zōḗ che si rende
carne: Stafilos morirà e risorgerà,
come il dio stesso.
Anche con Arianna avviene
tutto questo: una versione del mito ci narra della «Signora
del Labirinto» che muore di parto e del figlio nato
nell’Ade; una nascita mistica che riprende così il mitologema
della Grande Dea che procrea la sua discendenza.
«E così Arianna divide
con tutti coloro che appartengono a Dioniso un
destino tragico e, coi più eletti di questi, anche la sua
liberazione dall’Ade dopo la morte e la sua
elevazione all’Olimpo», ci ricorda Otto.
In altre versioni
del mito, narrate da Igino, Apollodoro ed Eliano,
è Dioniso stesso che viene ucciso dai pastori, ed Erigone
piange il suo sposo affetta da una forma di mania che la
raffigura così come la prima baccante. Si impicca
dunque ad un albero che potrebbe essere anche una vite
scaturita dal corpo dell’amante; in tempi lontani
questa sviluppava un vero e proprio tronco,
ancora visibile in alcuni musei di storia naturale,
come quello di Firenze.
Graves sostiene
invece l’ipotesi del pino, nominato da Virgilio
nelle Georgiche: lo stesso albero sotto il quale il
frigio Attis fu castrato. In altre narrazioni
dal corpo del dio scaturirà la vite, e il suo
sacrificio darà agli uomini il mezzo per raggiungere
l’ebbrezza, attraverso la quale egli tornerà ogni volta
a rinascere, continuando così il ciclo
della Vita.
Erigone dunque,
come nel mito di Iside e Osiride, termina il suo
vagare al ritrovamento del corpo del padre o amante,
Icario o Dioniso, che l’antica festa ateniese
delle Anthestḗria — la festa dei germogli
— faceva coincidere col Giorno delle Brocche
(Choēs), nelle quali si trasferiva il vino per essere
bevuto, ed in grandi paioli si cucinava la panspermia,
una miscela di prodotti vegetali che esaltavano
le forze vivificatrici della natura risorta. Lo stesso
giorno le giovani vergini ricordavano il
sacrificio di Erigone andando sulle altalene,
le Aiðra.
Era il momento in cui
l’inverno volgeva alla fine ed i fiori cominciavano
a spuntare dalla neve residua. Il verbo antheîn,
che indica questo movimento floreale, dà appunto il
nome alla festa,Anthestḗria, ed al suo
mese, Anthestērin.
I versi di un ditirambo
dicevano: «Ora è venuto il tempo, ora ci sono i fiori».
Ma la scena del ditirambo non era l’Atene nei giorni della
festa, bensì un richiamo ai fiori che Persefone stava
cogliendo quando venne rapita da Ade, il signore del mondo infero.
Ecco che torna, imperioso, il raccordo tra il gioco
dell’altalena, la vergine impiccata, e la storia
del dio che in questo periodo emerge dal mondo sotterraneo
portando con sé anche le anime dei defunti ad abbeverarsi
alle brocche col vino.
Le anime dei morti
venivano chiamate díspioi: le assetate, e non
di semplice acqua avevano sete, bensì del vino dei píthoi,
i grandi recipienti di argilla aperti nel primo giorno
della festa e dai quali il nettare dionisiaco
veniva trasferito nelle brocche, nelle choēs,
che davano il nome al terzo giorno delle celebrazioni.
Qui ci troviamo
immersi pienamente in un’atmosfera frammista di
ebbrezza e spiriti dei morti: dunque aperta al puro
erotismo, ne dedurrebbe Bataille. Era questo
delle Anthestḗria, infatti, anche il tempo in cui
Dioniso, tornato dagli inferi, giaceva con le donne di
Atene, tutte simboleggiate dalla Basilinna, la
moglie dell’árchōn basileús.
In epoca romana lo stesso
periodo veniva definito Mundus patet: il mondo infero
restava aperto, seppure per pochi giorni, ma senza l’ebbrezza
dionisiaca, e dunque senza l’erotismo della
festa ateniese.
E così, il giorno delle
brocche, le giovani andavano in altalena, in
onore di Erigone; anche ai bambini era consentito
dondolarsi, perché quel giorno essi imitavano
tutto quanto accadeva pubblicamente nella grande
festa. I giovani Kuroi bevevano il vino per
la prima volta.
La relazione tra la
morte e l’altalena dunque, come vediamo dal mito,
è diretta: essa è un’attività comunque
potenzialmente letale: per questo può
simboleggiare la trasfigurazione
simbolica della morte proprio a partire
dalle sue intrinseche caratteristiche.
Il legame tra l’altalena
e la morte rituale durante le celebrazioni
dionisiache è anche dovuto all’indubbio
carattere ctonio del dio poiché, come dice
icasticamente Eraclito «Ade e Dioniso
[…] sono un’unica e medesima cosa», a sottolineare
la cifra infera di una divinità legata, per metà della sua
esistenza/ciclo, al mondo dei morti.
Ed infatti, durante
le Anthestḗria risorgevano le anime
dei defunti ma anche i keres, forme che veicolavano
miasmi, influenze nefaste che dovevano essere
purificate con katharmoi. L’ultimo giorno della
grande festa, in conclusione di tutte le celebrazioni,
nelle case venivano scacciate queste entità insieme
alle anime dei defunti, oramai appagate dai culti a loro
dedicati e dalle libagioni di vino, col grido «fuori
i keres, sono finite le Anthestḗria!».
