Iside
e Maria alla luce dell'alchimia a partire dall’intuizione junghiana
sulla necessità di una integrazione simbolica del femminile
all’interno della sfera psichica.
Raffaele K. Salinari
Parresia Alchemica
Il «no» di Iside, il
«si» di Maria: la Grande Dea si riflette nello specchio; ora come
divinità egiziana, ora come madre del Salvatore, risponde all‘angelo
annunciatore attraverso i monosillabi essenziali. «Sia il vostro
parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal Maligno» dice anche
il Cristo del Vangelo secondo Matteo (5,37).
Questa è la forma
che condensa la pratica della parresia, quel «parlare la verità»
che fu oggetto delle ultime lezioni di Foucault al Collège de France
nel 1984 (Le courage de la vérité).
La verità ed il suo
kairos
Il termine venne
coniato da Euripide nel V secolo a.C. – età d’oro della
democrazia ateniese, quella di Pericle (462-429 a.C.) – con
evidenti implicazioni politiche sul funzionamento stesso delle
istituzioni democratiche. Nell’Atene di quel tempo il cittadino che
interveniva nelle assemblee pubbliche aveva il diritto di dire la sua
verità, anche nel caso in cui questa fosse stata contraria alla
doxa.
Ma il parresiastes
«non è solo sincero nel dire qual è la sua opinione», afferma
Foucault, è che in questo modo egli si soggettivizza: diviene
soggetto e oggetto della verità che esprime; e così il parresiastes
mette in gioco se stesso, fonda il suo spazio-tempo. Ma, avverte
Foucault, per la riuscita del processo è fondamentale la presenza
dell’«altro» – il maestro, il filosofo, l’amico, il
confessore, l’amato – che ci faccia da specchio in questo
principium individuationis; una pratica a due. Vedremo come il
dialogo con l’«altro» sarà, nel caso degli alchimisti, quello
con la Materia stessa.
Per via dell’identità
esistenziale tra l’enunciante e l’enunciato, e qui sta l’arcano,
la parresia rientra nella sfera di influenza di Kairos, la divinità
greca del «tempo opportuno». Un tempo qualitativamente distinto da
quello governato da Kronos, il dio vecchio e feroce immortalato nel
celebre dipinto di Goya, intento a divorare i suoi figli, geloso del
fatidico vaticinio secondo cui uno di essi lo avrebbe spodestato.
L’effige di Kairos
è, invece, quella di un bel giovane che avanza rapido sui suoi
talari impugnando un rasoio, segno del taglio netto tra il momento
del suo comparire e quello della sua scomparsa, della cesura tra un
prima ed un dopo.
Questa fuggevolezza
diviene anche il motivo della curiosa pettinatura: il dio ha davanti
la fronte un bel ciuffo di capelli, per essere afferrato mentre
passa; la nuca è invece totalmente calva, poiché una volta fuggito
nessuno lo possa riprendere.
Un prezioso
bassorilievo, oggi custodito nel Museo municipale di Traù in
Croazia, l’antica Tragurium romana, così lo ritrae. Il ragazzo
veloce ha talvolta come simbolo una bilancia squilibrata, piegata
dalla parte di un tempo che non tiene conto di alcuna ponderazione:
il tempo della verità.
La cultura cristiana,
a sua volta, ha definito kairos il «tempo scelto da Dio», il
momento in cui la divinità decide di agire e cambiare la storia
degli uomini. Nella Chiesa ortodossa orientale, prima che la liturgia
inizi, il diacono scandisce la formula «kairos tou poiesai to
Kyrio», cioè «È tempo che il Signore agisca», dove poiesai
significa anche creare, indicando che in quel momento avviene
l’incontro con l’Eternità insufflata da Dio nel cuore stesso
della Materia.
Alchimia e modernità
La stessa
intenzionalità per il «tempo opportuno» in cui viene emanata la
Creazione e la sua verità ultima, il suo eskaton, è al cuore del
processo che vede l’alchimista, il Filosofo della Natura, cercare
con le sue pratiche di rettificarne il «principio vitale materiale»,
l’archeus come lo definiva Paracelso, e condurlo così alla
parusia, la piena realizzazione dei suoi attributi
sostanziali.
