TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 31 ottobre 2020

Breve storia del dissenso comunista in Italia (1923-1969)

 


Giorgio Amico

Breve storia del dissenso comunista in Italia (1923-1969)


Dopo l'ultimo post su Leonetti in cui si accennava a una ricerca in corso sulle dissidenze comuniste, qualche lettore curioso ha chiesto maggiori dettagli in merito. Ed in effetti l'argomento è poco conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di ricercatori o di “vecchi credenti” che ancora a quelle dissidenze fanno riferimento, tanto che il PCI è ricordato come partito monolitico e compatto, mentre in realtà la sua storia è anche una storia di rotture individuali e di scissioni, il più delle volte determinate da fattori internazionali.

Lasciando da parte i casi individuali che, per la rilevanza dei personaggi coinvolti (Tasca e Silone, tanto per citare i più noti), sono stati materia di ricerche e di scoop giornalistici più o meno seri, la ricerca di cui si parlava tratta invece delle dissidenze organizzate e del loro tentativo di rappresentare una alternativa credibile alla politica del PCI.

Già nel 1923, mentre in Italia iniziava la “bolscevizzazione” del Pcd'I che avrebbe nell'arco di quattro anni portato al totale allineamento del partito alla politica sovietica e allo stalinismo, Michelangelo Pappalardi (1895-1940), espatriato per sfuggire alla repressione fascista prima in Belgio e poi in Germania e in Francia, entra in stretto contatto con l'estrema sinistra del partito comunista tedesco ed in particolare con Karl Korsch di cui riprende le tesi sulla natura controrivoluzionaria dello Stato sovietico. Da questi contatti nascerà il “Gruppo autonomo comunista”, poi “Gruppi d'avanguardia comunista” e infine “Gruppi operai comunisti” che pubblicheranno i giornali “Le Réveil communiste “ e poi “L'ouvrier communiste”. Il gruppo si scioglierà nel 1931 e Pappalardi, isolato e malato, dopo essersi trasferito in Argentina nel 1939 per sfuggire ai nazisti, morirà a Buenos Aires nel 1940.



Di portata estremente più ampia sia sul piano delle dimensioni organizzative che della profondità delle analisi politiche è l'esperienza della Frazione italiana all'estero della sinistra comunista italiana.

Formata dai seguaci di Bordiga, anche se questi di fatto ritiratosi dalla politica dopo il 1930 rifiutò sempre ogni coinvolgimento preferendo rimanere in Italia, in larghissima parte operai costretti ad emigrare per motivi politici, nel 1928 ad opera soprattutto di Ottorino Perrone (Vercesi), la Frazione iniziò ad operare in Francia e in Belgio (e poi anche negli Stati Uniti e in Messico) come gruppo organizzato, pubblicando le riviste “Prometeo” e “Bilan”. Fortemente antistalinista, la Frazione cercò prima di collegarsi all'Opposizione internazionale animata da Trotsky, per rompere poi ogni rapporto e proseguire come realtà del tutto autonoma. Dopo la caduta del fascismo molti militanti della Frazione rientrarono in Italia e parteciparono alla costituzione nel 1943/44 del Partito Comunista Internazionalista, meglio conosciuto come “Battaglia comunista” dal nome del giornale, che esiste tutt'ora.

Nel 1930 la politica fortemente avventurista e settaria dell'Internazionale comunista ormai saldamente controllata da Stalin causa quella che Togliatti definirà ”la lotta interna più aspra che mai si sia combattuta all'interno del partito comunista italiano”. Metà della Direzione del partito verrà espulsa per aver criticato la tesi di Longo, fatta sua da Togliatti, che il fascismo era ormai agli sgoccioli e che in Italia i tempi erano maturi per la rivoluzione. Tesi che portò al rientro in Italia di decine di militanti, anche di primo piano, per organizzare l'insurrezione e che in poco tempo finirono a riempire le galere fasciste. Gli espulsi, Pietro Tresso (Blasco), Alfonso Leonetti e Paolo Ravazzoli, i “Tre” come con intenti derisori li definiva la stampa stalinista, aderirono all'Opposizione di sinistra internazionale dopo aver preso contatto direttamente con Trotsky allora in esilio nell'isola di Prinkipo in Turchia.

Nacque così la NOI, la Nuova Opposizione Italiana, destinata a vita breve e travagliata per i contrasti interni e per le lotte di frazione e personali che dividevano il movimento trotskista. Dei suoi fondatori Pietro Tresso, diventato un dirigente della sezione francese della Quarta Internazionale, finirà assassinato dagli stalinisti nel 1944, Paolo Ravazzoli rientrerà nel Partito socialista da cui era uscito al congresso di Livorno del 1921 e Alfonso Leonetti inizierà una lunga marcia di riavvicinamento al PCI che lo porterà nel 1962 ad essere riammesso nel partito non senza un'umiliante autocritica.



La caduta del fascismo nel 1943 e la guerra di Liberazione portarono alla nascita di numerose formazioni politiche alla sinistra del PCI di cui non condividevano la politica di unità nazionale derivata dalla svolta di Salerno. Si formarono così nel Sud liberato dagli alleati, la Frazione di sinistra dei comunisti e dei socialisti italiani, molto attiva in Campania e in Calabria che nel 1945 confluirà in maggioranza nel Partito comunista internazionalista e in Puglia il POC, Partito Operaio Comunista, diretto da un ambiguo personaggio, Romeo Mangano, già dirigente del Pcd'I ai tempi della direzione bordighiana e che si scoprirà poi essere stato durante il fascismo un attivissimo informatore dell'OVRA. Il POC, che si dichiara trotskista anche se in realtà porta avanti un confuso programma fortemente influenzato dalle tesi di Bordiga, aderirà alla Quarta Internazionale per poi esserne espulso nel 1948 e infine per sciogliersi alla metà degli anni '50. Verrà rimpiazzato nel 1949 dai GCR, Gruppi Comunisti rivoluzionari, fondati da Livio Maitan e da un gruppo di giovani provenienti dalla Federazione Giovanile del PSLI, il partito di Saragat, che editeranno il giornale Bandiera Rossa e fino al 1968 opereranno in segreto nel PCI, la politica cosiddetta dell' "entrismo". Trasformatisi poi in LCR, Lega comunista rivoluzionaria, i trotskisti italiani aderiranno come tendenza organizzata prima a Democrazia Proletaria e poi, dopo l'implosione del PCI, al Partito della Rifondazione comunista.