Ecco che, allora, come
dice Otto, pienezza di vita e violenza di morte,
ambedue sono in Dioniso egualmente misurate:
nulla è attenuato, ma nulla è distorto.
Ma dove c’è Thanatos
c’è anche Eros, e la festa delle altalene è impregnata
di sensualità e di vera e propria
sessualità, intesa e vissuta anche come momento
problematico della vita muliebre, in cui avviene
un passaggio non sempre facile a compiersi.
Ernesto De Martino,
nel suo studio sui tarantolati, coglie appieno il
legame tra fase puberale — dunque ancora “virginale”
della vita femminile — e la stagione
successiva, quella matrimoniale, con il corteo
di pulsioni suicide legate al travaglio del
momento.
La festa delle Aiðra assume dunque un connotato sessuale evidente, dato che il giorno dopo si celebravano le nozze della regina con Dioniso, e che la notte delle altalene era vista come preparazione a queste. In sintesi le vergini, identificandosi con Erigone, si preparavano esse stesse all’incontro col dio, proprio come la loro eroina aveva fatto all’origine del mito.
La festa delle Aiðra assume dunque un connotato sessuale evidente, dato che il giorno dopo si celebravano le nozze della regina con Dioniso, e che la notte delle altalene era vista come preparazione a queste. In sintesi le vergini, identificandosi con Erigone, si preparavano esse stesse all’incontro col dio, proprio come la loro eroina aveva fatto all’origine del mito.
L’idea che qualcosa
di altalenante servisse come scongiuro della
cattiva sorte, auspicio beneaugurale, o come
gesto di purificazione, la troviamo
“imbalsamata” anche nel rito romano deglioscilla, che
richiama il mito originario seppur
“disumanizzato”.
Nel Libro II
delle Georgiche (vv. 388 sgg.), infatti,
compaiono questi versi oltremodo indicatori:
«Et te, Bacche, vocant per carmina laeta, tibique
oscilla ex alta suspendunt mollia pinu» (E te, Bacco,
invocano con lieti carmi e in tuo onore
appendono oscilla agli alti pini).
Il termine
latino oscilla, da cui l’odierno «oscillazione»,
deriva da os-oris, bocca o più estensivamente
faccia; probabilmente in origine un’effigie
del dio stesso. Dunque è in onore di Dioniso, durante
le Paganalia o le Sementivae
faeriae, feste della semina, che vengono fatte dondolare
queste immagini. Durante i Compitalia invece,
feste in onore dei Lari, venivano appese figurine in legno
che rappresentavano gli schiavi e i bambini
della famiglia.
Nel periodo imperiale,
infine, ogni casa aveva, sospeso tra i portici,
un oscillum raffigurante varie
divinità, sempre con una qualche ascendenza
o correlazione dionisiaca. A questo
proposito un oscillum molto ben conservato
è visibile nella chiesa di San Clemente in Laterano
a Roma, proveniente dal mitreo sottostante.
Maria e l’altalena
Anche la religione
cristiana originaria assumerà caratteri
dionisiaci, basti pensare a Gesù che si
definisce «la vera vite» (Giovanni XV, 1–2) e come
gli apostoli si debbano attaccare a lui «come
grappoli al tralcio». L’anima cristiana si
considerò, come l’orfica, serrata al corpo come in
un sepolcro.
La teologia
cristiana è in parte esoterismo
dionisiaco: consideriamo soltanto la
centralità del vino come simbolo di resurrezione.
Ma, forse più essenziale ancora, è la relazione tra
la Madonna, ciò che resta della Grande Dea nella concezione
patriarcale cristiana, e Gesù, suo figlio,
attraverso un rito che implica una oscillazione
collettiva.
A Taranto, il Giovedì
santo, la Madonna addolorata cerca il figlio morto nei
sepolcri allestiti presso le varie chiese. Osservando
la processione che la accompagna si notano subito
i Perdoni che, a piedi scalzi, i volti coperti da
un cappuccio (torna la maschera!), nazzicano,
cioè si cullano — questo significa in dialetto
la parola — assumendo questa camminata
dondolante tutta la notte.
Anche chi porta la
statua nazzica, come pure i fedeli tutti. Se si
osserva lo sguardo della statua, oltre il velo nero (Eros
e Thanatos) che lo adombra come fosse quello di
una danzatrice del ventre — altra forma della
maschera — si capisce che questo cercare non
è dettato solo dal dolore, ma dalla volontà di dargli
la possibilità di risorgere: è lei che fa
rinascere il figlio.
Joseph Roth ne La
cripta dei Cappuccini dice ad un certo punto: «Sempre
una madre aspetta il ritorno di suo figlio, del tutto indifferente
se questi se n’è andato in un paese lontano, in uno
vicino o nella morte».
E questa attesa è un
sentimento attivo, una forma di volontà, e produce
una forza che tiene vivo il ricordo e dunque viva la
persona.
Quando questa
volontà viene esercitata da una moltitudine
di persone diviene un atto di fede in grado di rigenerare
la Vita.
Attis e Cibele,
Dioniso e la Grande Dea attraverso la Basilinna
nelle Antesterie… sono gli antecedenti divini
del Cristo, così come Maria è ciò che ci rimane della
Grande Madre.
L’ottica ecclesiale
ovviamente capovolge polarmente la simbologia:
il patriarcato cattolico ha voluto transustanziare
la naturale rinascita della vita in quella
della resurrezione eterna di un corpo morto,
attribuendola al potere del Dio padre.
