giovedì 21 febbraio 2019

Amadeo Bordiga visto dalla DC: un antistalinista coerente e coraggioso



Nonostante da decenni fosse lontano dalla scena politica, al momento della morte Amadeo Bordiga fu ricordato con rispetto da commentatori anche molto distanti dalle sue idee. E' il caso di questo articolo apparso su Il Popolo, organo centrale della Democrazia Cristiana.

Paolo Pinna

Bordiga, ovvero il dissenso proibito


Amadeo Bordiga, spentosi a 81 anni nell'abitazione di Formia dove si era riturato in rigorosa vita privata sin dal 1930 allorché, rimesso in libertà dal fascismo, aveva appreso che durante la propria relegazione al confino, i «dirigenti provvisori» del PCd'I lo avevano, senza possibilità di contraddittorio, espulso dal partito, fu il vero ideatore di un partito comunista in Italia. La sua scomparsa offre l'opportunità per alcune considerazioni su certo carattere permanente del partito comunista.

Sono sufficientemente note, almeno nelle loro linee di sviluppo, le vicissitudini talvolta paradossali attraverso cui questioni di strategia rivoluzionaria, strettamente connesse a precise opzioni ideologiche, condussero Bordiga ad una contrapposizione frontale con Gramsci e Togliatti, sino al provvedimento che doveva definitivamente estrometterlo dalla organizzazione e dalla vita stessa del partito ch'egli aveva fondato. Melanconica sorte, per colui che a Livorno, appena nove anni prima, aveva rotto gli indugi e al canto dell' Internazionale aveva abbandonato il teatro Goldoni, dove si celebrava il congresso socialista, per recarsi con i primi seguaci al teatro San Marco dove, con un fermo atto fideistico nell'imminenza di una rivoluzione proletaria in Italia, si procedette alla costituzione del nuovo movimento politico.

E' difficile stabilire, oggi, sino a qual punto egli sia rimasto rigorosamente coerente con la decisione di una volontaria apartheid, se è vero che taluni scritti apparsi ancora di recente, pur nell'anonimato dell'edizione, devono farsi risalire alla sua mano: recano essi, di volta in volta, aspri giudizi sui dirigenti comunisti che, in Russia ancor prima che in Italia, hanno avuto in braccio l'eredità della Rivoluzione d'Ottobre. Certamente, invece,  è rimasto vittima di quanto egli stesso era andato teorizzando, auspicando l'instaurazione di una ferrea disciplina, come può leggersi su l' Ordine Nuovo (21 giugno 1919) in una frase che ben rispecchia anche l'enfasi rivoluzionaria del tempo: «Il partito deve essere... il focolare della fede, il depositario della dottrina, il potere supremo che armonizza e conduce alla meta le forze organizzate e disciplinate», ragion per cui «il partito non può spalancare le porte all'invasione di nuovi aderenti, non abituati all'esercizio ... della disciplina».


Quando prefigurò il partito come l'insindacabile depositario della dottrina, probabilmente Bordiga non prevedeva che i dirigenti avrebbero fatalmente inclinato a identificare se stessi con l'ortodossia, con il partito. Certo è che, una volta enunciato così rigido assioma, sarebbe stato impossibile sottrarsi all'implacabile logica che ne discende. E infatti lo stesso Bordiga non poté far altro che assoggettarvisi.

Ancor meno nella sventura - d'altronde - egli avrebbe potuto disporre di strumenti e mezzi per opporsi. Per tre anni, durante il confino, era rimasto isolato dalle organizzazioni clandestine di base. Il fascismo aveva già ridotto anche il PCd'I ad una esigua, segreta attività «illegale». Non  esistevano dunque modi efficaci di opposizione. Ma anche per ciò l'espulsione si presenta ancor oggi, per taluni versi, come un provvedimento al limite del grottesco e si configura, al tempo stesso, in termini di autentica sopraffazione politica.

Probabilmente Bordiga avrebbe dovuto, facendo violenza al proprio temperamento uso fin dalla giovane età ad un'aperta, lineare opposizione alle classi agiate da cui egli discendeva, procedere con maggior cautela e circospezione, sapendo che Lenin già nel 1919 («L'estremismo»), riferendosi alla situazione italiana e al ruolo parlamentare di un partito rivoluzionario, aveva appuntato su di lui critiche di non poco conto, rilevando che «Bordiga e i suoi amici... non immaginano neppure una nuova utilizzazione del parlamentarismo e continuano a strepitare ripetendosi senza fine a proposito dell'utilizzazione vecchia, non bolscevica del parlamentarismo».

Erano rilievi di una brutalità strumentale che avrebbero dovuto suonare per lui come una precisa ammonizione al pari del famoso «punto 21» votato quello stesso anno dal II Congresso dell'Internazionale comunista, riunitosi in luglio a Mosca. Vi si legge istruttivamente: «Quei membri del partito che respingono... le condizioni e le tesi formulate dall'Internazionale comunista debbono essere espulsi dal partito».

Invece, anche in antitesi al conformismo di Gramsci e di Togliatti, Bordiga replicò che «tutto quanto i dirigenti dell'Internazionale dicono e fanno è materia di cui rivendichiamo il diritto di discutere».

Parole troppo nette, per un militante comunista. Il X Congresso , frattanto, sancendo il divieto del frazionismo, aveva decretato che il partito non sbaglia e che l'Internazionale neppure essa può sbagliare. Non importano i risvolti ideologici del nuovo assioma. Qui è sufficiente ricordare che spettò proprio a Luigi Longo, allora alfiere del movimento giovanile nella battaglia contro Bordiga, ribadire seccamente a quest'ultimo che «vi deve essere... una centrale che ordina a dei compagni costretti, dalla disciplina, a obbedire». Era il 17 luglio del 1925.


Preceduta da una serie di  "diktat" organizzativi nei confronti del gruppo dissidente, si giunse così all'espulsione, decretata dai dirigenti frattanto riparati all'estero, per aver Bordiga «sostenuto, difeso e fatto proprie le posizioni dell'opposizione trotskista... la quale conduce sistematicamente  la lotta... contro l'Unione sovietica».

Non pare dunque difficile ravvisare oggi nella vicenda politica di Amadeo Bordiga il singolare parallelismo con una situazione che ha caratterizzato recentemente la vita interna del partito comunista sino all'espulsione del gruppo Pintor-Natoli-Rossanda. Il raffronto con la vicenda de Il Manifesto sorge infatti immediato, sia per le configurazioni ideologiche del conflitto con il gruppo dirigente, sia per la conclusione cui la vicenda stessa è approdata.

Ieri l'accusa di trotskismo, oggi quella di maoismo; nell'un caso e nell'altro una rigida subordinazione alla strategia dell'Unione Sovietica. Allora Bordiga reclamava, come si è ricordato, il diritto di discutere le direttive del partito e della stessa Internazionale; il gruppo Pintor-Natoli-Rossanda, rivendicava oggi il diritto (e il dovere) di discutere la linea del partito e gli stessi orientamenti di Mosca, al di fuori dei restrittivi schemi dettati dai dirigenti in carica, che allora come oggi identificano se stessi con l'ortodossia e con il partito.

Né allora né oggi un vero metodo democratico ha consentito l'analisi e la ricerca critica. Come non ravvisare dunque in questa "costante", un dato permanente del modo di porsi del partito comunista rispetto alla società in cui opera, alle istituzioni ad ai suoi propri iscritti?

