Vito Mancuso è docente di
"Storia delle dottrine Teologiche" presso
l'Università degli Studi di Padova. Dal 2009 è editorialista
del quotidiano “la Repubblica”.
sabato 31 maggio 2014
Eunuchi al servizio del Signore o il matrimonio è un diritto anche per i preti? Abolire il celibato per il bene della chiesa
Proponiamo un articolo
che ci è particolarmente piaciuto. Come ci era piaciuto Alberto
Sordi, umanissima e dolente figura di prete in cerca di amore in un
episodio di “Contestazione generale”, (bel film di Luigi Zampa).
Era il 1972 e sono passati più di 40 anni, ma la solitudine dei
sacerdoti resta a interrogare una Chiesa che non risponde.
Vito Mancuso
Il
matrimonio è un diritto anche per i preti. Abolire il celibato
per il bene della chiesa
CHISSÀ come risponderà
il Papa alla lettera indirizzatagli da 26 donne che (così si sono
presentate) «stanno vivendo, hanno vissuto o vorrebbero vivere una
relazione d’amore con un sacerdote di cui sono innamorate».
Ignorarla non è da lui, telefonare a ogni singola firmataria è
troppo macchinoso, penso non abbia altra strada che stendere a sua
volta uno scritto. Avremo così la
prima epistula de coelibato
presbyterorum indirizzata da un Papa a figure che fino a poco fa
nella Chiesa venivano chiamate, senza molti eufemismi, concubine.
Dai frammenti della lettera riportati sulla stampa risulta che le autrici hanno voluto presentare la «devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento ». Il loro obiettivo, scrivono al Papa, è stato «porre con umiltà ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa».
Ecco la posta in gioco,
il bene della Chiesa. L’attuale legge ecclesiastica che lega
obbligatoriamente il sacerdozio al celibato favorisce il bene della
Chiesa? Guardando ai due millenni del cattolicesimo, ritroviamo che
nel primo il celibato dei preti non era obbligatorio («fino al 1100
c’era chi lo sceglieva e chi no», così scriveva il cardinale
Bergoglio).
MENTRE lo divenne nel secondo in base a due motivi: 1) la progressiva valutazione negativa della sessualità, il cui esercizio era ritenuto indegno per i ministri del sacro; 2) la possibilità per le gerarchie di controllare meglio uomini privi di famiglia e di conseguenti complicate questioni ereditarie.
Così il prete cattolico
del secondo millennio divenne sempre più simile al monaco. Si
tratta però di due identità del tutto diverse. Un conto è il
monaco il cui voto di castità è costitutivo del codice genetico
perché vuole vivere solo a solo con Dio (come dice già il termine
monaco, dal greco mònos, solo, solitario); un conto è il ministro
della Chiesa che determina la sua vita nel servizio alla comunità.
Il prete (diminutivo di
presbitero, cioè “più anziano”) esiste in funzione della
comunità, di cui è chiamato a essere “il più anziano”, cioè
colui che la guida in quanto dotato di maggiore saggezza ed
esperienza di vita. Ora la questione è: la celibatizzazione forzata
favorisce tale saggezza e tale esperienza? Quando i preti celibi
parlano della famiglia, del sesso, dei figli e di tutti gli altri
problemi della vita affettiva, di quale esperienza dispongono?
Rispondo in base alla mia
esperienza: alcuni sacerdoti dispongono di moltissima esperienza,
perché il celibato consente loro la conoscenza di molte famiglie,
altri di pochissima o nulla, perché il celibato li fa chiudere alle
relazioni in una vita solitaria e fredda. Ne viene che il celibato ha
valore positivo per alcuni, negativo per altri, e quindi deve essere
lasciato, come nel primo millennio, alla libera scelta della
coscienza.
Vi è poi da
sottolineare che la qualità della vita spirituale non per tutti
dipende dall’astinenza sessuale e meno che mai dall’essere
privo di famiglia, basti pensare che quasi tutti gli apostoli
erano sposati e che il Nuovo Testamento prevede esplicitamente il
matrimonio dei presbiteri (cf. Tito 1,6).
Se poi guardiamo alla
nostra epoca, vediamo che veri e propri giganti della fede come Pavel
Florenskij, Sergej Bulgakov, Karl Barth, Paul Tillich erano sposati.
Se i nazisti non l’avessero impiccato, anche Dietrich Bonhoeffer si
sarebbe sposato, ed Etty Hillesum, una delle più radiose figure
della mistica femminile contemporanea, ebbe una vita sessuale molto
intensa. Anche Raimon Panikkar, sacerdote cattolico, tra i più
grandi teologi del ‘900, si sposò civilmente senza che mai la
Chiesa gli abbia tolto la funzione sacerdotale.
“Non è bene che l’uomo sia solo”, dichiara Genesi 2,18. Gesù però parla di “eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli” ( Matteo 19,12). La bimillenaria esperienza della Chiesa cattolica si è svolta tra queste due affermazioni bibliche, privilegiando per i preti ora l’una ora l’altra. Penso però che nessuno possa sostenere che il primo millennio cristiano privo di celibato obbligatorio sia stato inferiore rispetto al secondo.
Oggi, a terzo millennio
iniziato, penso sia giunto il momento di integrare le esperienze dei
due millenni precedenti e di far sì che quei preti che vivono storie
d’amore clandestine (che sono molto più di 26) possano avere la
possibilità di uscire alla luce del sole continuando a servire le
comunità ecclesiali a cui hanno legato la vita. La loro “anzianità”
non ne potrà che trarre beneficio. Vi sono poi le molte migliaia di
preti che hanno lasciato il ministero per amore di una donna (ma che
rimangono preti per tutta la vita, perché il sacramento è
indelebile) e che potrebbero tornare a dedicare la vita alla missione
presbiterale, segnati da tanta, sofferta, anzianità.
L’anima black dei poeti uniti d’America
Dai collettivi anni
’80 al boom di oggi: la letteratura nera in versi esce dal ghetto e
diventa globale.
Alla fine del 1987, due
giovani poeti fecero una bella scarpinata fino a New York per
prendere parte al funerale di James Baldwin. Emozionati dalla
cerimonia, e addolorati dal fatto di non aver mai incontrato un
gigante letterario afroamericano della statura di Baldwin, i poeti
Thomas Sayers Ellis e Sharan Strange misero a punto un piano:
avrebbero chiamato a raccolta giovani scrittori e artisti neri e
offerto loro la possibilità di leggere ad alta voce le loro
creazioni, per allacciare rapporti con i giusti mentori e per
alimentare quel genere di spirito comunitario che in passato ha
dato vita a più di un movimento culturale.
Chiamarono il gruppo Dark Room Collective , Collettivo della camera oscura. Gli studiosi affermano che da lì sbocciò la poesia afroamericana, che quasi certamente nel mondo letterario è tanto significativa quanto la Beat Generation. Influenzato da pionieri come Rita Dove, il lavoro di questo gruppo prese il via dal punto di vista stilistico da buona parte della poesia nera che l’aveva preceduto: più che con le lotte o l’identità razziale ebbe a che vedere con l’immaginazione che spicca il volo.
Nelle generazioni
precedenti, molti poeti avevano utilizzato il loro lavoro «per
combattere contro l’oppressione di vari generi», ha detto
Charles Henry Rowell, il curatore dell’antologia del 2013
intitolata Angles of Ascent: A Norton Anthology of Contemporary
African American Poetry .
Adesso, ha
aggiunto, «c’è un privilegio unificatore, e quel privilegio
consiste nello scrivere come considero opportuno scrivere ».
Anche se dopo una decina d’anni circa il Dark Room Collective chiuse i battenti, alcuni dei suoi affiliati perseverarono, diventando personalità letterarie di primo piano e ricevendo premi importanti. Forse la più famosa di tutti è Natasha Trethewey, che ha vinto il Premio Pulitzer per il suo libro del 2006 Native Guard , ed è stata insignita anche del titolo di “poeta laureato della Nazione”. Tra gli altri veterani vi furono Tracy K. Smith, che vinse il Pulitzer per Life on Mars nel 2012, e scrittori come Kevin Young, Carl Phillips e Major Jackson, tutte voci autorevoli della poesia americana.
