Un viaggio alla
scoperta del grande fiume. Ma il mondo del Po rimane misterioso,
racchiuso nello scrigno serrato dai due possenti argini maestro che
gli corrono di fianco.
Maurizio Pagliassotti
Il Po, la resistenza
del grande fiume
Appare sconsolatamente
fangoso nei brevi passaggi dei telegiornali utilizzati per raccontare
i suoi inspiegabili scoppi di collera. Si sa che più o meno scorre
lassù al nord, assediato da capannoni, allevamenti suini e villette.
Nasce dalle parti di
Torino e arriva dalle parti di Venezia, e lungo il percorso vivono
milioni di uomini e donne che mangiano polenta. Una rimozione coatta
e collettiva che ben racconta un altro grande disperso: l’articolo
9 della Costituzione. Il Po è, nei suoi 700 chilometri di corsa, la
plastica rappresentazione dell’Italia che ostinatamente non tutela
il paesaggio e il patrimonio storico e artistico.
Così il mondo del Po
rimane misterioso, racchiuso nello scrigno serrato dai due possenti
argini maestro che gli corrono di fianco. Della sua bellezza, delle
risorse e venture, solo rare parole narratrici.
Morimondo è stato
rivitalizzato con massaggio cardiaco da Paolo Rumiz – lettura
fondamentale per chiunque voglia vivere il grande fiume – che
racconta un mondo languente sotto i colpi di maglio della
civilizzazione che costringe e demolisce: niente più antichi
mestieri, leggende, culture, lingue, niente più polenta con gatti e
lucci fritti; tutto coperto da una colata di cemento o dragato da una
ruspa.
Eppure il Po resiste.
Forse proprio grazie ai suoi possenti argini, estreme barricate che
respingono la razzìa umana e custodiscono gelosamente il tesoro
della sua straordinaria vita. Resiste e viene riscoperto da piccoli
gruppi di pionieri, ed è come se il suo limo stesse dando vita a un
nuovo e più fertile Vivimondo che tenta di recuperare, di innervarsi
sulla sua asta.
Ma da chi è vissuto,
oggi, il Po?
La truppa di tedeschi accampatasi su un’isola del Po si sbraccia entusiasta, saluta evidentemente soddisfatta della mia umana presenza. Dalla riva dove sono sceso per un attimo di pausa intravedo nella macchia di ontani una decina fra uomini, donne, bambini e animali domestici. Pedalo da circa quattro ore: sono partito da Barricata, estremo lembo di terra piantato tra il mare e il grande fiume. Per chilometri e chilometri eserciti di aironi e fenicotteri hanno accompagnato il mio lento progredir verso Torino.
Un tizio piccolo e muscoloso dalla lunga barba bionda salta su una zattera composta da tronchi e attraversa la manica d’acqua che ci separa; a un passo da me, appena oltre la sabbia finissima, il Po scorre immenso verso est. In un secondo, io e la mia bicicletta veniamo caricati d’imperio sulla zattera e trasbordati sulla loro isola, dove vengo accolto dagli eredi di Frisi, Sassoni e Burgundi.
Grande è lo stupore
generale nel momento del contatto tra la civiltà isolana e quella
ciclista: io guardo incuriosito questi uomini che ricordano orde
barbariche fuori tempo massimo, mentre loro guardano ammirati me e la
mia bicicletta stracarica di pentole, tende, mercanzie varie, cibo,
vestiti sporchi e cartine geografiche.