Il Popolo, 29 luglio 1970

(In ricordo di Sandro Saggioro e del sito "Avanti barbari!")



martedì 19 febbraio 2019

Carlo Merello. Vuoti a perdere




CARLO MERELLO
Vuoti a perdere 2005

20 febbraio - 15 marzo 2019
a cura di Sandro Ricaldone

Entr'acte
via sant'Agnese 19R – Genova

orario:
mercoledì-venerdì 16-19
inaugurazione:
mercoledì 20 febbraio, ore 17,30

Dal 20 febbraio al 15 marzo Entr’acte presenta una mostra personale di Carlo Merello, Vuoti a perdere, in cui sono raccolti alcuni lavori del ciclo omonimo, realizzato nel 2005, che si compone di immagini fotografiche associate a incisioni su cristallo evidenziate dall’ombra riflessa.
Annotava all’epoca l’autore:
Nelle città esistono vari tipi di edifici; alcuni sono adatti ad un uso privato, altri progettati per un uso pubblico.  Gli edifici che hanno funzioni pubbliche sono normalmente uffici, ospedali, scuole, caserme, ipermercati, opifici e altri dello stesso tipo.
Il progetto “Vuoti a perdere” prende in esame questi edifici nel momento in cui la loro vita attiva è terminata, quando il pubblico che animava i loro ambienti non esiste più, quando la funzione per cui sono nati è cessata e nei loro ambienti rimane soltanto l’aura di una vita trascorsa.
Questi vuoti raccontano, col silenzio e l’assenza dell’essere, lo sgomento del nulla; così come il corpo umano, svuotato della propria vita racconta di materia inerte, inconsistente e vacua.
Il confronto con le due assenze è il dialogo muto che si concreta sulla pagina bianca mediante l’ombra che scaturisce dal vetro inciso quando la luce lo investe.

Carlo Merello è nato a Genova nel 1950. Architetto, lavora nel complesso delle arti visive.
Opere del ciclo Vuoti a perdere sono state esposte in precedenza all’Istituto Italiano di Cultura di Madrid (2005) e presso la Galleria Il Mosaico di Chiasso (2010). In occasione della mostra di Madrid è stato pubblicato dalle edizioni La Rosa Alata il volume Buio sottovetro, con testo critico di Viana Conti.

L’insieme del suo lavoro, iniziato nei primi anni ’70, è documentato nel sito web http://www.carlomerello.it/.


Il Passo della Morte. Storie lungo la frontiera tra Italia e Francia



L’Istituto di Studi Liguri, Libera, la Caritas e il Museo Rossi organizzano
Giovedì 21 febbraio alle ore 16, al Forte dell'Annunziata di Ventimiglia
la presentazione del libro
IL PASSO DELLA MORTE
Storie e immagini di passaggio lungo la frontiera tra Italia e Francia
di Enzo Barnabà e Viviana Trentin
Edizioni Infinito in collaborazione con Philobiblon




“Un panorama che mi mozza il fiato e mi carica positivamente, ogni giorno che Dio manda in terra”. Ecco Grimaldi, dove la vista è idilliaca e dove le luci di Mentone si vedono scintillare a poche centinaia di metri.

Ma Grimaldi, non è soltanto visione paradisiaca, è ed e stato per secoli anche luogo di transito: contrabbandieri,  latitanti e, in ogni epoca, via della speranza  per chi, non munito di documenti in regola, ha cercato e cerca di passare in Francia nella speranza di una vita migliore.

I luoghi hanno una memoria, basta saperli interrogare perché ci raccontino quanto custodiscono. È così che questo libro – scritto da Enzo Barnabà ed illustrato da Viviana Trentin - ci narra storie ed aneddoti sorprendenti: la vicenda degli “aerei annusatori” che ha fatto tremare il governo francese, i passaggi clandestini del sedicenne Curzio Malaparte, del costruttore del Corbusier, di Peynet e di tanti altri.


domenica 17 febbraio 2019

Le foibe, l'esodo e il silenzio della sinistra



Si è tenuto ieri nella Sala Rossa del Comune di Savona un incontro con il professor Davide Conti autore di approfondite ricerche sull'occupazione italiana nei Balcani e sui criminali di guerra italiani. L'iniziativa si collocava nel quadro più complessivo del “Giorno del Ricordo”. Di seguito la sintesi del nostro intervento introduttivo.

Giorgio Amico

Le foibe, l'esodo e il silenzio della sinistra

Entrare nel merito della questione delle foibe e dell'esodo degli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia non è facile, considerato l'uso politico distorto che della questione è stato fatto a destra nonché delle evidenti reticenze della sinistra ad affrontarlo in termini non ideologici. Sicuramente l'intera questione dei confini orientali è incomprensibile se non viene inserita in un contesto complessivo, se si riduce a singoli episodi o ad un elenco di efferatezze e crudeltà che rischiano però così di restare inspiegabili e di provare solo la naturale propensione del genere umano alla crudeltà e alla distruttività. Ma non di filosofia spicciola o di moralismo interessato c'è bisogno, quanto di analisi storica priva del tabù del politicamente corretto e i tempi sono più che maturi trattandosi di avvenimenti ormai lontani nel tempo, almeno quanto basta a garantire il necessario distacco. Insomma, non accusare, non difendere, ma cercare di comprendere. Avendo ben chiaro che comprendere non significa in alcun modo giustificare e che l'aver patito ingiustizie non legittima a commetterne, anche se è lezione eterna che il sangue chiama sangue, che la barbarie produce altra barbarie secondo quel principio, enunciato da Junger nelle sue riflessioni sulle atrocità della seconda guerra mondiale, che “chi annienta arbitrariamente il suo nemico, non può aspettar clemenza per se stesso, ed ecco allora che si formano leggi di lotta sempre più dure”.

E di annientamento arbitrario si può parlare a proposito della politica fascista verso gli slavi della Venezia Giulia e delle questioni relative al confine orientale e al contenzioso con il neonato regno di Iugoslavia a partire dal famoso discorso del 1920 a Pola di Benito Mussolini in cui il futuro “Duce del fascismo” esalta lo squadrismo contro gli slavi “razza inferiore e barbara” che per essere governata e disciplinata richiede una spietata “politica del bastone”. Il libro di Davide Conti “L'occupazione italiana nei Balcani” ha il merito grande di cancellare il mito degli italiani “brava gente”, incapaci di crudeltà, per natura in grado di essere soldati senza perdere la propria umanità, è di mostrare invece il volto feroce di un'azione repressiva che fu prima squadrista, poi poliziesca negli anni del regime e infine militare al momento dell'invasione e dell'occupazione dell'Albania, della Slovenia, del Montenegro e di rincalzo ai nazisti della Grecia. Una storia tutta italiana, fino al libro di Conti mai raccontata, fatta di stupri, di torture, di crudeli rappresaglie, di deportazioni di massa (il Campo di Cairo Montenotte destinato agli slavi ne è solo un piccolo esempio), di villaggi bruciati a decine, di migliaia di morti.


