giovedì 31 dicembre 2020

Grazie Ubik e Auguri a tutte/i di un felice anno nuovo


Oggi, ultimo giorno dell'anno, è convenzione da sempre farsi reciprocamente gli auguri perché l'anno nuovo sia portatore di felicità e di benessere. Lo faccio anch'io riprendendo e rilanciando gli auguri che mi sono arrivati dai miei cari amici librai della Ubik. Il perché è semplice: senza cultura non c'è ripresa possibile. E cultura a Savona vuol dire soprattutto Ubik.

Grazie di cuore Stefano, Flavia, Giacomo, Alice, Renata,

Auguri a voi e a tutte le amiche e gli amici di Vento largo di un felice 2021.

Giorgio


È arrivato quel momento che ci fa sperare in un futuro migliore. Finisce l'anno, ne inizia uno nuovo, e molto ci sembra possibile. Sappiamo che poco di ciò che auspichiamo si realizzerà, ma è bello pensarlo.

Del resto, come dice la Regina in Alice nel Paese delle meraviglie, «Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz’ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione».

Il nostro auspicio è che tornino le condizioni per poter ripetere i momenti belli che abbiamo condiviso, ritrovare il calore di tanti di voi, che nei momenti più difficili ci avete dimostrato attenzione e affetto: grazie! Nel silenzio spettrale di marzo e aprile abbiamo creato una comunità, facendoci compagnia. Siamo venuti alla porta delle vostre case con le consegne a domicilio, e poi, quando avete potuto, siete tornati da noi in libreria.

La fine dell'anno è anche tempo di bilanci, oltre che di buoni propositi.

Vi proponiamo la classifica dei 10 libri più venduti nella nostra libreria nel 2020:

1) Valerie Perrin, Cambiare l'acqua ai fiori (E/O)

2) Andrea Camilleri, Riccardino (Sellerio)

3) Antonio Manzini, Ah l'amore l'amore (Sellerio)

4) Viola Ardone, Il treno dei bambini (Einaudi)

5) Ken Follett, Fu sera e fu mattina (Mondadori)

6) Stefania Auci, I leoni di Sicilia (Editrice Nord)

7) Sandro Veronesi, Il Colibrì (La Nave di Teseo)

8) Joel Dicker, L'enigma della camera 622 (Graus) 

9) Donato Carrisi, Io sono l'abisso (Longanesi)

10) Gianrico Carofiglio, La misura del tempo (Einaudi)

e Aldo Cazzullo, A riveder le stelle (Mondadori)

Che il 2021 ci trovi in salute, con qualche soldo in tasca, più uniti e disposti al dialogo e al confronto.

Di sicuro le letture non mancheranno...

Una confidenza: come sorridete bene con gli occhi, ora che parte del viso è nascosto dalle mascherine! Continuiamo anche dopo...

Buon 2021!!

Stefano, Flavia, Giacomo, Alice, Renata


mercoledì 30 dicembre 2020

VITRIOL e Massoneria

 


Ovidio Serapo

Se la consapevolezza di sé diviene conoscenza di tutte le cose

«Vitriol e massoneria» di Raffaele K. Salinari per Tipheret edizioni. L'autore propone un itinerario affascinante non solo alla scoperta del «simbolismo» e delle «parole» del Vitriol, l’acronimo che racchiude uno dei concetti ermetici più noti, ma, ricorrendo anche a digressioni solo a prima vista eccentriche, in grado di dischiudere nuove porte e porre nuovi stimolanti interrogativi

Un viaggio alla scoperta di una consapevolezza profonda, basata su una ricerca interiore come sulla capacità di legare tra loro i diversi percorsi verso «il sapere» che ci ha regalato l’umana tensione fino a misurarsi con il trascendente e con il mistero dell’esistenza.

È INTORNO all’acronimo che racchiude uno dei concetti ermetici più noti che si sviluppa l’indagine compiuta da Raffaele K. Salinari in Vitriol e massoneria (pp. 131, euro 14, Tipheret edizioni, prefazione Gianmichele Galassi).

L’acronimo della frase «Visita Interiora Terrae Rectificando Inveniens Occultum Lapidem» (Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta), compare già nel 1613 nel testo alchemico Azoth di Basilio Valentino. «Siamo – scrive Salinari – nei primi anni del XVII secolo, il periodo d’oro dell’ermetismo cristiano che coincide con la transizione tra Massoneria operativa e speculativa». E «V.i.t.r.i.o.l.» ricorda le prime lettere di un motto dei Rosacroce. La storia dell’ordine mistico apparso in Germania in quell’epoca «si interseca così con l’ermetismo operativo e con la nascente Massoneria speculativa, sia per via del linguaggio, altamente simbolico e cifrato, sia per gli ideali, volti a favorire (…) la necessità di un rinnovamento palingenetico quanto progressivo».

IN QUESTO SENSO, l’espressione che è alla base della ricerca esorta al viaggio verso la «Pietra Occulta», posta al centro dell’essere. Per arrivarci, suggerisce la formula, dobbiamo «rettificarci», operare cioè rettamente «dentro» e «fuori» di noi; la «retta via» diviene così metafora della meta stessa. L’immortalità è in questo percorso per certi versi sinonimo del riportare alla luce la sapienza. L’acronimo «alchemico-latomistico» interroga perciò sia la possibilità di una discesa agli inferi dalla quale riemergere grazie ad una nuova consapevolezza di sé, sia i diversi percorsi che si sono dati su questa via nel corso del tempo.

ALLO SCOPO, Salinari propone un itinerario affascinante non solo alla scoperta del «simbolismo» e delle «parole» del Vitriol, ma, ricorrendo anche a digressioni solo a prima vista eccentriche, in grado di dischiudere nuove porte e porre nuovi stimolanti interrogativi. Filosofi, scienziati, religiosi, intellettuali, dai misteri egiziani alla filosofia greca, passando per induismo e buddismo, dai Sufi all’alchimia interiore cinese e via via, da Dante a Baudelaire e fino a Scholem e Benjamin, solo per ricordare alcune delle numerose tappe lungo le quali si snoda l’itinerario proposto, cui si deve aggiungere una costante e attualissima preoccupazione per il rapporto con il mondo naturale, illustrano questo procedere dentro di sé e al tempo stesso alla ricerca di una fonte ultima dell’esistente.

«Per usare un’immagine letteraria – suggerisce l’autore – possiamo pensare a questa percezione come fossimo immersi totalmente in un Aleph borgesiano, un punto in cui tutti i tempi e tutti gli spazi sono compresenti, tanto da farci cogliere, in un solo momento, l’Essenza connettiva che lega, regge, e al tempo stesso esprime, tutte le cose».

Il manifesto – 30 dicembre 2020

venerdì 25 dicembre 2020

Preghiera di Natale

     Gigi sulla via del Monviso


Giorgio Amico

Preghiera di Natale

Ho aspettato mezzanotte per sentire il suono delle campane che mi ricordano la mia infanzia. Le campane non hanno suonato. Le Messe erano finite prima in base alle nome anticovid. Ma a mezzanotte in punto, manco a farlo apposta, in strada un uomo si è messo a mandare a fan culo il mondo, gridando a squarciagola bestemmioni da far venire giù il tendone.

E così mi è venuto di pensare a Gigi, teologo agostiniano che durante una route attorno al Monviso mi fece capire la bellezza straordinaria delle opere di Sant'Agostino. Don Luigi Ghilardini, per me Gigi, prete di strada, vestito degli abiti donati alla Caritas per i poveri. Bergamasco della Val Seriana, che con mia moglie raccontava nella loro lingua della sua infanzia contadina e povera.

Gigi che mi fece capire cos'è la santità, un giorno che vicino a noi un uomo si mise a bestemmiare. Stavo in silenzio, imbarazzato, sapendo che l'amico accanto a me, vestito come un barbone, era un prete.

“Vedi - mi disse allora – la bestemmia può essere solo due cose: o un modo di dire, una brutta abitudine, un intercalare e allora non ha nessun senso e non produce nessun effetto. Oppure è il grido di un uomo che soffre e che non conosce altre parole per gridare il suo dolore.”

“Ma il mio – continuò è un Dio di amore, che accoglierà quella bestemmia come una preghiera, come una richiesta di aiuto. Per questo non mi turba, perché so che Qualcuno ascolterà il grido di quell'uomo che per il mondo dei benpensanti è un niente”.