Il collettivo ebbe anche un effetto a cascata. Nel 1996 Cornelius Eady e Toi Derricotte fondarono infatti Cave Canem, organizzazione che costituì una piattaforma di lancio per molti poeti, tra i quali Adrian Matejka, il cui libro del 2013 The Big Smoke è stato finalista sia per il Pulitzer sia per il National Book Award, e Terrance Hayes, che ha vinto il National Book Award nel 2010 con Lighthead .
Anche Nikky Finney, che
ha vinto quello stesso premio nel 2011 con il suo Head Off &
Split , aveva aderito a tutti gli effetti al gruppo. «Fu un
fenomeno del tutto insolito — ha detto la Trethewey — la poesia
nera non era mai stata mainstream. Di colpo, invece, non fu una
sottospecie della poesia americana, bensì il cuore stesso della
poesia americana».

Nelle interviste, molti poeti della nuova guardia parlano della sensazione di liberazione, non hanno più bisogno per aderire a un insieme di norme su ciò che si presume debba essere la poesia nera. La loro arte poetica ha a che vedere con l’identità stessa. Matejka l’ha descritta come il passaggio dalla «modalità “sono un uomo di colore in America ed è dura” all’idea del “sei quel che sei, e quindi ciò farà sempre parte della poesia”», con l’aggiunta di «molto più spazio per una sublime sperimentazione linguistica ».
Un’opera può essere
tradizionale o sperimentale, apertamente politica o
appassionatamente privata, e contenere un vasto assortimento di
riferimenti che possono includere Melvin Van Peebles, Jorge Luis
Borges, David Bowie. Buona parte della poesia ha
un’immediatezza che può risultare quasi cinematografica.
Ecco un esempio, tratto
da Wind in a Box, (Vento in scatola) di Terrance Hayes: « Questo
inchiostro. Questo nome. Questo sangue. Questo strafalcione. /
Questo sangue. Questa perdita. Questo vento malinconico. Questo
canyon ».
Ma c’è anche uno sforzo preciso, quello di rivendicare e ricontestualizzare episodi storici, famosi o dimenticati. Native Guard di Trethewey include l’angosciante saga di alcuni ex schiavi che combatterono nel reggimento nero Union durante la Guerra civile. The Big Smoke di Matejka illustra la vita del pugile peso massimo Jack Johnson.
«Si tratta di
personaggi che furono spazzati via dalla narrativa dominante o
immessi su un binario morto» ha detto Matejka in un’intervista.
Young, professore all’Emory University, ha pubblicato varie
antologie di poesia (tra cui raccolte sul cibo e il blues) e ha
scritto libri in versi sulla rivolta della nave negriera Amistad
( Ardency), sul pittore Jean-Michel Basquiat ( To Repel Ghosts ),
sulla lussuria, la violenza e il linguaggio dei film noir ( Black
Maria).
Agli occhi di un poeta e mentore più anziano come Eady, questo senso di assenza totale dei limiti può essere fatto risalire proprio al Dark Room Collective — come pure quel senso di fraternità dei laboratori di Cave Canem. (il mito Dark Room è cresciuto al punto che i suoi membri nel 2012 e nel 2013 si sono messi in viaggio per una rimpatriata.)
«È bello vedere che
servì da mezzo per far sbocciare le persone » dice Strange, anche
se l’idea originaria era semplicemente quella di frequentarsi e
stare un po’ insieme, dando vita a una comunità di scrittori che
la pensavano nello stesso modo. «L’ambizione era quella di
essere creativi. Non ci fu mai il proposito grandioso di partire
alla conquista della letteratura americana ».
Sinistra: come ricominciare?
Non nascondiamo che la
sconfitta dei fascistelli (a loro insaputa) del M5S ci abbia fatto
piacere e che la vittoria di Renzi sia nel quadro attuale il male
minore. Resta il fatto che, pur raggiungendo il quorum e dunque un
risultato positivo, la sinistra abbia ancora perso voti (oltre 700
mila) rispetto alle politiche di un anno fa. Niente trionfalismi,
dunque, ma una seria riflessione sul come ripartire per rilanciare
la presenza anche in Italia di una sinistra alternativa ad una
politica (PD) incapace di pensare l'esistente al di fuori della
logica del capitale. I segnali che ci arrivano da SEL e PRC non ci
paiono incoraggianti. Da un lato la tentazione dell'accodamento
opportunistico al carro dei vincitori, dall'altro un massimalismo
nostalgico e identitario del tutto privo di prospettive. Tacciamo,
per pudore, dell'estremismo infantile da terzo periodo dei residuati
groppuscolari tipo Rossa, PCL et similia. Importante invece il segnale che viene dai movimenti di cittadinanza attiva e da una parte del mondo intellettuale.
Alfonso Gianni
In Italia la sinistra
ricomincia da quattro
Il voto di
domenica, richiama innanzitutto una lettura
europea che non si presta a giudizi
semplificati. Per alcuni paesi, come il nostro o la
Francia si è trattato di un vero terremoto;
nel contempo, pur marcando inquietanti successi,
le destre antieuropeiste non travolgono
i rapporti di forza nel parlamento europeo,
ove aumenta di consistenza l’area di un europeismo
critico da sinistra attorno a Tsipras.
I popolari, pur restando primi, indietreggiano
e non poco, la stessa cosa fanno i socialdemocratici,
seppure in misura minore.
Nel contempo per la
prima volta dal 1979 la percentuale dei votanti non
è scesa, se non di un decimale, attestandosi sul
43%. In Italia è invece diminuita fortemente,
del 7,7%, scendendo sotto il 60% per la prima volta in una
elezione di carattere generale.
La strada delle larghe
intese sul modello tedesco continua a essere la
più probabile in quel di Strasburgo, anche se le
figure di riferimento possono cambiare. Né
Juncker né Schulz escono dalla contesa in grande salute ed
è possibile che il ruolo di presidente
della commissione possa andare ad altri. Matteo Renzi
progetta di chiedere il posto per qualcuno dei suoi,
in subordine di aspirare alla carica di ministro degli
esteri, in sostituzione della scialba Ashton, o di
avere il ricco portafoglio dell’Agricoltura. Insomma
il partito di Renzi si prepara a contare di più
in Europa, al di là del prossimo semestre italiano.
Mentre il duopolio Francia – Germania
su cui si era fondata tutta la costruzione politica,
economica e istituzionale europea
da Maastricht in poi è travolto dal disastro
francese.
Questi cambiamenti
e nello stesso tempo il perdurare e il
confermarsi di vecchie tendenze, producono
un effetto di spiazzamento anche nei giudizi di
intellettuali da sempre attenti alla dimensione
europea (si parva licet componere magnis). Ulrich Beck
proclama la fine dell’austerità. E’ vero che la Merkel
appare più sola nel contesto europeo; soprattutto
la Bce nella sua imminente riunione dei primi di giugno
si appresta ad abbassare verso lo zero i già
bassissimi tassi di interesse e di renderli
negativi per ostacolare i depositi delle
banche presso l’istituto di Francoforte che
inibiscono il credito alle imprese e alle
persone; dunque che qualche misura contro la
deflazione e la recessione verrà presa.
Ma risulta difficile
pensare che una teoria come quella dell’austerità
espansiva, falsificata dall’evidenza dei fatti
e delle cifre, possa essere superata per autoriforma,
senza che compaia a contrastarla una teoria
almeno di uguale forza e capacità di attrazione.
Questa c’è, ma per ora vive solo nei programmi che hanno
portato all’affermazione le liste che facevano
riferimento a Tsipras e poco più. Quello
che è vero, e le conseguenze sono ancora
peggiori, è che le teorie del rigore rivivono
nella dimensione della precarietà espansiva,
ovvero delle devastanti misure strutturali che
precarizzano definitivamente il
lavoro, su cui il nostro governo si è particolarmente
distinto con il decreto Poletti.