Ha spezzato così il
nesso matriarcale tra vita, morte e rinascita, con la
conseguenza evidente di far allontanare
ancor più l’umanità da questo mondo e dal rispetto per
la ciclicità dell’esistenza e di chi l’assicura: sotto
la croce a deporre il Figlio è la Madre.
E dunque per il
principio degli elementi costanti che regna nel
mitologema della rinascita del figlio autogenerato
da parte della Madre– essendo lo Spirito Santo emanazione
di lei e non altro da lei — la lettura autentica del
rapporto tra Maria e Gesù è chiara.
Questa non è una
interpretazione eretica, ma solo l’evidenza
della naturale evoluzione che parte dal rapporto
tra la Grande Dea ed il suo paredro, prima figlio, dopo amante,
poi in morte da Lei stessa fatto rinascere.
Se il femminile
riprendesse le fila e rivoltasse in questo senso
la tela della realtà simbolica cambierebbe
radicalmente anche quella fattuale.
Una modesta proposta
Ecco, allora avanziamo,
a mo’ di conclusione, una modesta proposta,
partendo dalla domanda: dove sono finite le altalene oggi?
Perché nei parchi pubblici ai bambini vengono
proposte quelle squallide apparecchiature
munite di cinture di sicurezza, con una escursione di
poche decine di centimetri, basse ed impiantate
su basi di grigio tartan? Come faranno questi bambini
esperienza del loro volo immaginario? Dove
incontreranno la «vertigine»? Quando potranno,
con la coda dell’occhio socchiuso nel sorriso estatico
del volo pericoloso, intravedere Dioniso
bambino che spunta nella luce del sole?
La scomparsa delle
altalene dai parchi pubblici è la prova provata
della violenza crescente che il nostro modello di
civilizzazione esercita sui bambini,
ovviamente con la scusa della “sicurezza”. Privati
del sensibile, essi si rifugeranno
nell’insensibile, nel consumo senza soddisfazione,
poiché è solo l’investimento emozionale che
immettiamo nel gioco che lo rende libidicamente
produttivo, soddisfacente; è il
rischio della morte, e la sua visione, il vortice, che
penetrano sino all’interno delle nostre ossa sino agli ultimi
fondamenti del sangue, mentre oscilliamo
pericolosamente, a rendere il gioco
perfettamente dionisiaco, erotico,
liberatorio e creativo.
Per ritrovare
qualcosa del genere dobbiamo andare nei Luna Park
contemporanei, in cui enormi aggeggi meccanici
ci fanno provare sensazioni simili a quelle che
una volta cercavamo sulla tavoletta sospesa tra i rami
di un albero. Ma oggi, a differenza di quel tempo,
l’illo tempore della nostra infanzia, i ragazzi sono
imbragati, legati da camice di forza dentro macchine
che fanno vivere, a pagamento, un fugace brivido che
non è né estasi né paura. L’altalena dei parchi
pubblici odierni, con i suoi edulcorati epigoni
da Luna Park, sta dunque a quella alta ed infinita di
un tempo come la pornografia d’accatto sta all’eros.
L’altalena vera,
invece, evoca in noi un’energia che esige di essere immaginata.
E non è forse questa sensazione di ricreare
il futuro attraverso le immagini, di cui abbiamo bisogno
per vivere l’infanzia? Di una «gioia incorporea che ha
appena dato inizio alla sua corsa», come scrive Shelley?
Immaginare significa innalzare di un tono il
reale; la gioia dell’altalena, del corpo in altalena,
riproduce nel microcosmo della nostra oscillazione
ascensionale la stessa dinamica dell’universo in
espansione.
Forse possiamo
arrivare a pensare, chi scrive lo pensò molte volte,
che se morissimo nel punto massimo di elevazione,
il nostro corpo resterebbe li, sospeso nel cielo.
Il manifesto – 12
luglio 2014
Ombre al confine. Ebrei in fuga dalla Riviera alla Francia (1938-1940)
Una pagina tragica e poco conosciuta della storia del nostro Ponente ligure. Un libro da leggere, un appuntamento da non mancare.
sabato 11 ottobre 2014
Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti
Parlare
di Gramsci oggi. Si può e in molti modi. A noi piace farlo così
riprendendo un suo scritto giovanile (aveva 26 anni). In altra parte
del blog abbiamo ricordato Mario Savio che mezzo secolo dopo, in un mondo profondamente mutato ma forse ancora più inumano, si alzò a
gridare il suo dissenso. Ecco, finchè ci sarà un giovane che avrà
il coraggio di alzarsi in piedi e dire forte il suo NO, la partita
non può considerarsi persa . Per questo anche noi odiamo gli
indifferenti.
Antonio Gramsci
Indifferenti
Odio gli indifferenti.
Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire
essere partigiani". Non possono esistere i
solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive
veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza
è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò
odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti.
Ciò che avviene, non
avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la
massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia
aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia
promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia
salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà
rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro
appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo
assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non
sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita
collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa.
I destini di un'epoca
sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi
immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi
attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa.
Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta
nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a
travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme
fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono
vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi
non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo
si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse
chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile.
