martedì 31 dicembre 2019

Jorge Luis Borges, Fine d’anno


Jorge Luis Borges
Fine d’anno

Né la minuzia simbolica
di sostituire un tre con un due
né quella metafora inutile
che convoca un attimo che muore e un altro che sorge
né il compimento di un processo astronomico
sconcertano e scavano
l’altopiano di questa notte
e ci obbligano ad attendere
i dodici e irreparabili rintocchi.
La causa vera
è il sospetto generale e confuso
dell’enigma del Tempo;
è lo stupore davanti al miracolo
che malgrado gli infiniti azzardi,
che malgrado siamo
le gocce del fiume di Eraclito,
perduri qualcosa in noi:
immobile.


domenica 29 dicembre 2019

"Paradiso e Inferno". La Siena di Ambrogio Lorenzetti




Giorgio Amico

A proposito di "Paradiso vista Inferno" di Chiara Frugoni


Nel Medioevo non esiste l'arte per l'arte. Tutto deve essere finalizzato ad esaltare il potere, quello della Chiesa in particolare, ma anche il potere politico. Un esempio da manuale è rappresentato dagli affreschi realizzati nel 1338-1339 da Ambrogio Lorenzetti nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena, a cui la storica medievalista Chiara Frugoni dedica un saggio di grande spessore analitico arricchito da un imponente apparato fotografico.

Sono anni di discordie e di lotte: la città è divisa fra le famiglie dei Salimbene e dei Tolomei. Il potere cittadino vacilla. Anche la situazione economica è critica, le campagne fanno fatica ad alimentare la città, gli affari non sono più prosperi come nel passato, crescono debiti e usura.

Il Governo dei Nove, che regge la città, fa redigere dei  "nuovi statuti del Buon Governo”, sperando di frenare con una riforma politica la crisi che è prima di tutto di un modello economico-sociale in via di esaurimento.
Ma per avere successo la riforma deve coinvolgere i cittadini a partire proprio dalle "classi minute" quelle che più duramente pagano gli effetti della crisi. Come nelle chiese gli affreschi, la Biblia pauperum, possono servire.
 «La pittura commuove più che la scrittura. In effetti, attraverso la pittura l’evento è posto dinanzi agli occhi come se fosse visto accadere…» aveva scritto a questo proposito quarant'anni prima il vescovo Guglielmo Durante.

L’Allegoria del Buon Governo che riempie la parete nord della Sala della Pace, serve proprio a quello. Mostrare i vantaggi della pace sociale dovuta alla corretta amministrazione della città da parte dei "Nove".
Come negli affreschi religiosi alle delizie del Paradiso devono contrapporsi le pene crudeli dell'Inferno, a insegnamento e monito. 
E allora sulla parete di fronte un'altra serie di affreschi evidenzia i guasti della Tirannide. campi spogli, discordia, guerra, miseria, fame.

Siena è descritta con estremo realismo, il popolo deve riconoscersi nelle scene affrescate, deve ritrovare chiese, palazzi, persino le proprie case. Le immagini devono trasmettere il senso di appartenenza ad una comunità coesa al di là delle differenze sociali. 

"Nel Medioevo il diritto ad essere rappresentati spettava abitualmente a protagonisti della storia della Chiesa oppure a laici di primo piano di cui conosciamo il nome e i fatti. La grande novità degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti è che i rappresentati sono invece tutti anonimi, persone comuni che svolgono occupazioni comuni. Proprio uomini e donne senza storia per la prima volta sono i protagonisti ai quali è affidato il compito di illustrare la ridente vita assicurata dall’ottimo governo dei Nove, l’unico possibile. «Ridente»? Sappiamo, leggendo fonti, cronache, petizioni, trattati e poesie, che la realtà del tempo era ben diversa da quella affrescata: carestie, rivolte, violenza urbana, corruzione."  

La popolazione va "rassicurata e sedata". Nessuno deve sentirsi escluso. Tutti devono vedere come grazie alla concordia regnante in città,  gli affari prosperino, la miseria sia bandita, la vita si presenti nei suoi aspetti più lieti come evidenzia il particolare delle fanciulle che ballano e cantano spensierate. E tutto questo grazie al governo, illuminato e paterno, del Governo dei Nove e della sua riforma politica. 

Minuziosamente Chiara Frugoni esamina ogni particolare delle pareti dipinte, commentandone immagini e significati è dimostrando come più che di un'allegoria del buon governo, siamo di fronte ad un uso spregiudicato dell'arte ai fini del consolidamento del potere e dei rapporti sociali esistenti che nulla ha da invidiare alle nostre moderne tecniche di comunicazione di massa.
Un libro da leggere.


Chiara Frugoni
Paradiso vista Inferno
il Mulino, 2019

domenica 22 dicembre 2019

Storia di Azione Comunista





La prima storia dettagliata del Movimento della Sinistra Comunista e del suo giornale "Azione Comunista". Il libro sarà disponibile nelle librerie di tutta Italia dal mese di gennaio, ma già da ora può essere richiesto all'Editore erre.emme@enjoy.it

Qui di seguito l'indice del volume.


INDICE

Introduzione di Paolo Casciola

Perché una storia di Azione Comunista?

Parte prima (1954-1959)
Nel segno di Seniga fra guerra fredda e crisi dello stalinismo

Capitolo 1
1954. Il caso Seniga

Il 1953. Un anno di svolta - Un compagno sopra le righe - Via con armi e bagagli - Caro compagno Secchia - Per un pugno di dollari - I viaggi in Svizzera e in Francia - I contatti con l'Ufficio affari riservati - Giorgio Galli, il factotum - La riscoperta del bordighismo

Capitolo 2
1955. Le “lettere ai compagni del Pci”

La prima lettera ai compagni del Pci - La solidarietà dei trotskisti e dei comunisti libertari - Echi francesi - Primi passi del movimento - Seniga? Un bravo compagno - La terza lettera di Azione Comunista - Il tentativo fallito di Azione Sindacale - Il caso Marty- L'adesione di Bruno Fortichiari.

Capitolo 3
1956. Un anno “terribile”

Democrazia comunista - La proposta dei Gcr per un giornale comune - La Quinta Lettera del Gruppo d'azione comunista - L'incontro con i Gaap - L'ufficio “segreto” di Milano - Le elezioni amministrative del 1956 - Azione Comunista, un giornale per la base del Pci - Il caso Bussalai e Azione Comunista sarda - Le reazioni del Pci - L'accordo “riservato” con i Gaap - La svolta di Seniga - La sinistra rivoluzionaria e l'Ungheria - L'VIII Congresso del Pci - Per una riorganizzazione su basi nuove del movimento proletario - La manifestazione “unitaria” al Cinema Dante di Milano

Capitolo 4
1957. Nasce il Movimento della Sinistra Comnnista

Verso l'unità della sinistra rivoluzionaria - La pregiudiziale anti trotskista - Il Convegno sindacale di Torino - La fine del Comitato d'azione della sinistra comunista - La nascita del Movimento della sinistra comunista - La battaglia contro il massimalismo “garibaldino” di Seniga - La polemica Masini-Cervetto sulla tattica elettorale - La discussione preparatoria del Convegno di Livorno - Il Convegno di Livorno e le Tesi sullo sviluppo imperialistico.

Capitolo 5
1958. Tentazioni socialiste

Stagnazione o neocapitalismo? - La collaborazione di Danilo Montaldi - Il Bollettino interno - Le elezioni politiche del 1958 - La crisi irreversibile del gruppo dirigente del Msc Il Convegno internazionale di Milano – La secessione del Comitato regionale ligure L'espulsione di Masini.

Parte Seconda (1959-1965)
Nel segno di Cervetto e del “partito strategia”

Capitolo 6
1959. Ripartire da capo

Un nuovo “caso Seniga” - Un nuovo inizio - Il rientro dei liguri e la seconda fase di Azione Comunista - Grandizo Munis e Raya Dunayevskaja - Il tentativo fallito di unificazione con Battaglia comunista.

Capitolo 7
1960. La classe operaia torna in piazza

II giornale: foglio di agitazione o rivista teorica? - La questione cinese - La rivolta antifascista del luglio '60 - Una proposta a Amadeo Bordiga - Modernizzazione del lavoro e nuovo conflitto sociale

Capitolo 8
1961-1962. Gli anni dell'apertura a sinistra

La Piattaforma programmatica della Sinistra comunista - Operaismo e leninismo. Il confronto con i Quaderni Rossi - Contare sulle proprie forze - Il Secondo Convegno Nazionale del Movimento della sinistra comunista - Opposizione rivoluzionaria al centrosinistra.