L’Opus magnum e la sua Pietra filosofale, infatti,
altro non sono che l’«altro» che necessita al
parrestiates-alchimista per diventare tutt’uno con la verità;
dispositivi che inverano e verificano la possibilità di portare a
compimento il télos del suo essere, trasmutandolo, nel «tempo
opportuno», verso lo stato di perfezione.
Sul piano «metallico»
questo significa la sintesi dell’Oro alchemico, l’elemento
mistico perfetto ed incorruttibile, metafora di ogni evoluzione
materiale. Trasposto specularmente sul piano della vita umana,
l’alchimista mira alla Redenzione, cioè alla perfezione dello
Spirito che finalmente riesce nel suo compito: riunire anima e corpo.
Ma tutto questo
resterebbe confinato nella storia delle arti esoteriche se non fosse
per il fatto, come afferma Françoise Bonardel, che l’Opus magnum è
invece una visione del Mondo in contrapposizione con la modernità.
Nel suo Philosophie de l’alchimie la definisce come «concreta
assunzione di responsabilità per l’insieme del Mondo»; un «lavoro
filosofale» in risposta al «percorso filosofico» che ci ha portato
a distruggere ed umiliare la sacralità della Materia, e dunque di
noi stessi come parte senziente di essa.
È ancora l’alchimia,
intesa come pratica di cura e manutenzione del Mondo, che, rivisitata
alla luce delle differenze di genere, permette di leggere in chiave
politico-ecologica l’intuizione originaria di Jung sulla necessità
di una integrazione simbolica del femminile all’interno della sfera
psichica; per completare così, in maniera olistico-ecologica, il
nostro processo di individuazione.
Afferma ancora
Bonardel che la ripresa della «filosofia alchemica» può mettere
fine all’unilateralità di una episteme – che si suppone essere
quella quasi unanime nella modernità – di scissione tra soggetto
ed oggetto, ricomponendo la matrice simbolica di una «prassi
dell’alleanza» con le forze vive della Creazione. Un’alleanza, e
non una competizione o una sottomissione, per dirigere finalmente lo
sguardo verso l’essenza delle cose finite.

Questa «verità
della Madre Materia» come diceva Giordano Bruno, ha dunque bisogno
di un tempo opportuno, cairologico, in cui si compiono le operazioni
di coagulazione e dissoluzione – il solve et coagula cuore della
pratica alchemica – affinché le fasi dell’Opera possano maturare
così da portare ad effetto il ricongiungimento: l’annullamento,
simboleggiato dal Rebis filosofico, l’androgino ermetico, delle
dualità che esistono tra materia e anima, visibile ed invisibile,
immanente e trascendente, per ricomporle finalmente in dualitudini:
coppie di opposti non oppositivi che rendono manifesta l’Unità
primigenia del Creato, scopo ultimo del magistero
alchemico.
L’alchimista dunque, stabilisce, come parresiastes,
un patto tra sé e la verità mistica che dorme nella Madre Materia,
l’«altro» o meglio l’«altra», con la quale egli è in
dialogo.
E allora, operare con
la materia ed attraverso la materia nel tempo giusto, implica
saggiarne la capacità di sciogliersi e rapprendersi; questo rimanda,
per il fatto che la materia operata trasforma a sua volta l’operatore
e viceversa, alla volontà dell’alchimista di mettere nell’Athanor
se stesso: considerare le proprie impurità come parte della «prima
materia».
Da qui il punto di
partenza della trasmutazione interiore – il neidan alchemico
taoista – il cui obiettivo è la pienezza del nostro stesso
esistere; ex-sistere cioè essere in atto consapevolmente per il
tempo che ci è dato.
Zosimo di Panopoli
(IV secolo), sostiene che tutta l’alchimia dipende dal kairos, e
definisce le operazioni alchemiche kairikai baphai, tinture di
kairos. Egli teorizza che i processi non avvengono da sé, ma
soltanto nella giusta congiunzione astrologica.