Ritornando agli anni '40, nelle zone occupate nascono movimenti dissidenti comunisti che portano avanti con estrema determinazione un'azione politico-militare. Caratterizzati da una critica al “democraticismo” del PCI che ha abbandonato la via rivoluzionaria e sostenitori di una idea mitizzata di Stalin e dell'Armata Rossa, questi gruppi svolgono un ruolo importante nella Resistenza antinazista che vedono come il prologo della rivoluzione proletaria. Il Movimento comunista d'Italia, meglio conosciuto come “Bandiera Rossa” dal nome del suo giornale, è il cuore della Resistenza romana tanto da avere fra i fucilati delle Ardeatine più caduti che il PCI. Dopo la guerra cercherà di darsi carattere nazionale per poi sciogliersi agli inizi degli anni '50. A Torino ruolo analogo è svolto dal Partito comunista integrale e dal giornale “Stella Rossa”, fortemente radicato nelle fabbriche e su posizioni molto simili a quelle di Bandiera Rossa. Il gruppo confluirà poi nel Partito comunista dopo il misterioso assassinio del suo principale esponente, Temistocle Vaccarella, ucciso in circostanze mai chiarite il 19 giugno 1944 a Milano dove si era recato per incontrarsi con rappresentanti del PCI.

A Milano opera invece il gruppo de “Il lavoratore” animato dai fratelli Venegoni, su posizioni analoghe a quelle dei romani e dei torinesi. Anche questo gruppo, dopo una lunga trattativa con Secchia, rientrerà nel PCI integrandosi nella attività politico-militare del partito.

Come si diceva, gran parte delle scissioni del PCI sono dovute a fattori internazionali più che interni. È il caso nel 1951 della scissione cosiddetta dei “Magnacucchi”, epiteto derisorio coniato da Togliatti. Valdo Magnani e Aldo Cucchi, già coraggiosi comandanti partigiani e ora deputati del PCI, Magnani è anche segretario dell'importante federazione di Reggio Emilia, rompono con il partito schierandosi decisamente a fianco della Jugoslavia di Tito allora in piena rottura con Stalin, presentata come esempio da seguire nella costruzione del socialismo. Nascerà così il movimento Lavoratori italiani, diventato presto Unione Socialista indipendente (USI) portavoce in Italia delle posizioni scismatiche dei comunisti jugoslavi. Fortemente osteggiata dal PCI, l'USI non avrà vita facile, tanto da confluire nel 1957, anche per effetto dei fatti d'Ungheria, nel PSI. Quanto a Valdo Magnani, questi nel 1962 rientrerà nel PCI per diventare poi nel 1977 presidente della Lega delle Cooperative.



Nel 1954 è la volta di Giulio Seniga, braccio destro di Secchia e capo dell'apparato “riservato” del partito a rompere con Togliatti e a fuggire con la cassa dei fondi segreti di provenienza sovietica. La rottura non resta un fatto individuale, già dal 1955 Seniga fonda il giornale Azione Comunista. Nel 1957 Azione Comunista e i GAAP, organizzazione di origine anarchica fondata nel 1951 da Pier Carlo Masini e Arrigo Cervetto, si fondono a formare il Movimento della sinistra comunista. Nel 1964 il gruppo implode e la componente leninista di Cervetto e Parodi darà vita al gruppo “Lotta comunista” che rappresenta oggi a livello mondiale con sezioni in diversi paesi (Russia compresa) probabilmente la più consistente organizzazione rivoluzionaria leninista al di fuori dei partiti comunisti.

All'inizio degli anni '60 la rottura fra i comunisti cinesi e quelli sovietici porta alla nascita all'interno del PCI di gruppi di dissidenti, legati soprattutto alla componente stalinista di Secchia, che riprendono le accuse cinesi a Togliatti e al PCUS “destalinizzato” di revisionismo. Nasce il Movimento di Nuova Unità che raccoglie, con l'appoggio e il finanziamento cinese, questo dissenso in larga parte composto di vecchi quadri stalinisti emarginati nel partito dopo il 1956. Il Movimento si fraziona presto in una quantità di gruppetti, il più consistente dei quali nell'Ottobre 1966 fonda a Livorno il Partito comunista d'Italia (marxista-leninista), immediatamente riconosciuto dai partiti “fratelli” cinese e albanese. Anche il PCd'I subirà a partire dal 1968 una serie di scissioni che daranno origine ad altri micropartitini maoisti, per confluire a sua volta agli inizi degli anni '90 in Rifondazione. Unico sopravvissuto di quell'epoca resta il minuscolo Partito Marxista Leninista Italiano con il giornale “Il bolscevico” frutto della scissione nel 1969 della Federazione fiorentina del PCd'I (m-l).

L'ultimo atto di questo storia, perché i gruppi e i partitini post 68 sono un'altra cosa e non derivano da rotture del PCI ma in larga parte dalla politicizzazione del Movimento Studentesco, è rappresentata dalla radiazione nel novembre 1969 dal PCI del gruppo dissidente del Manifesto rappresentato da Lucio Magri, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina e Luigi Pintor. Il Manifesto rappresenta il caso più conosciuto di dissenso comunista, grazie anche al giornale che pur con molte peripezie e mutamenti di linea, continua tutt'ora ad uscire. Anche in questo caso, più che fattori interni rappresentati dalla disfatta all'XI Congresso del PCI della componente ingraiana, giocarono fattori internazionali ed in particolare la Rivoluzione culturale cinese di cui il gruppo del Manifesto fu sempre aperto sostenitore, anche quando il Partito comunista cinese stesso ne denunciò gli orrori, e , causa scatenante, l'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche nel 1968 e la riflessione ritenuta insufficiente del PCI su quei fatti e più in generale sulla politica sovietica.


giovedì 29 ottobre 2020

Perché Alfonso Leonetti è rientrato nel PCI

 