Ciao, Gigi, dovunque tu sia ora.



giovedì 17 dicembre 2020

Beppe Dellepiane Performances

 


BEPPE DELLEPIANE

Performances

a cura di Sandro Ricaldone

Entr'acte

via sant'Agnese 19R – Genova

15 dicembre 2020 – 15 gennaio 2021

mostra virtuale

www.facebook.com/EntracteGenova


Ad un anno dalla scomparsa, Entr’acte rende omaggio alla figura di Beppe Dellepiane, artista e performer tra i maggiori della scena nazionale, attivo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.

Lo fa - a causa delle limitazioni imposte agli spazi culturali per contrastare la diffusione del contagio da CoronaVirus - con una mostra esclusivamente virtuale, incentrata sulle performances realizzate durante il decennio successivo agli esordi, in un periodo di attività assai intenso; performances nelle quali l’artista ha messo in scena azioni che riflettono simbologie complesse attinenti alla nascita, alla malattia e alla cura, al nutrimento e, naturalmente, all’arte, alla sua creazione e fruizione.

La mostra si svilupperà, con cadenza quotidiana, sulla pagina Facebook di Entr’acte: https://www.facebook.com/EntracteGenova dal 15 dicembre 2020 al 15 gennaio 2021.


sabato 12 dicembre 2020

Piazza Fontana, lo Stato è nudo

 


In ricordo delle vittime della bomba di Piazza Fontana e di Giuseppe Pinelli, militante anarchico, morto innocente nei locali della Questura di Milano.


Giorgio Amico

Piazza Fontana, lo Stato è nudo


Piazza Fontana fu per la mia generazione, o per lo meno per quella parte della mia generazione che in quel momento era attivamente impegnata in politica e rifletteva sull'esistente, la dimostrazione più evidente che il «re era nudo», che questo tipo di società, considerata non come un aggregato di individui, ma come un insieme di classi e di poteri, era disposta nei suoi stessi organi istituzionali ad abbandonare ogni tabù e ogni norma che si era data se quelli che erano gli equlibri che sorreggevano questi poteri e questi interessi erano anche minimamente messi in discussione.

Piazza Fontana fu per la mia generazione la rivelazione del carattere vero dello Stato al di là di ogni retorica. Caduti tutti gli orpelli sull'interesse generale e il bene comune, lo Stato si rivelò in quei giorni per quello che era veramente: puro esercizio della violenza in funzione del mantenimento degli assetti politici ed economici esistenti. In sostanza quello che già nell'Ottocento aveva affermato Friedrich Engels, o se si vuole, molto prima di lui, uno dei padri del pensiero politico moderno, Thomas Hobbes, con la sua teoria del Leviatano. Ovvero lo Stato come detentore del monopolio della violenza in nome della convivenza e della pace civile, ovvero della stabilità del potere.

In quei giorni tragici in molti capimmo che, quando gli interesse dei gruppi dominanti e non necessariamente solo nazionali vengono messi in discussione, allora lo Stato abbandona tutti i suoi orpelli per tornare ad essere il Leviatano: gruppi di uomini armati secondo la definizione di Engels, violenza pura. Un fenomeno già visto nella storia recente d'Italia. Nel 1922 con il fascismo andato al potere con l'appoggio pieno della monarchia, degli apparati dello Stato, dell'esercito, della magistratura, della Chiesa.

Nel dicembre 1969, dopo la bomba alla Banca dell'Agricoltura e il volo di Pinelli dalle finestre della Questura di Milano, per chi ragionava sull'esistente cadde il velo dagli occhi. Lo capì Pasolini, lo capimmo noi. Qualcuno voleva con il terrore fermare il movimento nato con le prime occupazioni del '67, l'ondata studentesca del '68 e quella operaia del '69. Un movimento che era stato soprattutto una grande festa libertaria. Ora la festa era finita. Se per qualcuno lottare contro il “sistema” era un gioco, quel gioco era finito. Come Pasolini conoscevamo nomi e appartenenze di mandanti ed esecutori. Lo Stato aveva dichiarato guerra ai suoi cittadini per preservare equilibri stabiliti altrove. L'Italia doveva ad ogni costo restare democristiana e atlantica. Il Partito comunista doveva rimanere fuori del governo. Lo voleva Washington, lo voleva la NATO , lo volevano i partiti “atlantici”, DC e PSDI in testa. Nessun cambiamento di quegli equilibri poteva essere tollerato.

Per questo nel 1978 al tempo del sequestro Moro, quelli della nostra generazione che non avevano dimenticato, sostennero la tesi del ” né con le BR né con lo Stato”. 

Certo la lotta armata era una strategia perdente che poteva solo causare lutti e finire, come accadde, con una sconfitta epocale del movimento operaio e la liquidazione politica di un'intera generazione. E dunque andava respinta e combattuta politicamente. Ma non si poteva neanche solidarizzare con lo Stato delle stragi, dei depistaggi, dei golpe. Uno Stato che aveva dichiarato guerra ai suoi cittadini per mantenere equilibri che non erano solo italiani, ma internazionali. 

Una tesi che allora fece e ancora oggi suscita scandalo fra i benpensanti, ma che allora fu anche la mia e che ancora oggi rivendico con la stessa convinzione.


mercoledì 9 dicembre 2020

Eso Peluzzi & Augusto De Paoli, Amare la Terra

 


Gulliarte, presenta negli spazi della galleria
in Corso Italia 201r. a Savona, due esposizioni d'arte:

“ Amare la Terra” - “Il mondo sulle pareti” dal 12 dicembre 2020 al 31 gennaio 2021

apertura delle esposizioni sabato 12 dicembre ore 15.30

La Galleria Gulliarte anche quest'anno sdoppia i suoi spazi espositivi, e apre in contemporanea due mostre:

- “Amare la Terra” è il titolo della mostra espositiva al piano inferiore, entrata galleria, che abbina due pittori, Eso Peluzzi e Augusto De Paoli i quali, pur nelle rispettive diversità anagrafiche e artistiche, sono uniti da quel vibrante fil rouge poetico che attraversa le loro opere. L'idea di accostarli è nata inoltre dal fatto che entrambi questi artisti, per rappresentare la natura, hanno prediletto sia quel particolare angolo di Liguria dove sorge il seicentesco Santuario della Madonna di Misericordia di Savona, sia alcuni paesi di mare affacciati sulla costa ligure, nonché molti scorci del basso Piemonte e delle Langhe. Profondamente legati alla tradizione figurativa, sebbene filtrata dalle istanze del Novecento, i Nostri, delle suddette zone, hanno rappresentato i luoghi prediletti come paesaggi dell'anima, profondendovi quell'intensa carica emotiva capace di coinvolgere con immediatezza la sensibilità dello spettatore. Il testo critico dell'esposizione è stato curato dalla Professoressa Franca Maria Ferraris.

- " Il Mondo sulle pareti" ,  è la tradizionale collettiva di natale che segue il percorso evolutivo del Brand Gulli Tappeti a GULLIarte da 8 anni. In questa esposizione, saranno visibili una selezione di opere di Artisti in permanenza in galleria, con diversi stili e materiali: dalla pittura classica figurativa a quella contemporanea astratta, dalla grafica disegnata, stampata o acquarellata, al vaso al piatto in ceramica alla scultura della medesima materia, fino a quella più sperimentale, sul legno o sul ferro.

Un riassunto, diventato un evento "cult" con la presenza di artisti in galleria, di livello nazionale ed internazionale, che con le loro opere in esposizione, potranno dare maggiore visione e possibilità, a chi ama l'arte in tutte le sue forme, stili e periodi.


I grandi rastrellamenti dell'inverno 1944


Il 5 dicembre a cura dell'ANPI di Vado Ligure e dell'ISREC di Savona si è tenuta, on line come purtroppo la pandemia rende necessario, una iniziativa sui grandi rastrellamenti del novembre 1944. Questo è il testo della relazione svolta. L'iniziativa è stata registrata ed è visibile integralmente sulla pagina Facebook dell'ANPI di Vado Ligure.

Giorgio Amico

I grandi rastrellamenti dell'inverno 1944


I grandi rastrellamenti della fine del 1944 segnano un momento centrale nella storia della Resistenza, anche se non sempre gli storici lo hanno considerato tale. Delle quasi settecento pagine della loro recentissima – e sia detto per inciso, mediocrissima - Storia della Resistenza Marcello Flores e Mimmo Franzinelli dedicano a quegli avvenimenti un paio di pagine, mentre si dilungano per decine di pagine su episodi, del tutto marginali, riguardante i contrasti tra garibaldini e partigiani di altre formazioni in alcune località del Nord.