David di Dinat,
filosofo panteista del XIII secolo, difeso da Bruno ed avversato da
Tommaso d’Aquino nella Summa contra Gentiles (I, 17), sostiene che
la Materia sia «cosa eccellentissima e divina», come ribadirà nei
suoi dialoghi De la causa, Principio et uno il monaco di Nola, e gli
sarà fatale: sarà mandato al rogo in Campo dei Fiori il 17 febbraio
1600.
Qui troviamo il
nucleo moderno di quella teoria delle corrispondenze tra micro e
macrocosmo che verrà sviluppata più tardi da Paracelso e
dall’alchimia rinascimentale. La sintonia, di stampo neoplatonico,
tra il tempo soggettivo e quello planetario, al quale l’alchimista
deve per così dire accordare i suoi gesti operativi, riduce poi
ulteriormente l’intervallo tra soggetto ed oggetto, tra operatore e
materia operata, contribuendo in questo modo all’identità
dell’Opera con l’operatore.
Ecco che, come nella parresia e
nel messaggio evangelico, la Madre Materia dispiega alchemicamente la
sua verità tra un «no» e un «si», in altre parole tra un
resistere (coagula) ed un concedersi (solve).
E dunque
ripercorriamo la storia di un «si» e di un «no» pronunciati da
due personaggi femminili, entrambe ipostasi della stessa Grande
Madre, che agiscono con modalità speculari perché operano e sono
operate in momenti diversi della storia del Mondo: l’antico Egitto
e la Cristianità.
Vedremo come il «no» pronunciato da Iside
alle avances sessuali dell’angelo che le offre il segreto
dell’«acqua scintillante» corrisponde analogicamente al «si»
sussurrato da Maria di Nazareth di fronte al messaggio di quello
dell’Annunciazione.
Iside e Maria: due
donne divine che rappresentano, in forme distanti nel tempo ma non
distinte nell’essenza, il medesimo femminino totipotente, la matrix
paracelsiana capace di portare ad effetto e far coincidere la causa
materiale con quella finale.
La falce di luna
comune ad entrambe, simbolo dell’eterno rinnovarsi delle cose, così
come la loro verginità, cioè il numinoso intangibile ed
immodificabile insito nella Materia cosmogonica di cui sono immagini
– «nessuno ha mai sollevato il mio velo» dice Iside, di Maria
Immacolata la purezza è provata dai suoi contemporanei con l’ordalia
dell’acqua amara – testimoniano sul piano metastorico la loro
sostanziale identità.
Sulla parete esterna
occidentale della chiesa del Crocefisso, la prima delle cosiddette
Sette Chiese di Santo Stefano in Bologna, è ancora visibile la
lapide marmorea che titolava l’originale tempio romano ad Iside
Vittoriosa.
Iside dice di no
all’angelo
Il Codex Marcianus è
un voluminoso manoscritto alchemico conservato nella Biblioteca
Marciana di Venezia; sulla copertina è possibile osservare l’effigie
dell’Uroboro – il serpente che si morde la coda (da oura coda e
boros che morde) simbolo dell’eterna rinascita come dell’unità
della materia – che racchiude la scritta En to Pan, cioè nell’Uno
il Tutto, e diverse altre simbologie riferite all’arte della
trasmutazione ed ai suoi apparecchi.
Un testo greco qui
contenuto è intitolato La Profetessa Iside a suo Figlio. Si tratta
di uno scritto risalente all’incirca al I secolo a.C.; sotto il
titolo è visibile il simbolo della falce di luna. La metafora
utilizzata per cifrare il processo operativo è quello di un episodio
centrale della mitologia egizia: la storia che narra della famosa
battaglia in cui Seth, che rappresenta il caos distruttivo della
brutalità, si batte contro Horus, divinità solare dell’ordine
ricostituito, figlio di Iside ed Osiride.