Fare una ricerca storica è operazione simile alla composizione di un puzzle. Si ricercano tutti i tasselli, si comparano fra loro per farli combaciare e infine si incastrano a formare una narrazione compiuta. Un lavoro simile stiamo compiendo riguardo alla storia delle dissidenze comuniste in Italia dagli anni Venti agli anni Settanta. È un lavoro lungo che richiede pazienza, ma che permette di ri/scoprire episodi interessanti come quello che presentiamo oggi. Nel 1962, dopo due anni di trattative condotte in prima persona da Umberto Terracini suo vecchio compagno dei tempi de L'Ordine Nuovo, Alfonso Leonetti fu riammesso nel PCI. Nonostante dal 1956 si parlasse di destalinizzazione, la Direzione del partito gli chiese un pesante atto di sottomissione pubblica. Una pratica che lo stalinismo aveva mutuato dalla Chiesa cattolica della Controriforma che “perdonava” chi si era macchiato di eresia, ma solo dopo la pubblica ammissione dei propri errori, il rinnegamento del proprio passato e una incondizionata dichiarazione di fede. Questo accadde nel 1962 con Leonetti, a cui sotto l'ipocrita forma di un intervista all'Unità fu chiesto una totale abiura delle proprie idee che arrivò fino all'umiliante esaltazione del genio politico di Togliatti, l'uomo che lo aveva espulso nel 1930 dal PCI perchè assieme a Tresso e Ravazzoli (tutti membri della Direzione del partito) egli ne aveva duramente contestato l'asservimento opportunistico a Stalin ormai padrone dispotico dell'Internazionale comunista. Davvero la Santa Inquisizione non avrebbe saputo fare di meglio.

G.A.


Perché Alfonso Leonetti è rientrato nel PCI

Dai gruppi di opposizione trotzkista alla lotta contro il fascismo. «non si può – egli afferma – essere marxisti nel chiuso della propria stanza»


Il compagno Alfonso Leonetti (alias Feroci o Guido Saraceno), rientrato nelle file del Partito comunista italiano, aderì alla gioventù socialista, ad Andria, nel 1914. Nel 1918, a Torino, iniziò a collaborare con l’Avanti!e con Gramsci. Divenne redattore capo dell’Ordine Nuovo (quotidiano) nel 1921, dopo aver partecipato alla fondazione del PCI, a Livorno. Fu direttore del Lavoratore di Trieste alla fine del 1922, e, dopo il delitto Matteotti, dell’Unità. Nel 1923 entrò a far parte della Direzione del partito e nel 1924 partecipò al V Congresso dell’Internazionale, a Mosca. Arrestato, ferito e perseguitato dal fascismo, dopo un periodo di lavoro clandestino in Italia emigrò in Francia. Dalla fine del ’26 fino alla «svolta» del 1930, partecipò attivamente al lavoro di direzione del Partito. Nel 1930 fu espulso con altri compagni in seguito a dissensi sulla linea generale del partito. Militò, fino al 1930, nei gruppi di «opposizione» trotskisti, e fece parte, dal 1930 al 1938, del segretariato internazionale di questi gruppi di opposizione, sotto gli pseudonimi di Martin e Sogò. Restato in Francia durante la seconda guerra mondiale, qui partecipò alla Resistenza, nell’Alta Loira. E a questo periodo risale il suo distacco definitivo dai gruppi trotskisti e il suo riavvicinamento al partito. Attualmente il compagno Leonetti vive a Roma, si occupa di studi a carattere storico. Recentemente, insieme con altri, ha pubblicato e commentato la raccolta di sentenze del Tribunale speciale (Aula IV) e ha in preparazione un volume (La Chiesa contro il Risorgimento) in collaborazione con Ottavio Pastore. Da noi avvicinato, il compagno Leonetti ci ha precisato i motivi e le circostanze che, dopo il suo riavvicinamento, lo hanno spinto a chiedere di rientrare nel Partito comunista italiano.

«Rientrando oggi nel PCI ‒ egli ci ha detto ‒ non mi considero un miracolato del XXII Congresso. Infatti il mio distacco dai gruppi di oppositori, nei quali militai dopo il 1930, e il mio accordo con i partiti comunisti, risalgono in modo netto all’epoca della Resistenza, che io vissi in Francia. Fin da allora io ricercai ed ottenni il contatto con il partito comunista francese e da allora, benché ancora non tornato in possesso della tessera, mi considerai politicamente legato soltanto al partito comunista, respingendo ogni invito a iscrivermi, in Francia e in Italia, ad altri partiti operai. In realtà fin dall’epoca dei fronti popolari si fece strada in me la del trotskismo.

«Il riconoscimento della giusta linea dei partiti comunisti e degli errori del trotskismo nell’analisi e nel giudizio sui partiti comunisti e sull’URSS, mi si fece poi chiarissimo attorno al 1940, all’inizio della grande lotta internazionale contro il fascismo. Oggi tutti i motivi di dissenso con la linea generale del PCI, vecchi di trent’anni, sono per me caduti. Il XX e il XXII Congresso del PCUS hanno restituito un grande slancio, con la critica a Stalin e agli errori del passato, per la edificazione del comunismo e il rafforzamento del leninismo nei partiti comunisti.

«La mia convinzione sulla giustezza della linea del PCI, il cui merito, mi pare, vada per tanta parte ascritto all’azione politica di Palmiro Togliatti, si è dunque venuta sempre più rafforzando: e sempre più si è riconfermata in me la fiducia nella capacità del PCI di guidare le lotte della classe operaia e del popolo, di rafforzarsi e di rinnovarsi costantemente. Per questo, e da molti anni, ho sentito il bisogno di tornare a militare nel PCI, dando ad esso il contributo che potrò e saprò dargli. Ed è motivo per me di grande gioia e commozione essere ritornato a lavorare e lottare insieme ai vecchi e giovani compagni comunisti.

«Per ciò che riguarda i dissensi e i motivi che, nel 1930 spinsero me ed altri compagni a porsi fuori del Partito, ritengo che si tratti ormai di questioni che, nel merito, riguardino soprattutto gli storici del movimento operaio, italiano e internazionale.