In realtà, gli avvenimenti dell'autunno-inverno 1944 sono stati cruciali per l'esito della lotta, Roberto Battaglia, primo grande storico della Resistenza, nel suo lavoro che nonostante gli anni resta ancora in molte parti insuperato, li definisce la pagina più tragica della Resistenza dedicandogli un intero capitolo dal titolo significativo «Grandi speranze.Terribili lutti».

Grandi speranze generate dalla rapida avanzata delle truppe alleate nella primavera del 1944 che fa pensare che la guerra, almeno in Italia, sia ormai prossima a finire con una rapida occupazione della Valle Padana e la resa dei tedeschi. È convinzione diffusa che non si andrà oltre l'estate, al massimo all'inizio dell'autunno. Sull'onda di questa speranza si moltiplicano le zone liberate, dall'Ossola, alla Carnia, dalla repubblica di Montefiorino alla città di Alba.  

Ma, arrivate all'Apennino tosco-emiliano, che diventerà poi la cosiddetta «Linea gotica», gli Alleati improvvisamente si fermano, quando Bologna dista appena una ventina di chilometri e i partigiani stanno già preparando l'insurrezione in città. I motivi sono molteplici.

Lo sbarco degli Alleati a giugno in Normandia e poi agli inizi di agosto in Provenza cambia l'andamento della guerra sul fronte occidentale. Centrale diventa lo sfondamento a nord sulla linea del Reno, il fronte italiano diventa secondario.

Sul piano diplomatico i colloqui in corso fra le tre grandi potenze – Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione Sovietica – che porteranno poi alla Conferenza di Mosca del 9 ottobre, dividono l'Europa secondo aree di influenza precise. L'Europa orientale diventa di competenza sovietica e di conseguenza non c'è più la necessità per gli angloamericani di arrivare velocemente in Austria per prevenire l'Armata Rossa.

L'ampiezza della Resistenza italiana sul piano militare e il suo attivismo politico rappresentano una fonte di preoccupazione per gli alleati che diffidano dei comunisti . Il timore è che si ripeta in Italia ciò che sta accadendo in Grecia, dove una volta cacciati i tedeschi, è iniziata una feroce guerra civile fra il governo monarchico sostenuto dagli inglesi e i partigiani comunisti. In qualche modo la Resistenza italiana va messa sotto controllo. Il risultato sarà il cosiddetto Proclama Alexander che il 13 novembre invita i partigiani a smobilitare in vista dell'inverno.

Pochi giorni prima, il 27 ottobre, si erano fermate le operazioni sulla linea gotica. Il comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, il maresciallo Kesselring, può impegnare tutte le truppe disponibili nella lotta antipartigiana. Più che di rastrellamenti si deve parlare di una vera e propria  gigantesca offensiva che impegna almeno 7 divisioni tedesche e tutte le forze utilizzabili della RSI.

L'ordine di servizio del comando tedesco è significativo. Kesselring non si fida dei fascisti: “Nessuna comunicazione deve essere trasmessa. Per quanto riguarda i comandanti italiani, possono essere messe a conoscenza solo gli elementi considerati di tutta fiducia”. L'offensiva dovrà essere condotta con “la massima asprezza”. Considerato che il movimento partigiano è ormai saldamente radicato fra le popolazioni, occorre fare terra bruciata. Lo scopo dell'operazione in preparazione non è solo l'annientamento delle bande partigiane, ma terrorizzare la popolazione. In questo quadro si inseriscono le stragi di indiscriminate di civili, le più feroci dell'intera guerra, di cui Marzabotto è il caso più noto.

In realtà le operazioni antipartigiane erano già iniziate in estate. Tra agosto e settembre l'intervento è limitato ad alcuni settori del Nord-Est per tenere libere le comunicazioni con l'Austria. A settembre l'attacco si generalizza. La repubblica di Montefiorino, che controlla i passi sull'Apennino, è la prima ad essere attaccata e distrutta, poi è la volta della Carnia, dell'Ossola che fa da tramite con la Svizzera, poi la Garfagnana per ripulire le retrovie della Linea gotica. Infine Alba, occupata dai partigiani per 23 giorni, le valli piemontesi e la Liguria per rendere sicuro il retroterra del fronte francese.

Rispetto al Proclama Alexander il CLN si divide. I moderati sono per sospendere le azioni militari e limitarsi al sabotaggio. È Edgardo Sogno, che con la Organizzazione Franchi opera alle dirette dipendenze dei Servizi inglesi, il più accanito a sostenere questa tesi. Sarà Longo a nome del comando generale, ma di fatto del PCI, a dire no alla smobilitazione. Una decisione che impedisce che la Resistenza italiana sparisca dalla scena politica. A questa ferma presa di posizione del PCI e di Longo, sostenuto da socialisti e giellini, si deve se nel 1947 De Gasperi potrà affrontare con dignità la difficile prova della Conferenza di pace. Il movimento partigiano ha continuato a combattere, nel marzo 1945 è passato alla controffensiva e nell'aprile con una grandiosa insurrezione popolare ha abbattuto la Repubblica fantoccio di Mussolini e costretto i tedeschi alla resa. Gli italiani si sono liberati da soli. Per questo possono presentarsi a testa alta alla Conferenza di pace. E ciò, non va mai dimenticato, è accaduto perché nonostante un inverno durissimo, forse il più freddo dell'intero secolo, una minoranza decise di non abbandonare le armi e di continuare la lotta.

Una minoranza perché per gli effetti congiunti del Proclama Alexander, che demoralizzò soprattutto i combattenti meno politicizzati e coscienti da poco saliti in montagna, e dei grandi rastrellamenti, il movimento partigiano passò da quasi 150 mila uomini a meno di 50 mila. Non potendo resistere sulle montagne, i reparti partigiani scesero in pianura. Dalle valli alpine il cuore della lotta partigiana diventò la pianura, le Langhe, il Monferrato, l'Oltrepo pavese. Fu la cosiddetta “pianurizzazione”, accompagnata dall'intensificazione della lotta dei GAP e delle SAP nelle città.

Fondamentale fu l'appoggio dei contadini. La Resistenza diventa guerra totale di popolo. È l'appoggio popolare a far superare la prova. In pianura le bande sono costrette a frammentarsi, a suddividersi in gruppi di due o tre combattenti, ospitati dai contadini nelle loro cascine nonostante il rischio sempre presente delle rappresaglie tedesche. Il cuore della lotta, l'anello forte, per usare la bella espressione di Nuto Revelli, sono le donne. Sono loro ad accogliere i partigiani, ad accudirli, a sfamarli. In quei giovani vedono i loro figli, i loro mariti, i loro fratelli, partiti per la guerra, soprattutto per la Russia, e mai tornati. I partigiani diventano i loro figli. Sarà il coraggio delle donne delle campagne a ridare motivazioni, forza e nuovo slancio alla Resistenza. Saranno le donne delle Langhe e della campagna padana a sconfiggere Kesselring. Ed è triste che non ci sia un monumento che lo ricordi e che anche nei libri si parli quasi esclusivamente dei partigiani combattenti. Una omissione che va al più presto superata.





martedì 8 dicembre 2020

Il Medioevo: un mondo a colori

 


Giorgio Amico

Il Medioevo: un mondo a colori


La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiars.

Comme de long échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

(La Natura è un tempio dove incerte parole/mormorano pilastri che sono vivi,/una foresta di simboli che l’uomo/attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari./Come echi che a lungo e da lontano/tendono a un’unità profonda e buia/grande come le tenebre o la luce/i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi.)