Nel testo alchemico
Iside così esordisce: «Oh, figlio mio, quando tu decidesti di
andare a combattere il perfido Tifone [Seth] per il regno di tuo
padre [Osiride], io mi recai a Hormanouthi, cioè a Hermopolis, la
città di Hermes [il dio Thot], la città egizia della sacra arte
[l’alchimia], e vi rimasi qualche tempo. Dopo un certo passaggio
dei kairoi [il necessario movimento della sfera celeste], accadde che
uno degli angeli che abitavano nel primo firmamento mi vide dall’alto
e venne a me desiderando congiungersi carnalmente. Aveva gran fretta
che l’unione avesse luogo, ma io gli dissi no. Resistetti, perché
volevo interrogarlo sulla preparazione dell’oro e dell’argento.
Quando gli feci la domanda, replicò che non intendeva rispondermi
poiché si trattava di un mistero capitale, ma disse che sarebbe
tornato il giorno seguente e avrebbe portato con sé Amnael, un
angelo più grande, il quale sarebbe stato in grado di rispondermi e
di risolvere il mio problema. Ed egli mi disse qual era il suo segno
[cioè in che modo Iside avrebbe potuto riconoscerlo] e che mi
avrebbe portato e mostrato, reggendolo sul capo, un vaso di ceramica
pieno d’acqua scintillante. Egli [l’altro angelo] intendeva dirmi
la verità. Il giorno seguente, quando il sole era a mezzo del suo
corso, scese dal cielo l’angelo che era più grande del primo, e fu
preso dallo stesso desiderio di me e aveva gran fretta [di
soddisfarlo]. Ciononostante io volevo solo fargli la mia domanda.
Quando stette con me non mi diedi a lui. Gli dissi di no e vinsi il
suo desiderio finché non mi mostrò il segno sul suo capo e mi
consegnò la tradizione dei misteri, in piena verità e senza
nasconder nulla. [A questo punto Iside vince la battaglia e l’angelo
le rivela tutto ciò che sa sulla tecnica dell’alchimia]. Indicò
poi nuovamente il segno, il vaso che portava sul capo, e cominciò a
rivelarmi i misteri e il messaggio. Dapprima pronunziò il gran
giuramento e disse: “Giuro, in nome del Fuoco, dell’Acqua,
dell’Aria e della Terra; giuro in nome della Sommità del Cielo e
della Profondità della Terra e degli Inferi; giuro in nome di Hermes
e di Anubi, dell’ululato di Kerkoros e del drago guardiano; giuro
in nome della barca e del traghettatore Acharontos; e giuro in nome
delle tre necessità, e delle fruste e della spada”. Dopo che ebbe
pronunciato il giuramento, lo fece ripetere anche a me e mi fece
promettere che non avrei mai rivelato a nessuno il mistero che stavo
per ascoltare, tranne a mio figlio, al mio bambino, e al mio più
intimo amico, così che tu sei me, e io sono te».
E dunque Iside
ottiene il segreto della trasmutazione resistendo alle offerte
sessuali dell’angelo; una modalità che obliquamente ricorda quella
di Sherazade nelle Mille e una Notte…
Qui la metafora ci
dice che chi voglia giungere al compimento deve resistere alle forze
che cercano di distoglierlo dal retto sentiero attraverso le lusinghe
di una strada puramente sensuale, priva di salda convinzione
dottrinale e retta volontà. È il cedimento di coloro i quali
intraprendono l’Opera per ottenere facili guadagni materiali,
dimentichi della posta in gioco spirituale. In questo senso si
sviluppa anche il significato nascosto dall’allusione sessuale vera
e propria: la Materia non concederà le sue grazie, cioè non si darà
all’operatore, se non quando questo sarà in grado di trarre da lei
il segreto con le giuste manipolazioni: mostrandosi all’altezza del
potere insito nelle trasmutazioni. Eros, come agente del cambiamento,
è da sempre il daimon che sovraintende questo tipo di operazioni
catalizzate, ma non certo limitate, alla sfera sessuale.
Qui il tempo
cairologico è una componente centrale; senza la capacità di saper
aspettare il momento opportuno nessuno svelamento è possibile. Anche
se l’angelo si mostra ansioso di accoppiarsi con Iside, non
dobbiamo pensare che la divinità non lo sia altrettanto; ma ella ha
compreso che solo sapendo attendere avrà il suo premio.