«Errore grave, comunque, fu certamente il nostro, di spingere la nostra opposizione e la lotta politica fino alla rottura. E questo in un momento in cui il partito comunista era impegnato in una lotta a fondo contro il fascismo in Italia. La mancanza di ogni collegamento con le masse italiane e con l’emigrazione, l’ostilità alla “politica di fronte popolare” inaugurata in Francia con la manifestazione del 14 luglio 1935, portò al nostro completo isolamento e alla disgregazione del nostro gruppo.

«Sono certo che, in condizioni di vita politica diverse, a contatto con le masse e nel corso di un dibattito democratico, i dissensi sarebbero stati ricomposti, sul terreno dell’unità politica e ideologica. Fu, ripeto, da parte nostra, almeno da parte mia, un errore aver rotto con il Partito, poiché i fatti hanno sempre dimostrato che un comunista non ha ragione che nel Partito e con il Partito, il quale esprime gli interessi di classe del proletariato. Lo so, non in astratto, ma per la esperienza personale che ne ho fatto.

«La lotta contro il fascismo ‒ con lo scoppio della seconda guerra mondiale ‒ fu il banco di prova di tutti i gruppi e movimenti politici. Ed è stato soprattutto in quella congiuntura storica decisiva che si poté verificare l’insufficienza dei piccoli gruppi sorti marginalmente e in opposizione ai partiti comunisti. Dispersi e minati dal settarismo, dal dogmatismo e dalle lotte personali, questi piccoli gruppi non ressero alla prova, furono incapaci di legarsi alle masse, e crollarono, mostrando la loro debolezza, politica e ideologica.

«Per quanto riguarda il nostro gruppo in particolare, esso in realtà si era disgregato fin dal 1935, con la entrata dei suoi componenti nei partiti socialista e massimalista. Gli anni da me trascorsi, fuori del partito e militando nelle diverse “opposizioni”, mi hanno dimostrato la sterilità dell’azione di questi gruppi, senza alcun legame vivente con la classe operaia e il suo movimento di sviluppo reale. Mi hanno dimostrato anche la stolta presunzione di questi piccoli gruppi di potersi sostituire e contrapporre ai partiti comunisti con le loro gloriose tradizioni di lotta, le loro indistruttibili radici di classe, la loro esperimentata capacità di sviluppo e rinnovamento costante. Infatti non è soltanto moltiplicando le “tesi” o scrivendo delle mozioni che si può lottare, nelle condizioni più diverse, contro il nemico di classe e per il socialismo. Le posizioni politiche, per un marxista, devono essere sempre verificate con le masse e nelle masse. Non si può essere marxisti né da soli né nel chiuso della propria stanza, fuori dal contatto con la classe operaia e le masse popolari.

«Il movimento comunista mondiale organizzato, ormai, conta circa mezzo secolo di vita e la Rivoluzione socialista è uscita dall’isolamento, è divenuta il fatto dominante della storia contemporanea. Essa si è realizzata nell’URSS e in molti altri paesi, a prezzo di duri sacrifici e di lotte aspre, il cui centro è stato il partito comunista. La esperienza dunque dimostra che fuori dal partito comunista non può esservi, per un marxista, una vera esperienza rivoluzionaria. Lo provano il fallimento storico del trotskismo e della socialdemocrazia, movimenti che, pure, assorbirono capacità individuali notevoli condannatesi tuttavia alla sterilità per il solo fatto di essersi poste fuori della reale corrente rivoluzionaria moderna, la cui componente essenziale è data dai partiti comunisti.

«Dovunque essi operino, quali che siano le condizioni della loro lotta, i partiti comunisti esprimono la coscienza e la volontà della classe operaia: ad essi deve andare l’appoggio di quanti vogliono lottare per il socialismo. E i partiti comunisti, in ogni condizione di sviluppo, devono corrispondere concretamente ai desideri delle masse. Che si muovono su un terreno di continuo progresso ed avanzata verso il socialismo. Il Partito comunista italiano è su questa strada giusta, ha dimostrato di essere capace di affrontare i momenti più duri rafforzandosi e rinnovandosi, usando l’arma della discussione e della critica, secondo il grande insegnamento di Lenin. Mi auguro che queste discussioni continuino e siano approfondite, e da ciò il partito non può trarre che nuovo rinvigorimento.

«Gramsci ha detto, in qualche parte, che il presente è la tomba del passato e la culla dell’avvenire. Quel che conta veramente per un marxista è operare sul presente per evitare gli errori del passato costruendo l’avvenire. Perciò penso che il dovere dell’ora è di unirsi, per portare sempre più avanti la lotta del partito comunista ‒ anzi dei partiti comunisti ‒ per la pace [e] la liberazione di tutti i popoli oppressi e delle masse lavoratrici dallo sfruttamento del capitalismo e per la creazione di una vera democrazia sociale.»


L’Unità, 17 febbraio 1962


mercoledì 28 ottobre 2020

A proposito di rivoluzione e di antirivoluzione. Una discussione con Roberto Massari.

 


Giorgio Amico

A proposito di rivoluzione e di antirivoluzione. Una discussione con Roberto Massari.


Roberto Massari in un suo recente studio di grande interesse, Lenin e l'Antirivoluzione russa, sviluppa il concetto di “antirivoluzione” quale chiave interpretativa di quanto avvenuto in URSS a partire dal 1919. Riportiamo qui un nostro sintetico intervento in merito, originato da uno scambio di mail con l'autore.

Parlare di antirivoluzione mi sembra poco sostenibile soprattutto perché postula un concetto astratto  di rivoluzione. La rivoluzione è evento per sua propria natura irriducibile ad ogni concettualizzazione e generalizzazione (ed infatti non ce ne sono due uguali nel loro svolgimento), ma va intesa come un processo contraddittorio e complesso, causato certo da fattori strutturali sedimentatisi talvolta addirittura per secoli, ma, cosa che spesso viene dimenticata, frutto dell'azione spontanea di milioni di donne e uomini mossi da pulsioni largamente irrazionali. Un processo di conseguenza aperto a ogni possibile sviluppo, che continuamente supera se stesso e entra di continuo in contraddizione con le stesse rappresentazioni che quegli uomini e donne se ne erano fatti fino a quel momento.