Cantava così Baudelaire, cogliendo il senso profondo e autentico di ciò che noi moderni chiamiamo natura e collochiamo al di fuori di noi, ma che per gli antichi era "Kosmos", cioè l'ordine armonico di tutto ciò che esiste a partire dai quattro elementi fondamentali: l'acqua, la terra, il fuoco, l'aria. Un ordine circolare, dove inizio e fine si sovrappongono in un eterno fluire e il tempo storico perde di significato. Un universo in cui innumerevoli fili collegano tutti le manifestazioni dell'esistere in un ordine perfetto e regolare, in cui tutto si lega e ogni cosa rimanda ad un'altra, come nella Tavola smeraldina di Ermete Trismegisto:

Verum sine mendacio, certum et verissimum. Quod est inferius est sicut quod est superius, et quod est superius est sicut quod est inferius ad perpetranda miracola Rei Unius. Et sicut omnes res fuerunt Uno, meditatione Unius: sic omnes res natae fuerunt ab hac Una re adaptatione. Pater eius est Sol, mater eius Luna. Portavit illud ventus in ventre suo. Nutrix eius terra est. Pater omnis telesmi totius mundi est hic. Vis eius integra est, si versa fuerit in terram. Separabis terram ab igne, subtile a spisso, suaviter cum magno ingenio. Ascendit a terra in coelum, iterumque descendit in terram, et recipit vim superiorum et inferiorum. Sic habes gloriam totius mundi. Ideo fugiet a te omnis obscuritas. Hic est totius fortitudinis fortitudo fortis, quia vincet omnem rem subtilem; omnemque solidam penetrabit: SIC MUNDUS CREATUS EST. Hinc erunt adaptationes mirabiles, quarum modus hic est. Itaque vocatus sum Hermes Trismegistus, habens tres partes philosophiae totius mundi. Completum est quod dixi de operatione solis”.

(È vero senza errore e menzogna, è certo e verissimo. Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli della Cosa-Una (di una cosa sola). Come tutte le cose sono sempre state e venute dall'Uno, per mediazione dell’Uno, così tutte le cose nacquero da questa Cosa Unica per adattamento. Il Sole ne è il padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portata nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice. Il padre di tutto, il Telesma di tutto il mondo è qui. La sua potenza è illimitata se viene convertita in terra. Separerai la Terra dal Fuoco, il Sottile dal Denso, delicatamente, con grande cura. Ascende dalla terra al cielo e ridiscende in terra raccogliendo le forze delle cose superiori ed inferiori. Tu avrai così la gloria di tutto il mondo e fuggirà da te ogni oscurità. Qui consiste la Forza forte di ogni Forza, perché vincerà tutto quel che è sottile e penetrerà tutto quello che è solido. Così fu creato il mondo. Da ciò deriveranno innumerevoli adattamenti mirabili il cui segreto sta tutto qui. Pertanto io fui chiamato Ermete Trismegisto, possessore delle tre parti della Filosofia di tutto il mondo. Ciò che dissi sull’opera del Sole è perfetto e completo).

Se si volesse dare una definizione di cosa sia stato veramente il Medioevo, la risposta più calzante sarebbe allora che il Medioevo è stato il trionfo del simbolico. Il simbolo è onnipresente. Ogni cosa, ogni aspetto della vita, ogni manifestazione del cosmo può essere rappresentata in forma simbolica. E gli uomini del Medioevo lo fanno nelle decorazioni delle chiese, nei portali e nelle vetrate, nelle statue che ornano gli edifici sacri, nei mosaici e negli affreschi, nell'abbigliamento, oltre che ovviamente nella poesia. Un simbolismo di cui oggi in larga parte ci sfugge il significato, tanto che ancora si discute del simbolismo di Dante con interpretazioni diversissime fra di loro.

Volendosi addentrare nel simbolismo medievale, due concetti vanno sempre tenuti presenti. Per l'uomo medievale esiste una corrispondenza stretta tra nome e cosa. Insomma vale il detto latino « Nomen Omen». Per cui il noce e il melo sono alberi potenzialmente malefici perché il nome del primo, «Nux» rimanda al verbo «Nucere» (nuocere) e il secondo rimanda a «Malus». Di conseguenza uno diventa l'albero attorno al quale si radunano le streghe e il secondo diventa l'albero del frutto proibito.

Il pensiero medievale è un pensiero analogico: ogni cosa presente rimanda ad un'altra celata. Dunque Giuda Iscariota (in aramaico l'uomo di Chariot) diventa in Germania «ist gar rot» (colui che è rosso). Giuda diventa l'uomo rosso, simile al demonio e dunque un simbolo dell'inferno.

L'idea tradizionale è che il Medioevo sia un mondo in bianco e nero, idea in gran parte dovuta alle pareti spoglie delle chiese romaniche. In realtà era un mondo coloratissimo, dove esisteva un vero e proprio horror vacui. In quelle chiese che oggi ci appaiono nude non c'era metro che non fosse ricoperto di affreschi dai colori vivacissimi che il tempo e soprattutto l'uomo ha cancellato.

Ne sa qualcosa il nostro ponente savonese dove nel 1585-1586 Niccolò Mascardi Visitatore apostolico per conto del Pontefice fa ricoprire di calce gli affreschi delle chiese dell'Albenganese. Affreschi bellissimi, come quelli di Guido da Ranzo, ma ritenuti osceni per le nudità esibite soprattutto nelle rappresentazioni delle pene dell'inferno.

Negli affreschi il rosso è colore dei demoni, delle fiamme dell'inferno, della volpe (animale ingannatore), dell'ipocrisia, della menzogna, del tradimento. È il colore di Giuda, ma anche di Gano di Magonza il cui tradimento causa la disfatta di Roncisvalle e la morte di Orlando.

Il cattivo è sempre il diverso. L'handicappato, il deforme, l'appestato, l'ebreo, il musulmano, il mendicante. I cattivi sono caratterizzati da deformità, da volti con nasi adunchi o fuori misura, menti sporgenti, dentatura irregolare, pelle scura. Spesso sono mancini. Nelle rappresentazioni dell'inferno appaiono gli attrezzi di tre mestieri considerati pericolosi: i fabbri, che trasformando la materia con il fuoco sono assimilati a stregoni; i mugnai ladri perché derubano sul peso i contadini che portano il grano a macinare; i macellai crudeli perché uccidono animali innocenti.

E comunque la chiesa, anche la più umile cappella di campagna, era una struttura policroma. Le pareti, anche se non affrescate, erano interamente colorate. Così le colonne, i capitelli, le statue, gli arredi.

L'idea di un Medioevo in bianco e nero si deve a molti fattori. Incide la visione tradizionale del Medioevo come un periodo buio e già la definizione di "medio" indica un periodo di trapasso tra la grande epoca classica e la altrettanto grande modernità. Il Medioevo dunque, proprio in quanto epoca di trapasso, è in sé poco significativo.

C'è poi la Controriforma e il trionfo dell'arte barocca che trasforma radicalmente la concezione architettonica dei luoghi sacri. Gli interni delle chiese si trasformano, stucchi e ori prendono il posto degli antichi affreschi ora considerati barbarici. Tutto si incentra sull'altare considerato in luogo di una rappresentazione, concepita addirittura in modo teatrale con tanto di quinte mobili, da cui i fedeli, ridotti al ruolo di spettatori passivi, devono solo assistere. Ne abbiamo un esempio bellissimo nella chiesa, da poco restaurata, dei Gesuiti a Mondovì Piazza.

Ma prima di parlare di un medioevo a colori, occorre chiarire che, come sostiene Michel Pastoreau, il massimo studioso della simbologia medievale del colore, il colore è una“costruzione culturale complessa” e non un semplice dato esterno che lo sguardo rispecchia senza mediazioni.

La conseguenza è immediata: se il colore è un dato culturale, allora il significato del colore nell'immaginario collettivo cambia con i tempi e le culture. Così il blu scuro, un colore freddo per noi, tanto da essere usato negli abiti da cerimonia dove è richiesta la massima serietà e compostezza, era invece considerato caldissimo dagli uomini medievali.

Altrettanto vale per il contrasto fra i colori. Accostare il rosso e il verde in un abito è per noi un vero e proprio pugno negli occhi. Pensiamo a una giacca a righe rosse e verdi. Eppure rappresenta uno degli accostamenti più diffusi negli abiti medievali. Il giallo e verde, per noi un contrasto poco marcato, è invece quasi inaccettabile nel Medioevo al punto che diventano i colori degli abiti dei folli a segnarne l'alterità.

Dal XII secolo il giallo diventa il colore della menzogna e del tradimento. Giallo è l'abito di Giuda., ma anche il colore degli ebrei, gialle sono le stelle di David o gli altri simboli ebraici cuciti sul vestito perché l'ebreo sia immediatamente riconoscibile. Il Medioevo ha poi orrore del chiazzato. Gli animali chiazzati, sia veri come il leopardo o immaginari come il drago, diventano simboli del peccato e del diabolico, contrapposti al leone simbolo di regalità e di purezza.