Dal canto suo Alain Touraine, prima invoca un sussulto repubblicano in Francia per contenere l’ondata populista dei Le Pen, poi consiglia di dare più poteri al primo ministro Manuel Valls, ovvero al più destrorso della scombiccherata compagine di Hollande, il che provocherebbe esattamente l’effetto opposto se è vera la sua analisi di una “connessione sentimentale” fra il Fn e gli strati popolari.
In questo quadro
assume una importanza decisiva l’affermazione di liste
che fanno riferimento a Tsipras o che
chiedono di fare gruppo assieme — come “Podemos” la
formazione elettorale che trae origine dal
movimento degli indignadosspagnoli (che con
il suo 8% ha eletto ben 5 deputati) – e naturalmente
il risultato di Syriza che lo conferma primo partito
in Grecia. E’ dall’insieme di queste forze che bisogna
ripartire per mettere seriamente in crisi le
politiche di austerità, evitare la loro
camaleontica riproposizione e invertire
la rotta verso politiche anticicliche,
solidali e occupazionali.
La vicenda italiana
è contrassegnata dall’enorme balzo in avanti
del Pd su livelli che solo la vecchia Dc aveva toccato in
un lontano passato e dalla sconfitta secca del
M5Stelle che cede soprattutto voti all’astensione. Chi aveva
pensato a un neobipolarismo
Renzi-Grillo deve rivedere le sue analisi. Verrebbe da
dire che dal bipartitismo imperfetto di cui
parlava lo storico Giorgio Galli, basato sul
duopolio Dc-Pci (con la conventio ad
excludendum nei confronti di quest’ultimo) si
stia passando a un monopartitismo
imperfetto, fondato sul Pd e su un sistema di partiti
il maggiore dei quali non raggiunge che la metà dei
suoi voti.
In questo quadro
è evidente che l’espressione stessa centrosinistra,
con o senza trattino, ha perso ogni significato.
Almeno per quanto riguarda il governo nazionale. Veltroni
non ha torto di gongolare, anche se il partito
a vocazione maggioritaria che lui aveva
pensato, mandando in crisi di fatto il secondo governo
Prodi e riaprendo la strada a Berlusconi, si
realizza sotto un’altra stella. Chi, d’altro canto, parla di
fare un partito unico con il Pd, finge di non accorgersi di
predicare una semplice confluenza.
Il quorum de
“L’altra Europa con Tsipras” ha interrotto la serie
dei fallimenti elettorali a sinistra.
E’ vero che è un risultato risicato e che il
numero di voti conquistati non fa la somma delle
organizzazioni che hanno dato il loro appoggio
alla lista. Ma questo segnala per l’appunto la perdita di
consensi di questi micro partiti e la scelta
vincente di dare vita a una lista di
cittadinanza.
Interrompere questa esperienza sarebbe un suicidio senza resurrezioni. Lo sarebbe anche per la democrazia italiana che vedrebbe ulteriormente ristretta le possibilità di espressione e rappresentanza politica, aprendo a nuove derive neoautoritarie. Aprire una fase costituente di una forza di sinistra, dal basso e dall’alto, sul piano della produzione culturale e dell’elaborazione politica, come su quello della prassi nei movimenti è il compito che ci spetta.
il manifesto - 31 Maggio
2014
Soggiorno a Zeewijk. Il Ponente rivelato di Marino Magliani
Ci sono luoghi che
danno spessore agli incontri. Ieri alla fiera del libro di Imperia,
mentre girellavamo per le vie della memoria , abbiamo incontrato
Marino Magliani. Non ci sentivamo da tempo. Ci ha raccontato del suo
ultimo libro e di come la malinconia si possa tradurre in geografie,
forme di luoghi che in realtà sono le stanze più segrete del nostro
cuore.
Vittorio Coletti
Soggiorno a Zeewijk il
Ponente rivelato di Marino Magliani
Marino Magliani presenta
in queste settimane il suo ultimo libro, "Soggiorno a Zeewijk",
pubblicato da Amos con tenerissime illustrazioni del suo amico
olandese Piet Van Bert. Magliani potrebbe essere un personaggio di
Francesco Biamonti. Ligure di entroterra (è di Dolcedo), silenzioso
e schivo, dai lavori precari e solitari, torna sempre alla terra
antica dopo aver viaggiato mezzo mondo, dal Sud America, alla Spagna
all'Olanda, dove attualmente vive facendo il traduttore dallo
spagnolo.
Magliani ha però, di
suo, una leggerezza e una mitezza ironica che non si trova negli
ombrosi personaggi del suo maestro di S. Biagio della Cima e un gusto
del racconto che gli viene da un'attitudine a osservare più gli
altri che se stesso. I suoi romanzi, racconti e favole hanno il passo
calmo e meditativo del ligure e una immediatezza e voracità
narrativa sudamericana.
Questo "Soggiorno a
Zeewijk" è una piccola perla: Zeewijk è un quartiere di
Ijmuiden, sobborgo di Amsterdam, che Magliani percorre spesso
pensando alla sua Liguria di Ponente, anche per una singolare
somiglianza della topografia (disegnata nel libro) di quella
provincia d'Olanda con la nostra regione. Scrivendo questo libro per
una bella collana che invita scrittori a guardare luoghi, Magliani
esplora con timidezza e curiosità le vie del quartiere dai nomi
stellari (Andromedastraat, Planentenweg, Orionweg) e spia
educatamente abitudini e stili di vita degli olandesi, in una sorta
di diario in cui dialoga col suo amico pittore e tenta un'improbabile
seduzione parlando a cartelli in neerlandese elementare con una
sconosciuta dietro i vetri.
I tragitti olandesi sono
interrotti periodicamente da ritorni della memoria al borgo ligure
natio, così diverso e lon- tano, in cui i luoghi si chiamano, con
asciutta funzionalità, Case sottane o Case soprane. La piantina
urbana e umana del popolare e nuovo quartiere olandese, in cui non
c'è edificio che, dopo una decina d'anni, non venga demolito e
sostituito con un altro, si sovrappone così alle vecchie e
inalterabili mappe catastali della Liguria, in cui tutto, case e
campagne, resta inalterato per secoli e l'unica innovazione è data
dall'avanzata inesorabile dei rovi e delle erbacce negli orti
trascurati e nelle case sfondate.
Ci sono pagine deliziose
in questo libro, pieno di una curiosità gentile e senza rancori per
il mondo, rallegrato da un italiano pidgin, mescidato (vi si
mescolano spagnolo, olandese e dialetto ligure), che a volte traballa
con la soavità di una leggera ebbrezza, restando però sempre
miracolosamente in piedi.
La repubblica – 16
maggio 2014
Marino Magliani
Soggiorno a Zeewijk
Amos, 2014
14 euro
Marino Magliani
Soggiorno a Zeewijk
Cosa fanno gli abitanti
di Zeewijk quando non riescono più a essere indipendenti, come
succederà tra non molto a Piet?
Il luogo si chiama
bejaarden huis. Ce ne sono almeno tre. Sono a rotazione, anch’essi,
come ogni cosa di Zeewijk: ora costruiscono il ricovero in un posto
e fra vent’anni in un altro. In questo modo, l’abitante di
Zeewijk non riesce mai a identificarsi con un luogo, ma solo con
l’idea di un ricovero. Questa destinazione vagamente ignota mette
addosso una certa apprensione, si passeggia tra le costellazioni e
si indaga, sarà qui sulla piazzetta dell’Acquarius, sarà in cima
alla Pegasus?
Di solito questi
ricoveri sono molto ben curati, un giardino minuscolo di modo che
l’anziano non fatichi, giusto l’angolino di verde “privato”,
un premio alla carriera, e la vetrata dalla quale guardare il
passaggio della vita. I vecchi dei bejaarden huis sono sereni,
possiedono il loro monolocale e là dentro hanno tutto: l’infermiera
che passa a sorvegliare, la cucina, il bagno con le maniglie alle
quali appoggiarsi, e persino la vista sui ciliegi in fiore.