Capitolo 9
1963- 1965. La Cina è vicina

Il dissenso cino-sovietico e la nascita del movimento m-l in Italia- Tentazioni filo-cinesi - Il Terzo Convegno Nazionale del Movimento della sinistra comunista - Il periodo “genovese” - La scissione.

giovedì 19 dicembre 2019

Azione Comunista. Da Seniga a Cervetto (1954-1966)




Azione Comunista. Da Seniga a Cervetto (1954-1966)

Nel luglio 1954 Giulio Seniga, il più stretto collaboratore di Pietro Secchia, responsabile dell'apparato "parallelo" del PCI, scompare con documenti riservati e una enorme somma di denaro, pari a svariati milioni di euro attuali, frutto dei finanziamenti sovietici. Con quel denaro, depositato in una banca svizzera, Seniga finanzierà il giornale "Azione comunista" e poi l'omonimo movimento politico.
Il tutto viene giustificato come un atto mirante a riportare sulla retta via rivoluzionaria un partito che, sotto la guida di Togliatti, è ormai avviato sulla via del riformismo e del compromesso con il sistema. Ma se è davvero così, perché Seniga allaccia rapporti con Umberto D'amato, futuro responsabile dell'Ufficio affari Riservati del Ministero dell'Interno, l'uomo incaricato della lotta "coperta" al Partito comunista che ritroveremo poi come uno dei principali protagonisti della strategia della tensione e della stagione delle stragi?
Ma, al di là delle contraddizioni di Seniga e degli inizi del movimento, Azione Comunista rappresenta anche il primo serio tentativo nell'Italia del dopoguerra di costruire una forza politica a sinistra del PCI riunificando l'area frammentata della dissidenza comunista. Tentativo a cui partecipano trotskisti, internazionalisti di derivazione bordighista e comunisti libertari e di cui sono protagonisti esponenti di primo piano della sinistra rivoluzionaria come Onorato Damen, Livio Maitan, Bruno Fortichiari, Pier Carlo Masini e un giovanissimo Arrigo Cervetto che, a partire dall'inizio del 1959, assumerà sempre più un ruolo centrale nella tormentata vicenda del Movimento della Sinistra Comunista.
Il sorgere nei primi anni '60 con la rottura fra Cina e URSS dei primi gruppi maoisti condurrà alla crisi irreversibile del Movimento e alla scissione fra la componente leninista di Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi e coloro che intendono far confluire Azione comunista nell'area filocinese. Da questa scissione nascerà il gruppo (e il giornale) Lotta comunista.
Una storia di grande interesse, ma quasi sconosciuta su cui finora esisteva solo un breve saggio di Arturo Peregalli, apparso nell'ormai lontano 1980 sulla rivista Classe.
Un vuoto colmato ora dal volume "Azione comunista. Da Seniga a Cervetto (1954-1966)" che ricostruisce minuziosamente quella storia a partire dalla figura non priva di ambiguità di Giulio Seniga, di un giovane Giorgio Galli (che per molti rappresenterà una sorpresa) poi affermato politologo, ma soprattutto del savonese Arrigo Cervetto e del progressivo delinearsi della sua concezione del partito-strategia poi concretizzatasi nell'attuale Lotta comunista.
Il volume di 350 pagine sarà nelle librerie a partire dal mese di gennaio, ma già oggi è disponibile presso l'editore o direttamente (per chi viva nella zona di Savona) presso l'autore.

Giorgio Amico
Azione comunista
Da Seniga a Cervetto (1954-1966)
Massari Editore
Euro 20

mercoledì 18 dicembre 2019

Mattarella, la strage di Piazza Fontana e la strategia della tensione: "Il caso Annarumma"


in occasione dell'anniversario della strage di Piazza Fontana il presidente Mattarella si è sentito in dovere di accomunare alle vittime dell'attentato fascista anche la morte dell'agente Annarumma. Riprendendo nella sostanza il vergognoso comunicato dell'allora presidente della Repubblica Saragat (da più parti indicato come uno degli ispiratori politici della strategia della tensione) che, senza alcun riscontro, parlò immediatamente di "barbaro assassinio", Mattarella ha di nuovo parlato di "uccisione", a voler chiaramente suggerire, secondo la vecchia tesi democristiana degli opposti estremisti, che il terrorismo nero era stato comunque accompagnato dall'azione violenta della sinistra. Un libro, appena pubblicato e di cui riportiamo la bella recensione di Saverio Ferrari apparsa sul Manifesto, ricostruisce ciò che davvero accadde in quella tragica giornata e ciò che ne seguì. La morte del giovane agente resta dunque uno dei tanti misteri irrisolti di quegli anni. Dunque, parlare di "uccisione" è del tutto arbitrario, E, anche se ci piacerebbe pensarlo, non di una svista si è trattato. Nel suo discorso, pur parlando di "strategia della tensione", il presidente ha accuratamente omesso ogni anche minimo accenno al ruolo svolto da apparati dello Stato, dai Servizi segreti all'Ufficio affari Riservati del Ministero degli Interni. Intervento comprovato fin nei minimi dettagli da decine di pubblicazioni oltre che dagli atti delle inchieste giudiziarie e della stessa Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi. Il discorso di Mattarella rappresenta l'ennesima dimostrazione dell'incapacità da parte delle Istituzioni e dei vertici dello Stato di fare realmente i conti con la storia di quegli anni tragici. Insomma, che quella di Piazza Fontana sia stata una "strage di Stato", resta ancora un tabù.Ma noi, che di quei fatti fummo testimoni, lo sappiamo e non lo dimentichiamo. 


Saverio Ferrari

Strategia della tensione in una storia mai narrata


Quando si tenne a Roma, il 29 novembre 1969, la manifestazione nazionale dei metalmeccanici comparve un cartello: «Saragat, operai 171, poliziotti 1». Si ricordava polemicamente in questo modo al Presidente della Repubblica la lunga lista dei lavoratori uccisi dal 1947 in scontri con le forze dell’ordine.

Il poliziotto menzionato era invece morto solo pochi giorni prima, il 19 novembre a Milano, nel corso degli incidenti scoppiati durante lo sciopero generale per la casa indetto da Cgil-Cisl e Uil, la prima manifestazione unitaria dal 1948, cui aderì quasi il 95% dei lavoratori italiani. Si chiamava Antonio Annarumma di soli 22 anni, originario di Monteforte Irpino, una delle aree più povere d’Italia. Di «azione criminosa di un dimostrante» parlò il ministro dell’Interno Franco Restivo, mentre il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, in un telegramma divenuto famoso, sentenziò che si era trattato di un «barbaro assassinio». Da qui il cartello.

La ricostruzione di quella tragica vicenda, a distanza di cinquant’anni, la dobbiamo ora al libro del giornalista Cesare Vanzella, già direttore di «Polizia e Democrazia», Il caso Annarumma. La rivolta delle caserme e l’inizio della strategia della tensione (Castelvecchi, pp.160, euro 17.50), intenzionato a superare narrazioni precedenti e verità ufficiali basandosi scrupolosamente sull’analisi dei fatti, gli atti giudiziari disponibili e il recupero fondamentale di inedite testimonianze.

IN QUEL NOVEMBRE si era in pieno «autunno caldo». I lavoratori rivendicavano assieme miglioramenti complessivi, una maggior democrazia nei luoghi di lavoro e contare di più nella vita di fabbrica e nel Paese. La richiesta di riforme andava dalle pensioni, da agganciare ai salari, alla riforma sanitaria incentrata sulla prevenzione, alla casa, da cui lo sciopero generale del 19 novembre.
A fronte di queste grandi lotte di massa i fascisti, veri e propri manovali del padronato più retrivo, si scatenarono in aggressioni e violenze. In quel 1969 si conteranno alla fine ben 145 attentati, quasi tutti di riconosciuta marca fascista. La «strategia della tensione» andava prendendo corpo.
Giorgio Benvenuto, all’epoca segretario della Uilm, in una delle due introduzioni al libro (l’altra è di Mario Capanna), ricorda ancora con angoscia quando fu convocato subito dopo il 19 novembre, insieme ai segretari di Fiom e Fim, dal ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin. «Siamo alla vigilia dell’ora X» – disse loro – «Il golpe è alle porte, bisogna mettere un coperchio sulla pentola che bolle».
Si riferiva quanto accaduto nell’aprile del 1967 in Grecia con la presa del potere da parte dei colonnelli e alla necessità di firmare immediatamente il contratto dei metalmeccanici. La strage di piazza Fontana arriverà il 12 dicembre successivo.