Mi trovo su un’isola in mezzo al Po ospite di nove tedeschi e due cani, nel cuore della produzione industriale patria, un’unica immensa megalopoli in cui scorre il grande fiume ignorato dagli italiani. Sedici milioni di persone mi circondano, ignare della loro vitale relazione con il fiume. A Cremona, sorprendentemente, un vecchio pescatore di fiume, Aldo, smentirà la mia percezione catastrofica e le rilevazioni scientifiche: «Il Po non è mai stato così pulito, puoi starne certo. Sono quarant’anni che non era così limpido: i banchi di schiuma non si vedono più e anche le colate rosse di ferro sono scomparse. Idem le pozze oleose che si formavano dopo le piene, tutto dimenticato, o quasi. La crisi ha chiuso le fabbriche e pure gli allevamenti da cinquemila maiali, anche qui a Cremona. Niente fabbriche, niente maiali, niente inquinamento. Meglio così, sono stati quarant’anni di pazzia».
Così, probabilmente, lo
sfaldarsi del tessuto industriale padano ha liberato energie –
oltre a qualche storione – che si sono riversate dentro la golena
del Po dando vita a un popolo dai molti volti. Serena di Papozze,
paesetto del Delta che briga giorno e notte per aprire un campeggio
appena al di là dell’argine. Ha quaranta anni, un marito e due
figli. Gestisce un accanito b & b dall’evocativo nome «La
zanzara». Il suo sogno è la vedere realizzata la ciclovia VenTo,
una pista che collegherebbe Venezia a Torino lungo l’argine del Po.
E poi ancora cuochi,
camerieri, avventurieri, accompagnatori, educatori ambientali. Una
lenta transumanza di un piccolo mondo che si è accorto che tutelare
il paesaggio e il patrimonio dà pane e tulipani.
Ma le idee su come
tutelare sono vaste, e spesso contorte e contrastanti. I sindaci di
Po, ad esempio, sono mine vaganti. Più di uno l’ho incontrato
nella sede del Comune per fare quattro chiacchiere sul fiume. Locali
infelici e tristi, grigi, a volte luridi, che mostrano l’assoluta
povertà in cui vivono, si confrontano nella stessa piazza con le
canoniche tre banche dotate di vetri a specchio.
I sindaci allargano le
braccia.
E raccontano le miserie a cui tentano di far fronte. Guidano autobus e danno il bianco alle pareti della scuola, organizzano tombolate sul fiume, polentate con cui pagare il gasolio. Così, tra un Lambrusco e una birra, rassicurati dalla foto di Mattarella appesa storta sulla parete, ci si trova dentro discorsi irreali che prevedono progetti di parcheggi e supermercati, centri di bellezza e cemento.
Intorno a me però,
sull’isola dei tedeschi, la lotta dei comuni contro la povertà
appare lontana, anzi inimmaginabile. La prospettiva da questo pezzo
di terra coperto di verde e incastonato nell’acqua è irreale: il
fiume, ad ovest di Porto Tolle nel Delta del Po, è davvero immenso e
selvaggio. Unica flebile traccia della industriosa pianura padana è
il suono lontano di qualche campana che batte le ore del giorno e
della notte.
Pedalare lungo l’argine
maestro dà la possibilità di non incorrere nel brutto. Si procede
di campanile in campanile distanziati di mezz’ora l’uno
dall’altro. Il fiume c’è, a volte è a un passo, ma spesso
scompare, coperto da sterminate piantagioni di pioppi oppure dalla
fitta boscaglia. E scompaiono anche le sue inevitabili brutture: il
Po in alcuni punti è stato così compromesso da risultare
inquietante. La terribile Isola Serafini e il suo doppio sbarramento
ne sono l’esempio. Ma almeno fino a Cremona la civiltà moderna è
praticamente assente: centinaia di chilometri senza vedere mai una
tangenziale, un centro commerciale, luci al neon, sobborghi
californiani, cave, dighe, sale slot e il restante armamentario
legato alla valorizzazione del territorio oggi in voga.
Ma torniamo indietro di
400 chilometri: prima di me gli autoctoni dell’isola devono aver
visto solo cinghiali, volpi e nutrie. Dal braccio teso di uno dei
tedeschi penzola un fagiano. Ne hanno tre e stanno preparando un
sontuoso banchetto in mio onore. La situazione è sempre più
irreale. I fagiani, povere bestie, vengono allevati e liberati pochi
giorni prima dell’apertura della caccia. Ne ho incontrati decine,
uno più domestico dell’altro. Così, acchiapparli a mani nude, o
sparargli con una doppietta da un centimetro di distanza non è
particolarmente difficoltoso. Il menu prevede anche un bel filetto di
pesce siluro appena pescato.