“E' la società a fare il colore, a dare i significati” commenta Pastoreau.

Il grande dibattito medievale è se il colore sia luce o materia. Nel primo caso la valenza è positiva perché rimanda allo spirito, nel secondo negativa perché richiama il peccato che della materialità è conseguenza. Ne deriva che l'uso del colore in una chiesa può dipendere anche, se non addirittura soprattutto, dal punto di vista sul colore del fondatore dell'Ordine o del santo a cui l'edificio viene dedicato. Ne è un esempio l' Ordine cistercense che edifica chiese bellissime, ma prive di colori. San Bernardo vedeva il colore come materia e dunque come un elemento disprezzabile. Il colore distrae i monaci e i fedeli. È un ostacolo alla meditazione, oltre che un cedimento ai lussi mondani che sono pura apparenza.

Nel mondo medievale il colore gioca un ruolo fondamentale anche nella vita quotidiana. Gli abiti sono coloratissimi, così le case sia negli interni che negli esterni. Sono considerati colori veri solo quelli brillanti. Il colore evidenzia anche le differenze sociali. Le differenza fra il popolo comune e la minoranza agiata sta certo nella qualità delle stoffe usate per confezionare gli abiti, ma soprattutto nei colori: per i ricchi vivacissimi, per i poveri stinti. Conseguenza diretta della diversa qualità dei materiali, delle tinture e delle tecniche usate, ma soprattutto del fatto che i poveri hanno un corredo ridottissimo e usano gli abiti fino a consumarli, mentre i ricchi possono rinnovare il loro guardaroba garantendo così la vivezza dei colori.

Ritornando agli edifici religiosi, il problema del colore è più complesso di quanto a prima vista si immagini. Quando sono restaurati i colori delle chiese medievali sono uguali alla loro condizione originaria? La risposta è negativa . Va considerato il problema della luce, tanto che oggi particolare cura è posta proprio nell'illuminazione più idonea a rendere al meglio ogni particolare di una parete affrescata. Ma quando quegli affreschi furono dipinti, furono pensati per essere visti in ambienti scuri, illuminati dalle candele, cioè da luci fioche e in continuo movimento. Cambiamenti di luce che creavano l'impressione del movimento delle figure e il cambiamento dell'espressione dei volti. Erano, come le pitture nelle caverne del paleolitico, pensati per dare l'idea della vita e del movimento. Alla luce delle torce i tori di Lascaux sembravano balzare fuori dalle pareti della caverna, così i diavoli delle chiese medievali. Lo sottolinea Pastoreau: “I colori nella chiesa vivono e si animano secondo il corso del sole, secondo la stagione e l'ora del giorno, secondo le condizioni metereologiche”.

Anche il colore delle statue muta con i tempi. Le statue vengono ridipinte secondo le mode: abbiamo Madonne prima nere (intorno al Mille) poi vestite di rosso (XII secolo), di azzurro (XIII-XIV sec.), dorate in epoca barocca, e infine bianche nel XIX secolo con il dogma dell'Immacolata concezione.

Le statue erano tutte dipinte, non solo quelle lignee o di terracotta, ma anche quelle fabbricate in pietra. La qualità della pittura di una statua stava nella considerazione popolare alla pari con la qualità della fattura, tanto che nei laboratori medievali i pittori delle statue venivano pagati quanto gli scultori. Il colore, come si è visto, non era un semplice ornamento, ma doveva dare il senso autentico dell'opera. Come nel mondo romano il color oro, spesso mediante l'uso di oro purissimo, viene usato per simboleggiare il potere già a partire dal IX secolo e dunque le aureole di Cristo e dei principali santi sono di un oro rilucente.

Il grande cambiamento inizia nel XV secolo. La Corte di Spagna adotta abiti scuri, tendenti al nero, come simbolo di austerità. Una tendenza ripresa e rafforzata dalla riforma protestante soprattutto nelle espressioni più puritane. La controriforma riprende questo aspetto. I preti e religiosi sono vestiti di nero. L'abito scuro diventa simbolo di distinzione e serietà. Uso che è rimasto fino ai nostri giorni per le cerimonie di una certa importanza.

Insomma, volendo tirare una conclusione, la modernità segna il trionfo dei toni scuri e ci vorranno gli anni Sessanta del secolo scorso e la grande rivoluzione dei costumi del '68 per riportare i colori in primo piano e far tornare il mondo colorato.


(Testo di una lezione tenuta a Spotorno il 19 gennaio 2016)



domenica 6 dicembre 2020

Italo Calvino, studioso di fiabe 3. Dimenticare Disney per ricercare il volo magico dello sciamano

 


Giorgio Amico

Italo Calvino, studioso di fiabe 3. Dimenticare Disney per ricercare il volo magico dello sciamano


Come ogni materiale legato alla Tradizione la fiaba richiede una particolare attenzione da parte di chi le si avvicina. Il metodo suggerito da Calvino è guardare alle favole con occhi ottocenteschi, cercando di dimenticare gli stereotipi disneyani:

“E del resto, basta una sommaria scorsa a una qualsiasi raccolta fedele alla tradizione orale per capire che il popolo (parlo, beninteso, d'un popolo ottocentesco, che non ha conosciuto né le vignette di Chiostri ai "libri delle fate" Salani, né la Biancaneve di Disney, condizione di verginità che in qualche parte d'Italia esiste ancora) non "vede" le fiabe con le immagini che paiono naturali a noi, abituati dall'infanzia ai libri illustrati. Le descrizioni sono quasi sempre scheletriche, la terminologia è generica: nelle fiabe italiane non si parla mai di castello ma di palazzo; non si dice mai (o quasi mai) principe e principessa ma figlio del re, figlia del re”

Per Calvino le favole sono prima di tutto vere:

“le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d'un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano”

Nelle fiabe raccolte da Calvino centrali sono alcuni temi. Prima di tutto l'ambientazione medievale:

“l'impronta medievale sulla fiaba popolare resta, e forte. Quanti tornei per la mano delle principesse, quante imprese da cavalieri, e quanti diavoli, quanta contaminazione con le tradizioni sacre! Si dovrà dunque necessariamente indagare come uno dei momenti più importanti della vita "storica" della fiaba, quello dell'osmosi tra fiaba ed epopea cavalleresca, che si può supporre abbia avuto un suo importantissimo epicentro nella Francia gotica e di lì abbia propagato la sua influenza in Italia attraverso l'epica popolare”.

Altro elemento forte, legato all'ambiente contadino dove, come si è visto, la fiaba si è conservata nei secoli, è la miseria che rappresenta il dato realistico da cui spesso il racconto prende inizio. Scrive Calvino:

“Di contro al mondo dei re, quello dei contadini. L'avvio "realistico" di molte fiabe, il dato di partenza d'una condizione d'estrema miseria, di fame, di mancanza di lavoro è caratteristico di molto folklore narrativo italiano”

Anche se può apparire strano, soprattutto alla luce un po' dolciastra dei film di Disney, l'amore gioca un ruolo minore nelle storie:

“Nelle fiabe – annota Calvino - non s'incontra quasi mai lo schema per noi più facile ed elementare di storia d'amore: l'innamoramento e le traversie per giungere alle nozze (forse solo in qualche triste fiaba sarda, del paese in cui si fa l'amore alla finestra, si sviluppa questo tema). Le innumerevoli fiabe di conquista o liberazione d'una principessa, trattano sempre di qualcuna che non s'è mai vista, una vittima da liberare per prova di valore, una posta da vincere in una giostra per adempiere a un destino di fortuna, oppure ci se n'è innamorati in un ritratto, o solo a sentirne il nome,(...) innamoramenti astratti o simbolici, che hanno del sortilegio, della maledizione”.

La cosa si spiega con il dato culturale che l'amore, inteso come innamoramento, è un elemento moderno, quasi assente nella tradizione. La favola tradizionale privilegia il sesso, spesso raccontato in modo diretto e con un linguaggio molto libero. Per Propp è il retaggio di antichi riti di passaggio e di culti della fertilità. E questo spiega perché nelle edizioni correnti, non solo per bambini ma anche per adulti, le fiabe siano state pubblicate in versioni censurate. Solo in tempi relativamente recenti sono iniziate a uscire versioni integrali fedeli agli originali racconti orali, spesso suscitando vivaci discussioni, come nel caso delle fiabe raccolte da Afanasiev accusate in alcuni passaggi di sfiorare la pornografia.