Li trovo a giugno,
seduti sulla sedia di plastica, fuori, alla brezza nordica. Sembra
che controllino le ciliegie verdi e raggrinzite, in attesa che
maturino, ma non maturano mai perché siamo in Olanda e i vecchi lo
sanno. Chissà cosa pensano questi vecchi.
Forse, ci ha ragionato
Piet, è come da voi in Liguria, là, in quel posto dove sei nato,
che era un ospedale e dove ora la gente anziana seduta sulle sedie
bianche guarda con un po’ di desiderio i grappoloni di datteri che
non maturano mai.
Non lo so, ho detto a
Piet. Non gli parlo mai troppo volentieri o a lungo dell’idea di
un ricovero. Non sono la persona adatta, lo confesso, discorrere di
un inizio e della fine mi confonde. Vorrei vedere voi se foste nati
in un posto che ora ospita il tramonto.
(Da: Marino Magliani,
Soggiorno a Zeewijk)
giovedì 29 maggio 2014
Luciana Bertorelli, Terra Madre
Secondo Jung l'archetipo della grande madre rappresenta “la magica autorità del femminile, la saggezza e l'elevatezza spirituale che trascende i limiti dell'intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l'istinto o l'impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l'abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l'ineluttabile”. In una parola il simbolo della vita come sintesi degli opposti (a partire dal principio femminile e di quello maschile). Luciana Bertorelli nella sua ricerca testimonia di come l'arte sia una via privilegiata alla comprensione di questa verità primordiale.
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Luciana Bertorelli
Terra Madre ( Pangea)
TERRA MADRE è
un'installazione composta di 6 sculture ceramiche di grande
dimensione che rappresentano la Terra, intesa come nostra Madre.
L'idea è nata a Gubbio
nel settembre 2013 da una proposta di Catia Monacelli che guardando
la mia Pangea rossa mi ha detto: ” Vedo nella Chiesa di S.Francesco
una serie di Pangee che vanno dalla più grande alla più piccola
...”
Quest'immagine della
Pangea Rossa, una donna seduta con i gomiti posati sulle ginocchia,
che porta sulle spalle la sua creatura e si copre il volto con le
mani, in un gesto istintivo di difesa, di abbandono ma anche di
dolore... un grido silente di dolore...io l'ho meditata a lungo
dentro di me ed alla fine è uscito questo progetto dedicato alla
Terra.
Terra Madre. E anche
Pangea perchè ho voluto rappresentarla com'era all'origine...delle
sculture quasi primordiali.
La Terra è malata ,
china su se stessa, porta sulla schiena il fardello pesante
dell'Uomo, con infinito Amore ci dona ricchezze incalcolabili di
bellezza e generosità e noi dobbiamo ricambiare questo Amore:
prenderci cura di Lei e rispettarla ...se non ci prendiamo cura della
Terra la distruggiamo e se la distruggiamo essa distruggerà noi
stessi. Non è nostra proprietà e ancor meno è proprietà di
alcuni di noi, non dobbiamo pensare solo a sfruttarne le ricchezze ma
preservarle per il futuro e per la sopravvivenza di tutti gli esseri
viventi.
Si comincia da PANGEA
ROSSA, la più piccola, h.cm 40, al centro di tutto...la
figura è modellata in modo essenziale, con le mani al volto, e porta
sulla schiena un sacco dentro il quale appare un bimbo, l'Uomo.
Il rosso è un grido di
dolore , il colore del veto, il colore del sangue, della violenza...
ma soprattutto dell'Amore.
Poi viene PANGEA
FUOCO, h.cm 60, che nel vulcano appoggiato sulla schiena
che sprizza lapilli e lava, rappresenta la ricchezza incalcolabile
racchiusa nelle viscere della Terra..oro, argento, platino, pietre
preziose e fuoco inestinguibile che vengono ghermite senza rispetto.I
colori partono dal nero, sfumano nell'ocra e trionfano nell'oro.
PANGEA ACQUA h.cm 8o è
una fanciulla che ha sulle spalle, al posto del sacco, una grande
anfora dentro la quale finiscono i lunghi capelli a formare una
fluente cascata....acqua, mare, fiumi..in una gamma di azzurri,
turchesi, blu e verde acqua. Gli alluci dei piedi entrambi alzati
danno un tocco di leggerezza e sensualità.
PANGEA PETRA h. cm 80, ha
il colore rosato e cangiante delle pietre di fiume dove appare il
rosso sbiadito insieme ad una patina di muschio leggero...il sacco
è gonfio delle pietre che pesano e formano una massa scultorea.
PANGEA FLORA h. cm 100,
ha le mani sul volto come tutte ma una mano è nascosta da un fiore
che la copre quasi totalmente .Porta nel suo sacco fiori e foglie che
sembrano scavate nella roccia, ingentilite dai rossi ed arancioni
accesi che balenano sulla superficie, alcuni scivolano lungo il collo
ad ingentilire una figura dove predomina la scultura essenziale
PANGEA ARIA che le domina
tutte è alta 120 cm ed è la più ieratica di tutte. Le gambe unite
e le ginocchia appaiate, solo l'alluce dx è rialzato a dare una
sensazione di slancio verso l'alto, di movimento che viene ripreso
dalla testa asimmetricamente inclinata verso sx.
I piedi sono grandi,
importanti, posati saldamente a terra, differenti solo in alcuni
particolari. La crocchia di capelli, presente in tutte le sculture,
qui ha un movimento leggero e modulato di veli che nascondono un
fruscio di uccelli che si susseguono incessantemente.
Così come i fori delle
orecchie , presenti in tutte le sculture grandi, permettono di
guardare dentro la figura in un gioco di pieni e di vuoti .
PANGEA ROSSA, PANGEA
FUOCO, PANGEA ACQUA, PANGEA PETRA, PANGEA FLORA, PANGEA ARIA , tutte
nella stessa posizione, sedute con le mani a coprirsi il volto e
sulle spalle un sacco che cambia di volta in volta ricco dei doni che
la Terra offre incessantemente agli uomini.
E' un grido di dolore che
parte dalla Terra e merita di essere ascoltato!
Rito e Mito come porte del sacro
In una serie di scritti, finalmente disponibili anche in Italia, Károly Kerényi (1897–1973) si interroga sul rapporto fra l'uomo e le manifestazioni del sacro (termine che decisamente preferiamo a “divino”). Per il grande studioso il rito (e il mito) diventano il mezzo con cui l'uomo rende accessibile e gestibile l'esperienza del sacro, altrimenti devastante o incomprensibile. Una tesi, che abbiamo già trovato negli scritti di Eliade, e che ci convince. Quanto alla fede, crediamo si tratti di un percorso individuale e conscio, dunque molto diversa dell'esperienza del sacro che è invece insita nell'inconscio collettivo (archetipale) della specie.
Giorgio
Montefoschi
La lezione
di Kerényi: senza rito non c’è fede
«Tutto ciò che è
religioso — scrive Károly Kerényi (1897–1973) in Rapporto con
il divino e altri saggi — presuppone il divino, nessun elemento
religioso è concepibile senza la rivelazione di qualcosa di divino».
Dio è il prima, l’origine, il Tutto. Ed è impensabile e non
rappresentabile. L’uomo, però — ed è questa la verità
altrettanto luminosa e innegabile — può entrare in contatto con il
divino, addirittura trasformarsi nel divino: e in tal modo superare
la tragedia della impensabilità di Dio.
Questo è possibile
attraverso il rito. Il rito (il sacrificio), è il momento nel quale
l’uomo che pensa e annaspa nel pensiero va oltre se stesso ed entra
in una dimensione nella quale lo spazio e il tempo scompaiono, perché
anche il rito va oltre se stesso: «Verso qualcosa che può contenere
allusivamente solo come un frammento o una ripetizione di qualcosa di
più grande».
Tutto il resto — l’immenso corpo delle religioni e del mito — è il dopo. È interpretazione. Racconto. Kerényi cita Martin Buber: «Dio parla all’uomo nelle cose e negli esseri che gli invia nella vita, e l’uomo risponde, proprio attraverso la sua azione nei riguardi di queste cose e di questi esseri. Ma c’è un pericolo, che si distacchi qualcosa dal lato umano di questa relazione e lo si renda autonomo, ponendo questo qualcosa al posto della relazione reale».