Alcuni piagnucolano
pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si
domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato
di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò
che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro
indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio
e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per
evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si
proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo,
sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività
della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la
catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è
dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei
cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare
mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che
sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che
l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il
sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
"La Città futura",
11 febbraio 1917
giovedì 9 ottobre 2014
Agàpe. I valdesi ricordano Raniero Panzieri
I rapporti del
fondatore dei Quaderni Rossi con Agàpe e il mondo valdese
Francesco Maria Iposi
Ricordare Raniero
Panzieri a cinquant’anni dalla morte, avvenuta il 9 ottobre
1964, significa riscoprire ciò che nella sua proposta rappresenta
uno strumento utile alla comprensione del nostro tempo, anche alla
luce dei rapporti che il pensatore «operaista» ha intrattenuto
con il mondo valdese attraverso feconde collaborazioni
concretizzatesi con l’esperienza dei Quaderni Rossi e gli
appuntamenti del centro ecumenico di Agàpe (Prali) del dicembre
‘60 e dell’agosto ‘61.
All’universo
protestante va il merito di aver prestato ascolto ad un esponente
eretico dell’intellettualità socialista, oggi purtroppo
dimenticato dalla storiografia ufficiale, anche di orientamento
marxista. Dal tema dell’inchiesta operaia fino alla proposta di
un recupero delle tematiche gramsciane dei consigli di fabbrica,
sarebbero numerose le intuizioni panzieriane da riportare; ma due
sono i punti sui quali si ritiene di poter concentrare
l’attenzione in questa sede.
Panzieri - attento
studioso di quanto accade nell’industria del miracolo economico
- denuncia i limiti delle tradizionali forze della sinistra, le
quali restavano ancorate alla tesi sull’arretratezza del sistema
capitalistico italiano. Il fondatore dei Quaderni Rossi intende
smascherare la neutralità dello sviluppo e costruisce la prima
analisi demistificatrice della razionalità tecnologica scorgendo
in essa il binomio sapere/potere: egli ritiene, marxianamente, che
la divisione del lavoro abbia prodotto una scissione (tra le
potenze intellettuali del processo produttivo e i lavoratori) che
nell’epoca della grande industria separa la scienza facendone
una potenza indipendente dal lavoro in grado di rafforzare il
controllo del capitale.
L’evolversi della
tecnologia va dunque inserito all’interno di questo processo e
il rifiuto della neutralità di scienza e tecnica conserva un
valore oggi andato perso: proprio l’epoca postfordista - segnata
dallo sviluppo dell’informatica - getta uno sguardo spesso privo
di una riflessione sulla presunta «bontà» del progresso
tecnologico.
Un altro decisivo
aspetto è la critica da sinistra dello stalinismo. In molti hanno
sottolineato la felice intuizione di Panzieri in relazione alla
necessità di una via d’uscita dal dogma sovietico che non fosse
il compromesso socialdemocratico, ma pochi si sono soffermati sui
contenuti delle contestazioni polacche e ungheresi del 1956 alle
quali l’intellettuale operaista intendeva dare spazio e valore,
proprio in quanto tentativi autenticamente socialisti di creazione
di un’alternativa sociale più che partitica.
Una buona parte della
sinistra, seppur antisovietica, non è stata capace di vedere
nelle dissidenze dell’Est i semi di una novità, offrendo in
questo modo la spalla a forze conservatrici che «usavano» i
movimenti di opposizione al potere sovietico come dimostrazione
della validità delle società occidentale.
Già nel ’56
Panzieri aveva compreso come le rivolte dell’Est fossero volte a
rilanciare il significato etico di un socialismo delle libertà
all’interno di una cornice di potere operario antiburocratico e
antiautoritario fondato sulla democrazia diretta e sulla guida dei
processi economici e sociali da parte dei produttori associati.
Un socialismo, quello
panzieriano, inseparabile dalla democrazia, un’alternativa
umanistica che egli cercò di seguire con coerenza anche quando
preferì abbandonare le posizioni ufficiali, a costo di essere
isolato. Credo che da evangelici, ancora oggi, possiamo
riconoscere in Panzieri un compagno di viaggio di quella parola
biblica che annuncia all’uomo la liberazione da ogni forma di
oppressione.
http://www.riforma.it/
mercoledì 8 ottobre 2014
500 anni di Carlo Domenico Del Carretto
500 anni di Carlo
Domenico Del Carretto
Si svolgerà domenica 12
ottobre un'iniziativa culturale tra Saliceto, Paroldo e Finale.
In copertina lo straordinario ed enigmatico quadro nella basilica di
San Biagio a Finalborgo dove il cardinale Carlo Domenico Del Carretto
(che ambiva assurgere sul soglio di Pietro) riceve la tiara
pontificia da san Domenico al cospetto della Madonna con il Bambino
mentre il fratello Alfonso riceve la corona marchionale da Santa
Caterina d'Alessandria. La manifestazione prevede 3 commemorazioni
del marchese, grande mecenate in Saliceto, Finale, Paroldo, Calizzano
e Millesimo nel cinquecentesimo anniversario della morte
SALICETO - DOMENICA 12
OTTOBRE
Ore 10:30 visita straordinaria ai quattro monumenti nazionali (Chiese di San Lorenzo, Sant’Agostino, San Martino e castello dei Marchesi Del Carretto) con inizio del percorso guidato dal cortile del castello.
Ore 15:00 incontro -
studio nella “sala gotica del castello”
Interventi di: Guido
Araldo - storico “Carlo Domenico Del Carretto: un grande
personaggio del Rinascimento” Romano Salvetti - scrittore -
“economie di valico - contestualizzazione” Massimo Centini -
antropologo - “il malleus maleficarum e la caccia alle streghe ai
tempi del cardinale”
Ore 17:00 visita ai monumenti edificati dal cardinale Carlo Domenico Del Carretto a Saliceto.