Le foibe, soprattutto quelle istriane dell'autunno 1943 rappresentano in primo luogo la risposta iugoslava a questa ferocia, il trattamento “senza clemenza” degli ex-occupanti fascisti. Un quadro ben delineato in un recentissimo studio dell'Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia:

Dopo la capitolazione italiana dell’8 settembre, per poco più di un mese la penisola istriana cadde per la maggior parte sotto il controllo del movimento di liberazione croato (jugoslavo), che vi applicò le pratiche di lotta correntemente adottate nel corso della lotta di liberazione / guerra civile / rivoluzione in Jugoslavia. Tali pratiche prevedevano nelle zone anche solo temporaneamente liberate, l’immediata eliminazione dei «nemici del popolo». Questa era una categoria di origine bolscevica e staliniana estremamente flessibile, che nel caso dell’Istria riguardava alcuni segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai partigiani, per il loro ruolo svolto nel regime fascista (gerarchi, squadristi), nelle istituzioni (podestà, segretari comunali) e nella società locale (possidenti terrieri, commercianti ed artigiani accusati di strozzinaggio) o comunque ritenuti pericolosi per il nuovo potere”.


Quanto poi accadde con le stragi del maggio 1945 nella Venezia Giulia è molto simile, ma rispetto al carattere prettamente antifascista dei fatti istriani, ora si evidenzia anche una caratteristica anti-italiana. Le motivazioni sono sempre politiche e rimandano alla presa del potere e all'instaurazione di un regime modellato, a partire dall'uso sistematico del terrore, su quello staliniano dell'URSS degli anni Trenta, ma l'obiettivo diventa l'intera comunità italiana, sbrigativamente assimilata nella sua interezza al fascismo e alla sua crudele politica antislava. Fenomeno che non sfuggì anche al segretario del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, che ne parlò, anche se con toni complessivamente giustificativi, in un articolo su l'Unità del 2 febbraio 1947:

Chi vorrà negare che le terre istriane siano state il teatro, negli ultimi decenni, di un'ampia e spesso inumana lotta nazionale? Abbiamo noi dimenticato le atrocità fasciste contro gli slavi? Ignoriamo noi che la guerra partigiana degli slavi non poteva, in quelle circostanze, non prendere essa pure il colorito nazionale, anzi, per essere più precisi, il colorito talora persino della rappresaglia nazionale?”

Anche su questo punto il documento già citato dell'ISREC di Trieste aiuta a fare chiarezza, facendo anche una comparazione fra le stragi giuliane e le violenze nell'Italia del dopoguerra:

Si trattava chiaramente di violenza di stato, programmata dai vertici del potere politico jugoslavo fin dall’autunno del 1944, organizzata e gestita da organi dello stato (in particolare dall’Ozna, la polizia politica). Sta in questo la sua differenza sostanziale con l’ondata di violenza politica del dopoguerra nell’Italia settentrionale. Quest’ultima infatti può venir interpretata come resa dei conti di una guerra civile iniziata negli anni ’20 ed anche come tentativo di alcuni segmenti del partigianato comunista di influire sui termini della lotta politica in Italia, ma non era inserita in alcun disegno strategico di natura rivoluzionaria, perché il PCI in Italia non doveva fare la rivoluzione. Viceversa, nella Venezia Giulia come nel resto della Jugoslavia, quella violenza era strumento fondamentale per il successo della rivoluzione ed il consolidamento del nuovo regime.
Nei territori adriatici quindi lo stragismo aveva finalità punitive nei confronti di chi era accusato di crimini contro i popoli sloveno e croato (quadri fascisti, uomini degli apparati di sicurezza e delle istituzioni italiane, ex squadristi, collaboratori dei tedeschi); aveva finalità epurative dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad esempio gli antifascisti italiani contrari all’annessione alla Jugoslavia (membri dei CLN, combattenti delle formazioni partigiane italiane che rifiutavano di porsi agli ordini dei comandi sloveni, autonomisti fiumani); ed aveva finalità intimidatorie nei confronti della popolazione locale, per dissuaderla dall’opporsi al nuovo ordine.”


Il fenomeno tragico e di massa dell'esodo degli italiani dalla Dalmazia e dall'Istria è fenomeno qualitativamente diverso e si inserisce in una più generale risistemazione degli assetti continentali dopo la fine della guerra. In un'Europa “continente selvaggio”, che Lo storico inglese Keith Lowe ha ricostruito a fondo in un bellissimo (e terribile) studio uscito in Italia nel 2013 per Laterza.

Lowe prende la Iugoslavia, a cui dedica un capitolo, a simbolo di “una violenza pan-europea” che vide solo nel caso della Germania ben dodici milioni di rifugiati (di contro ai trecentomila italiani) espulsi dalla Prussia Orientale e dalla Pomerania diventate polacche e dai Sudeti cecoslovacchi. E conclude:

Queste operazioni si stavano verificando in tutta Europa. Gli ungheresi furono espulsi anche dalla Romania, e viceversa. I cham albanesi furono espulsi dalla Grecia; i rumeni furono espulsi dall'Ucraina; gli italiani furono espulsi dalla Iugoslavia. Un quarto di milione di finlandesi furono costretti a lasciare la Carelia occidentale, quando l'area fu ceduta all'Unione Sovietica alla fine della guerra. Ancora nel 1950 la Bulgaria cominciò ad espellere circa 140mila turchi e zingari attraverso il confine con la Turchia. E la lista continua”.


Si trattò come qualcuno ripete di una pulizia etnica? Nel caso dell'Italia pensiamo di no, riteniamo invece che più che in termini etnici la fuga in massa degli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia vada letta in termini politici. Perché l'esodo non fu la conseguenza immediata e diretta dell'arrivo dei partigiani di Tito e del terrore che come abbiamo visto si creò allora, ma si consumò soprattutto in due fasi: nel 1947 dopo il Trattato di pace e l'annessione di gran parte della Venezia Giulia alla Iugoslavia e dopo il Memorandum di Londra del 1954 che assegnava Trieste all'Italia e la cosiddetta Zona B alla Iugoslavia, quando il terrore delle foibe era ormai un fatto, per quanto tragico e vivo nella memoria, passato. La politica ufficiale iugoslava non fu quella dell'espulsione di massa degli italiani, ma quella della pacificazione, addirittura della “fratellanza italo-slava”. Ma allora, perché gli italiani fuggirono in massa almeno fino al 1959? Ancora una volta risulta illuminante la ricostruzione fatta dall'ISREC di Trieste che riprendiamo per esteso:

La politica ufficiale del regime comunista jugoslavo nei confronti degli italiani fu quella della «fratellanza italo-slava». Si trattava di una politica di integrazione selettiva. In primo luogo, non si rivolgeva a tutti quelli che si consideravano italiani, ma solo agli italiani etnici, considerati minoranza nazionale legittima. Gli italiani di origine slava (anche remota) dovevano venir ricondotti alla loro nazionalità originaria. In secondo luogo, si rivolgeva solo agli italiani «onesti e buoni», cioè quelli disposti a mobilitarsi per l’annessione alla Jugoslavia e la costruzione del socialismo. Gli altri erano considerati «residui del fascismo», «imperialisti», «sciovinisti» e «nemici del popolo», ai quali era riservata la repressione. In terzo luogo, aveva per interlocutore le «masse popolari», proletarie e contadine e non i «borghesi», per i quali non vi era posto in uno stato socialista.
La politica della «fratellanza» quindi era limitata ad una minoranza della componente italiana, mentre la maggioranza non rientrava nei suoi parametri di accettabilità.  Per di più, tale politica, elaborata dai vertici del partito, venne gestita sul campo dalla classe dirigente locale, formatasi durante la guerra di liberazione contro tedeschi ed italiani, considerati questi ultimi un tutt’uno con i fascisti. Si trattava quindi di una classe dirigente politicamente e nazionalmente estremista, propensa all’autoritarismo ed alla repressione, diffidente per principio nei confronti degli italiani e quindi del tutto inadatta a gestire una politica di mediazione.
Ne seguì una serie infinita di abusi, prevaricazioni e violenze, che colpirono duramente quanti dalla «fratellanza» erano esclusi per le ragioni più sopra indicate, ma anche individui e gruppi che potevano rientrarvi, come i ceti popolari urbani non proletari ed i piccoli coltivatori. Tutti questi soggetti, chi prima chi dopo, finirono con il ritenere il regime di Tito come un nemico da cui difendersi, perché intento a distruggere la loro identità e compromettere le loro condizioni di vita.
I limiti intrinseci alla politica della «fratellanza», sommandosi alle sue modalità di applicazione, provocarono una situazione di invivibilità, che colpì in primo luogo le comunità italiane, ma suscitò disaffezione verso il regime anche in alcuni ambienti slavi, soprattutto croati, che durante la guerra avevano attivamente sostenuto il movimento di liberazione e la lotta per l’annessione alla Jugoslavia”.