Già a partire dal pomeriggio del 19 novembre scoppiò letteralmente una rivolta in due caserme di Milano, dove centinaia di agenti tentarono di varcare i cancelli per farsi «giustizia» da soli. Dovettero schierarsi alcuni reparti di carabinieri per impedirlo. La morte di Annarumma aveva fatto da innesco a un malumore profondo e diffuso dovuto ai turni massacranti, a una disciplina ferrea, nonché a condizioni di vita davvero misere in alloggi scadenti, con vitto mediocre e paghe bassissime. Annarumma percepiva una retribuzione netta di 82.630 lire mensili. La repressione fu durissima con trasferimenti punitivi e allontanamenti dal corpo. Da qui comunque si svoltò, almeno sul piano di alcune iniziative di natura economica per le forze di polizia. La smilitarizzazione e il sindacato di polizia arriveranno solo molto dopo, nel 1981.

I FUNERALI di Antonio Annarumma si svolsero venerdì 21 novembre. Una gran folla, stimata in cinquantamila persone, si radunò nel centro di Milano. I fascisti colsero l’occasione per riprendersi la piazza. A centinaia, organizzati in squadre, scatenarono la caccia ai «rossi», magari individuati solo per l’abbigliamento o i capelli lunghi. A farne le spese furono in diversi, ma soprattutto Mario Capanna, il leader del Movimento studentesco che si era recato alle esequie. Rischiò il linciaggio. Venne salvato a stento da alcuni funzionari di polizia che in compenso lo ammanettarono.
Per la morte di Annarumma non fu mai individuato chi avrebbe colpito con una sbarra il poliziotto alla guida del gippone. Tredici furono invece gli imputati per i disordini. Otto di loro furono assolti e cinque ebbero pene minime. Chi era accanto ad Annarumma testimoniò di non ricordare nulla. Fu il festival delle amnesie. Il professor Vittorio Staudacher, primario del Policlinico, mise in dubbio che l’agente fosse stato colpito da una sbarra. L’autore di un filmato amatoriale dichiarò di aver «ripresi due gipponi che si scontravano e un agente che moriva».

La conclusione di Cesare Vanzella è amara: nessuno ha mai cercato «una verità accettabile», tanto meno la polizia. «La sensazione» è che «Annarumma debba restare ancora, e forse per sempre, una storia da non raccontare».

il manifesto, 19 novembre 2019

domenica 15 dicembre 2019

La leggenda di Hiram



Giorgio Amico

La leggenda di Hiram


La leggenda di Hiram è centrale nella simbologia e nella ritualità massonica. La figura di Hiram, capo architetto agli ordini di Salomone nei lavori di costruzione del Tempio di Gerusalemme, la sua uccisione a opera di tre operai infedeli, il processo di morte-rinascita che ne consegue danno vigore e sostanza iniziatica al Terzo Grado e insieme pongono le premesse dei gradi di perfezione almeno per quanto attiene al Rito Scozzese Antico e Accettato.

Verrebbe dunque da pensare che tutto sia chiaro in materia e che non ci sia nulla da ricercare su Maestro Hiram e la sua storia. E quello che, con grande disinvoltura, ha fatto la maggior parte dei commentatori di cose massoniche, i quali hanno scritto, senza procedere a nessuna verifica, di leggenda medievale risalente alle corporazioni degli scalpellini. Ma è davvero così?

Hiram e Dan Brown

Qualcuno è andato anche oltre e ha imbastito sulle spalle del povero Hiram storiacce alla Dan Brown. E' il caso del fanta-archeologo italiano Flavio Barbiero che usa il racconto della morte di Hiram per riscrivere la storia della Massoneria, secondo lui copertura nei secoli dell'azione nella diaspora della famiglia sacerdotale di Gerusalemme entrata in clandestinità dopo la distruzione del Tempio:

La Bibbia – scrive Barbiero - racconta la storia del popolo ebraico. I rituali massonici si riferiscono a tutt'altra storia. Essi riportano soltanto avvenimenti che avevano rilevanza per la famiglia sacerdotale di Gerusalemme e la cui descrizione in nessun modo poteva essere ricavata dalla Bibbia stessa. Si tratta di episodi che si inseriscono in maniera appropriata nella storia biblica e che spesso vi sono citati espressamente, ma nei rituali sono narrati con una quantità di informazioni che non sono presenti nella Bibbia e soprattutto con un'ottica strettamente unilaterale, interna alla famiglia sacerdotale [di Gerusalemme](...) Questa convinzione è rafforzata dal fatto che ci sono molti paralleli tra le tradizioni massoniche e i testi apocrifi del Vecchio Testamento, libri di autori ignoti, ma certamente appartenenti alla classe sacerdotale della Gerusalemme dal terzo al primo secolo a.c.”.

Altri (è il caso degli inglesi Christopher Knight e Robert Lomas e del loro La chiave di Hiram) si spingono ancora più avanti sul sentiero delle affabulazioni fantastiche, rintracciando nella leggenda di Hiram la manifestazione di uno stesso simbolismo esoterico che, partito dai Faraoni e ripreso poi da un Gesù segreto e sconosciuto (perché rifiutato e tradito dalla Chiesa di Paolo), arriva ai Templari e poi nel Rinascimento a logge segrete di massoni scozzesi per riaffiorare di nuovo alla superficie nel 1717, al momento della costituzione della Gran Loggia d'Inghilterra che ne tramanderebbe il ricordo nelle sue Costituzioni e nei suoi riti, ma non ne comprenderebbe più l'autentico significato.

Fantasie che hanno prosperato sul fatto (questo si storicamente documentato e dunque incontrovertibile) che sulla genesi della leggenda di Hiram a tutt'oggi si conosce tanto poco da far scrivere a uno studioso del calibro di Umberto Gorel Porciatti come, nonostante le “appassionate ricerche da parte di storici perspicaci ed assai ben documentati” la genesi della leggenda di Hiram fosse ancora avvolta “nel più impenetrabile mistero”.

In termini non dissimili, ma con una punta di umorismo british in più, un esponente dell'autorevole Loggia di ricerca inglese Ars Quatuor Coronatorum No. 2076, tirando le somme sullo stato dell'arte, scriveva nel 1961:

Forse noi abbiamo ricercato la cosa sbagliata nella direzione sbagliata e con metodi sbagliati, come nella ben nota analogia del cieco che cerca in una stanza buia un gatto nero che neppure c'è”.

Ed in effetti i risultati della ricerca storica (quasi esclusivamente svoltasi in ambito anglosassone) dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio che la Leggenda di Hiram nelle forme attualmente conosciute e tramandate dalla Libera Muratoria non è anteriore al XVIII secolo.

Cerchiamo di fare il punto della situazione a partire dalle origini. E dunque partiamo dalla Bibbia.

Hiram e la Bibbia

Il nome Hiram appare nella Bibbia in alcuni passi del Primo libro dei re e del Secondo libro delle Cronache. Vediamo i passi solo per la parte che ci interessa, considerato che sono piuttosto estesi e si dilungano in dettagli ininfluenti per il tipo di argomentazione che stiamo sviluppando:

Hiram, re di Tiro, inviò i suoi servi presso Salomone, poiché aveva udito che questi era stato uno re al posto di suo padre e Hiram era sempre stato amico di Davide” (1 Re, 5,15)

Così inizia il racconto del libro dei re. Continua poi spiegando come Salomone chieda a Hiram di aiutarlo nella costruzione del Tempio inviandogli operai e materiali. Segue una lunga descrizione dello svolgimento dei lavori. Infine, la Bibbia narra dell'arrivo a Gerusalemme di Hiram

Il re Salomone mandò a prendere Hiram di Tiro. Questi era figlio di una vedova della tribù di Neftali, però suo padre era di Tiro e lavorava il bronzo. Egli era dotato di abilità, d'intelligenza e di perizia nell'eseguire qualsiasi lavoro in bronzo. Venuto presso il re Salomone, eseguì tutti i suoi lavori”. (1 Re 7, 13-14)

Il passo si conclude con la descrizione minuziosa dei lavori svolti da Hiram il quale evidentemente, anche se il testo non lo dice esplicitamente, è un altro personaggio rispetto al re di Tiro. Questo secondo Hiram è un abilissimo artigiano, specializzato nella lavorazione del bronzo e il suo compito è dedicarsi in particolare alle opere di rifinitura degli interni.