Questo «qualcosa» cui
accennano Buber e Kerényi è il «pericolo delle religioni»: il
pericolo di una narrazione che si limiti a una rappresentazione
gratificante o terrificante, inquietante o consolatoria, distesa nel
nostro tempo, umana in defintiva, e dimentichi il «momento vero».
Che è fuori del tempo. Nel quale è Dio la «materia».
Fondamentale, per vivere il rapporto con il divino — spiega convintamene Kerényi — è l’atteggiamento interiore di chi si accosta al divino. Di nuovo si può descriverlo solo con parole comprensibili in senso figurato: è il suo porsi immediato davanti all’assoluto. Perché ciò possa accadere, l’uomo deve presentarsi purificato nel suo corpo terreno, e nudo. L’atteggiamento esteriore, spia di quello interiore, è altrettanto importante a quel punto. Nel merito, Kerényi rilegge W.F. Otto: «Il portamento umano è il primo testimone del mito; compare qui non nella parola, ma nell’erigersi proprio del corpo.
Il significato religioso
di altri comportamenti, in uso da tempo immemorabile, ci è ben noto.
È ad esempio il caso dello stare in raccoglimento, del sollevare le
braccia e le mani o, all’opposto, del piegarsi fino ad
inginocchiarsi o gettarsi a terra, del congiungere le mani e di tanti
altri, che non occorre menzionare. Questi comportamenti non
dipendono, nella loro natura originaria, da un sapere o da una fede
ricompresi in parole, né sono l’espressione di una indicibile
commozione: sono il mito rivelato, il mito stesso».
Silenzio, raccoglimento, intonazione del canto, intonazione e intensità della preghiera, misura dei gesti, significato dei gesti e delle parole, luce e buio: la stolta, meccanica, vuota liturgia occidentale ha dimenticato da tempo immemorabile tutto ciò, convinta che la liturgia debba stare al passo con i tempi e, dunque, sia quasi un suo obbligo strizzare l’occhio alle liturgie televisive (così la gente, questa è l’idiozia sovrana, andrà più numerosa in chiesa).
Per ritrovare quel
«portamento umano» tanto povero e semplice quanto denso di
significati, bisogna oggi inerpicarsi nelle montagne, attraversare la
neve e il ghiaccio, e raggiungere i conventi benedettini più
sperduti e lontani. Oppure, bisogna approdare alle rive incontaminate
del Monte Athos, svegliarsi nel cuore della notte e, dai lunghi
corridoi dei monasteri ormai semideserti, scendere nella chiesa così
oscura che i monaci non si distinguono negli scranni.
«Il sacrificio — scrive Sylvain Lévi in un libro famoso, La dottrina del sacrificio nei Brahmana (Adelphi), dedicato a quanto anticamente avveniva in India e avviene ancora oggi — è un’operazione magica; la fede non è che la fiducia nella virtù dei riti; il passaggio al cielo è una ascensione per gradi; il bene è l’esattezza rituale».
Se il bene è l’esattezza
rituale, come mai, si domanda Roberto Calasso nella introduzione al
volume, molti antropologi moderni (a differenza, diciamo noi, di
quanto fa Kerényi nel libro pubblicato da Bompiani) vorrebbero
segretamente dimenticare il sacrificio (il rito) ed espellerlo dalla
comunità degli studi? Forse — scrive Calasso — lo fanno «per
evitare di essere risucchiati nel vortice sacrificale. Forse anche
perché obbliga — quel vortice — a pensare troppo. O, avrebbero
detto i ritualisti brahmanici, a pensare tutto».
Il Corriere della sera –
25 maggio 2014
Károly Kerényi
Rapporto con il divino
e altri saggi
Bompiani, 2014
euro 35
mercoledì 28 maggio 2014
Il vero rottamatore si chiama Mr. Capitale
Ogni tanto qualcuno dei
vecchi giornalisti dell'Unità si ricorda di aver in gioventù
leggiucchiato Marx. Non è molto, ma di questi tempi non può che farci piacere.
Bruno Gravagnuolo
Il vero rottamatore si chiama Mr. Capitale
Il patto tra le generazioni è indispensabile. Non solo alla sinistra, ma alla vita e alla civiltà. E ha ragione Zagrebelski, nel suo intervento a Dialoghi sull’uomo, a denunciare i rischi di giovanilismo e rottamazione. Che lacera genitori e figli, innovazione e tradizione. Non si può fare tabula rasa e ricominciare senza pregiudizi e basta: illusione infantile. Che condanna i novatori a rivivere senza saperlo le tragedie del passato: populismo, totalitarismo, mitologie purificatrici di massa. Tragedie che tornano in forma di farsa: vedi il protagonismo comico e distruttivo di Berlusconi e Grillo.
Forme di fascismo
light. Dove autoritarismo e carnevale si mescolano. I giovani si
mangiano il totem dei genitori, diventano peggio di loro, e
finiscono manipolati. Sicché il passato va rielaborato e anche
superato. Ma scegliendone la parte vitale: che per la sinistra è
il riscatto dei subalterni. La speranza tradita, lasciataci da chi
non c’è più.
Bene, ma oggi chi è
il gran giovanilista? Il vero rottamatore che divide vecchi e
giovani? Nessuno dei leader a cui pensate. È Monsieur Capitale,
come lo chiamava Marx e abita ovunque nel mondo. Compone,
scompone, delocalizza, smaterializza. Rende cose e persone
fantasmi. È invisibile, irresponsabile, inafferrabile. Vuole
gente flessibile e prona. Bilanci all’osso per le persone. E
prodighi per finanza creativa e fisco dei ricchi. È onnipotente e
austero. E in Europa comanda rigore e fiscal compact: per fare i
suoi comodi. Magari alleandosi col populismo per bene delle
nazioni più organizzate, tipo Germania.
Saprà Renzi, forte
del consenso attuale, rilanciare questo tema cruciale e far
cambiare verso a Mr. Capitale? Saprà raccogliere il buono del
passato, eliminare lo statalismo privato nostrano, e fare davvero
un partito di massa e non personale? Ha un’occasione storica
davanti. Altrimenti il giovanilismo farà trionfare «di nuovo» i
fantasmi distruttivi del passato. E la disillusione sarà cocente.
l’Unità – 28 maggio
2014
Brescia 1974-2014. Noi non dimentichiamo
Brescia.
Nell'anniversario della strage di piazza della Loggia molte
iniziative in città. Mentre ricomincia il processo per due degli
imputati assolti in primo e secondo grado. Vedremo se la
desecretazione degli atti servirà a qualcosa.
Andrea Tornago
Brescia
quarant’anni dopo, strage ancora senza un colpevole
Quarant’anni. Un
tempo sufficiente a veder passare due
generazioni. Nelle scuole, nei partiti, nei
sindacati, in città. E ancora per la
magistratura non c’è un colpevole per la
strage del 28 maggio 1974. Quella bomba nascosta in un
cestino, esplosa in Piazza della Loggia mentre era in
corso una manifestazione antifascista,
fece otto morti e più di cento feriti. E fu forse
l’attentato più gravido di implicazioni della
stagione delle stragi: colpì al cuore il movimento dei
lavoratori, nella città con il fermento
sindacale più temibile in Italia, sul
crinale degli anni ’70.
Le Poste Italiane
hanno deciso di dedicare un francobollo al
quarantesimo anniversario della
strage di Piazza Loggia, mentre nelle aule
giudiziarie ricomincia — come
disposto lo scorso 21 febbraio dalla Cassazione
— il processo a carico di due degli imputati
assolti in primo e secondo grado: il capo
dell’organizzazione neofascista veneta Ordine
Nuovo, Carlo Maria Maggi, e il collaboratore
del Sid, l’allora servizio segreto militare,
Maurizio Tramonte.