Una analisi che ha un preciso riscontro nelle fonti comuniste italiane del tempo che, dopo la rottura violentissima di Tito con Stalin del 1948 e la scomunica dei russi che definirono “banda di criminali fascisti” i dirigenti iugoslavi, non hanno più (almeno fino alla riconciliazione successiva) alcuna remora ideologica o politica a denunciare ciò che accade agli italiani di Iugoslavia. E così sul numero 10 di Rinascita nell'autunno 1949 si può leggere di una “repressione antidemocratica” che ha “carattere nettamente anti-italiano” e addirittura ne l'Unità del 26 novembre 1949 di “terrore nella Zona B”. Così come Gianni Rodari, poi grande autore di fiabe bellissime, allora giornalista all'Unità in una serie di articoli dell'aprile 1950 denuncerà la “snazionalizzazione” in corso di quei territori, addirittura “pogrom contro gli italiani che nulla hanno da invidiare a quelli organizzati dai nazisti contro gli ebrei” e che hanno lo scopo di “far evacuare il maggior numero possibile degli abitanti”.

Per concludere, una tragedia che il silenzio durato oltre mezzo secolo non ha fatto che esacerbare. Un silenzio che fu, crediamo, uno dei motivi che rendevano ancora negli anni Settanta per molti italiani poco credibile la proposta riformatrice e sostanzialmente social-democratica del PCI. Un silenzio che in parte si spiega con la situazione internazionale di allora, per cui forse davvero, come qualcuno ha scritto, Togliatti non poteva realisticamente muoversi molto diversamente da come fece, ma che oggi, nel momento in cui quei fatti non sono più materia di lotta politica ma sono diventati storia, non ha più alcuna ragione di mantenersi. Anzi, crediamo fermamente che fare i conti senza paura con quel passato sia la premessa indispensabile per ridefinire la prospettiva di una sinistra credibile per l'oggi.

Savona, 16 febbraio 2019

mercoledì 13 febbraio 2019

Un'estate indimenticabile. Storia in quattro atti (e un passo indietro) della Conferenza situazionista di Cosio d'Arroscia



E' fresco di pubblicazione il volume che raccoglie i materiali dell'incontro di Cosio d'Arroscia del 28-29 luglio 2017, quarto punto della situazione. Proponiamo il nostro contributo relativo alla Conferenza di Cosio del 1957. Le foto di Pino Bertelli sono tratte dall'ampio servizio fotografico in appendice al volume.

Giorgio Amico

Un'estate indimenticabile. Storia in quattro atti (e un passo indietro) della Conferenza di Cosio d'Arroscia

Primo atto: Alba

“Quella del '57 fu veramente un'estate storica: innanzi tutto il due di giugno, Elena ed io ci sposammo, nella cattedrale d'Alba. (…) Erano presenti, come spesso avviene, amici e parenti, tra gli altri amici c'erano Jorn e Debord, che si erano comprati un vestito uguale per l'occasione: pantaloni grigi, giacca giallo chiaro-canarino, farfallino su camicia bianca, erano molto bellini, in chiesa e fuori. Ho ancora le foto per la storia”.1

Chi racconta è Piero Simondo in un piccolo libro del 2004 destinato, come recita il sottotitolo “l'infondata fondazione dell'Internazionale situazionista”, a smontare il mito di una Internazionale situazionista fondata con tanto di “Conferenza” e documenti preparatori a Cosio d'Arroscia negli ultimi giorni del luglio 1957.

Foto pubblicate in bella evidenza da Donatella Alfonso nella sua appassionata ricostruzione dei fatti (chiamiamoli così per non far torto a Simondo) di Cosio uscita in occasione del sessantesimo anniversario della nascita dell'I.S. Nel libro si parla di “un bel matrimonio, per quanto semplice” e si riportano ampi brani di un colloquio con l'artista torinese.2 E di foto storiche si tratta davvero, ché mai prima (e sicuramente mai dopo) si erano visti Asger e Guy così tirati a lucido, senza i soliti maglioni d'ordinanza per l'occasione sostituiti da farfallini da cerimonia e con corredo di sorrisini imbarazzati di circostanza. E fino a qui tutto bene, il racconto regge senza bisogno di ulteriori verifiche.


Secondo atto: Albisola

Terminato il pranzo di nozze, fatte le foto di cui sopra, archiviate le pratiche burocratiche, i due sposi si trasferiscono con gli amici per qualche giorno ad Albisola, dove Jorn ha casa e dove li raggiungeConstant Anton Nieuwenhuys, meglio conosciuto come Constant. Proprio nella cittadina ligure tra grandi bevute, pranzi in trattoria e qualche imbarazzo dovuto a storie matrimoniali pregresse fra Jorn e Constant, matura la decisione di ritrovarsi a Cosio. Per Simondo l'idea nasce quasi per caso:

«La frequentazione più assidua avveniva con Debord, partivamo, a piedi, per i cinque chilometri necessari a raggiungere il porto di Savona e il relativo luogo di sosta dove bevevamo un (e più d'uno) Australian rum, scoperto fra le bottiglie del bar portuale... Eravamo giovani e incuranti, più che insolenti, tutto ci divertiva e ci rallegrava... Fu in quei lunghi e pigri conversari che si profilò l'idea di ritrovarci verso la fine di luglio a Cosio, dove Elena e io saremmo andati per l'estate, dopo la parentesi albissolese, mentre Debord dopo un soggiorno presso la nonna a Cannes avrebbe risalito la valle Arroscia. Dovevamo trovarci a Cosio, tra i soliti amici e in vacanza, ignoro se Guy avesse già in testa un retro pensiero fondante, noi certamente no».3

E qui il dubbio che i ricordi si siano con il tempo un poco appannati sorge spontaneo, a maggior ragione dopo che nel 2010 Fayard fa uscire, a completamento dell'imponente raccolta in sette volumi della corrispondenza di Debord, un ulteriore volume, il numero «0», contenente un centinaio di «lettere ritrovate» fino ad allora sconosciute anche agli studiosi più coscienziosi. Un materiale molto interessante che aiuta a ricostruire nei particolari cosa veramente accadde in quei mesi.