Più chiaro il Secondo libro delle cronache, che riprende con maggiore precisione quanto già narrato dal libro dei re. Anche qui si inizia con il racconto dell'accordo fra i due re, Salomone e Hiram, per procedere alla costruzione del Tempio di Gerusalemme.

Salomone mandò a dire a Hiram, re di Tiro: «Come hai fatto con Davide, mio padre, inviandogli cedri per costruirsi una casa in cui abitare, così agisci anche con me». (2 Cronache 2,2)

Re Hiram risponde sollecitamente alle richieste di aiuto di Salomone e gli promette l'invio di un abilissimo artigiano, Hiram-Abi:

Ora ti mando un uomo esperto, pieno di abilità, Hiram-Abi, figlio di una donna della tribù di Dan e di un padre di Tiro. Egli sa lavorare l'oro e l'argento, il bronzo, il ferro, le pietre, il legname, le stoffe di porpora di violetto, di bisso e di cremisi; sa eseguire qualunque intaglio e creare qualunque opera d'arte che gli venga affidata. Egli lavorerà con i tuoi artigiani e con gli artigiani del mio signore, Davide, padre tuo”. (2 Cronache 2,10-13)

Segue in dettaglio la descrizione della costruzione, decorazione e consacrazione del Tempio.

Come si vede, la Bibbia parla di due personaggi chiamati Hiram: il primo è il re di Tiro, amico di Davide e Salomone. Il secondo è Hiram-Abi, abilissimo artigiano e costruttore. E' lui l'Hiram-Abif di cui parla la Massoneria. Nulla però il testo sacro ci dice rispetto alla sua morte, tanto meno al ritrovamento del suo cadavere, cioè agli elementi costitutivi del rituale del terzo grado.

Hiram e il Compagnonaggio

In un lungo studio (Appunti sulle origini) apparso nel 1992 sulla rivista Hiram, Giuseppe Abramo entra nel merito della leggenda di Hiram.

Secondo Abramo che si basa sulle ricerche di Etienne Martin Saint-Leon, uno studioso francese della seconda metà dell'Ottocento, i testi della leggenda di Hiram, conservati negli archivi dei vari Compagnonnages, tutti con il riprodurre, come proemio, più o meno esattamente il racconto biblico della costruzione del Tempio di Salomone, per poi passare al racconto della leggenda della morte di Hiram per mano di tre apprendisti infedeli, della ricerca e del ritrovamento del corpo del Maestro, della sua sepoltura “in una tomba di rame larga tre piedi, profonda cinque e lunga sette, con un triangolo d'oro e questa iscrizione A.L.G.D.G.A.D.L.U (A' la gloire du Grand Architecte de l'Universe) e vi si pone una medaglio triangolare dove stava scritto il nome di Jehova”; e infine della cattura e della punizione dei tre assassini.

Nel suo lavoro Giuseppe Abramo da per scontato che la leggende hiramitica sia nata in Francia, fra l'XI e il XII secolo, nelle logge degli scalpellini e dei tagliapietre,che l'avrebbero importata dall'Oriente dove si era conservata nonostante il passare dei secoli. Ma le cose non sembrano stare così.

Abramo cita le opere di Saint-Leon di seconda mano e soprattutto ignora che già nel 1946 nel loro The Genesis of Freemasonry (una pietra miliare negli studi scientifici sulle origini della Libera Muratoria), gli autorevolissimi storici  Douglass Knopp e G.P. Jones avevano demolito le tesi di Sain-Leon in quanto “sfortunatamente, sembra impossibile datare queste leggende o tracciare la loro storia”, considerato che lo stesso Saint-Leon non porta documenti a sostegno delle sue affermazioni in quanto, come egli sostiene, queste leggende sarebbero state trasmesse oralmente almeno fino all'Ottocento.
In mancanza di documentazione certa Knoop e Jones non hanno dubbi: le somiglianze fra i rituali del compagnonaggio francese e della massoneria inglese esistono, ma sono dovute al fatto che per nobilitare la loro storia i francesi ripresero leggende e catechismi dai massoni inglesi del Settecento e non viceversa.

A complicare ulteriormente le cose c'è un passo delle Costituzioni di Anderson del 1723 e precisamente quello in cui si afferma che, decaduta l'arte muratoria in Britannia a causa delle devastazioni causate dai “danesi” (vichinghi), “Carlo Martello, re di Francia, mandò in Inghilterra, per desiderio dei re Sassoni, parecchi esperti Compagni della Fratellanza e dotti architetti: cosicché, durante l'Eptarchia, l'Architettura gotica fu qui incrementata, come in tutte le terre cristiane”.

Dunque, secondo James Anderson, la Massoneria, scomparsa in Inghilterra, sarebbe stata ricostituita in pieno Medioevo ad opera dei Compagnoni francesi che avrebbero trasmesso ai confratelli inglesi insieme al loro sapere tecnico anche le leggende e i riti della loro corporazione.

Tutto dunque si terrebbe, a confermare le tesi di Saint-Leon riprese in Italia da Abramo. Ma anche in questo caso si tratta di affermazioni prive di riscontri storici. Non esiste, infatti, la benché minima documentazione di questo presunto passaggio di consegne. Anzi i ricercatori dell' Ars Quatuor Coronatorum No. 2076 e in particolare Lionel Vibert, forse il più autorevole commentatore delle Costituzioni del 1723, considerano il passo su Carlo Martello una delle tante forzature compiute dall'Anderson che su un canovaccio tratto da manoscritti medievali interpolò sue considerazioni a costruire una storia assai fantasiosa dell'Ordine. (Si può vedere a questo proposito l'introduzione del Vibert all'edizione Bastogi delle Costituzioni, curata nel 1974 da Lino Salvini e Giordano Gamberini)

Hiram e le Costituzioni di James Anderson

E' ormai storicamente assodato il fatto che in nessun testo medievale inglese riguardante l'arte muratoria (e sono oltre 130 risalenti a epoche diverse comprese fra il 1390 e il XVII secolo) si tratti della leggenda di Hiram. Nelle fonti esistenti, i cosiddetti Manoscritti Gotici, non se ne trova alcuna traccia. Solo nel cosiddetto Manoscritto Cooke, risalente agli inizi del 1400, si accenna vagamente al Libro dei re, ma non c'è nulla che ricordi anche lontanamente la leggenda di Hiram nella versione che prenderà nel Settecento. Nel MS Cooke si trova la seguente frase:

E nella costruzione dei Tempio, al tempo di Salomone, com'è detto nella Bibbia, nel 3° Libro dei Re quinto capitolo, Salomone ebbe 80 mila muratori al suo servizio. E il figlio del re di Tiro era il suo maestro muratore”.

Dunque non appare neppure il nome Hiram. Sappiamo invece con certezza che la prima volta che fu conferito il terzo grado (e dunque utilizzato l'attuale rituale) fu a Londra nel corso del 1724. Sappiamo anche che le Costituzioni del 1723 non fanno alcuna menzione dell'assassinio di Hiram, limitandosi a riprendere il racconto biblico. Scrive infatti l'Anderson, dopo aver descritto l'ampiezza dei lavori e la moltitudine di operai impiegati:

Per questo grande numero di abili Muratori, Salomone fu molto grato a Hiram o Huram, Re di Tiro, che mandò i suoi Muratori e Carpentieri a Gerusalemme, e abeti e cedri del Libano a Ioppe, il più prossimo porto di mare. Ma soprattutto, egli mandò il suo omonimo Hiram o Huram, il più perfetto Muratore della Terra”.

Al testo biblico aggiunge (e non stupisce, trattandosi di una storia ufficiale della Libera Muratoria) solo una notazione sull'appartenenza di Salomone e Hiram alla Massoneria:

il saggio Re Salomone era stato Gran Maestro della Loggia di Gerusalemme, il sapiente Re Hiram Gran Maestro della Loggia di Tiro e l'ispirato Hiram Abif Maestro del Lavoro”.