Nei loro confronti,
ha stabilito la suprema corte, si è verificato
«un ipergarantismo distorsivo della
logica e del senso comune» che ha portato
a conclusioni «illogiche
e apodittiche» da parte dei giudici
della corte d’Assise d’Appello di Brescia, che il 14
aprile 2012 aveva assolto tutti gli imputati. Tramonte
(la «fonte Tritone» del Sid), considerato
informatore ed infiltrato dei servizi negli
ambienti della destra eversiva, era un personaggio
troppo interno ai neofascisti veneti e «non
raccontava al maresciallo Felli — scrivono
i giudici di Cassazione — tutto cio’ che
sapeva o aveva fatto».
Mentre nei
confronti di Maggi, medico veneziano e capo
indiscusso di Ordine Nuovo, sarebbero stati sviliti
numerosi indizi, come il sostegno allo stragismo
eversivo di destra e il fatto che «l’ordigno
esplosivo sia stato confezionato
utilizzando la gelignite di proprietà di
Maggi e Digilio», neofascista esperto
di esplosivi — quest’ultimo — legato ai servizi
statunitensi, morto nel 2005.
Ma ormai le prove che
dovevano sparire sono sparite (la piazza fu
«lavata» immediatamente dopo l’attentato) e le
informative che non dovevano arrivare non
sono arrivate. Come quella inviata dai servizi segreti
dal centro di Padova a Roma, indirizzate
all’allora capo del Sid, Gianadelio Maletti,
e riguardante la riunione in cui si sarebbe deciso
l’attentato: «Maletti su una di queste informative
scriverà: “Notizia importante, passare
alla magistratura” — ricorda Manlio Milani,
presidente dell’associazione famigliari delle
vittime della strage di Piazza Loggia — Ma alla
magistratura non arriveranno mai».
Al di là delle trame
e dei contatti assodati tra i servizi
e gli estremisti di destra «l’ultima sentenza
— spiega ancora Milani — ha fissato alcuni elementi
importanti: è assodato che tra il ’69 e il
’74 ha operato un unico gruppo neofascista
facente capo a Ordine Nuovo. E che colui che ha
costruito l’ordigno portato in Piazza Loggia, Carlo
Digilio, era già stato condannato per la strage
di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Questo
certifica la continuità di quel progetto».
Accanto all’infinita
vicenda giudiziaria, da tempo ormai la memoria
della strage di Brescia percorre binari propri.
Una memoria che ha elaborato — fin da subito —
la consapevolezza di dover separare la
verità storica dalle indagini della magistratura.
Il 28 maggio ’74 a Brescia morirono otto
persone. Tra di loro c’era un gruppo di insegnanti,
che si era riunito intorno alla colonna dove scoppiò
la bomba, che in quegli anni avevano contribuito
a fondare le sezioni sindacali della scuola:
Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Alberto Trebeschi,
Clementina Calzari e Luigi Pinto
insegnavano nei licei e nelle scuole medie della
città. Insieme a loro morirono due lavoratori,
Vittorio Zambarda e Bartolomeo
Talenti, ed Euplo Natali, operaio in pensione.
E se
l’anniversario del 28 maggio è rimasto vivo
fino ad oggi, forse, lo si deve anche alle scuole. Da
quarant’anni, i colleghi degli insegnanti
caduti il 28 maggio e gli studenti di allora —
diventati a loro volta docenti — tengono viva la
memoria della strage insieme ai famigliari delle
vittime. «La città ancora una volta sente la voglia e la
necessità di ritrovarsi, lo dimostra la miriade
di iniziative che ci saranno oggi» spiega ancora
Manlio Milani.
A ricordare
la strage di Brescia oggi alle 11,30 saranno presenti
in città, insieme alle autorità locali, anche il sindaco
di Milano Giuliano Pisapia e il sindaco di
Bologna Virginio Merola, due città a loro
volta duramente colpite dalle stragi. Nel pomeriggio,
come ogni anno, la piazza si colorerà di iniziative
promosse dal comitato «Piazza di Maggio», con un
intervento del fondatore di Libera, Don Ciotti.
Nel salone Vanvitelliano, la sala di
rappresentanza del Comune, è stata
allestita la mostra «Sguardi sospesi» di Albano Morandi
e Ken Damy, con i volti dei manifestanti
negli istanti successivi alla strage, fotografati
allora proprio da Ken Damy e dal collettivo
fotografico La Comune.
il manifesto - 28 Maggio
2014
Addio a Walter Peruzzi
Dopo Vittorio Rieser, se ne è andato anche Walter Peruzzi. Esce di scena la generazione che ha preparato il '68. Ci mancheranno.
Gianluca Paciucci
e Annamaria Rivera
Addio a Walter
Peruzzi
Domenica 25 maggio
ci ha lasciato Walter Peruzzi, amico e compagno
di tante battaglie di pensiero e di azione,
intellettuale lucido e radicale,
profondamente laico, comunista,
anti-imperialista. La sua attività di professore
e di pubblicista ha percorso i campi
della riflessione teorica e della lotta per la
costruzione di un mondo fondato sull’uguaglianza. Molte
le riviste cui ha collaborato, da “Adesso” a
“Riforma della scuola”; molte quelle da lui dirette, dal
“Bollettino del Centro d’Informazione”
(1961-‘67) a “Lavoro Politico” (1967-’69), fino a “Marx
101” (1990-’95). E, ancor oggi, il periodico “Guerre&Pace”,
che fondò nel 1993 con Franco Fortini, Ernesto Balducci
e altre/i, allo scopo di proporre una
controinformazione rigorosa
e militante sulla Prima guerra del Golfo.
Nell’ultimo
ventennio ha dedicato il suo impegno a studiare
quel che lui stesso ha chiamato Il cattolicesimo
reale (Odradek, Roma 2008) e ad analizzare le
radici “nere” della Lega nord, come testimonia il suo
Svastica verde (Editori Riuniti, Roma 2011), cui
volle chiederci di collaborare.
E’ ancora Odradek ad aver pubblicato, nel 2013, la sua ultima fatica, scritta con Claudio Cornaglia, Filippo D’Ambrogi e con i disegni di Maria Turchetto, Oca pro nobis. Controsillabo giocoso e irriverente, in cui egli è riuscito a toccare perfino l’intoccabile Bergoglio. Ove il conformismo sfiorava e sfiora il servilismo, là Walter si metteva al lavoro per scardinare il meccanismo del consenso e delle complicità.
Superfluo è dire che ci mancherà infinitamente e che lo sentiremo sempre con noi. Uno a uno, i protagonisti della straordinaria stagione inaugurata nel biennio 1968-’69 se ne stanno andando: fra gli ultimi, Vittorio Rieser e, l’altro ieri, Walter.
Se a nulla serve il
gioco del cosa resta, utilissimo è quello del che
cosa è stato. E sono stati anni e anni di testardo
ribadire le ragioni di un percorso e di una fiumana
- Quarto e Quinto Stato, fino ai/alle migranti e oltre-
che ha sfiorato più volte la realizzazione dei
sogni di una e più cose, e che in parte l’ha ottenuta
in luoghi liberati dall’orrore capitalista.
Le sedi, a Milano, della redazione di “Guerre&Pace”*,
le riunioni e le manifestazioni del
movimento pacifista, un articolo, un dossier,
un ‘libro bianco’ sui crimini dell’imperialismo (degli
imperialismi) sono stati alcuni di questi
luoghi: vedervi Walter al lavoro e su questi
temi è una lezione che non possiamo né vogliamo
dimenticare.
“Proteggete
le nostre verità”, è un indimenticabile
verso di Franco Fortini: questo proveremo
a fare, custodi di un mondo che è stato e che sarà.
Proteggeremo anche le verità di Walter, e la
sua straordinaria voglia di comunità, di
condivisione, di progetto comune.
Alla moglie Milvia e al figlio Ariele va il nostro abbraccio.