Un passo indietro

Giunti a questo punto occorre, come nei romanzi d'appendice di una volta, fare un passo indietro. In una lettera a Simondo, in data 29 marzo e dunque ben prima delle giornate albisolesi, Debord presenta un quadro dettagliato della situazione parigina a partire dalla risoluzione positiva del contrasto con Jorn, quella famosa e piuttosto ambigua litigata meglio conosciuta come l'affaire de Bruxelles. Tranquillizzato l'amico sul fatto che i rapporti con Jorn sono ritornati buoni e che il contrasto è rientrato, Guy aggiunge un paio di annotazioni che rendono la lettera molto interessante:

«Successivamente ho incontrato Ralph Rumney, Yves Klein, Mariën e due altri Belgi [sic], Kotik. In generale, tutto bene. Dobbiamo avanzare insieme verso un'unità teorica rigorosa. Io credo che sia possibile. Ma è urgente».4

Ma unità su cosa? É a questo punto che Debord accenna a un documento in gestazione, lo scritto che poi, diventato il Rapporto sulla costruzione delle situazioni, vedremo rispuntare a Cosio:

«Appena possibile, ti spedirò ad Alba un manoscritto di circa quaranta pagine che rappresenta la piattaforma che noi proponiamo per la nuova organizzazione internazionale. Dovrete studiarlo, e inviarmi le vostre critiche».5


«Nuova organizzazione internazionale»: la frase è chiara e non lascia dubbi in proposito. Dunque, già dal mese di marzo Debord ha avviato a Parigi un confronto con esponenti di altri gruppi di avanguardia finalizzato alla fondazione di una nuova organizzazione internazionale. Un processo da svolgersi in tempi brevi, come evidenzia il riferimento all'urgenza. Checchè ne dica Simondo, il retro pensiero fondante dunque c'era davvero e non era nemmeno poi tanto «retro», visto che Debord già tre mesi prima ne discuteva nei dettagli con lui e un'altra mezza dozzina di artisti che pensava di poter coinvolgere nell'impresa.


Terzo atto: Bruxelles

Ai primi di giugno 1957 esce a stampa in mille esemplari il Rapport sur la construction des situations et sur les conditions de l’organisation et de l’action de la tendance situationniste internationale. La gestazione dell'opuscolo è stata lunga e travagliata, come documentato dalle lettere con cui Debord tempesta Marcel Mariën, direttore di Les Lèvres nues, che, forse un po' incautamente, si è assunto la responsabilità della pubblicazione. Il pamphlet, corredato da una squillante copertina rossa, esce a Bruxelles senza data, ma tre lettere di Debord permettono di datarlo con assoluta sicurezza intorno alla metà di giugno. L'11 giugno Guy invia a Mariën le bozze corrette insieme alle ultime raccomandazioni:

«Cercate di ottenere, ve ne prego, la stampa nel più breve tempo possibile di almeno trecento primi esemplari, di cui ho urgente bisogno (mi sarebbe molto utile anche averne una dozzina di esemplari un poco prima di questi trecento). Invece, gli altri settecento non sono così urgenti. Di solito gli stampatori amano questo genere di concessioni».6

Il 19 giugno il libro non è ancora pronto, ma Debord scrive a Pinot Gallizio preannunciandogli l'invio a breve di alcune copie del Rapporto da far circolare fra gli artisti che fanno riferimento al Laboratorio di Alba.7

Quattro giorni più tardi l'attesa ha finalmente termine. É domenica, ma Debord non aspetta il lunedì e scrive immediatamente a Simondo:

«Caro Piero, dopo molto ritardo dello stampatore belga, è solamente oggi che ho cominciato a ricevere il mio Rapporto. Te ne invio immediatamente un primo esemplare, perchè ne ho solo qualcuno: nello spazio di qualche giorno te ne spedirò un'altra dozzina».8

Dunque il Rapporto esce tra l'11 e il 23 giugno e Simondo è tra i primi a riceverlo, non si capisce dunque perchè tanti anni dopo egli insista a sostenere che il testo è uscito dopo l'incontro di Cosio:

«Il testo di G.E. Debord (…) è stato pubblicato come un opuscolo con copertina in brossura rossa e senza data d'edizione. (…) Una data è fornita da Gallizio, nella traduzione italiana e bruttina come ho detto in nota, ma si tratta di un falso costruito per creare una coerenza ed una veste di battesimo storica alla neonata IS. Tale testo è stato, in ogni caso, pubblicato dopo l'incontro estivo di Cosio – avvenuto, lo ripeto a scanso d'equivoci, a casa d'Elena e mia e su nostro invito, a partire dal 22-23 luglio».9

Forse Simondo ricorda male, sono passati tanti anni. Ci può stare. Ma ora occorre fare un altro piccolo passo avanti.


Quarto atto: Cosio d'Arroscia

A Cosio in quella fine di luglio del 1957 si ritrovano in otto, divisi in tre gruppi: c'è Ralph Rumney del Comitato psicogeografico di Londra di cui è l'unico membro; ci sono i rappresentanti del M.I.B.I., Asger Jorn, Piero Simondo, Elena Verrone, Walter Olmo e Pinot Gallizio che arriva l'ultimo giorno giusto per votare; e infine Guy Debord e Michèle Bernstein per l'Internazionale lettrista. Per Simondo ciò che accade a Cosio è tutto meno che una conferenza:

«In quella settimana non c'eravamo mai raccolti in tavola rotonda, solo in rettangolo a bere e a mangiare; soltanto l'ultimo giorno ci riunimmo per votare sul cambiamento d'etichetta, proposto da Guy. Devo riconoscere che la morte del MIBI fu inavvertita e del tutto indolore (...) e l'IS fu!»10

A differenza delle affermazioni sulla data del Rapporto, qui siamo di fronte a una mezza verità. Se cerchiamo dei riscontri, immediatamente troviamo che la versione di Ralph Rumney, l'altro degli otto partecipanti che ha lasciato una memoria scritta di quei fatti , non è poi molto diversa. Per l'inglese, che immortalò quei giorni con una serie di foto straordinarie, a Cosio la discussione ci fu davvero, ma limitata ad una cerchia ristretta di persone:

«All'interno di questo gruppo c'era un piccolo clan che faceva la sua conferenza, una conferenza nella conferenza, costituito da Debord, Michèle Bernstein, Jorn e me. Non mi ricordo di interventi di Olmo, né di Elena. Gallizio spiegava la sua pittura industriale. E Piero sembrava inquietarsi per l'idea del superamento dell'arte. Non è che ci siano stati imbrogli o azioni segrete. Semplicemente, non mi ricordo che essi siano stati molto presenti nel dibattito teorico».11 Quanto a Jorn «egli adorava tutto ciò che somigliasse a un movimento o a una conferenza... Aveva circa vent'anni più di noi ma ci lasciava parlare. Ci osservava»12. Rumney conferma che il Rapporto di Debord non fu oggetto di una discussione formale: «Non mi ricordo di sedute in cui questo testo sia stato votato all'unanimità, nella misura in cui Olmo ascoltava Vivaldi, gli altri, non so a che cosa pensassero o se l'avessero compreso».13

L'affermazione ci pare ragionevole, tenuto anche conto del fatto che, sempre secondo Simondo, almeno due dei partecipanti, Gallizio e Olmo, non parlavano francese e il testo, già di suo non facile, non era ancora stato tradotto in italiano. Non abbiamo dubbi sul fatto che l'incontro di Cosio non rassomigliasse in nulla a una conferenza, almeno nel senso che solitamente si da al termine: un incontro formale, con inviti e manifesti pubblici, relatori ufficiali ed invitati. Come era stato, tanto per fare un esempio, un anno prima il congresso di Alba. È altamente probabile che del manifesto programmatico di Debord non si sia in effetti molto discusso e che addirittura a qualcuno non importasse neppure poi tanto. La cosa non ci turba. Anzi ci piace molto perché rende perfettamente il senso giocoso di quei giorni che Donatella Alfonso ha ricostruito così bene nel suo libro. E d'altronde, a parte Gallizio e Jorn che erano di un'altra generazione, di un incontro di giovani si trattava, di una festa mobile tra Alba, Albisola e Cosio.