Ore 17:00 visita ai monumenti edificati dal cardinale Carlo Domenico Del Carretto a Saliceto.
PAROLDO - SABATO 8 NOVEMBRE
Ore 15:00 incontro - studio nella “sala comunale”. Interventi di: Enrico Basso - Università di Torino - “Genova tardo medioevale tra il potere del mare e della montagna” Guido Araldo - storico - “Intorno al Cardinale - contestualizzazione storica” Fabio Bailo - storico - “Il valore della memoria” Fabrizio Bissacco - tour operatour - “Alta Langa: per un’identità futura di una terra antica”. - Coordina i lavori lo scrittore Romano Salvetti. Alla sera: bägna cäoda (cibo nato dall’incontro tra la Riviera, le acciughe, e le Langhe) e cerimonia del “mantello di san Martino”.
FINALE LIGURE - DOMENICA 16 NOVEMBRE
Giornata di visita e studio, patrocinata dalla Sovrintendenza ai Beni Architettonici e Archivistici della Liguria, Comune di Finale, Museo Archeologico di Finale, Istituto di Studi Liguri, Associazione Centro Storico di Finale, Associazione Celesia, UniTre, Biblioteca Medioteca di Finale Ligure, parrocchia basilica di San Biagio a Finalborgo
lunedì 6 ottobre 2014
Raffaele K. Salinari, Riti e miti del tuffo nel Tevere
Omaggio alla Dea Madre, processo simbolico di morte e rinascita, rito di fertilità. Viaggio nei significati di una tradizione millenaria ora diventata spettacolo per turisti in cerca di emozioni.
Raffaele K. Salinari
Riti e miti del tuffo nel
Tevere
Ogni Capodanno si rinnova
lo spettacolo del tuffo nel Tevere dal ponte Cavour. Riscoperto alla
fine degli anni Ottanta dal simpatico Mister Ok, è in realtà il
gesto epigono di una tradizione antichissima che attinge alla fonte
di ascendenze mitologiche precise, già suggestivamente riprese da
Pasolini nella ieratica scena del tuffo di Accattone dal Ponte degli
Angeli a beneficio di lenoni e prostitute.
E allora, dove comincia
questa storia e cosa resta oggi dei riti delle origini oramai
confluiti in questa acrobazia dal sapore circense?
Iniziamo la sua
genealogia con un estratto dell’articolo di Aldo Carotenuto Simboli
di individuazione nella Basilica sotterranea di Porta Maggiore in
Roma, pubblicato sulla Rivista di Psicologia Analitica nel 1971: «Il
21 aprile 1917 una voragine si apre sotto un binario della linea
Roma-Napoli, nei pressi di Porta Maggiore: viene così scoperta una
basilica sotterranea a tre navate, di cui la centrale termina in
un’abside semicircolare.
Gli esperti hanno modo di
stabilire che i muri perimetrali ed i pilastri erano stati ottenuti
scavando prima il terreno secondo le forme e profondità volute, e
poi riempendo gli scavi di malta e calce; il tempio era stato
successivamente vuotato di tutta la terra attraverso un ampio foro
adattato in ultimo a lucernaio; il pavimento della parte centrale
veniva così investito dalla luce che cadeva dall’alto. L’aspetto
più sorprendente della basilica, o almeno quello che più colpisce
il visitatore, sta nella presenza di un gran numero di stucchi,
perfettamente conservati, che riecheggiano alcuni temi fondamentali
della mitologia greca.
Il giornale Notizie sugli
scavi, nella prima comunicazione che della scoperta venne data al
mondo scientifico, avanzò con molta prudenza l’ipotesi che il
monumento fosse stato adibito al culto di qualche religione
misterica. In seguito lo studioso belga Franz Cumont, notando che la
caratteristica principale del tempio consisteva nel suo essere
sotterraneo, si richiamò agli spelei mitriaci. Ma bisogna dire che
la maggior parte della decorazione interna è in netta contraddizione
con i riti connessi alla religione di Mitra: due soli elementi, il
toro e i gemelli, potrebbero riallacciarsi a tale culto; però, come
verrà chiarito, questi due stucchi si riferiscono a tutt’altra
simbologia.
Nel 1923, infine, lo
storico ed archeologo francese Jerome Carcopino dimostrava
l’appartenenza della basilica ad una setta neopitagorica.
Carcopino, con una buona dose di fortuna, si era imbattuto in un
passo poco conosciuto di Plinio il Vecchio, là dove si accenna ad
una certa erba che aveva la proprietà di rendere affascinante
all’altro sesso chiunque riusciva a trovarla nelle campagne: cosa
che capitò, dice una vecchia leggenda ripresa anche da Ovidio nelle
Eroidi, a Faone, e la povera Saffo, innamoratasi perdutamente di lui
senza esserne corrisposta, si uccise lanciandosi dal promontorio di
Leucade. Ora, dice Plinio, a ciò credevano non solo quelli che si
interessavano di magia, ma anche i pitagorici. L’episodio di Saffo
fa parte degli stucchi della basilica, ed occupa anzi una posizione
predominante: tutta la parte superiore dell’abside semicircolare.
In quest’abside appare
una figura femminile sul ciglio di un promontorio. Sulla testa ha un
velo gonfiato dalla brezza marina. Sembra che la fanciulla stia per
tuffarsi nelle onde lievemente agitate del mare. Nella mano sinistra
ha una cetra. Eros la spinge premendole col braccio le spalle. Nel
mare un tritone stende un velo per riceverla, mentre un altro suona
la buccina.