Ma allora cos'è una rivoluzione? Proprio in quanto movimento spontaneo di massa è la fine di rapporti fra gli uomini fino ad allora considerati normali e immutabili. Un mutamento che va ben oltre il semplice rovesciamento di un governo o di un sistema politico e investe tutti gli aspetti dell'esistenza. Rivoluzione è la radicale rimessa in discussione di valori fino a quel momento ritenuti intangibili, tabù sessuali compresi. Non è un caso che ogni rivoluzione sia stata anche una grande esplosione erotica. “Di libero amore facean professione” recita una canzone simbolo del '68 e lo stesso si può dire del 1789 come del 1917. Insomma, siamo di fronte a un radicale ripensamento del mondo e dei rapporti fra gli uomini, rapporti di genere compresi. Tutto ciò che fino a quel momento era considerato razionale, come, tanto per rifarsi all'89, il ruolo sacrale del monarca, da un giorno all'altro non lo è più. L'autorità dello Stato, le sue leggi, le sue istituzioni sono rimesse radicalmente in discussione. Il potere, anche nei suoi aspetti più repressivi, non fa più paura. La rivoluzione rappresenta la liberazione dalla paura, il momento di rottura dell'ordine "naturale" delle cose, e dunque l'irruzione spontanea nel tempo "razionale" della storia di quanto sedimentava nell'inconscio più profondo delle masse.

È proprio questo carattere di spontaneità e di irrazionalità a spiegare gli aspetti demoniaci - usiamo qui il termine nell'accezione junghiana – che ne derivano e dunque sia il carattere di grande festa libertaria sia la violenza estremamente distruttiva delle azioni che le masse spontaneamente mettono in atto.   La rivoluzione rappresenta la prova tangibile di come la storia non si svolga secondo astratti criteri di razionalità o addirittura “leggi” immutabili, come sembra pensare un certo marxismo meccanicistico. Solo a posteriori e sul lungo periodo, questo vento impetuoso, tanto per citare le tesi di Benjamin sulla storia, può essere trasformato in una narrazione razionale e il più delle volte consolatoria. Si veda a questo proposito l'uso e l'abuso dell'idea di “progresso”. Nulla è meno prevedibile e più spontaneo di una rivoluzione. Giustamente Amadeo Bordiga, in questo corretto interprete del pensiero di Lenin, sostenne sempre che le rivoluzioni “non si fanno, ma si dirigono”.

Impostate così le cose, il concetto di antirivoluzione altro non può essere che il necessario ritorno alla normalità e all'ordine, ossia il relegare di nuovo Lucifero e gli angeli ribelli, cioè le forze del caos, nel profondo dell'inconscio collettivo della specie, ossia in quella sorta di inferno da cui si erano momentaneamente liberate. E questo perché la festa non può, per lo stesso equilibrio psichico dei partecipanti, diventare condizione permanente. Un bel gioco dura poco, recita la saggezza popolare. La rivoluzione, come il carnevale o le feste medievali dei folli, non può che essere di breve durata. Poi le porte fra tempo storico razionale e inconscio collettivo si richiudono e quest'ultimo riprende a scorrere come un fiume carsico e a manifestarsi nelle forme che gli sono proprie: il simbolico e dunque l'arte e la poesia, i movimenti ereticali, le visioni dei mistici, i rituali dei gruppi esoterici. In questo si può affermare che l'antirivoluzione sia il destino inevitabile di ogni rivoluzione, come ristabilimento di un “ordine” che è al contempo un superamento del vecchio ordine e, come pensava il vecchio Hegel, il manifestarsi di nuove contraddizioni ad un livello più elevato. Ma senza illusioni di progresso, perché l'uomo nelle sue pulsioni più profonde, come la distruttività, resta sempre lo stesso. Tornando alla Russia, solo così il processo contemporaneamente di continuità e rottura che c'è fra rivoluzione bolscevica e stalinismo può essere davvero compreso.




lunedì 26 ottobre 2020

Alfonso Leonetti, Palmiro Togliatti e l'assassinio di Pietro Tresso (Blasco)

 

    Pietro Tresso alla fine degli anni Trenta

Giorgio Amico

Alfonso Leonetti, PalmiroTogliatti e l'assassinio di Pietro Tresso (Blasco)

Dopo la pubblicazione in Francia nel 1995 e poi in Italia nel 1996 dello studio di Vacheron e Broué Assassinii nel Maquis. La tragica morte di Pietro Tresso, possiamo dire che sia stato ormai provato oltre ogni ragionevole dubbio come il fondatore del Pcd'I e poi dirigente trotskista sia stato assassinato dai partigiani comunisti che lo avevano prelevato dalla prigione dove i tedeschi lo tenevano rinchiuso. Mancano tuttavia molti particolari, riguardanti soprattutto il ruolo avuto in questo crimine stalinista dalla dirigenza del PCI e in particolare da Palmiro Togliatti. È infatti impensabile che un piccolo gruppo comunista abbia preso la decisione di liquidare un personaggio del calibro di Tresso senza chiedere l'autorizzazione ai vertici del partito. E Tresso era questione italiana, come dimostra l'intervento diretto di Togliatti nel 1945 sul PCF, che aveva accettato l'iscrizione dell'ex trotskista Leonetti, perchè questa fosse immediatamente revocata, con la motivazione che queste erano questioni di pertinenza del partito italiano. E così puntualmente accadde e Leonetti si vide immediatamente togliere la tessera appena concessagli dai compagni francesi con cui aveva combattuto nella Resistenza antitedesca. La moglie di Tresso, convinta della responsabilità diretta di Togliatti nell'assassinio del marito, per tutta la vita chiese che il PCI facesse chiarezza sull'accaduto, rivolgendosi addirittura con una lettera aperta a Togliatti che naturalmente si guardò bene dal rispondere.