Quanto alle fiabe liguri, come ci si può aspettare, forte è la presenza del mare. In cinque delle sette fiabe liguri della raccolta di fiabe italiane di Calvino emerge come comune denominatore la presenza del mare, in due casi già presente nel titolo (L’uomo verde d’alghe, Il bastimento a tre piani).

Accanto al mare c’è la campagna spesso caratterizzata da grande povertà: situazioni di malnutrizione in famiglie povere, spesso troppo numerose, sono richiamate dalla presenza di personaggi piccoli ed incapaci di sviluppo e crescita (Il pastore che non cresceva mai) o al contrario eccezionalmente grandi e voraci: C’era una donna con una figlia grande e grossa e tanto mangiona che proprio per queste sue caratteristiche è motivo di disperazione per la madre che deve mantenerla

Uno studioso importante, Francesco Sarchi rileva, appoggiandosi su Carlo Ginzburg che per spiegare la diffusione delle credenze sciamaniche dall'Asia all'Europa propone la sequenza storica cacciatori siberiani - nomadi delle steppe - Sciti - Traci – Celti, la presenza nelle fiabe liguri di elementi propri della cultura sciamanica. In particolare nella fiaba intitolata  Corpo senz'anima, proveniente dalla Riviera ligure di Ponente,  egli vede la trasposizione di un rito iniziatico legato al simbolismo dell'albero diffuso in tutta Europa fino alla Bretagna, la Scandinavia e la Russia:

“Innanzi tutto apprendiamo che Giuanin ottiene il permesso di andare per il mondo a far fortuna, in altre parole raggiunge l'autonomia delle persone adulte, solo dopo essere riuscito ad abbattere un grande pino. In tutta l'area europea l'albero ricopre una funzione importante nei riti di Maggio, o meglio ancora nei riti con cui, durante il periodo che va dall'inizio della primavera a San Giovanni, si celebra il rinnovamento stagionale della vegetazione, segno della rinascita della natura. Al culto agrario che assume anche i tratti di una festa dei morti in quanto centrata sull'inscindibile nesso tra morte e resurrezione è legato anche un rito di iniziazione dei giovani che consiste nella partecipazione alle operazioni di taglio, trasporto ed innalzamento di un grande albero. Sono rimaste tracce di questo rituale anche nel folklore dell'estremo Ponente Ligure e nelle aree limitrofe: a Baiardo ed a Briga, anche se, in entrambi i casi il rituale è stato sottoposto ad un tentativo di razionalizzazione storica e maldestramente ricoperto con un rivestimento medievale.(...) In una leggenda bretone troviamo un mago cattivo, chiamato anch'egli Corpo Senz'anima, che tiene prigioniera una principessa. Questo è accomunato all'antagonista della nostra fiaba non solo dal nome, anche la sua anima si trova in un uovo, "nascosto dentro uno scrigno, e lo scrigno è nascosto in una caverna, nascosta dentro una montagna" e per ucciderlo bisogna rompergli in fronte quest'uovo. (...) Giuanin, invece, per i suoi poteri di trasmutazione animale ricorda il giovane protagonista di una fiaba norvegese che ottiene allo stesso modo del ragazzo ligure la possibilità di diventare leone, falco e formica e l'eroe di un'antica bylina russa, Volkh Vseslavic, il mago figlio di un serpente capace di trasformarsi in lupo, falco e formica, toro, ermellino e pesce. E' stato possibile rinvenire elementi caratterizzanti la narrazione, raccolta da J. B. Andrews ad Arzeno alla fine del secolo scorso, in Bretagna, in Russia ed in Norvegia, vale a dire in ambito celtico, slavo e germanico, e nello scarto tra le diverse serie di metamorfosi animali descritte possiamo intravedere le tracce dell'azione di filtro e di trasmissione operata dalla cultura celtica”.

(Francesco Sarchi, Tracce della storia notturna nelle fiabe liguri (in  Anthropos e Iatria , anno XIV, n. 2 aprile – giugno 2010)  

Una tesi affascinante che da sostegno scientifico alla tesi da cui Italo Calvino era partito per il suo lavoro di raccolta. L'idea che  nella fiaba si nasconda l'ultima testimonianza di riti e miti antichissimi, sopravvissuti ai millenni proprio perché ben custoditi dall'inconscio collettivo del mondo contadino.

(Ultima parte di una lezione tenuta a Quiliano nel gennaio 2018 nell'ambito dei corsi dell'UniSabazia. Le citazioni di Calvino sono tratte dalla introduzione alla sua raccolta di fiabe italiane pubblicata da Einaudi.)


venerdì 4 dicembre 2020

Italo Calvino, studioso di fiabe 2. Da James Bruyn Andrews a Vladimir Propp e Bruno Bettelheim

 



Giorgio Amico

Italo Calvino, studioso di fiabe 2. Da James Bruyn Andrews a Vladimir Propp e Bruno Bettelheim


Nel 1954 La casa editrice Einaudi decide di pubblicare accanto ai grandi libri di fiabe popolari straniere una raccolta di fiabe italiane e affida l’incarico ad Italo Calvino che ricostruisce così la genesi del libro:

“La prima spinta a comporre questo libro è venuta da un'esigenza editoriale: si voleva pubblicare, accanto ai grandi libri di fiabe popolari straniere, una raccolta italiana (...) Era per me - e me ne rendevo ben conto - un salto a freddo (…) m'immergevo in questo mondo sottomarino disarmato d'ogni fiocina specialistica, sprovvisto d'occhiali dottrinari, neanche munito di quella bombola d'ossigeno che è l'entusiasmo - che oggi molto si respira - per ogni cosa spontanea e primitiva, per ogni rivelazione di quello che - con un'espressione gramsciana fin troppo fortunata - si chiama oggi il "mondo subalterno"; bensì esposto a tutti i malesseri che comunica un elemento quasi informe, mai fino in fondo dominato coscientemente come quello della pigra e passiva tradizione orale. 

Intanto, cominciando a lavorare, a rendermi conto del materiale esistente, a dividere i tipi delle fiabe in una mia empirica catalogazione che via via ampliavo, venivo a poco a poco preso come da una smania, una fame, un'insaziabilità di versioni e di varianti (…) Ero stato, in maniera imprevista, catturato dalla natura tentacolare, aracnoidea dell'oggetto del mio studio; e non era questo un modo formale ed esterno di possesso: anzi, mi poneva di fronte alla sua proprietà più segreta: la sua infinita varietà ed infinita ripetizione. E nello stesso tempo, la parte lucida di me, non corrosa ma soltanto eccitata dal progredire della mania, andava scoprendo che questo fondo fiabistico popolare italiano è d'una ricchezza e limpidezza e variegatezza e ammicco tra reale e irreale da non fargli invidiar nulla alle fiabistiche più celebrate dei paesi germanici e nordici e slavi”

Calvino valuta il suo come un lavoro scientifico a metà:

“È scientifica infatti la parte di lavoro che hanno fatto gli altri, quei folkloristi che nello spazio d'un secolo hanno messo pazientemente sulla carta i testi che mi sono serviti da materia prima; e su questo loro lavoro s'innesta il lavoro mio, paragonabile come tipo d'intervento alla seconda parte del lavoro svolto dai Grimm: scegliere da questa montagna di narrazioni, sempre le stesse (riducibili all'ingrosso a una cinquantina di tipi) le versioni più belle, originali e rare; tradurle dai dialetti in cui erano state raccolte (o dove purtroppo ce n'è giunta solo una traduzione italiana - spesso senz'alcuna freschezza d'autenticità - provare - spinoso compito - a rinarrarle, cercando di rifondere in loro qualcosa di quella freschezza perduta)”

Lo scrittore dunque imposta il suo lavorare su tre fasi: scegliere le fiabe più significative, tradurle dalla versione dialettale in italiano e rinarrarle. Una riscrittura intesa come un'opera di restauro che rende a pieno sia la freschezza del racconto che il suo significato profondo.