Il Manifesto - 26 maggio
2014
martedì 27 maggio 2014
Dal Passo della Teglia al Passo della Mezzaluna alla ricerca di menhir e pietre sacre
Dal Passo della Teglia al Passo della Mezzaluna alla ricerca di menhir e pietre sacre
Oggi siamo saliti al Passo
della Teglia da dove le Alpi si specchiano nel mare. Forse non è la
giornata giusta per salire fino a qui, il cielo è plumbeo, ma il
panorama resta bellissimo. Da un lato le Marittime ancore coperte di
neve, dall'altro grige nella luce caliginosa del mattino le case di
Arma di Taggia.
Lasciamo l'auto e proseguiamo a piedi sul sentiero che attraverso la faggeta sale al Passo della Mezzaluna. Avanziamo lungo un cammino millenario, attraversando quello che resta del grande bosco di Rezzo, terra del lupo e del cinghiale.
Di qui salivano le greggi
ai pascoli alti, al Passo della Mezzaluna alle falde del Monte
Monega. Transumanze millenarie di
cui restano tracce indelebili al Sotto di S. Lorenzo (1379 m.)
Su questa pietra i
pastori si spartivano gli alpeggi, ma prima sacrificavano un agnello
al dio della montagna.
Ancora ben visibile la
coppa destinata a raccogliere il sangue della vittima che poi colava al
suolo a fecondare terra e greggi.
I ruderi della chiesetta
di S. Lorenzo testimoniano del tentativo di cristianizzare questo luogo magico.
Pochi ruderi, ma in alto, al Passo
delle Porte, ancora svetta verso il cielo il menhir eretto in età
immemorabile a celebrare la sacralità del luogo.
E ancora avanti, sul
sentiero, verso il Passo della Mezzaluna, mentre dal Monega scende
una nebbia sempre più fitta. Tra gli alberi filtrano
suoni di campanacci, l'atmosfera è carica di magia. Avvolte della
nebbia mucche al pascolo ci guardano passare.
Ma scende di nuovo la nebbia e ci costringe a tornare indietro. Lasciamo i pascoli e rientriamo nel bosco. Sopra di noi il dio della montagna avvolto in una coltre di nubi.
Siamo sospesi in un'atmosfera senza tempo.
Terzani, il senso del viaggio è sempre un ritorno a casa
La grandezza, le
emozioni e le ossessioni di un viandante per vocazione, alla ricerca
del suo destino.
Angela Terzani
Staude
Terzani, il senso
del viaggio è sempre un ritorno a casa
«Ognuno, ma
proprio ognuno, è il centro del mondo» dice Elias Canetti, e io
non sono d’accordo con lui. Capisco quel che intende dire, ma io
stessa non mi sono mai sentita il centro di niente. Mi sono vista
invece come la viaggiatrice nel sidecar di una motocicletta —
«si-de car» si diceva nel Dopoguerra a Firenze e ancora oggi mi
viene da pronunciarlo così — in quel carrozzino, insomma,
attaccato al lato di una moto degli anni Quaranta guidata da un
uomo in tenuta da viaggio.
Avevo trovato un
motociclista con un’idea precisa di dove voleva andare —
un’idea di destino, forse? —– e poiché la sua meta era
molto più lontana e originale della mia, m’incuriosiva
accompagnarlo per vedere dove sarebbe arrivato. La sua passione
per il viaggio e l’avventura erano tali da garantirmi che
sarebbe finito in posti nuovi, insoliti, affascinanti — e io
con lui.
In tutti i quarantacinque anni che ho vissuto accanto al mio guidatore, accompagnandolo in qualsiasi direzione volesse andare, senza mai mettere in dubbio le sue destinazioni o semplicemente la sua voglia di partire, non mi sono mai annoiata né tantomeno pentita della mia prima, istintiva decisione. E ancora oggi che lui non c’è più, continuo a viaggiare su quello stesso trabiccolo guidato da lui, come viaggiatrice a latere , come satellite.
Non mi sento per questo da meno. Non credo di aver speso male la mia vita, di non essermi realizzata. Sono stata nel mio centro: anche i satelliti ne hanno uno. Nel corso degli ultimi decenni, quelli in cui le donne hanno preso coscienza di essere sempre state satelliti e mai pianeti, sempre viaggiatrici a latere e mai guidatrici in proprio, in molte mi hanno chiesto se non fosse l’ora che anch’io mi mettessi al passo coi tempi. Ma avendo fin da giovane identificato il mio ruolo nell’essere «accanto», anziché «al centro» di un destino, ho sempre insistito che era proprio questa mia, diciamo, «seconda scelta», del tutto commisurata alle mie forze, ai miei talenti, alle capacità della mia mente, a rendere ricca la mia vita e a darle un senso.
Penso infatti che chiunque senta davvero d’essere «il centro del mondo» o, meglio, chiunque si avventuri in terre inesplorate cercando di «trovare un altro punto di vista», di «pensare nuovo», come diceva il mio motociclista, ha bisogno di avere al fianco qualcuno che crede in lui, perché sa bene che uscendo dai ranghi rischia grosso.
La solitudine degli
innovatori è sempre stata così grande che nel Romanticismo
tedesco, per esempio — e scusate se stasera ritorno talvolta
alle mie origini — l’aver trovato den verstehenden Freund,
l’amico che comprende, era considerata la più sublime delle
conquiste. Basta ricordare l’Inno alla gioia di Beethoven nelle
parole di Schiller – «wem der grosse Wurf gelungen eines
Freundes Freund zu sein », chi è riuscito nella grande impresa
d’essere l’amico di un amico — per capire quanto agognata
era quella figura.
Ogni persona, del resto, anche la meno ambiziosa, sogna la vicinanza di un amico che la comprenda — nella Cina classica lo si chiamava «colui che ti capisce come se stesso» — e io ho cercato di essere proprio questo per il pilota del mio si-de car. Si trattava di non imporsi ma di esserci sempre, d’essere raggiungibile in ogni frangente; altre volte di restare nell’ombra, allontanarsi, scomparire.
Una cosa, però, la devo precisare: l’importante è non sentirsi mai vittime. La vittima si fa odiare perché ti fa sentire in colpa, e chi ha voglia di vivere sotto il peso di una colpa portata in spalla? Meglio in tal caso non avere nessuno a cui appoggiarsi, meglio cavarsela da soli. «Peggio del boia non c’è che la vittima», diceva Niccolò Tucci, un bravissimo scrittore oggi scomparso, mezzo russo e mezzo napoletano, cresciuto nella campagna toscana e sposato a una donna fiorentina, che negli anni Trenta emigrò negli Stati Uniti, continuando sempre a scrivere in italiano. Era un nostro grande amico di quando da giovani vivevamo a New York. Allora lui aveva sessant’anni e noi nemmeno trenta, ma la sua affascinante figura di media altezza, vestita come per la scena, è ancora davanti a me.
E se mi chiedete se Tucci nella solitudine della sua attività di scrittore avesse almeno trovato «l’amico che comprende», vi dico di sì. Ma era una donna, era la moglie italiana da cui si era separato anni prima e che come lui era rimasta a vivere a New York. I due non si incontravano mai, ma ogni giorno che Dio metteva in terra lui dopo mezzanotte le telefonava e si parlavano per molte ore. Perché lei capiva. E quando lei morì, anche la vita di Niccolò Tucci in un certo senso finì.
Era amicizia, quella? O era l’amore non-possessivo dei poeti sufi? Esiste un amore che vuole possedere l’altro, inchiodarlo, metterlo in catene per averlo sempre vicino ed è l’amore che schiavizza ed è a sua volta schiavo. E c’è quell’altro, che dà la libertà.
Ma ora, per non parlare soltanto del passeggero nel si-de car senza dire del guidatore della moto, vorrei dire due parole su chi nella nostra coppia si è sentito il centro del mondo e in quel centro ci è voluto stare: non per darsi importanza ma, come appare dai suoi diari, per dare importanza alla meravigliosa occasione di poter vivere per alcuni anni su questa Terra: appena 66 nel suo caso. La sfida implicita in questa chance lui l’ha raccolta in pieno, senza mai desistere dall’usarla per vivere una vita intensa e originale, sempre cercando di scrivere di quel che gli era capitato e lo aveva fatto pensare.