Su uno scoglio siede un
giovane pensoso, con la guancia al palmo della mano. In alto si vede
Apollo che impugna l’arco rituale. Lo stucco si riferisce
all’ultimo episodio della vita di Saffo, così come è stato
tramandato dalla leggenda: respinta da Faone per la sua bruttezza
fisica, Saffo si uccide lanciandosi in mare dalla rupe di Leucade.
Viene subito in mente una considerazione: suscita meraviglia il fatto
che i pitagorici abbiano posto in risalto un episodio tanto in
contrasto col loro ideale di vita: il pitagorismo, analogamente
all’idealismo cristiano, interpreta la vita umana come un
perfezionamento in vista dell’immortalità, per cui non è
consentito all’uomo di accorciare la durata della prova e
scrollarsi di dosso il fardello. L’episodio di Saffo può essere
compreso soltanto se non lo si valuta come il dramma di una morte
volontaria, ma come un rito di rigenerazione che Saffo affronta con
grande fede: il salto nel mare è simbolo di rinnovamento, e in
questo senso si ritrova in altri racconti mitologici.
Negli inni di Callimaco,
ad esempio, leggiamo che Britomarte, inseguita da Minosse, riuscì a
sfuggirli gettandosi in mare, e che, dopo quell’atto fu trasformata
in dea da Minerva. Apollodoro mitografo ci parla di Ino, resa folle
da Giunone: dopo aver ucciso il proprio figlioletto, si lanciò in
mare e divenne una divinità marina. Quando Teseo arrivò a Creta,
dovette dimostrare di essere figlio di Poseidone: Minosse buttò in
mare un anello e gli chiese di ripescarlo. Senza esitare Teseo si
tuffò allora nel mare; un branco di delfini lo scortò fino al
palazzo delle Nereidi, dove Teti gli regalò una corona ingioiellata,
dono nuziale di Afrodite che più tardi cinse il capo di Arianna;
altri dicono che Anfitrite, la dea del mare, gli consegnò la corona
e ordinò alle Nereidi di nuotare tutt’attorno per trovarle
l’anello. In ogni caso Teseo emerse dal fondo del mare reggendo sia
l’anello che la corona.
Ora è senza dubbio
interessante il fatto che Teseo dopo l’immersione nel mare, riporta
non solo l’anello, ma anche una splendida corona. Jung ha rilevato
che la corona è per eccellenza il simbolo dell’avvenuto
raggiungimento di qualche alto obiettivo: chi conquista sé stesso,
ottiene la corona della vita eterna».
A questo proposito è
anche da riferire l’autorevole testimonianza di J. Carcopino dalla
Revue Archeologique del 1923: «Se noi guardiamo attentamente la
Saffo della basilica, non possiamo scorgere nessuna agitazione nel
suo atteggiamento; Saffo è l’esempio classico di una rigenerazione
sacramentale e morale che trasforma gli iniziati».
Per completezza di
informazione dobbiamo dire che, secondo alcune interpretazioni
letterali del passo di Plinio contenuto nel suo Historia Naturalis
(XXII, 20), Saffo si tuffa sì nel mare, ma non per suicidarsi;
certamente non vi muore dato che, nel passo in oggetto, non lo si
dice affatto, né tantomeno la vicenda è storicamente documentata.
Cominciamo qui ad
avvicinarci ad una interpretazione più «iniziatica» di questo
tuffo come descritto in alcune letture dello stesso Plinio e non,
invece, come motivato da follia amorosa suicida.
Elémire Zolla, ad
esempio, lo inserisce tra i tuffi alla ricerca dell’«Amante
Invisibile» nel libro omonimo.
«Di indizi [sul tuffo
iniziatico] è cosparsa l’antichità. Il tuffo iniziatico vi era
celebrato, gli iniziati andavano sotto il nome di pesci, non soltanto
per il voto del silenzio che li legava. Come le cosmogonie parlavano
di acque primordiali dalle quali tutto era affiorato, nel grembo
delle acque era naturale che si ritenessero celate le ragioni ultime
delle cose. È noto che a Lesbo e in Etruria un clero amministrava il
tuffo sacramentale. Plinio, nel passo sul salto di Saffo, informa che
era usata un’erba allucinogena per infondere forza e colorito alle
istruzioni preliminari del clero, che forse eseguiva una pantomima in
cui un demone inseguiva il candidato e lo precipitava dall’alto di
una rupe. Una barca aspettava di sotto».
Sembra, e lo è, la
descrizione esatta della raffigurazione absidale nella basilica di
Porta Maggiore.
La lettura dello studioso
Jean Hubaux nel suo Esseni in Plinio contenuto nei Cahiers du Cercle
Ernest Renan del 1959, esalta specificamente il significato
iniziatico del «salto di Saffo» e lo riposiziona ancora più
profondamente all’interno della tradizione orfico-dionisiaca,
collocandolo tra i riti costituitivi di una setta di baptae legati
dell’antica dea Cotyto o Cotitto, originaria della Tracia, e che
poi si sarebbe insediata a Roma lungo il Tevere, nelle bettole dei
viaggiatori fluviali.
Qui di seguito proponiamo
la traduzione di alcuni versi dell’Appendix virgiliana contenuti
nel Catalepton XIII, 19-34, che gettano una luce interessante sul
culto strettamente orgiastico-lustrale della dea a Roma.