Un silenzio rotto solo nel gennaio 1993 quando su l'Unità apparve l'articolo di Gianfranco Berardi, Francia 1944. Com'è morto Pietro Tresso?, di cui riprendiamo le parti salienti:

“Nel settembre del 1944, senza indicare alcun dettaglio, il giornale clandestino del Poi {Parti Ouvrier Internationaliste, di tendenza trotzkysta) annunciò la morte di uno dei componenti del Comitato centrale, di nome «Blasco», pseudonimo di battaglia dietro il quale si celava l'italiano Pietro Tresso, uno dei fondatori, nel '21, assieme a Gramsci e Bordiga, del Partito comunista d'Italia. Tresso era stato catturato a Marsiglia a giugno del 1942 da una squadra speciale del governo di Vichy con altri dirigenti del Poi, e quindi torturato davanti alla moglie «Barbara» (Deborah Seindenfeld-Stratiesky), senza che dalla sua bocca uscisse una parola utile per i suoi aguzzini. Condannato a dieci anni di lavori forzati, fu rinchiuso nel carcere di Puy en Velay, nell'Alta Loira dove fallì un tentativo di farlo evadere ideato da Emilio Lussu. Non fallì invece un colpo di mano attuato da un gruppo di partigiani francesi, di una brigata comunista che nella notte fra il 1° e il 2 ottobre 1943 riuscl a penetrare nel carcere e a liberare i prigionieri, compresi «Blasco» e gli altri quattro dirigenti trotskysti- Albert Demazière, Leon Reboul, Maurice Ségal e Abraham Sadek. Una parte dei partigiani, con Tresso e gli altri dirigenti del Poi, raggiunse «campo Wodli», al di sopra di Queyneres, a poco più di venti chilometri da Yssingeaux, nell'Alta Loira. Dei quattro trotskysti, uno, Demazière, si allontanò dal campo riuscendo a raggiungere Parigi, gli altri rimasero nel «maquis» fino alla metà di novembre, quando il gruppo partigiano si sbandò per ricostituirsi nel giugno del '44 al Sestrières. Ma Tresso, Reboul, Ségal e Sadek non ne facevano più parte, né di essi si seppe più nulla. (...) 

La moglie di Tresso «Barbara», (non so se sia ancora viva) ha dedicato gli ultimi anni della sua vita alla ricerca della verità. Una commissione formata in Francia per far luce sui crimini staliniani, ha indagato anche sulla scomparsa di Tresso giungendo a concludere che egli sia stato eliminato in circostanze tuttavia non precisate e non provate nei dettagli. Molte volte, dal dopoguerra in poi, la questione è rimbalzata sulla stampa registrando, tra gli altri, interventi di Palmiro Togliatti, del socialista Alfredo Azzaroni, autore di una biografia di Tresso, del trotzkysta Livio Maitan e del comunista Stefano Schiapparelli. Vi furono anche iniziative della sezione di Magré del Pci.Tresso, è ovvio, non ha bisogno di riabilitazioni postume. E, d'altra parte, Emanuele Macaluso nell'Orazione funebre di Leonetti, nel dicembre del 1984, ha pubblicamente e senza perifrasi definito le espulsioni del '30 un gravissimo errore. E tuttavia sulle circostanze e i motivi della morte di «Blasco» si può ancora fare luce. C'è, credo, qualcuno che sa. Alfonso Leonetti, espulso nel "30 insieme a Tresso e Ravazzoli, e rientrato nel partito nel 1962, qualcosa d'importante sapeva. Tra l'altro aveva militato nella Resistenza dell'Alta Loira, la stessa zona dove nel '43 era finito Tresso. E, comunque, possedeva dei documenti che giudicava pesanti e decisivi, documenti che, alcuni anni prima della morte, ebbe ad affidare - al di là di ogni legato testamentario ma sulla base di una semplice fiducia - a una o più persone con l'intento che, lui scomparso e dopo il verificarsi, credo, di alcune condizioni politiche, fossero resi pubblici. Non so chi, attualmente, sia in possesso di tali documenti, ma so che esistono oggi tutte quelle condizioni, storiche e politiche, auspicate da Leonetti perché, sulla morte di Tresso si sappia finalmente la verità. Tacere significherebbe farsi complici”.

    Alfonso Leonetti negli anni '70

Un articolo molto chiaro e una netta e coraggiosa presa di posizione, ma il giornalista andò oltre. In altra occasione Berardi rivelò che, oltre al fatto dei documenti di cui sarebbe stato in possesso, Leonetti lo aveva portato a conoscenza della visita ricevuta da due inviati dalla segreteria del Pci (all’epoca era segretario Alessandro Natta) che gli avrebbero chiesto di distruggere tutta la documentazione o, almeno, una lettera autografa di Togliatti del 1964 nella quale l’allora segretario del Pci gli chiedeva di non sollevare la questione Tresso. Leonetti avrebbe rifiutato e chiesto all’amico Berardi di cui si fidava l’impegno a riaprire il caso Tresso non prima di dieci anni, quando ci fossero state le condizioni politiche per non danneggiare il PCI e “non fare un favore a Craxi”.

Ed infatti nel 1993, esattamente dieci anni dopo, Berardi, fedele alla promessa fatta all'amico e compagno Leonetti, scrisse l'articolo di cui abbiamo riportato ampi stralci, ma le carte non uscirono mai fuori e chi sapeva continuò a tacere. Evidentemente la cosa era troppo grossa per poter essere rivelata. Il che ci porta a pensare che le convinzioni della moglie di Blasco sulle responsabilità dirette di Togliatti nell'assassinio del marito non fossero poi così infondate.

venerdì 23 ottobre 2020

Giornata della Riforma protestante

 


31 ottobre – Giornata dedicata alla Riforma Protestante

Il 31 ottobre 1517 Martin Lutero, professore dell’Università di Wittenberg, scrisse le sue 95 tesi: da quell'episodio si fa risalire il movimento di Riforma della Chiesa. Nelle Chiese valdesi culti dedicati e attività ricordano la vocazione riformata.

La Fondazione Centro Culturale Valdese di Torre Pellice, offre un vasto panorama di strumenti formativi sulla Riforma Protestante in Europa, attraverso il suo patrimonio librario, archivistico, museale e materiali divulgativi come mostre, seminari, conferenze, laboratori, produzione di materiali di studio.