Più interessante anche se oscura la lunga nota posta in calce relativa al significato del nome Hiram Abif. Come nota il Vibert “benchè non contenga nessuna frase riguardante mistero. È un indice che a quel tempo il vero significato del nome, aveva un interesse per la Craft [la Corporazione]”

Ci vorranno ancora quindici anni perchè nel 1738 nella seconda edizione delle Costituzioni del 1723 Anderson introduca il racconto dell'assassinio di Hiram per mano dei tre apprendisti infedeli e della scoperta del cadavere. Questa per gli studiosi è la prova decisiva che la leggenda hiramitica divenne parte integrante della tradizione massonica fra il 1723 e il 1738 e non prima. Resta aperta la questione se la leggenda fu redatta ex novo dai compilatori dei nuovi rituali o se elementi della leggenda preesistessero alla formazione della Gran Loggia nel 1717. Robert F. Gould, uno dei primi grandi storici della Massoneria, è perentorio:

Se Hiram Habif avesse figurato, in quel periodo, nelle cerimonie o nelle tradizioni del mestiere, le Costituzioni manoscritte dell'epoca non conserverebbero, come fanno, un silenzio uniforme e ininterrotto sull'esistenza reale o leggendaria di un personaggio così eminente nella storia e nella leggenda posteriore dell'Ordine.”

Tanto meno, continua Gould, il ricordo dell'assassinio di Hiram “sarebbe apparso nei primi gradi e non introdotto senza alcuna forma di preavviso nel terzo grado”.

Hiram e Noè

Ma allora cosa accadde fra il 1723 e il 1738 di tanto importante da convincere il reverendo Anderson a modificare il testo delle sue Costituzioni e ad introdurre la storia della morte-rinascita di Hiram nella forma che ancora oggi viene insegnata nelle Logge di tutto il mondo?

Probabilmente niente o forse tutto. Perché passo dopo passo si era andata consolidando in quegli anni la moderna Massoneria speculativa nata a Londra nel 1717. Di certo i cambiamenti erano stati profondi: l'originario primo grado si era diviso in due e il secondo grado era divento il terzo. anche i rituali si erano evoluti da una semplice cerimonia per comunicare ai nuovi ammessi i segreti della Corporazione a un sistema filosofico assai sofisticato di allegorie e simboli. Un processo che comunque non era stato indolore, come dimostra nel 1719 l'incendio non accidentale degli archivi delle vecchie logge operative. Non è dunque poi così strano che la prima menzione della leggenda di Hiram nella sua interezza risalga al 1730, al libello di Samuel Prichard Masonry Dissected (Massoneria dissezionata) in cui in polemica con l'Ordine ne venivano svelati i segreti.

Sembra che Samuel Prichard fosse stato un massone operativo e che non vedesse di buon occhio i cambiamenti in corso, tanto da scrivere:

I miei Fratelli colpevoli hanno sviluppato la superstizione e le fantasticherie inutili nelle Logge per le loro pratiche e le loro recenti affabulazioni. Dei rapporti allarmanti, delle storie di spiriti malvagi, delle stregonerie, degli incantesimi, delle spade sguainate e delle camere oscure hanno prodotto il terrore. Ho deciso di non mettere più piede in una Loggia, a meno che il Gran Maestro non metta termine a questi processi con una pronta e perentoria ingiunzione a tutta la Fraternità.”

E in un'altra lettera:

Raccontano delle strane e vane storie a proposito di un albero che sarebbe sortito dalla tomba di Hiram, con delle foglie meravigliose ed un frutto di mostruosa qualità, per quanto nel contempo essi non sappiano né quando né dove morì, e non ne sappiano più nulla sulla sua tomba che su quella di Pompeo.”

Grazie al tradimento di Prichard, che violando il giuramento prestato, svela i segreti della Craft, sappiamo con certezza che nel 1730 la leggenda di Hiram circola nelle logge inglesi, e forse in più di una versione ,se in un altro testo di quell'epoca, il Manoscritto Graham del 1726, si racconta una strana storia identica in molti particolari a quella di Hiram. Protagonisti sono i tre figli di Noè, Sem, Cam e Japhet che:

andarono alla tomba di Noè, loro padre, per cercare di trovare qualcosa che li conducesse al segreto della virtù che questo famoso patriarca possedeva”. Non trovando quanto cercavano, i tre sollevarono il cadavere del padre già in via di decomposizione “mettendo piede contro piede, ginocchio contro ginocchio, petto contro petto, guancia contro guancia e mano sul dorso e invocarono 'aiutaci o padre'”

Non sappiamo come e perché nella forma definitiva Noè diventò Hiram. Di certo sappiamo che la leggenda prese corpo nella sua forma attuale in quegli anni. Sappiamo anche che si diffuse con estrema rapidità prima in Inghilterra e poi in Francia riapparendo dal 1730 al 1806, quando diventerà la base dell'appena costituito Rito Scozzese Antico e Accettato, in una cinquantina di rituali in Inghilterra, Scozia, Francia e nelle colonie americane. Un corpus vasto e articolato, di grande interesse iniziatico e simbolico, che varrebbe la pena di esaminare con attenzione. Ma questo semmai sarà argomento di un'altra ricerca.

Gennaio 2014

mercoledì 11 dicembre 2019

Il processo ai Templari e lo scioglimento dell'Ordine




Giorgio Amico

Il processo ai Templari e lo scioglimento dell'Ordine


Nel 1099 la conquista della Palestina e di Gerusalemme fa aumentare enormemente il numero dei pellegrini diretti in Terrasanta. Molti erano privi di risorse, molti si ammalavano lungo il viaggio, inoltre le vie di comunicazioni marittime e terrestri restavano insicure. Nascono così ordini religiosi allo scopo di proteggere i pellegrini, ospitarli, dar loro cure mediche. Come l'ordine dell'Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme, riconosciuto dal Papa nel 1113 anche se già nel 1048 il Beato Gerardo di Amalfi aveva ottenuto dal Califfo d'Egitto l'autorizzazione a costruire un ospedale in Gerusalemme.
Nel 1118 nasce l'Ordine dei “Poveri commilitoni di Cristo e del Tempio di Salomone”, più comunemente conosciuto come Templare dal fatto che il loro quartier generale era ubicato nel luogo ove in antico sorgeva il Tempio di Gerusalemme costruito da Salomone e distrutto dai romani nel 70 dC.

Quello del Tempio è fin dalle origini un ordine di monaci combattenti, destinato a proteggere i pellegrini dagli attacchi dei mussulmani. Come gli altri monaci fanno voto di castità e ubbidienza, ma sono prima di tutto guerrieri, l'élite della nobiltà feudale.
Presto l'Ordine del Tempio diventa una potenza senza rivali nel mondo cristiano. Padrone di terre, fattorie, castelli in tutta Europa. Dalle sue Commende un flusso incessante di risorse affluisce in Terrasanta passando per Parigi , vero quartier generale in Occidente dell'Ordine.
Rapidamente l'Ordine acquisisce una posizione privilegiata nei rapporti fra cristianità e Terrasanta, grazie alla sua organizzazione e al rispetto che lo circonda, l'Ordine emette lettere di credito (la prima forma di assegno) che sono accettate in ogni paese cristiano e permettono ai mercanti e ai pellegrini di spostarsi da un luogo all'altro senza portare con sé grandi somme di denaro.
Il Tempio di Parigi, in particolare, diventa il centro europeo della finanza e per il re di Francia una sorta di banca cassiera, fornendo per un secolo prestiti alla corona.

Sempre più ricco, l'Ordine acquisisce straordinari privilegi da papi e sovrani in forza dei quali diventa un'istituzione sottomessa solo al papa, totalmente indipendente da ogni altra autorità religiosa o politica, esente da tasse e da obblighi di qualunque natura. Grazie a ciò l'Ordine acquisisce il controllo di larga parte del traffico marittimo verso la Terrasanta, si fornisce di una grande flotta, gestisce porti e scali, scatenando le gelosie delle corporazioni dei mercanti, dei banchieri e delle repubbliche marinare italiane.
Quando nel 1209 con la caduta di Acri la Terrasanta ritorna sotto il controllo mussulmano, l'Ordine Templare perde la sua ragione d'esistere. Mentre gli Ospedalieri di San Giovanni continuano sul mare la lotta contro l'Islam (prima a Cipro, poi a Rodi e infine a Malta), i Templari (con l'eccezione di Spagna e Portogallo dove partecipano alla guerra di riconquista contro i Mori) sono ormai solo un Ordine enormemente ricco dedito a traffici di ogni tipo, composto in larga parte di cavalieri francesi e con il suo centro a Parigi, dove risiede il Gran Maestro.