Il punto è un altro. Nel suo libro del 2004 Simondo dimostra a distanza di quasi cinquant'anni un coinvolgimento emotivo e un disincanto che il tono volutamente provocatorio del testo non riesce a coprire del tutto. Ed in effetti per lui dovremmo parlare di un epilogo, l'espulsione nel gennaio 1958 la prima di una lunga serie, decisa dall'alto e nemmeno comunicata agli interessati a cui si accompagnò la totale e immediata rescissione di ogni rapporto personale.

«Simondo e Olmo – ordina da Parigi Debord a Gallizio – non sono solamente degli idioti, ma delle persone ripugnanti da trattare esattamente allo stesso modo, e questo ci pare sia il caso, anche negli aspetti della vita quotidiana. Si deve togliere loro il saluto».14

Una condanna a morte simbolica che colpì Simondo, la moglie Elena e l'amico Olmo. Una brutta pagina, insomma, da cui Debord e Pinot Gallizio, che la avvallò, non escono bene.15 A volerla buttare in psicoanalisi, si può anche pensare che a Simondo, a cui era mancata la figura paterna, e che aveva vissuto in casa di Gallizio per cinque anni, il tradimento del suo mentore non fece di certo piacere. Donatella nel suo libro racconta che Simondo la prese abbastanza bene. A lui, scrive, stavano a cuore altre cose, «l'università, i suoi studi, la pittura, Elena e la nuova vita a due».16 Ci permettiamo di dubitarne. Nei ricordi di Simondo avvertiamo forte il retrogusto amaro di una ferita ancora aperta, di una storia d'amore finita male.


1. Piero Simondo, Guarda chi c'era, guarda chi c'è, Ocra Press, Genova 2004, p. 16.
2. Donatella Alfonso, Un'imprevedibile situazione, Il melangolo, Genova 2017, p. 13.
3. Piero Simondo, cit., pp. 19-20.
4. Guy Debord, Correspondance, volume «0», Fayard, Paris 2010, epub. p.97.
5. Ibidem
6. Ivi, p. 100.
7. Guy Debord, Correspondance, volume 1, Fayard, Paris 1999, p.16.
8. Guy Debord, Correspondance, volume «0», cit., p.102.
9. Piero Simondo, cit., p.53.
10. Ivi, p.23.
11. Ralph Rumney, Le consul, Allia, Paris 1999, p.43.
12. Ivi, p. 45.
13. Ivi, p. 46.
14. Guy Debord, Correspondance, volume I, cit., p. 64.
15. Anche in questa occasione Asger Jorn si mostrò il migliore. A differenza di Gallizio e nonostante l'interdetto di Debord, egli continuò a mantenere con Piero ed Elena i fraterni rapporti di prima.
16. Donatella Alfonso, cit., p.80.

(Da : Roberto Massari, Da Cosio nasce cosa..., Massari Editore, Bolsena 2019, pp. 23-32)



martedì 12 febbraio 2019

La memoria e il silenzio. Sui Martiri di Fiesole


    Il monumento ai tre carabinieri di Fiesole

Giorgio Amico

La memoria e il silenzio

Nel 2014 la RAI produsse e mise in onda il film “A testa alta” che ricostruiva la vicenda eroica dei tre giovani carabinieri di Fiesole trucidati dai nazisti il 12 agosto 1944. Protagonista era Giorgio Pasotti che interpretava la figura del loro comandante, il vicebrigadiere Giuseppe Amico.

    Giorgio Pasotti, in una scena del film

Nel 2015 Aldo Cazzullo dedicò ampio spazio a quella vicenda nel libro Possa il mio sangue servire. Uomini e donne della Resistenza in un capitolo dedicato al ruolo dei carabinieri nella guerra di Liberazione.


Il 17 febbraio a Fiesole verrà inaugurata la mostra Marcello Guasti, Giovanni Michelucci e il Monumento ai Tre Carabinieri, curata dal Professore Jonathan Nelson,  che commemora i tre giovani eroi e la scultura voluta per ricordarli, rendendo omaggio anche all’architetto che la scelse, Michelucci, e all’artista che la realizzò, Guasti, uno degli scultori fiorentini più importanti del dopoguerra, scomparso proprio in queste settimane.


Nella prima bacheca della mostra sono esposte le foto dei carabinieri e del loro comandante il vicebrigadiere Giuseppe Amico di cui viene esposta la tessera del Partito d'Azione nelle cui formazioni armate egli militò prima clandestinamente come responsabile della caserma dei carabinieri di Fiesole durante l'occupazione tedesca e poi apertamente durante la battaglia per la liberazione di Firenze.


   La tessera del Partito d'Azione

Giuseppe Amico era mio padre. In casa non parlò mai di quelle vicende, che pure furono eroiche. Alla sua morte mia madre trovò in una vecchia scatola metallica che aveva contenuto biscotti un pacchetto di foto e documenti, una parte dei quali sono ora esposti a Fiesole.

Credo che, come molti protagonisti delle tragedie della seconda guerra mondiale, mio padre si chiedesse perché proprio lui fosse sopravvissuto mentre tre suoi compagni morivano. Di loro mantenne la memoria, raccolse e custodì le foto, serbò i documenti. Lo fece in silenzio. Mai, neppure  con i suoi famigliari, usò il loro eroismo per mettere in luce se stesso.

Ciao Papà, ti sia lieve la terra.


lunedì 11 febbraio 2019

A fianco dei pastori sardi perché possano continuare a vivere sulla loro terra.



Chi è stato in Sardegna sa che i pastori sono gli ultimi custodi di una cultura antica in una terra ancora bellissima nonostante decenni di speculazione edilizia e di falsa industrializzazione. Sostenere la lotta dei pastori significa sostenere il diritto dei Sardi a continuare a vivere da Sardi sulla loro terra.

Costantino Cossu

Pastori neri come il latte

Sessanta centesimi. A un pastore danno sessanta centesimi per un litro di latte. Gli industriali caseari che lo acquistano, il latte, dicono che è il prezzo di mercato. Ma agli allevatori sardi, se è così, conviene chiudere, non ce la fanno neanche a coprire i costi vivi delle loro aziende. Che in Sardegna sono migliaia, un tessuto produttivo diffuso in tutta la regione, la spina dorsale dell’economia soprattutto nelle zone centrali, lontane dai paradisi turistici: dalla Barbagia al Marghine, dall’Ogliastra al Logudoro. Due giorni fa il tavolo della trattativa, convocato a Cagliari dalla giunta regionale per trovare un accordo tra pastori e industriali, si è concluso con un niente di fatto. E ieri la protesta è dilagata. Senza più mediazioni sindacali, spontanea, clamorosa. Tutte autobotti che trasportavano latte verso i caseifici sono state bloccate sulla statale 131, che collega Cagliari a Sassari, e migliaia di litri di prodotto sono stati versati sulla carreggiata.