Una volta terminata, la raccolta comprenderà complessivamente duecento fiabe di cui solo sette liguri provenienti dall'estremo Ponente (cinque) e da Genova (due). Il che conferma il dato già evidenziato di come la fiaba trovi il suo habitat naturale nelle campagne più che nelle città, dove l'evoluzione culturale è stata più rapida e ha cancellato gran parte della antica tradizione orale. Calvino spiega così, perché nonostante il suo profondo legame alla Liguria, quel territorio sia tanto poco rappresentato nella sua raccolta:

“Pochissimo della Liguria (e per me era come per chi, girando il mondo, passi davanti a casa sua e trovi l'uscio chiuso), ma non per un'apparente aridità poetica dell'indole ligure; quel che ho trovato mi conferma in un'idea che avevo - fondata su sparsi indizi soggettivi - d'un gusto fantastico goticizzante e grottesco”

E aggiunge in nota ad ulteriore spiegazione:

“I Contes ligures dell'Andrews, un folklorista inglese che abitava a Mentone,(...) il volume Terra e vita di Liguria di Amedeo Pescio, per quel che riguarda le fiabe, ritraduce quasi esclusivamente Andrews in genovese. Non conosco altre pubblicazioni liguri in materia. Un fantasioso scrittore e illustratore per l'infanzia, Antonio Rubino, narrò in giornali per ragazzi e libri molte leggende del suo paese, Baiardo, nell'entroterra di Sanremo.)”

E a questo punto si rende necessaria una breve digressione su chi fosse questo bizzarro inglese, che poi inglese non era.

James Bruyn Andrews (1843-1909) nasce in una ricca famiglia di New York. Per motivi di salute si stabilisce prima in Spagna e poi dal 1871 a Mentone. Membro della Société des lettres, sciences et arts des Alpes-Maritimes et de l’École de Bellanda de Nice, si dedica a studi di linguistica e di folklore sulla regione di Mentone. In particolare si dedica a raccogliere racconti popolari e fiabe che raccoglie poi nel 1892 in francese, traducendoli dal ligure ancora parlato dagli anziani in un territorio che fino al 1861 era stato sabaudo, con il titolo «Contes Ligures». Fiabe raccolte dalla viva voce della gente. Le sue fonti sono quasi esclusivamente donne, tanto che potremmo chiamare la raccolta I racconti della nonna, sia della borghesia che del popolo. Nella versione originale in dialetto ligure questa differenza sociale si nota, sia per le modalità narrative usate che per la correttezza formale del linguaggio. Differenze preziose per comprendere come anche la memoria orale abbia modalità di trasmissione diverse a seconda della collocazione sociale e dunque culturale delle fonti. Diversità che ovviamente non si trovano più nella traduzione francese, dove il linguaggio e le modalità del raccontare diventano uniformi. Questi racconti tradizionali provengono in larga parte da Mentone (quarantaquattro), Roccabruna e Sospello, da Ventimiglia (sei) e arrivano fino ad Arzeno d'Oneglia e Genova (quattordici). Insomma, James Bruyn Andrews è il primo a raccogliere le fiabe della tradizione ligure di Ponente.

E di nuovo ci tocca fare una digressione. Questa volta andando addirittura all'estremità opposta dell'europa, nella lontanissima Russia alla ricerca di uno studioso, Vladimir Propp (1895-1970), che rappresenterà un punto di riferimento fondamentale per Calvino.

Nei suoi studi, fondamentali per chi voglia avvicinarsi con criteri scientifici a questo genere narrativo e per questo utilizzati moltissimo nella nostra scuola dell'infanzia e primaria – all'avanguardia, lo diciamo con orgoglio, nell'uso didattico della fiaba - Morfologia della fiaba e Radici storiche dei racconti di fate, Propp, che era un linguista, sviluppa il seguente schema di catalogazione e di interpretazione della fiaba che si può così riassumere:

1) Le fiabe sono di tre tipi: fiabe magiche, fiabe della vita e fiabe degli animali.

2) Esistono otto categorie di personaggi-tipo:

  1. L'antagonista: colui che lotta contro l'eroe.

  2. Il mandante: il personaggio che esplicita la mancanza e manda via l'eroe.

  3. L'aiutante magico: la persona che aiuta l'eroe nella sua ricerca.

  4. La principessa o il premio: lo scopo del  viaggio dell'eroe che spesso termina quando riesce finalmente a sposare la principessa, sconfiggendo l'antagonista.

  5. Il padre di lei: colui che fornisce gli incarichi all'eroe, smaschera il falso eroe e celebra poi il matrimonio. 

  6. Il donatore: il personaggio che prepara l'eroe o gli fornisce l'oggetto magico che lo aiuta a superare la prova.

  7. L'eroe o la vittima: colui che compie l'impresa  e sposa la principessa.

  8. Il falso eroe: la persona che si prende il merito delle azioni dell'eroe o cerca di sposare la principessa.

Spesso, uno stesso ruolo può essere ricoperto da più personaggi.

3) Lo schema della narrazione segue una scansione codificata:

1. L´introduzione alla situazione

2. Una mancanza oppure una sciagura viene rivelata e spinge l´eroe a partire da casa

3. L´eroe incontra il donatore (personaggio da cui ottiene un oggetto magico qualsiasi con l´aiuto del quale riesce a eseguire i compiti assegnati)

4. Strada facendo l´eroe può incontrare dei personaggi che lo aiutano – gli aiutanti

5. L´eroe compie i lavori assegnati

6. L´eroe vince l´antagonista

6. L´eroe ottiene il trofeo, quasi sempre la mano della principessa.

Calvino condivide le tesi di chi vede nella fiaba l'ultima testimonianza di riti e miti antichissimi, sopravvissuti ai millenni ben custoditi dall'inconscio collettivo, come in ultima analisi fa lo psicoanalista austriaco, poi naturalizzato americano, Bruno Bettelheim (1903-1990) nel suo splendido libro Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (1976) in cui sostiene che le fiabe dei Grimm sono rappresentazione di temi freudiani e dei passaggi che deve affrontare il bambino per raggiungere una maturità equilibrata.

“Le scuole – scrive Calvino - che studiano i rapporti tra la fiaba e i riti della società primitiva danno risultati sorprendenti. Che le origini della fiaba siano là mi pare indubbio”

E aggiunge in nota richiamandosi a Propp:

“Confrontando le fiabe popolari russe con le testimonianze degli etnologi sui popoli selvaggi, Propp arriva alla conclusione che la nascita di molte delle fiabe popolari giunte fino a noi sia avvenuta nel momento di trapasso dalla società dei clan, basata sulla caccia, alle prime comunità basate sull'agricoltura; quando cioè i riti di iniziazione caddero in disuso e i racconti segreti che li accompagnavano o precedevano cominciarono a esser narrati senza più alcun rapporto con le istituzioni e le funzioni pratiche cui erano legati, persero ogni significato religioso e diventarono storie di meraviglie, crudeltà e paure”.  

(Seconda parte di una lezione tenuta a Quiliano nel gennaio 2018 nell'ambito dei corsi dell'UniSabazia. Le citazioni di Calvino sono tratte dalla introduzione alla sua raccolta di fiabe italiana pubblicata da Einaudi.)

2. Continua

giovedì 3 dicembre 2020

Italo Calvino, studioso di fiabe 1

 


Giorgio Amico

Italo Calvino, studioso di fiabe 1


Tutto inizia con i fratelli Grimm all'inizio dell'Ottocento e, per quanto sembri strano trattandosi di fiabe, sotto il segno della politica. Se la rivoluzione francese aveva fatto diventare quello che ancora si chiamava il popolo minuto protagonista della storia, trasformando una plebe informe in citoyens, e con questo aveva infiammato la gioventù d'Europa, il dominio napoleonico aveva stimolato la rinascita del senso nazionale in paesi frammentati come l'Italia e la Germania. Molti intellettuali andarono verso il popolo, cercando soprattutto nelle campagne l'anima profonda e vera di una tradizione che desse senso di appartenenza ad una storia comune, ad una lingua comune, ad una collettività comune. Cercavano la tradizione, trovarono le favole, traduzione in racconti di quanto per secoli aveva sedimentato nell'inconscio di quella collettività. La scoperta letteraria della favola dunque è il frutto del romanticismo e della sua ricerca della cultura popolare come fattore di ricomposizione e fondamento del senso di appartenenza ad una nazione. Un secolo e mezzo dopo, con la sua teoria dell'etnismo François Fontan fonderà proprio sulla lingua e sulla cultura gli elementi costitutivi di una nazione e su questi presupposti baserà il programma del Partito Nazionalista Occitano, fondamento dell'occitanismo politico contemporaneo.