Terminata l'epoca d'oro delle crociate e il fervore religioso che le animava la ricchezza e il potere dei Templari, spesso ostentati con grande arroganza, iniziano a essere guardati con sospetto soprattutto da chi come Filippo IV di Francia, si era votato interamente a consolidare l'unità del regno intorno alla corona e ad un apparato amministrativo centralizzato, embrione del nascente stato nazionale moderno, non più dipendente dalla Chiesa o dalla aristocrazia.
Un impegno che richiedeva la disponibilità continua di grandi somme di denaro e la messa sotto controllo del potere ecclesiastico. Indebitato con il Tempio, che dal 1285 finanzia la sua politica, fortemente contestato dal popolo di Parigi (dopo una svalutazione particolarmente pesante della moneta, nel giugno 1306, il re era di misura sfuggito alla folla inferocita che aveva invaso la reggia, rifugiandosi nella sede dell'Ordine), Filippo decide di scaricare il malcontento sugli ebrei. Il 22 luglio 1306 in tutta la Francia gli ebrei, accusati di complottare contro il re e la cristianità, vengono arrestati, i loro beni confiscati e poi venduti all'asta a beneficio della corona, i loro affari trasferiti alle banche italiane a cui il re si è rivolto per diminuire il peso finanziario dei templari; molti vengono uccisi, gli altri espulsi dal Regno. L'operazione è un successo, ma non basta. Il re mira più in alto. La persecuzione e cacciata degli ebrei diventa' la prova generale dell'attacco in preparazione al Tempio.

Filippo sa bene che fino a che il Tempio fosse sopravvissuto come istituzione autonoma il potere regio non si sarebbe mai potuto pienamente affermare. Questo, unito al bisogno drammatico di recuperare fondi, convince il re a superare ogni indugio e ad agire, consapevole dell'appoggio di gran parte della nascente borghesia bancaria e commerciale, ansiosa quanto lui di scrollarsi di dosso vincoli feudali sentiti ormai come obsoleti.
Il 13 ottobre 1307 i templari vengono arrestati su tutto il territorio del Regno e delle sue dipendenze italiane. In quel momento l'Ordine conta circa 4000 membri, di cui la metà in Francia. I cavalieri sono qualche centinaio.

L'accusa è terribile: i cavalieri praticano riti segreti in cui rinnegano Cristo, si danno a pratiche contro natura, adorano un idolo. In una parola l'Ordine del Tempio da primo difensore della cristianità si è ormai trasformato in una setta segreta di eretici dediti all'adorazione di Satana.
Sottoposti a feroci torture molti cavalieri confessano quanto viene loro imputato dagli inquisitori. Via via si aggiungono nuovi particolari: l'idolo veniva unto con il grasso di neonati arrostiti, i corpi dei templari deceduti erano arsi e le loro ceneri usate per preparare pozioni magiche, Satana in persona in forma di gatto presiedeva le riunioni capitolari accompagnato da demoni in forma di fanciulle con cui i cavalieri si accoppiavano in orge abominevoli. Sono le stesse accuse rivolte un secolo prima a catari e valdesi, che vengono ora riprese dagli inquisitori con lo stesso intento: discreditare l'Ordine, scatenare una campagna d'odio nei suoi confronti, giustificare l'eliminazione fisica dei suoi membri. Filippo deve sopprimere l'Ordine per incamerarne le ricchezze, doveva quindi dimostrare che non si tratta di semplici deviazioni di qualche Templare anche illustre, ma che l'Ordine stesso si è trasformato in una setta eretica. Tutti i templari, qualunque sia il ruolo rivestito, sono dunque colpevoli. I verbali dell'inquisizione ritornavano utili e furono abbondantemente utilizzati.

Colpire il Tempio significa colpire il Papato. Filippo agì al di fuori delle norme vigenti senza richiedere, come previsto, l'autorizzazione preventiva del Papa. Egli sapeva di poterlo fare. Il pontefice, Clemente V, era un francese, doveva a lui la sua elezione e risiedeva ad Avignone e non a Roma. Il Re ignorò ogni norma e consuetudine: non furono rispettate le immunità di cui i cavalieri godevano, gli inquisitori erano di nomina regia, agli accusati non fu permesso di difendersi.
Tenuti in isolamento, agli arrestati fu promesso che se avessero confessato sarebbero stati risparmiati e riconciliati con la Chiesa. Le prime confessioni produssero confessioni a catena. Chi non si piegava veniva torturato. Nella sola Parigi 36 prigionieri morirono sotto tortura.
Nel frattempo fu avviata una grande campagna propagandistica contro l'Ordine utilizzando francescani e domenicani da sempre ostili al Tempio.
Ben presto anche i vertici cedettero: il 25 ottobre 1307 il Gran Maestro Jacques de Molay ammise tutte le colpe senza essere sottoposto a tortura.

Nonostante la sua sudditanza nei confronti del Re, Clemente V non si mostrò agli inizi convinto delle accuse. Infuriato dalla mancanza di rispetto del Re nei suoi confronti, all'inizio del 1308 rifiutò di sopprimere l'Ordine, affermò che gli inquisitori regi non avevano il potere di indagine e riservò a se ogni decisione in merito. Filippo rispose intensificando la propaganda antitemplare e convocando prima gli Stati Generali a Tours e poi una grande assemblea dei vescovi di Francia a Poitiers con l'intento di intimidire il Papa. Clemente V cedette e abbandonò ogni velleità di opporsi al Re. Per salvare la faccia costituì commissioni papali nei vari paesi per investigare direttamente. Fuori del regno di Francia l'iniziativa non ebbe praticamente seguito, i Templari non furono perseguiti o, se lo furono, risultarono assolti o sottoposti a lievi penitenze per colpe minori. In Francia le conseguenze di questa decisione papale furono significative: interrogati dagli inquisitori papali gran parte dei cavalieri ritrattarono le confessioni dichiarando che queste erano state loro estorte sotto tortura o con la promessa dell'impunità.

Filippo fu costretto ad intervenire e costrinse il papa a nominare un giovane di 22 anni, fratello di un suo cortigiano, vescovo di Parigi. Questi, nella sua veste di inquisitore di Francia, condannò al rogo come eretici relapsi i cavalieri che avevano ritrattato, facendone bruciare circa 120. Sempre su pressione del Re, il Papa convocò un Concilio ad Avignone per condannare l'Ordine. Ma i cardinali rifiutarono di pronunciarsi per mancanza di dati certi. La cosa rischiava di andare per le lunghe, Filippo aveva fretta di concludere anche perché crescevano le perplessità e i dubbi fra aristocratici e grandi borghesi. Il 22 marzo 1311, su richiesta del re, Clemente V emanò un atto pontificio che sopprimeva l'Ordine e trasferiva le sue proprietà agli Ospitalieri, ma in Francia si trovò ben poco essendo gran parte dei beni già stati requisiti dalla monarchia.

Nel maggio 1312 Clemente si pronunciò in merito ai cavalieri sopravvissuti. Eccettuati i relapsi (cioè coloro che avevano ritrattato), essi dovevano essere relegati in monastero per passarvi in penitenza il resto dei loro giorni. I principali dignitari dell'Ordine furono invece condannati al carcere a vita.

Il 18 marzo 1314 i quattro alti dignitari comparvero davanti al Re e al popolo di Parigi per sentire proclamata la sentenza. Il Gran Maestro Jacques de Molay dichiarò solennemente che l'Ordine era innocente dei crimini ascrittigli, denunciò l'operato del Re e del Papa e affermò di meritare la morte per aver confessato per paura delle torture. Il precettore di Normandia, Geoffroi de Charnay si associò.
La reazione di Filippo fu spietata: De Molay e Geoffroi de Charnay furono immediatamente bruciati come eretici relapsi.