Il blocco è stato messo in atto all’altezza di Abbasanta in provincia di Oristano, al km 123, prima in direzione sud e poi ripetuto, dall’altra parte del guardrail centrale, in direzione nord. La 131 è la principale arteria stradale dell’isola e il blocco ha di fatto tagliato in due l’intera regione per almeno un paio d’ore. Fermi il traffico privato e quello commerciale.

Ma la rabbia dei pastori è esplosa anche in altre zone dell’isola. Soprattutto nel Nuorese, dove la concentrazione di aziende agro-pastorali è particolarmente forte. A Orune una quarantina di pastori ha rovesciato il latte all’uscita dal paese, sulla provinciale che porta a Bitti. La tensione era molto alta. Nel mirino degli slogan gridati dagli allevatori gli industriali caseari ma anche la giunta regionale di centrosinistra, accusata di non fare sufficiente pressione per indurre gli imprenditori che acquistano il latte a concordare un prezzo più alto. Proteste anche a Macomer, un altro centro del Nuorese, dove intorno a mezzogiorno diverse decine di allevatori, al grido di «buffoni» e «bastardi» rivolto agli industriali, hanno sversato il latte in Corso Umberto, nel centro del paese.

Il blocco sulla 131 è terminato nella tarda mattinata. Migliaia di litri di latte sono stati rovesciati sulla carreggiata. Il prodotto era all’interno di cisterne dell’azienda Arborea e della Cooperativa allevatori ovini di Oristano. Le autobotti sono state completamente svuotate. Sull’asfalto sono rimasti anche diversi cartoni di latte, schiacciati poi dalle auto non appena è ripresa la normale viabilità. Da Abbasanta, poi, gli allevatori hanno improvvisato un corteo di auto lungo tutta la statale in direzione nord, per arrivare sino a Macomer e unirsi ai pastori di quella zona. E anche il web è stato usato come arma. Su Facebook e su You Tube alcuni video che documentano la protesta sono diventati virali. La sequenza di immagini è sempre la stessa: gli allevatori che aprono i rubinetti delle cisterne e lasciano scorrere a terra il latte, urlando la propria rabbia per la remunerazione del prodotto offerta dagli industriali, troppo esigua per poter rientrare con le spese. E questo nonostante la tenuta, nell’ultimo anno, del prezzo dei formaggi, che regola l’andamento del mercato del latte.

La pastorizia vive in Sardegna un momento particolarmente difficile. Il settore è in contrazione da decenni: dal 1982 al 2010 ben 6.886 aziende pastorali sono sparite, il 35% del totale. Da 19.555 si è passati a 12.669 imprese. L’emorragia si è registrata soprattutto nel ventennio che va 1990 al 2010: sono scomparsi 7.097 pastori, da 19.766 a 12.669 (trentasei per cento). E i dati dal 2010 al 2018 confermano questo trend. Con l’aggravante della crisi economica mondiale, che è arrivata in Sardegna con la tendenziale contrazione dei prezzi dei prodotti derivati dal latte (soprattutto formaggi) conseguenza della generale riduzione dei consumi dentro e fuori i confini nazionali.

I pastori hanno fatto molto per adeguare le loro imprese alle esigenze mutate. La maggior parte hanno investito, spesso indebitandosi pesantemente, in tecnologie, in progetti di razionalizzazione produttiva e in sistemi di controllo e di verifica della qualità.

Ciò che non è cambiato è il nodo del rapporto con gli industriali caseari ai quali viene venduto il latte. Con gli imprenditori il braccio di ferro dura da sempre. Si è provato, nelle scorse settimane, a trattare, ma quando sul tavolo è stato messo quel prezzo, quei sessanta centesimi ritenuti dagli allevatori quasi un insulto, tutto è saltato. E la protesta ora dilaga.

Il manifesto – 9 febbraio 2019

venerdì 8 febbraio 2019

La Rafanhauda. La lavorazione dei cereali a Chiomonte



E' disponibile un nuovo numero de La Rafanhauda, pubblicazione de l'Associacion Renaissença Occitana di Chiomonte.

Come sempre la rivista, che compie otto anni di vita, è costruita attorno ad un tema centrale che per questo numero riguarda il metodo tradizionale di lavorazione dei cereali a Chaumont e alle Ramats (due frazioni a oltre 1000 metri di altezza).

Uno studio molto dettagliato di tutta quella parte del ciclo della lavorazione dei cereali che dalla mietitura porta alla loro preparazione per il consumo, esclusa la macinazione che, assieme ad una ricerca sui mulini e sui frantoi, sarà parte di un altro lavoro in via di elaborazione.

In particolare viene ricostruita la lavorazione tradizionale dei cereali, così come veniva svolta nell'Ottocento prima che l'introduzione di macchinari più avanzati (trebbiatrice a motore, macchine da battere) la rendesse antieconomica e obsoleta. Una lavorazione che ha resistito fino agli anni Cinquanta del secolo scorso.

Come è abitudine dei redattori di La Rafanhauda (in questo caso Valerio Coletto, Alessandro Strano e Tiziano Strano) il saggio va oltre i meri aspetti tecnici e si allarga in campo linguistico ed etnografico ridisegnando il quadro complessivo di una comunità che attorno a quei lavori stagionali, che la impegnavano quasi per intero, rinnovava i suoi legami e la propria identità.

Completano il numero la presentazione ed il commento di due Atti notarili dalle Ramats del Seicento e un impegnativo saggio di Alessandro Strano su di una variante letteraria dell'occitano-alpino di Chaumont.

La rivista può essere richiesta al seguente indirizzo:
larafanhauda@gmail.com


sabato 2 febbraio 2019

1957. Golpe a San Marino. Come la CIA rovesciò il governo comunista




1957. La CIA rovescia con un minigolpe il governo neoeletto di San Marino. Gli americani non potevano accettare un governo comunista (per quanto in miniatura) in Italia. Dagli USA furono spediti in Italia migliaia di immigrati sanmarinesi perchè votassero per la DC. Le foto dei rivoltosi e degli operai armati. Una storia completamente rimossa.

Daniele Combierati

Titano rosso, il colpo di stato dimenticato

Nel Queens di New York il quartiere di Astoria è ormai di moda da anni. Qui piccoli commerci proliferano senza sosta, le case ancora relativamente basse sembrano dare le spalle alla downtown di Manhattan, giovani hipster già stanchi di Brooklyn cercano nuovi luoghi da gentrificare in fretta. Quando l’ho attraversato, più di due anni fa, mi avevano colpito i muri giallastri delle case, i bar mediorientali con i narghilé in bella vista e soprattutto la sede dell’Associazione. Incuneata fra un locale dove fanno cus cus a tutte le ore e una specie di discoteca balcanica, la Fratellanza Sanmarinese sembra abbandonata. Una targa dorata accoglie i visitatori («Fratellanza Sanmarinese» c’è appunto scritto), ma nessuno mi sa dire che orari abbia e quando apra. Su internet i pochi segni di vita del luogo risalgono a diversi anni prima.

«È un club», mi dice un ragazzo che lavora al bar balcanico accanto, mentre una signora che entra nella porta dello stesso palazzo sostiene che ci vadano a volte gli anziani per ballare «il tango o quelle cose lì, delle musiche così». Ho provato per tre giorni di seguito, finché finalmente una signora mi ha aperto. «Sto scrivendo un libro su San Marino», le ho detto subito. «Sul colpo di stato del 1957, sui fatti della Rovereta. Ma non è un libro di storia, è un romanzo. Che però prende spunto da fatti reali. Colpo di stato nella San Marino rossa, si intitolerà. Volevo sapere se avevate ancora archivi, giornali dell’epoca, fotografie. E se potevo dargli un’occhiata».