Gli premeva
comunicare con gli altri e venerava la parola scritta perché
solo in quella resta traccia di una vita che passa e scompare, a
meno che non la si fermi con la scrittura. In questo la pensava
come i contadini cinesi d’una volta, che veneravano un pezzo di
carta se sopra vi era scritto anche un solo ideogramma. Forse,
per sentire la drammaticità del fatto che gli anni a nostra
disposizione sono pochi e fugaci, bisogna avere fin da
giovanissimi la consapevolezza della morte.
E lui, della morte,
già a 19 anni, quando ci siamo conosciuti, ne parlava
spessissimo. Mi regalava i versi di Pavese, «Verrà la morte e
avrà i tuoi occhi», mi recitava «Alle cinque della sera», il
lamento di García Lorca sull’amico ucciso. Nella prima lettera
che ho ricevuto da lui, non firmata perché era sotto forma di
racconto, un contadino diceva all’altro: «È morto Tiziano»,
e quasi ogni lettera successiva conteneva il dubbio se la vita
gli sarebbe bastata per poter dare un segnale che testimoniasse
che lui l’aveva vissuta e apprezzata.
Quando arrivò a trovarsi là dove voleva essere — in Asia — e a fare ciò che voleva fare — scrivere, quest’angoscia si placò. Ma appena cominciò a rendersi conto di quanta poca presa facevano i suoi sforzi di influire sull’andamento del mondo, la preoccupazione per il volare del tempo si ripresentò. Nei suoi ultimi anni, già prima di ammalarsi, rientrando da una cena o un ricevimento mi chiedeva: «Quante ore mi restano da vivere: 33.924? Ebbene, tre le ho appena sprecate».
Se c’era angoscia nella sua consapevolezza che il tempo scade, la sua gioia di essere «a giro» era di una intensità equivalente. Spaziava con delizia per la bella Saigon nei giorni della guerra, per l’immensa Cina fra i resti del comunismo, nei dimessi casinò sull’isola di Macao, fra gli dèi indiani che aleggiano attorno alle vette dell’Himalaya. Ma neppure questo gli sarebbe bastato se non avesse potuto scriverne per chi restava a casa. Sentiva forte la responsabilità di essere «gli occhi, le orecchie e il naso» dei suoi lettori, di dover riferire a chi non aveva le sue stesse opportunità di fare grandi esperienze, inclusa quella di aspettare la morte a occhi aperti per sette lunghi anni.
Di quella sua
avventura, da lui definita la più interessante, ha voluto
rendere conto minuto per minuto, quasi fino all’ultimo respiro.
Le sue ultime conversazioni con il figlio sono state interrotte,
per mancanza di forze, solo poche settimane prima che chiudesse
gli occhi e se Folco ha intitolato il libro che le raccoglie La
fine è il mio inizio è perché così — come un ritorno
nell’infinito dello spirito di cui ugualmente siamo fatti —
suo padre aveva inteso il concludersi della propria vita.
Viaggiando nel mio si-de car accanto a lui, ho visto molto mondo anch’io. Bei paesaggi, destini drammatici, culture in trasformazione. E ho visto lui, forte e rapido nelle decisioni, ora amabile ora sprezzante, secondo il caso. Sempre però col controllo assoluto delle situazioni, perché prima di ogni altra cosa era uno che sapeva viaggiare.
L’ho visto anche ritornare a casa dove, se la vita si faceva ripetitiva e a volte noiosa, si metteva a ordinare le sue collezioni di tappeti, le gabbie dei grilli e soprattutto i suoi libri: se li faceva spedire dai librai antiquari di Londra, gli dava la cera, li timbrava, li sistemava negli scaffali. Poi studiava i nuovi cataloghi e ne ordinava ancora. Imparava sempre. E se non c’era altro con cui svagarsi, come in Giappone, si inventava mete oscure, ormai dimenticate da tutti, come le isole Curili, scoprendo che nelle nebbie fitte e basse di quel gelido, piccolo arcipelago si era nascosta la flotta giapponese prima di partire all’attacco di Pearl Harbour: e così lo rimetteva sulla carta geografica. Oppure andava in cerca di indovini...
Ha avuto alcuni grandi amici, rapporti intensi centrati su interessi comuni, oppure — e quelle erano le amicizie vere — sulla passione per la vita stessa. Due anni prima di morire, ha conosciuto un uomo più vecchio di lui, un indiano che abitava nei monti dell’Himalaya, e insieme, lui col Vecchio e il Vecchio con lui, hanno goduto di una gioiosa intesa che non è durata moltissimo, ma è stata così perfetta da rendere felici entrambi.
Ha avuto varie vite, il guidatore del mio si-de car. Molte le conoscevo, alcune le vivevamo insieme. Poi c’era quell’altra, sotterranea, che faceva paura persino a lui, tanto era dirompente. Era lì, in quel drammatico sottosuolo portato alla luce dai suoi diari, che nasceva tutto. Avendo lui, però, un forte senso della forma e della misura, ed essendo anche un fiorentino consapevolissimo della necessità di fare «bella figura», un attore che sapeva benissimo recitare se stesso, quel sottosuolo lo teneva per sé.
Leggere i suoi diari,
quindi, mi ha fatto capire ancora di più quanta sofferenza ha
accompagnato le sue battaglie. Era in quella stiva che covava il
fuoco che ha finito per consumarlo: prima con una inaspettata
tendenza alla depressione, poi con la precoce malattia. In questo
senso i diari completano, per me, l’idea che avevo della sua
persona: sono lo yin rispetto allo yang, il buio che accompagna
la luce.
Spesso il mio motociclista partiva da solo, con il si-de car vuoto. Era attratto dalle lontananze, dai mondi oltre i consueti orizzonti. Sentiva la curiosità per terre e modi di vivere diversi dai nostri, e che più diversi erano più lo stimolavano a viverci in mezzo. Era guidato da una vivida Sehnsucht — ancora una parola tedesca — una «brama di vedere», come anche dal suo opposto: la nostalgia di casa.
Si era fatto una
famiglia proprio per non impazzire di solitudine, per avere
sempre un porto al quale riportare la sua nave. Perché se non
avesse avuto casa, dove avrebbe messo la preda, il leone che
aveva appena catturato? Somigliava a quei primati di milioni di
anni fa che, come ho letto in un bel libro di Luigi Zoja,
riuscivano a ricordare il luogo da cui erano partiti in cerca di
qualcosa da mangiare, e a ritornarci ripercorrendo la stessa
strada.
Con questo saper tornare a casa è cominciata la storia dell’uomo. È da allora che ci interessano soltanto i viaggiatori che tornano a casa, non quelli che si perdono, i vagabondi, i senza meta. Ci interessano quelli che ritornano con qualcosa da raccontare.
Lui partiva, come gli antichi, a caccia di conoscenza, e tornava ogni volta con le valige piene. Riportava stoffe leggere, colbacchi di pelo di cane contro il freddo, sandali di rafia, sciarpe con cui asciugarsi il sudore, pararsi dal sole o fasciarsi una ferita. C’erano anche belle stuoie su cui sedersi o dormire, tappeti con cui rendere accogliente una yurta, incensi e statue di idoli, buddha in pose tranquille che sarebbero vissuti fra le nostre cose. E soprattutto tornava con tante belle storie.
Ogni suo ritorno sembrava il ritorno dal paese delle meraviglie. Tutti insieme disfacevamo le sue valige e aggiungevamo nuovi pezzetti di storia alla nostra casa. Poi lui si metteva a scrivere e a chiarirsi le nuove mete. Per la sua vivida immaginazione, la sponda del fiume sulla quale si trovava era sempre quella sbagliata. Dopo un po’, invariabilmente, agognava di trovarsi sull’altra… e ripartiva.
Dall’ultimo viaggio non è tornato e io, da allora, viaggio da sola. Parto per brevi tragitti, prendo strade che ricordo sperando di non sbagliarmi, vado a racimolare quel che lui strada facendo aveva seminato — o nascosto nei suoi diari — e lo riporto a casa.
Il Corriere della Sera -
27 Maggio 2014
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