Così finiva l'Ordine del Tempio e si concludeva il primo grande processo politico della storia, un processo in qualche modo destinato a prefigurare nei suoi lineamenti essenziali (la costruzione di un teorema accusatorio, l'uso su larga scala di campagne propagandistiche, il terrore come strumento di pressione, l'uso di una burocrazia professionale) i peggiori aspetti di quello che sarebbe poi diventato nel XX secolo lo Stato moderno, centralizzato e burocratico, nelle sua involuzione totalitaria.

(2009)

lunedì 9 dicembre 2019

A 50 anni dalla strage di Piazza Fontana. Noi sappiamo e non dimentichiamo.


 

Giovedì 12 dicembre 2019
ore 18.00
Libreria Ubik - Savona

Noi sappiamo e non dimentichiamo.
12 dicembre 1969-2019: a 50 anni dalla strage di Piazza Fontana”

ne discutono Giorgio AMICO, scrittore e Membro del Comitato Scientifico dell'ISREC di Savona, e Massimo MACCIÒ, storico, autore del volume “Una storia di paese. le bombe di Savona 1974-'75”.

Il 12 dicembre del 1969 una bomba esplodeva nei locali affollati della Banca Nazionale dell'Agricoltura a Milano, causando 17 morti e 88 feriti. Ad essi si aggiunse dopo poche ore il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, morto mentre era sotto interrogatorio nella Questura di Milano.
La strage fu la prima di una lunga serie di eventi sanguinosi destinati a segnare l'intero corso degli anni Settanta, passando anche per bombe di Savona del 1974-75, e a condizionare profondamente la vita politica italiana. Lungo e contraddittorio fu l'iter giudiziario, segnato da continui depistaggi da parte di forze di polizia e servizi segreti che, pur avendo fin dall'inizio ben chiara la matrice di destra della strage, indirizzarono le indagini a sinistra verso il movimento anarchico, allo scopo evidente di distogliere l'attenzione dei giudici dai veri responsabili e dai loro mandanti politici.
Emblematico è il caso delle dodici bombe scoppiate nella nostra città (di cui sette in soli quindici giorni nel "novembre di sangue" savonese) con il tragico corollario di morti e feriti. Un mistero spaventosamente grande, irrisolto da 45 anni, che macchia la storia del nostro paese. Per la prima volta Macciò spiega nel suo nuovo libro chi ha messo le bombe e perché.

domenica 8 dicembre 2019

Pasquale Indulgenza, Correranno inesauste le onde...




Martedì 10 dicembre 2019
alle ore 17.00

Presso la Biblioteca Civica "L. Lagorio"
Piazza De Amicis
Imperia
Presentazione del libro di Pasquale Indulgenza
"Correranno inesauste le onde..."

a cura della Associazione culturale "Michele De Tommaso"

giovedì 5 dicembre 2019

Giuseppe Cesare Abba, testimone e interprete del Risorgimento




Il 1 dicembre a Cairo Montenotte nell'ambito del quarantennale di fondazione della R.L. "Canalicum", si è tenuto a cura del Grande Oriente d'Italia un partecipatissimo convegno sulla figura e l'opera di Giuseppe Cesare Abba: garibaldino, massone e storico. Di seguito il testo del nostro intervento.

Giorgio Amico

Giuseppe Cesare Abba, testimone e interprete del Risorgimento

All'inizio del 1860, alla vigilia di quella che passerà alla storia come "l'impresa dei Mille", il giovane Abba, simile allo stendhaliano Fabrizio Del Dongo, vive fino in fondo la sua condizione di uomo irrisolto.

Animato da una forte spinta rivoluzionaria che lo fa sentire erede diretto delle due generazioni precedenti, quella dei padri (Mazzini, Garibaldi e soprattutto Giovanni Ruffini sui cui romanzi si formerà) e quella dei martiri (Mameli, i Bandiera, Pisacane), Abba sente profonda la frustrazione di vivere in un momento in cui la rivoluzione pare sconfitta e in ritirata e persino Garibaldi in nome del realismo politico è dovuto scendere a patti con Cavour e gli odiati Savoia.
A ciò si aggiunge il sentirsi un pittore mancato, l'abbandono mai a pieno chiarito degli studi, pure intrapresi con tanto entusiasmo, alla Scuola di Belle Arti di Genova.
Tutto pare complottare contro di lui: arruolatosi volontario nell'Aosta cavalleria allo scoppio della seconda guerra di indipendenza, viene smobilitato prima che il suo reggimento abbia terminato il periodo di addestramento. Dalla sua caserma nelle retrovie, Abba legge della guerra sulle Gazzette, circondato da commilitoni, non volontari come lui, ma semplici coscritti, che detestano la guerra e non nutrono alcuna idealità patriottica. Per lui, abituato alla retorica dei circoli studenteschi, è un vero e proprio trauma.

Rivoluzionario, artista e soldato mancato: così si sente quando a cambiare tutto arriva Garibaldi. È una svolta radicale, Abba ha 22 anni per l'epoca una età adulta. La partecipazione alla spedizione dei Mille diventa l'evento cardine della sua vita, attorno a cui tutto ruoterà fino al momento della sua morte cinquanta anni più tardi..

Fondamentale risulta l'incontro con Garibaldi, di cui nelle Noterelle disegna un ritratto umanissimo, ma anche con Mazzini, di cui ha sempre solo sentito parlare (e il più delle volte con sarcasmo misto a disprezzo), che casualmente incontra nelle vie della Napoli appena liberata e che lo colpisce per il suo sereno coraggio:

"Vidi la prima volta Giuseppe Mazzini in una via di Napoli, sul finire del settembre 1860. Egli se ne andava tra la folla soletto, a passo lento. Ed erano i giorni che gli si aveva voluto vietare di stare in Napoli, e che egli aveva severamente risposto di credersi d'essere in terra libera. Pareva che non si ricordasse d'essersi sentito urlato a morte, pochi giorni avanti, dalla plebaglia condotta sotto le sue finestre. E noi che eravamo in tre lo seguimmo a poca distanza, osservando come egli camminava sicuro e pensavamo alle tante volte che avevamo sentito accusarlo come uomo che mandava la gente a morire e badava bene a non esporre la propria vita. Ma là in quei giorni, qualsifosse sicario o fanatico avrebbe potuto piantargli un pugnale nel petto o nel dorso! Eppure Mazzini non si guardava".

Nei mesi della campagna contro i Borboni Garibaldi e Mazzini diventano per Abba figure non più mitiche, ma concretissime di riferimento politico e ideale, su cui orientare e costruire la sua vita di adulto in un'Italia, appena riunificata, che è un groviglio di contraddizioni tanto complesse da restare (come la questione meridionale) ancora oggi largamente irrisolte. Al giovane cairese in cerca di sé stesso, Garibaldi e Mazzini trasmettono con l'esempio delle loro vite il senso autentico di un impegno politico e civile che è prima di tutto dovere etico: fare gli italiani, formare una identità condivisa, trasformare popolazioni divise da secoli in un popolo solo unito da legami fraterni.

In quest'ottica la battaglia culturale e civile diventa la continuazione della lotta armata, anche se questa non va ancora abbandonata: Venezia, Roma, Trento, Trieste sono ancora in mano straniera. E Abba combatterà ancora e con immutato coraggio tanto da meritare nel 1866 la medaglia d'argento al valor militare per il suo comportamento durante la battaglia di Bezzecca.

Ma l'impegno cardine di quella generazione di rivoluzionari è ormai un altro: contro i venti di normalizzazione che già da subito soffiano impetuosi, costruire un'Italia civile e democratica, capace di affrontare costruttivamente il problema, che già si annuncia centrale, di "plebi", sfruttate e incolte tanto al sud come al Nord, da trasformare in popolo, in cittadini pienamente consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri. In ciò consiste la rivoluzione sognata che, alcuni decenni più tardi in sede di consuntivo, dal buio del carcere fascista Gramsci definirà, grazie ad uno sforzo poderoso di analisi e di sintesi, "mancata".
Rivoluzione mancata per l'accordo fra latifondisti del Sud e la borghesia industriale del Nord, terrorizzati dalla possibilità di una riforma agraria che desse finalmente la terra ai contadini e la concessione piena dei diritti politici e della libertà di organizzazione sindacale agli operai delle fabbriche del settentrione. Al sogno mazziniano-garibaldino, carico di echi libertari e repubblicani, si sostituì una politica segnata dal trasformismo, dall'abbandono degli ideali risorgimentali, dalla corruzione, dalla repressione sistematica di ogni anche timida protesta popolare. A partire da quella tragedia immane che fu la guerra al "brigantaggio", ovvero la normalizzazione manu militari della rivolta in larga parte spontanea delle masse contadine di un Sud che aveva creduto in Garibaldi "liberatore" e ora si sentiva tradito dai "piemontesi" e più sfruttato di prima.