Il si di Maria
Assolutamente
speculare, e dunque analoga, è la postura assunta da Maria di
Nazareth che, non a caso, trasmette lo stesso nome a quella Maria la
Giudea, vissuta tra il primo ed il terzo secolo forse ad Alessandria
d’Egitto, che per prima ha descritto concretamente alcune
operazioni alchemiche ancora oggi titolate a suo nome, tra cui il
celebre «bagno Maria».
E dunque: «Nel sesto
mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della
Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo
della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava
Maria. Entrando da lei, disse: ti saluto, o piena di grazia, il
Signore è con te. A queste parole ella rimase turbata e si domandava
che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: non temere,
Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un
figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e
chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono
di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il
suo regno non avrà fine. Allora Maria disse all’angelo: come è
possibile? Non conosco uomo. Le rispose l’angelo: lo Spirito Santo
scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza
dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato
Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua
vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei,
che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio. Allora Maria
disse: eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che
hai detto. E l’angelo partì da lei».
Maria di Nazareth
simboleggia la Madre Materia che si «lascia impregnare» dal
solvente universale per sua stessa volontà; anche il suo «si»,
come il «no» di Iside, è pronunciato nel kairos, il momento
opportuno alla fecondazione, quando l’anima può prendere posto nel
suo involucro di materia, nel suo «vestito di carne» dice Francesco
d’Assisi.
La metafora della
fecondazione, comparsa per la prima volta nell’alchimia bizantina,
così viene descritta nel Testamentum attribuito allo pseudo Raimondo
Lullo per richiamare lo stile del monaco alchimista spagnolo vissuto
nel XIII secolo: «Dunque figliolo, devi comprendere che nella prima
cottura, quando avviene il coito e l’unione per amore della natura,
allora si ottiene la prima mescolanza, unendo il corpo e lo spirito,
affinché si accordino e le loro qualità si mescolino formando un
composto delle virtù elementari dell’uno e dell’altro in forza
del concepimento che fa dei due uno….».
Maria è dunque il
«corpo perfetto per il coito perfetto» dal quale può nascere la
Pietra della trasmutazione, il Lapis-Cristo, «pietra scartata dai
costruttori che diviene testata d’angolo» (Salmo 117, 22-23).
Ma, nella simbologia
esoterica alchemica, la congiunzione dello Spirito Santo con la
Vergine di Nazareth rappresenta la ricomposizione dell’antica Unità
che vedeva nella Grande Dea primigenia la scaturigine del tutto. Solo
il patriarcato ecclesiale l’aveva scomposta nei due aspetti per
rendere la figura femminile subalterna.
L’epistemologa
femminista Evelyn Fox Keller, nella sua introduzione a Genere e
Scienza, evidenzia come il «si» mariano alla congiunctio apre la
porta ad un nuovo approccio che annulla la distanza tra la verità
della mente e quella del corpo; dove per «corpo» si intende il
codice comunicativo di tutti i fenomeni prelinguistici con i quali
comunque dobbiamo negoziare la nostra permanenza sulla Terra.
Nella stessa
prospettiva James Hillman ammette che «nella scienza moderna la
femminilità della materia non può mai essere realmente
riconosciuta» e che in questo modo il metodo galileiano si rivolta
contro se stesso; dunque «la scienza attuale non può vedere le cose
che l’alchimia vedeva».
Infine, come nella simbolica cristiana
l’Annunciazione è aurora della nuova creazione, kairos scelto da
Dio per irrompere nello spazio della storia, così per l’alchimista
il momento della trasmutazione finale, l’Opera al Rosso, coincide
con la sua intima transustanziazione: l’umile villaggio di Nazareth
non è Gerusalemme; l’annuncio della nascita del Messia viene fatto
a Maria in un luogo insignificante della semi-pagana Galilea che né
Flavio Giuseppe né il Talmud nominano.
Nello stesso modo e
momento, compiuta l’Opera, l’umile dimora dell’alchimista,
improvvisamente, diventa il centro del Mondo.
Il manifesto Alias –
21 giugno 2014