E dunque, dice Virgilio:
«Non mi attirerai, bellezza, nei riti di Cotitto alle feste
falliche; né ti ammirerò roteare i fianchi aggrappato agli altari,
e presso il biondo Tevere adescare i marinai che sanno di salsedine,
quando le barche approdano e sono trattenute dal sordido fango,
mentre stanno alla fonda nell’acqua bassa; né mi condurrai nei
tuoi retrobottega, dove prepari sordide pozioni, delle quali pieno
poi torni alla moglie obesa mentre sciogli sapientemente
nell’estuario il ventre che ribolle. Ora offendimi pure, o
provocami, se ne sei capace. Ecco, scrivo il tuo nome o cinedo
Lucceio».
Perché Virgilio pone
come palcoscenico dell’orgiastica festa di Kotys, con le lascive
gesta del cinedo Lucceio, il Tevere, e come deuteragonisti gli
olentes nauticum i «marinai che sanno di salsedine»?
In questi versi possiamo
ritracciare gli elementi degenerativi propri del cammino compiuto
immancabilmente da ogni celebrazione che, progressivamente, perde la
sua centralità sacrale e muta nel tempo assumendo forme via via
sempre più secolarizzate. Spesso queste appaiono talmente lontane
dall’ispirazione originaria da essere pressoché irriconoscibili
ma, e qui è l’arcano, pur sempre vitali e capaci di richiamare, in
qualche modo, la stessa sostanza. In effetto, come dice Robert
Graves,conoscere il nome di una divinità in un dato luogo e tempo è
di gran lunga meno importante che riconoscere la ragione dei
sacrifici che le o gli venivano offerti; in questo caso, come nella
festività del nostro Capodanno, l’augurio sacrificale resta
immutato: il tuffo come nuovo inizio.
E allora, per ricostruire
il quadro completo dobbiamo dire che, in origine, Kotys era uno dei
tanti nomi della Dea Madre, la Potnia mediterranea, che troviamo
anche nel mito olimpico della creazione come sposa di Urano. Graves
ricorda le sue origini asiatiche identificandola con Ur-ana cioè la
dea della piena estate. Il viraggio patriarcale che in Grecia
subirono le mitologie matriarcali la costrinse, prima a donare il suo
stesso nome ad Urano diventando sua moglie, e poi lentamente a
degradare, giunta a Roma, verso la «dea dell’impudenza» –
questo è infatti il titolo di Cotitto sulle rive del Tevere – i
cui sacerdoti interpretavano una sessualità decadente, che praticava
però ancora il tuffo rituale alla ricerca del ricongiungimento con
l’«Amante Invisibile», cioè il principio femminile creatore.
In sintesi ciò che ci è
dato sapere intorno al culto di Kotys lo dobbiamo a Strabone che, nel
suo Della Geografia, parlando dei culti orgiastici, ricorda questo
della dea Kotys, originariamente tracia, e quindi introdotta in Atene
ed a Corinto. Per giustificare ciò che egli afferma dell’origine
tracia, cioè dalla regione anticamente compresa tra nordest della
Grecia, sud della Bulgaria e Turchia europea, in cui i monti Rodopi
separano la Tracia greca da quella bulgara, lo storico cita un
frammento di Eschilo dagli Edoni da cui si deduce che tale culto
aveva luogo sulle alture di quei monti: «O Coti dea venerata dagli
Edoni con montani strumenti».
Trapiantato in Grecia, il
culto di Kotys ebbe rito e significato che ne limitavano la podestà
ad un solo aspetto della Zoé, quello riproduttivo, riducendolo così
ad un preciso ambito caratterizzato. Una prima trasformazione in
questo senso si riscontra nella festa di Kotys celebrata in Sicilia
dove, come ricorda Plutarco: «Si sospendevano ad un albero cibi e
frutti, di cui il popolo quindi a gara s’impadroniva, donde il
nome: festa di Kotutìok». La dea tracia era qui identificata
specificatamente col principio della riproduttività della Bíos
vegetale ed animale, che veniva ugualmente rappresentato per mezzo di
rami sospesi e carichi di frutta nelle feste di Cybele in Asia Minore
e in Grecia.
In Grecia la dea Kotys
rappresentò dunque la forza rigeneratrice della natura, e poiché la
terra produce anche per azione della pioggia, nel culto venne
introdotta l’acqua; ma, per esprimere la specifica fecondità
generativa umana, bisognava necessariamente rappresentare la donna, e
perciò i sacerdoti della dea si vestivano di abiti femminili.
Questi sacerdoti si
chiamavano Baptai, il nome ritenne del rito la parte che riguardava
l’acqua, adoperata, come dice il nome, per abluzione o per bagno.
Col tempo la ritualità divenne poi decisamente orgiastica, riducendo
ancor più la portata del culto originario ad una sottospecie delle
sue componenti, quella esclusivamente sessuale ed infine omosessuale.
A questo proposito esiste una commedia satirica dell’ateniese
Eupolis scritta contro Alcibiade in occasione della guerra del
Peloponneso, che si chiama proprio Baptai e che li descrive come
chiaramente omosessuali.Questo viraggio avvenne a Corinto, per
eccellenza la sede del culto di Kotys in Grecia: in quella città si
sarebbe celebrato in uno dei tanti ridotti lungo le rive del mare,
celebri nell’antichità per i piaceri che fornivano agli avventori.