Mi dichiaro onorato,
anche se temo molto l’incontro con il grande pesce leggendario e
confido in una buona scorta di maionese custodita in una delle tende
degli abitanti dell’isola. Auspicio salvifico esaudito: il siluro
ha un sapore simile al fango con un leggero retrogusto di gasolio. Ma
con molta maionese, è ottimo.
Un pesce predatore tipico
dei grandi fiumi centro europei, il siluro si è mangiato
l’ecosistema esistente. Improbabile in ogni caso che abbia potuto
fare più danni lui che una diga, o una cava, o degli inesauribili
sversamenti di liquami industriali o di allevamento, o delle nutrie
di Giovanardi. Ma, ogni volta che si intavola l’argomento siluro,
presto il piano si sposta, da epico avventuriero a sociale.
Pirati extra europei
giungono sul grande fiume a bordo di chiatte e saccheggiano le acque
del suo prezioso pesce dalle raffinatissime carni. I mezzi che
utilizzano rumeni, albanesi, ungheresi, moldavi e russi sono uno più
cinico dell’altro: dinamite, scariche elettriche, bentonite,
cianuro, reti a strascico, lenze legate ai ponti. Il coro, da Venezia
e Piacenza è unico. Lo straniero sul Po fa cose che gli italiani mai
hanno fatto e mai farebbero.
Ma, dalle parti di
Piacenza una flebile voce smentisce il coro: è Roberto, un uomo
minuto di circa sessanta anni che pedala su una vecchia bicicletta
“Graziella”. Dopo che i suoi amici mi hanno raccontato per
l’ennesima volta la storia dei predoni del fiume, mi si avvicina e
a parole scandite dice: «Sono comunista e quelli raccontano solo
balle. Lasciali perdere. Dicono così perché non gli piacciono gli
stranieri, mica per il siluro». Rimarrà voce solitaria del fiume:
d’altronde, i comunisti non vanno molto di moda.
Cala la notte
sull’isola.
Mi fermo a dormire in compagnia dei tedeschi più due cani. Anche loro, raccontano, sono uomini in fuga per qualche settimana. Rientreranno nelle loro case e riprenderanno le vite normali. Ogni anno partono alla volta di un fiume diverso, dove bivaccano per un po’. Le loro parole sul mio Paese, racchiudono tutto il Po e tutto il viaggio: «L’Italia è un paese bellissimo e bruttissimo, come questo fiume. Ma soprattutto è sorprendente constatare quanto non ne abbiate percezione. Per gli italiani il bello e il brutto non esistono, non c’è nessuna differenza».
Nel cielo scorrono le
costellazioni ed Eridano si specchia lassù nello Scorpione: il Po
con il buio spesso e nero come la pece aumenta la potenza della sua
voce tonante, pare voglia avvolgerti e vagamente minacciarti. E con
lui, sommesse e inquietanti ecco le voci di gufi e allocchi, di cui
si possono vedere anche i piccoli occhi accesi dalla luce della luna
piena.
Il mattino è l’ora del saluto intorno al fuoco riacceso, poi è tempo di abbracci e pacche sulle spalle. Hans mi ricarica sulla zattera e mi riporta sulla terra ferma dove riprendo la mia pedalata solitaria.
Arrivo nella mia città,
Torino, dopo dieci giorni di viaggio e il Po mi appare come un
esangue rigagnolo maleodorante. Penso ad Hans e alle sue tetragone
parole, ma anche al popolo incontrato e rimpiango di non aver
conosciuto i romantici predoni del pesce siluro.
Il manifesto – 20 agosto 2016