La Biblioteca valdese possiede un patrimonio di particolare interesse per chi sia interessato alla Riforma protestante. Fin dalle sue origini, negli anni Trenta dell'Ottocento, essa si è formata a partire da testi di storia e teologia del protestantesimo e dei valdesi. Sia per la Bibliothèque Pastorale sia per la Bibliothèque du Collège (i due nuclei originari) i primi libri giunsero dai sostenitori inglesi e scozzesi e comprendevano, oltre a testi teologici e storici per pastori, professori e studenti, numerosi testi della e sulla Riforma.

La Mostra “Riforma, Cinquecento e valdesi”, stampata in occasione del Cinquecentenario nel 2017, è fruibile sul sito internet fra gli itinerari virtuali.

Sempre sul sito della Fondazione, alla pagina Visite guidate\sistema museale\museo delle donne valdesi, alcuni materiali scaricabili danno un quadro di riferimento riguardante le donne nelle chiese riformate.

Sul canale youtube della Fondazione Centro Culturale Valdese è possibile trovare materiale video su Lutero e la Riforma, anche per i più piccoli, con il teatro delle ombre.

Sempre sul canale youtube, si possono riascoltare, fra le serate con gli storici che hanno contribuito all’allestimento del nuovo museo storico nel 2018, anche le parti che riguardano il periodo della Riforma.

Per celebrare quest’occasione inoltre il museo – con il suo ricco bookshop e le sale espositive – rimarrà aperto il 31 ottobre dalle 15 alle 18 con il biglietto a prezzo ridotto, offrendo una scelta di pubblicazioni sul tema.

Ricordiamo di telefonare preventivamente al n. 0121 932179 o in vista degli ingressi contingentati scrivere a 

bookshop@fondazionevaldese.org 



martedì 6 ottobre 2020

L'incontro mancato di Livio Maitan con la Resistenza


 

Giorgio Amico

L'incontro mancato di Livio Maitan con la Resistenza

Nato nel 1923, nel giugno 1940 Maitan finisce il liceo a soli 17 anni e tre mesi dopo si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Padova e subito dopo ai GUF, a cui risulta iscritto anche negli anni successivi almeno fino al 1942.

Il giovane è ancora convintamente fascista. Lo riconosce, anche se in termini molto sfumati, nelle primissime pagine della sua autobiografia: “All'inizio della guerra molti erano ancora sensibili ai motivi patriottico-populistici della propaganda ufficiale” , scrive ed è evidente che sta parlando di sé. Ma l'andamento stesso delle operazioni belliche, il prolungarsi di una guerra che si pensava già vinta con la resa della Francia determinano un primo ripensamento. Già tra la metà del 1941 e gli inizi del 1942, dopo le prime sconfitte in Africa e il trauma della campagna di Grecia dove gli alpini sono stati mandati al macello, iniziano “le prime riflessioni, seguite da vere e proprie crisi di coscienza”. Ancora una volta, pur parlando della sua generazione, Livio ci dice che in realtà è a se che fa riferimento. Qualche pagina più avanti egli riconoscerà la gradualità con cui questo cambiamento è avvenuto, più per l'influsso degli avvenimenti bellici che per una maturazione politica personale che restava “ ancora generica, non definita in termini politici e ancora meno di partito”.

Agli inizi, scrive, la sua è una riconfermata adesione al regime: “Reagivo in un primo tempo come altri coetanei, influenzati ancora dalla manipolazione patriottica-nazionalista: era dovere di tutti fare qualche cosa per salvare il Paese, magari rinunciando, noi studenti universitari, alla proroga del servizio militare. […] Ma era una reazione di breve durata. Già pochi mesi dopo la decisione era presa. […] Abbandonavo la vecchia «fede» […] E rinunciavo con una scusa al modesto compito che avevo assolti sino ad allora nell'organizzazione giovanile ufficiale di quartiere.”

Il modesto compito, su cui Maitan non si diffonde in particolari, pare fosse il tenere corsi di mistica fascista per la GIL (la Gioventù Italiana del Littorio). Compito svolto, almeno per un certo periodo con impegno se, come documentato, nell'immediato dopoguerra Maitan fu sottoposto dallo PSIUP ad un procedimento disciplinare interno a causa della segnalazione dei metodi eccessivamente solerti usati dal giovane istruttore. A onor del vero, la cosa finì in nulla grazie all'intervento di autorevoli compagni che garantirono dell'antifascismo sincero di Maitan, tanto è vero che subito dopo egli fu eletto alla carica di segretario della sezione giovanile del partito di Venezia.

È in quel periodo che si forma il gruppo del quartiere Sant'Elena, formato tra gli altri da Gianmario Vianello e Cesco Chinello e in qualche modo gestito da Mario Ferrari Bravo, di un decina di anni più vecchio, già istruttore ai corsi obbligatori di preparazione premilitare.

Nella sua “Autobiografia resistenziale” Cesco Chinello, negli anni '60 segretario della Federazione comunista di Venezia e poi deputato e senatore del PCI, racconta così la nascita del gruppo:

Una sera, in vaporino fine 41 o inizio 42 io e Livio Maitan discutevamo, a voce alta e molto criticamente, sui commenti che Mario Appelius faceva alla sera alla radio sulle vicende della guerra e sugli inserimenti a viva voce di Radio Londra per cui ne nascevano delle situazioni paradossali in cui i due nemici si controbattevano e in cui, di solito l'Appellius soccombeva, oltre che per i fatti incontrevertibili, anche perché senza verve. [Radio Londra in realtà non c'entra. Il riferimento è al fatto che nell’ottobre 1941 il comunista Luigi Polano riuscì a inserirsi nella trasmissione radio che Appelius conduceva per l’EIAR fascista e a obbligarlo a una discussione pubblica. Nota nostra]  Scendendo dal vaporino a S. Elena un tizio ho saputo dopo che si chiamava Zinoni, un fascista di antica data che abitava vicino a casa mia ci si è avvicinato invitandoci per le spicce a seguirlo nella vicina sede del fascio. Lì ci ha chiesto le generalità, ci ha contestato duramente le nostre critiche all Appellius dandoci dei disfattisti e minacciando severissime punizioni. Poi gli hanno detto che eravamo figli di mutilati di guerra, che il padre di Maitan era stato volontario in Abissinia e non so che altro e alla fine ci ha lasciati andare solo perché ha commentato eravamo figli, anche se indegni, di gente che aveva dato tutto alla patria. Piccole storie ma che segnano le esperienze individuali e incentivano la critica e l'iniziativa contrapposta. Con questi giovani di S. Elena ci conoscevamo sin da bambini, talvolta abbiamo anche giocato insieme dipendeva dalla differenza di età che contava molto, anche se era solo di qualche anno e ci eravamo ritrovati obbligatoriamente nel premilitare che ci facevano fare marciando su e giù per il viale di S. Elena: una cosa insopportabile, penosa, goffa e che ci infastidiva molto per la perdita di tempo e per il modo d essere pagliaccesco, con quella divisa addosso che puzzava di lana straccia e il finto pugnale di latta. Sono avvenuti proprio in questi sabato pomeriggio del premilitare i nostri primi incontri, i primi ammiccamenti”.