Lottare per un'altra Italia significava allora avvicinare davvero intellettuali e popolo, mischiarsi alla gente comune, partecipando ad esempio, come Abba fa a Cairo Montenotte nel 1861 alla fondazione di una società di mutuo soccorso fra gli operai che ancora oggi esiste e porta il suo nome. Ma anche come sindaco dal 1870 al 1880 a potenziare e modernizzare il servizio scolastico, a risanare il paese costruendo una rete fognaria prima inesistente, a finanziare corsi serali di alfabetizzazione per adulti, a favorire l’istituzione di una banca popolare al servizio dei lavoratori, degli artigiani e degli agricoltori per liberarli dall'incubo degli strozzini e delle banche in mano ai possidenti e al clero.Un impegno democratico che lo impose all'attenzione di Mazzini, che non lo conosceva, ma che in un suo taccuino ebbe a scrivere:"Abba. Cairo Montenotte, consigliere comunale e nell'insegnamento: uno dei Mille: ottimo e nostro".

Dunque, fatta l'Italia, occorreva fare gli italiani. Il che in termini concreti significava costruire un'immagine condivisa di un Paese e di una storia. Fare di un "volgo disperso che nome non ha", tanto per citare l'Adelchi manzoniano, un popolo consapevole delle sue comuni radici. Compito che la Massoneria si assunse in prima persona e che la rese, sempre secondo Antonio Gramsci, il primo autentico partito politico moderno di un'Italia ancora profondamente arretrata. Una impresa il cui sostanziale fallimento, già avvertibile in epoca giolittiana, segnerà in profondità la storia futura d'Italia a partire già dalla prima guerra mondiale e immediatamente dopo dal fascismo.
Una impresa, tuttavia, di grande respiro politico e ideale, che spiega l'adesione convinta e attiva all'istituzione libero-muratoria di uomini, per restare alla Valle Bormida, come Giuseppe Cesare Abba a Cairo, Anton Giulio Barrili a Carcare o Sisto Anfossi, medico di Dego, meno conosciuto degli altri due, ma tra i padri fondatori a Torino nel 1859 della Loggia Ausonia da cui prenderà poi vita il Grande Oriente d'Italia. Figura straordinaria quella di Anfossi, medico e cospiratore, esiliato a Parigi, fondatore di società segrete legate alla carboneria, di cui ci ripromettiamo di trattare in altra occasione.

Dunque più che storico, Abba si sente, ed è, un testimone e interprete del Risorgimento e dei suoi ideali, ma anche, come vedremo, del suo sostanziale fallimento. In questo consiste il suo lavoro non tanto di storico, quanto di testimone/narratore di ciò che è accaduto, ma anche di ciò che si voleva accadesse e non è accaduto. Un Abba  molto diverso dal ritratto agiografico che tradizionalmente ne è stato fatto.




È la storia stessa del suo libro più famoso, a dimostrarlo. Con il titolo minimalista di "Noterelle di uno dei Mille", dichiarazione esplicita che si vuole trattare non di un'avventura individuale, ma di una impresa collettiva, il libro uscirà solo nel 1880 grazie all'interessamento di Carducci limitandosi a trattare della liberazione della Sicilia, da Marsala a Messina. Solo nel 1891 a trent'anni dagli avvenimenti narrati il libro esce nella versione definitiva ed integrale con il titolo "Da Quarto al Volturno" e dalle sue pagine traspare ad una lettura non agiografica una profonda disillusione.

Si avverte, insomma, già la delusione verso gli esiti moderati di quella che doveva essere una rivoluzione espressa quasi negli stessi anni da Edmondo De Amicis nel romanzo "Sull’Oceano" del 1889, in cui si raccontano le traversie di migliaia di disperati che, in tutto simili agli attuali dannati della terra che sbarcano sulle nostre coste, inseguono sul mare un sogno di libertà e di riscatto. Attenzione! Non è il De Amicis, agiografico e patriottico di "Cuore", ma lo scrittore tormentato di "Primo Maggio", il primo vero romanzo italiano sulla questione operaia. Tra questa massa di disperati in cerca di un futuro c'è anche un ex garibaldino che ragionando sul presente e sulle miserie dell'Italia unita ad un tratto se ne esce con una affermazione terribile: «se metà degli uomini che avevan dato la vita per la redenzione dell’Italia fossero resuscitati, si sarebbero fatti saltare le cervella».
Nelle ultime pagine del libro ben avvertibile è la sensazione, che Abba ci trasmette con poche decise pennellate, che spiri già aria di restaurazione e siamo appena all'indomani del tanto mitizzato "incontro di Teano". Abba parla di Garibaldi:

«Ieri il Dittatore non andò a colazione col Re. Disse di averla già fatta. Ma poi mangiò pane e cacio […] circondato dai suoi amici, mesto, raccolto, rassegnato. […] Ora odo dire che il Generale parte, che se ne va a Caprera e mi par che cominci a tirar un vento di discordie tremende».

Mesto, raccolto, rassegnato. Tre aggettivi a descrivere una vittoria militare trasformatasi in sconfitta politica. Alla fine hanno vinto i Savoia, la rivoluzione non c'è stata, come nelle parole del principe Salina nel grande romanzo di Tomasi di Lampedusa, tutto è cambiato perché nulla cambiasse davvero. Come aveva già intuito, padre Carmelo, frate guerrigliero alla Camilo Torres, nel memorabile breve dialogo con Abba sulle aspettative reali dei contadini siciliani a cui lo scrittore non sa rispondere:

"E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più? Non seppi che rispondere e mi alzai..."

Osserva amaramente Abba: "Questo popolo che ci ha fatta la luminaria la notte del 25 maggio, quando eravamo pochi e con poche speranze, adesso non ci riconosce più. Ma che cosa abbiamo fatto? Non lo dicono e non si può indovinarlo".

Abba non lo sa, ma questo è il momento in cui nasce la questione meridionale, in cui si svela l'incapacità profonda da parte di questi giovani rivoluzionari venuti da Nord di comprendere davvero la realtà del Sud e l'aspettativa creata nelle masse dei senza terra di una rivoluzione che non si fermasse ai proclami patriottici, ma sapesse diventare distruzione del latifondo, riforma agraria,  libertà ma anche terra da coltivare senza sentire sul collo il peso dei latifondisti e della mafia, che a sua volta fa capolino in una pagina del libro.

L'Italia degli anni Novanta dell'Ottocento non vede il trionfo degli ideali mazziniani e garibaldini. Ben altri sono i segni dei tempi: lo scandalo della Banca Romana nel 1893 (la prima tangentopoli della nostra storia), la repressione sanguinosa dei Fasci siciliani (1894) e dei moti per il pane di Milano (1898), la nascita di un imperialismo "straccione" segnata dal massacro di Adua (1896). Tra gli spiriti più avvertiti si diffonde un senso condiviso di disagio e frustrazione ben rappresentato da "I vecchi e i giovani", grande romanzo di un ancor giovane Pirandello, ambientato nei giorni dei fasci e che vede la morte simbolica di un vecchio ex-garibaldino per mano dei soldati mandati a reprimere la protesta dei contadini. Una visione sconsolata che ritroviamo in una lettera di Abba all'amico Francesco Sciavo del 26 febbraio 1901:

"Il nostro paese è così fatto [....]. Io l'Italia l'ho veduta farsi, e so come s'è fatta. Essa è venuta qual doveva venire: il feudo di una classe di furbi, viventi di mutua assistenza e di mutui salvataggi".

Un Abba profondamente disilluso che nei suoi scritti si attacca ancora di più alla memoria dell'epopea garibaldina perché solo testimoniando di quelle lotte, solo non perdendo la memoria di ciò che si voleva fare e di come l'Italia avrebbe potuto essere, si poteva ancora nutrire la speranza che le nuove generazioni rialzassero quelle bandiere e riprendessero quel percorso di libertà.

E in questo Abba appare a noi, figli di una Resistenza oggi da più parti vilipesa e negata nei suoi valori fondanti la nostra Repubblica, attualissimo.

Cairo Montenotte, 1 dicembre 2019