La signora sembra non capire. Poi mi dice che è una storia vecchia, che non la ricorda più nessuno ormai (non la ricorda lei, in ogni caso) e che comunque la Fratellanza era stata fondata prima, ed era attiva fin dal 1954. Nel 1955, aggiunge, molti compatrioti tornarono in Repubblica. Per le elezioni.

Le elezioni del 1955 sono particolarmente accese a San Marino e portano già i segni del golpe del 1957. La giunta comunista-socialista stavolta sembra poter ambire alla maggioranza assoluta, così la DC si mobilita, mandando a San Marino pezzi grossi come Amintore Fanfani a fare campagna elettorale. Siamo in piena Guerra fredda, persino i servizi segreti del Sifar iniziano a controllare i futuri governanti, mentre da oltreoceano si mobilitano il Dipartimento di Stato Americano e la Cia, che come vedremo avranno un ruolo decisivo in questa vicenda. Le elezioni sono alle porte, ma la cosiddetta Repubblica del Titano ha non poche contraddizioni al suo interno: c’è già la legge sul divorzio, per esempio, ma le donne ancora non possono votare. A favore del suffragio universale femminile si schiera la democristiana Myriam Michelotti, ma Pcs e Pss sono contrari, convinti, come scrive Claudio Visani nel bel libro Gli intrighi di una Repubblica, che le donne sanmarinesi «non sono ancora mature politicamente e verrebbero perciò condizionate dalla Chiesa a favore della Dc».


È qui che entrano in gioco gli emigranti. Comunisti e socialisti mobilitano i sanmarinesi andati a spaccarsi schiena e polmoni nelle miniere belghe e francesi per tornare a votare, ma i democristiani pensano in grande. La Michelotti ha un fratello emigrato a New York che un giorno riceve la visita di due poliziotti in borghese. Sono del Fbi. Vogliono sapere i nomi degli emigranti sanmarinesi simpatizzanti comunisti, ma lui si rifiuta di darglieli, perché l’amore patrio vale più delle differenti posizioni politiche. All’interno della Fratellanza di New York però ci sono giochi di potere in cui, da oltreoceano, si cercano di decidere le sorti del piccolo stato, fra infiltrati, delatori e resistenti.

Dall’America organizzano un avventuroso viaggio verso la Repubblica: duecento sanmarinesi con volo di andata pagato dagli Stati Uniti raggiungono il Titano accolti da una festante delegazione democristiana proprio il giorno prima delle elezioni, per respingere in massa l’assalto a quello che potrebbe diventare lo stato più comunista d’occidente, come aveva scritto anche il Detroit News dell’epoca.

Gli USA li hanno lasciati partire anche senza i documenti in regola e persino senza aver regolato i conti con il fisco. Sono troppo importanti per la vittoria. Ma perdono lo stesso. Dal 1959, per evitare scherzi del genere, si potrà votare per corrispondenza solo da oltreoceano, per bloccare il voto operaio «europeo». La giunta comunista-socialista ha la maggioranza, gli accordi internazionali sono da riscrivere e una nuova era sembra aprirsi per la Repubblica. Agli emigranti della Fratellanza partiti per votare, invece, gli Stati Uniti si rifiutano di pagare il viaggio di ritorno. La maggior parte di loro dovrà rimanere un mese intero prima di trovare i soldi per tornare. Il timore degli Stati Uniti è che l’alleanza fra comunisti e socialisti faccia da apripista per altre coalizioni simili nell’Europa occidentale.


Il Titano è un piccolo laboratorio politico che potrebbe rivelarsi decisivo per le sorti della Guerra fredda, ma è proprio la Storia esterna a entrare prepotentemente in gioco. Kruscev nel 1956 svela i crimini di Stalin e le azioni dell’Urss in Polonia e soprattutto in Ungheria spingono i socialisti sanmarinesi ad abbandonare la coalizione. Il Pcs rimane il primo partito, ma ora ha esattamente la metà dei seggi: 30 contro 30, governare in queste condizioni, e con le pressioni straniere sempre più forti, diventa difficile. Per democristiani e americani però non è ancora abbastanza: vogliono la capitolazione totale, San Marino è un altro di quei conflitti (insieme alla Corea e al Vietnam) che devono essere vinti, anche simbolicamente. 

Così convincono Attilio Giannini, eletto con i voti dei comunisti, a passare con la Dc. Si dice, con la promessa di un lavoro, una casa e ben tre fucili da caccia. A questo punto l’opposizione ha la maggioranza, 31 seggi contro 29 e il governo popolare democraticamente eletto nel 1955 indice nuove elezioni. Ma l’opposizione non si ferma: si autoproclama governo provvisorio e mentre i comunisti chiudono il palazzo del governo, gli anticomunisti occupano la fabbrica della Rovereta, che diventa così la sede del nuovo governo, un governo che nessun cittadino ha mai votato.

La strategia politica per rovesciare la giunta socialista-comunista era stata studiata e concepita all’ambasciata americana di Firenze: l’Italia infatti riconosce subito il nuovo governo fantasma e in Repubblica si respira un’aria pesantissima. Il governo democristiano italiano manda carabinieri e blindati ad assediare la città, i comunisti resistono due settimane e la guerra civile sembra davvero ad un passo. Anche a livello internazionale la tensione non accenna a sgonfiarsi: solo l’anno prima, nel 1956, il New York Times aveva titolato a tutta pagina, dopo il rifiuto dell’apertura della nuova ambasciata a New York, La rossa San Marino nella rete sovietica; il segretario del Partito Comunista locale, Gasperoni, racconta invece di aver assistito durante un incontro internazionale all’appello accorato di Ho Chi Minh, che denunciava il complotto imperialista e chiedeva aiuti internazionali per i compagni sanmarinesi assediati.



A inizio ottobre, con la garanzia dell’impunità, i comunisti depongono le armi, dopo che nei giorni precedenti compagni armati dall’Emilia Romagna avevano tentato di raggiungere il Titano. Giancarlo Pajetta, allora responsabile della stampa del Pci, grida al golpe con parole molto dure, nelle quali accusa direttamente Foster Dulles, allora segretario di stato degli Usa. L’impunità tra l’altro si rivela una presa in giro: dopo il primo processo politico della storia sanmarinese, 27 consiglieri vengono condannati a 238 anni di prigione in totale e due capitani reggenti a 15 anni ciascuno. Egidio Belisardi, un militante che nel 1957 pubblicherà un toccante diario dal titolo Anni rossi, parla della possibilità svanita di fare di San Marino «il piccolo modello della più grande aspirazione».

Oggi nella sede americana della Fratellanza Sanmarinese non c’è quasi più traccia di questa storia. La signora mi mostra solo alcune fotografie familiari.

Prima di andarmene la aiuto a pulire, perché non sa quando il locale riaprirà. È una specie di club, mi conferma, dove ogni tanto gli anziani vanno a ballare, ma che può anche essere affittato. Pochi giorni dopo, alla National Library, trovo il comunicato finale del Pcs, in cui il governo popolare dichiarava la sconfitta e ammetteva di «cedere alla sopraffazione e di cessare ogni resistenza, facendo offerta di questo sacrificio al bene supremo della Patria». Era l’11 ottobre 1957.

il Manifesto – 15 gennaio 2019