Il gruppo svolge comunque una attività “di modesta portata”, secondo quanto scrive lo stesso Maitan, consistente nell'affissione di qualche volantino e poco più. Come la distribuzione di alcune copie de l'Unità clandestina che sarebbero state consegnate personalmente a Maitan da Concetto Marchesi suo professore all'Università di Padova. Episodio peraltro non ricordato da nessuno di coloro che a vario titolo ha trattato del gruppo di giovani cospiratori del rione Sant'Elena.

Il 25 luglio 1943, mentre presta servizio come aspirante allievo ufficiale nei pressi di Vittorio Veneto, attività organizzata dalla Milizia e rivolta ai membri della Milizia Universitaria a cui pare Maitan avesse aderito nel 1942, è raggiunto dalla notizia della caduta del fascismo.Tornato a Venezia, con gli amici del gruppo di Sant'Elena prende i primi contatti con esponenti dei partiti operai, PCI e PSIUP. Da quel momento egli si considererà un militante socialista. Ma la situazione si fa presto difficile, l'occupazione tedesca inizia a far sentire i suoi effetti e occorre decidere cosa concretamente fare.

A differenza di alcuni suoi compagni, come Cesco Chinello o Cesare Dal Palù, che iniziano immediatamente una attività clandestina che li porterà in carcere o a raggiungere le formazioni partigiane che da mesi ormai combattono sui monti, Maitan si rifugia a Trieste a casa della nonna dove resta cinque mesi, abbandonando di fatto ogni impegno politico per dedicarsi interamente agli studi.

Il precipitare della situazione lo costringe comunque a decidere cosa fare. Informato di essere ricercato come renitente alla leva, invece che raggiungere le bande partigiane, Maitan decide di rifugiarsi in Svizzera. Una decisione difficile da capire anche perché nella sua autobiografia egli non fornisce alcuna motivazione di un gesto che, confrontato con la scelta di migliaia di giovani anche di scarsa cultura o di nessuna formazione politica di salire in montagna e unirsi alle formazioni partigiane, colpisce in un intellettuale politicamente cosciente come appare già allora il giovane Maitan.

Grazie all'aiuto, anche economico, di uno zio molto benestante che abita sopra il lago di Como a poca distanza dal confine, Maitan il primo aprile 1944 passa in Svizzera dove viene internato in un campo per stranieri. E in Svizzera Maitan resterà fino alla Liberazione, stringendo contatti con importanti dirigenti socialisti. Uno di questi fu il luganese Guglielmo Canevascini, allora ministro degli interni del Canton Ticino, che nel dopoguerra sarà il tramite attraverso cui giungeranno a Faravelli e a Critica sociale i finanziamenti americani destinati a rafforzare la componente autonomista del PSIUP. 

Nella sua autobiografia Maitan accennerà di sfuggita di aver progettato di rientrare in Italia per «riprendere» l'attività nella resistenza, ma di esserne stato dissuaso dal dirigente socialista Fernando Santi. Ancora una volta l'affermazione lascia stupiti, anche perché da quanto da lui stesso   precedentemente raccontato, Maitan non aveva mai avuto alcuna parte nella lotta partigiana, né a Venezia né in montagna, e dunque non c'era proprio alcuna attività da riprendere. Semmai, proprio volendo, di un inizio si sarebbe trattato. E comunque era tardi: si era nella primavera 1945 e i giochi praticamente erano fatti. 

Maitan ritornerà in Italia e nella sua Venezia solo dopo il 25 Aprile, a Liberazione ormai avvenuta ,  e dovette almeno per i primi mesi consacrarsi essenzialmente agli studi universitari, visto che si laureò nel novembre 1945. Quello di Maitan con la Resistenza fu dunque un incontro mancato, anche se, ma è appena una notazione minima, questo non ha impedito all'ANPI di Venezia di inserirlo, non sappiamo a quale titolo, in una lista online di partigiani illustri. Stranezze della storia.

Riflettendo su queste vicende, ampiamente riportate nelle prime pagine della sua autobiografia, ci è venuto di pensare che la mancata partecipazione alla lotta partigiana e la fuga in Svizzera, perché in sostanza a non voler essere ipocriti di quello si trattò, abbia lasciato un segno indelebile sulla personalità di Maitan condizionandone fortemente la futura attività di dirigente della Quarta Internazionale. Quel mancato impegno giovanile,probabilmente vissuto inconsciamente come un tradimento o un atto di viltà, più di cento ragionamenti teorici può aiutarci a comprendere perché negli anni '60 proprio Maitan fosse il principale artefice della svolta guerriglierista del movimento trotskista soprattutto in America Latina. Una sorta di riscatto postumo che però avrebbe portato a una sconfitta di proporzioni storiche segnata dall'annientamento anche fisico di intere sezioni, a partire dal PRT argentino, della Quarta Internazionale e di una intera generazione di militanti.

(Le citazioni, in corsivo e virgolettate, sono tratte da: Livio Maitan, La strada percorsa, Bolsena, Massari Editore, 2002; e da: Cesco Chinello, La mia “educazione sentimentale”. Autobiografia resistenziale, in Nella resistenza. Vecchi e giovani a Venezia sessant’anni dopo, a cura di G. Albanese e M. Borghi, Portogruaro, Nuova Dimensione, 2004 )