Di questi la parte
maggiore erano naviganti; trapiantato in Roma, tale culto pare si sia
celebrato in qualche luogo lungo il Tevere, in vicinanza dei
ponti.Come il culto di Kotys fosse migrato verso Roma, ed avesse
subito in questi passaggi ulteriori ridimensionamenti, ce lo narra
Giovenale nella sua satira I bagascioni ipocriti e sfacciati, dove
dice che i suoi sacerdoti si chiamavano Baptae ed organizzavano orge
così vestiti: «Di lunghe bende, e di molte collane. Contraria
usanza le femmine allontana, e quelle soglie non passa alcuna: ai
soli maschi aperta è l’ara della Dea. Fuori!, si grida, fuori, o
profane: qui non s’ode femmina sparger di tibia o corno il flebil
suono».Anche Sinesio di Cirene (370-413), discepolo di Ipazia e poi
vescovo di Tolemaide di Libia, nelle sue Epistolae parla degli
«effeminati adepti di Cotis coi capelli tutti unti ed arricciati
dediti alle orge».
La relazione tra il
Tevere e le Cotytie celebrate in Roma è dunque nelle cose, ed anche
se nessuno scrittore c’informa del modo particolare in cui si
compiva la funzione del bagno in quei culti, possiamo pensare che in
origine ci sarà stato un vero e proprio tuffo nell’acqua, e in
seguito forse una semplice lustrazione che il sacerdote ordinava a
coloro che alla celebrazione del rito prendevano parte, forse dopo
l’atto sessuale, come ci dice Virgilio del cinedo Lucceio.Qui
ritroviamo l’origine non solo del tuffo ma anche l’aura erotica
che indubbiamente emana ancora il salto nel Tevere, l’ostentazione
del corpo che ne è parte costitutiva, come pure il coté lustrale ed
augurale, di purificazione.
L’origine propriamente
mitologica del tuffo nel Tevere la descrive invece Ovidio che, nei
Fasti (V, vv. 622-659) dice come, nei tempi arcaici, Giove Fatidico
prescrivesse ai nativi laziali di gettare nel Tevere, ogni anno, una
vittima umana per ogni gens, in onore del «vecchio falcifero», cioè
Saturno. A questo «tuffo capitale» pose fine Ercole, che sostituì
i corpi umani con dei fantocci. Il rituale, come prescritto da Giove
ed emendato da Ercole, proseguì poi nei secoli, durante le feste dei
Lemuria in maggio, con il lancio da parte delle Vestali di fantocci
in giunco (scirpea), rappresentanti gli stessi Argei, i cosiddetti
«Quiriti di paglia», dal ponte Sublicio.
Gli Argei sono figure
della mitica origine di Roma; secondo Varrone erano nobili giunti
nella penisola italica al seguito di Ercole per poi stabilirsi nel
villaggio fondato dal dio Saturno sul Campidoglio. Come abbiamo visto
qui viene sostituita la vittima umana con un suo idolo, esattamente
come già nell’antica Grecia il pharmakós umano veniva rimpiazzato
da un animale; nella Bibbia, e prima ancora, dal «capro espiatorio».
Questo simulacro, dunque,
permette di mantenere inalterato, sul piano simbolico, il valore
intrinseco del rito sacrificale: che nel fiume vengano annegati
uomini o fantocci di forma umana non muta e soprattutto non inficia
il senso del sacrificio. Come dice René Girard «ogni sacrificio
capitale riproduce il suo mito fondativo», ed è questo che deve
essere periodicamente riproposto per la conservazione di un aspetto
specifico dell’ordine delle cose. È questa riproduzione che riapre
la parentesi del Grande Tempo, del «tempo sacro» in cui si consumò
l’atto primordiale, mitico, quello «fatto una volta per tutte»
come lo definisce Cesare Pavese nel suoi Dialoghi con Leucò.
Ora, dato che Ovidio non
parla esplicitamente del mito fondativo di questa prescrizione di
Giove, dobbiamo cercarla probabilmente in relazione all’elemento
distintivo del rito
sacrificale capitale, cioè nello specifico fatto che si tratta di un
tuffo mortale nell’acqua. E giacché il rito arcaico viene
prescritto in onore di Saturno, che evirò il padre Urano, possiamo
pensare che esso riproduca, attraverso la morte rituale o
simbolizzata, l’originale sacrificio divino che diede origine al
Mondo degli antichi.
Il mare, o l’acqua,
rappresentano, oltre al principio creatore, anche uno degli accessi
alla morte, al «totalmente altro».
E dunque, a Roma, il
Tevere era visto come una via che portava temporaneamente o
definitivamente agli inferi, e cioè come operatore della «catabasi»,
ossia della classica «discesa all’ade e resurrezione» che vede
protagonisti gli eroi capaci di ritornare dal fatidico viaggio
rigenerati dalla prova.
Il superamento di una
«catabasi» equivale a riemergere in una dimensione di immortalità
spirituale: è sempre nelle acque che si sommergono i residui di uno
stato di perdizione e si rigenera l’essere per riaffiorare in
caelestibus, come nel battesimo cristiano o nella sommersione mazdea
nelle piscine di Persepoli. E certo oggi immergersi e riemergere
dalle acque del Tevere è una prova potenzialmente mortale, al di là
del tuffo.
E allora, se alla luce di
questi antecedenti leggendario-mitologici «attualizziamo» il nostro
sguardo verso il tuffo nel Tevere, il gesto del tuffatore-pharmakós
ci appare come l’auspicio di chi vuole caricare su di sé ogni
impurità per dissolverla così nella morte acquatica e successiva
resurrezione battesimale, permettendo col suo «sacrificio» il
sorgere di un nuovo ciclo, essenza originaria di quella simbolica
rinascita che per noi tutti è il Capodanno.
Il Manifesto/Alias - 31 maggio 2014