Tornando alla favola, all'inizio dell'Ottocento i fratelli Grimm compiono per primi questa operazione di riscoperta dell'autentico animo popolare tedesco. La prima raccolta di fiabe europee nacque in Germania sotto il nome di Kinder und Hausmärchen (Fiabe per bambini e famiglie) (1812-1815) a cura dei fratelli Jacob Ludwig Grimm (1785–1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786–1859). Lo scopo non era semplicemente letterario né antropologico. La principale motivazione che spinse i Grimm prima a ricercare e poi a trascrivere le fiabe, viste come la tradizione culturale comune dei popoli di lingua tedesca, fu il desiderio di contribuire alla nascita di una identità germanica e dunque alla nascita di una nazione.

Una cosa va chiarita subito: le loro storie non erano pensate per i bambini, ma riflettevano l'asprezza del mondo contadino, unite a temi che oggi, dopo la nascita della psicoanalisi ed in particolare di quella junghiana, definiremmo archetipali e dunque profondamente legati all'inconscio collettivo.

La prima edizione del 1812 colpisce per i molti dettagli realistici e cruenti e per la ricchezza di simbologia precristiana. È difficile oggi leggere le fiabe che raccolsero nella loro versione originale. Le loro fiabe sono pubblicate soprattutto nella forma edulcorata e depurata dei particolari più cruenti e dei riferimenti espliciti alla sessualità, della traduzione inglese della settima edizione della loro raccolta, uscita nel 1857. Quelle che leggiamo oggi sono dunque fiabe censurate. Non mancò il dibattito su questo adattamento: nel volume Principessa Pel di Topo e altri 41 racconti da scoprire (Donzelli Editore, Roma 2012) si cita una lettera di Jacob Grimm in cui egli manifesta la propria contrarietà a edulcorare le storie:


“La differenza tra le fiabe per bambini e quelle del focolare e il rimprovero che ci viene mosso di avere utilizzato questa combinazione nel nostro titolo è più una questione di lana caprina che di sostanza. Altrimenti bisognerebbe letteralmente allontanare i bambini dal focolare dove sono sempre stati e confinarli in una stanza. Le fiabe per bambini sono mai state concepite e inventate per bambini? Io non lo credo affatto e non sottoscrivo il principio generale che si debba creare qualcosa di specifico appositamente per loro. Ciò che fa parte delle cognizioni e dei precetti tradizionali da tutti condivisi viene accettato da grandi e piccoli, e quello che i bambini non afferrano e che scivola via dalla loro mente, lo capiranno in seguito quando saranno pronti ad apprenderlo”.

Lo stesso problema si pone anche a Italo Calvino nell'intraprendere la ricerca e poi la pubblicazione di una raccolta fatta con criteri scientifici di fiabe italiane:

“Nelle mie stesure, per le quali ho dovuto tener conto dei bambini che le leggeranno o a cui saranno lette, ho naturalmente smorzato ogni carica di questo genere. Una tale necessità già basta a sottolineare la diversa destinazione della fiaba nei vari livelli culturali. Questa che noi siamo abituati a considerare "letteratura per l'infanzia", ancora nell'Ottocento (e forse anche oggi), dove viveva come costume di tradizione orale, non aveva una destinazione d'età: era un racconto di meraviglie, piena espressione dei bisogni poetici di quello stadio culturale”

L'altro grande problema è la fedeltà dei testi all'originale, la loro scientificità. Calvino nell'introduzione alla sua raccolta di fiabe italiane da il seguente giudizio sui Grimm:

“Il metodo di trascrizione delle fiabe "dalla bocca del popolo", prese le mosse dall'opera dei fratelli Grimm e s'andò codificando nella seconda metà del secolo in canoni "scientifici", di scrupolosa fedeltà stenografica al dettato dialettale del narratore orale. Proprio "scientifici" come oggi s'intende i Grimm non furono, ossia lo furono a metà (...) solo una parte delle fiabe dei Grimm furono raccolte dalla bocca del popolo (essi ricordano soprattutto una contadina d'un villaggio presso Cassel); molte furono riferite da persone colte, come ricordavano d'averle sentite narrare nell'infanzia dalle loro nutrici.) i Grimm (particolarmente Wilhelm) lavorarono molto di testa loro, non solo traducendo gran parte delle fiabe dai dialetti tedeschi, ma integrando una variante con l'altra, rinarrando dove il dettato era troppo rozzo, ritoccando espressioni e immagini, dando unità di stile alle voci discordanti”.

E la definisce un tipo di fiaba “cupa e truculenta”

L'esempio dei Grimm fu presto seguito altrove. Nella Russia zarista Alexander Nikolajevič Afanasjev pubblica otto volumi di fiabe fra il 1855 e il 1864. Lo scopo è lo stesso riscoprire la tradizione e risvegliare l'autentico animo russo. L’opera è importante non solo per lo studio delle fiabe russe ma della fiaba in generale. Afanasiev fu il primo a menzionare il nome e la provenienza del narratore di ogni singola fiaba mantenendo le specificità dialettali del testo narrato. Il suo fu un lavoro scientifico. La sua raccolta di narrativa popolare orale risulta molto più fedele all'origine dell'opera dei Grimm.

Nella seconda metà del secolo, considerato anche il successo in un pubblico prevalentemente infantile dei libri di fiabe, la raccolta di favole diventa un genere letterario vero e proprio che da un lato perde, o attenua di molto, l'originaria spinta nazionalistica, dall'altra da impulso ai primi studi sul folklore. In Italia questo tipo di ricerca e di pubblicazione prende piede negli ultimi decenni dell'Ottocento, subito dopo l'unità d'Italia. Lo scopo è quello che aveva portato Pellegrino Artusi a compilare il suo bellissimo libro di cucina, che, va ricordato, per la qualità della scrittura, deve essere annoverato fra i classici della letteratura italiana dell'Ottocento. Il problema era lo stesso che agitava la classe politica postunitaria: come fare di un popolo disperso una nazione. Insomma: fare gli italiani. Come in Germania e in Russia nella cultura popolare, e dunque nella fiaba – e per Artusi nella cucina - si cercò quello che divideva ma anche univa le varie subculture regionali. Calvino riconosce l'importanza dei ricercatori toscani e siciliani:

“Ed è dalla Toscana e dalla Sicilia che ci vengono le due raccolte più belle che l'Italia possieda. Sono le Sessanta novelle popolari montalesi di Gherardo Nerucci [1880] e le Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè [1875]. L'uno è un libro in un bizzarro vernacolo del contado pistoiese, presentato come testo di lingua e bella lettura; è il libro d'uno scrittore. L'altro consiste in quattro volumi che contengono, ordinati per genere, testi in tutti i dialetti della Sicilia, con gran cura di darne la documentazione più precisa possibile, zeppi di postille con "varianti e riscontri", note lessicali e comparatistiche; è il libro d'uno scienziato”.

(Prima parte di una lezione tenuta a Quiliano nel gennaio 2018 nell'ambito dei corsi dell'UniSabazia. Le citazioni di Calvino sono tratte dalla introduzione alla sua raccolta di fiabe italiana pubblicata da Einaudi.)

1. Continua

mercoledì 2 dicembre 2020

La Grande Madre. Dalle Veneri neolitiche al Flauto magico



Giorgio Amico

La Grande Madre. Dalle Veneri neolitiche al Flauto magico


Figure femminili scolpite si ritrovano in tutto il bacino del Mediterraneo- Sono le cosiddette Veneri neolitiche. Fino a non molto tempo fa si pensava che le più antiche avessero tra i 30 e i 40 mila anni. È il caso delle Veneri dei Balzi Rossi e di Willendorf. Statuette di piccole dimensioni, qualche volta in ocra rossa. Ricordiamo di passata che l'ocra rossa, simbolo del sangue e dunque di vita, veniva spesso usata nelle sepolture ad indicare la sopravvivenza in un'altra dimensione del defunto. Scoperte più recenti, nei siti di Berekhat Ram (Israele 1981) e Tan Tan (Marocco 1999) hanno retrodatato, con un balzo all'indietro vertiginoso, le prime Veneri a 300 mila anni fa.

Si tratta con ogni evidenza di un simbolismo connesso alla fertilità anche se il carattere di questo culto risulta in sostanza ancora incerto. Ed in effetti, tanti sono ancora i misteri irrisolti. Mentre nelle pitture rupestri sono prevalenti raffigurazioni di animali e le figure umane sono spesso figure maschili mascherate da animali, e dunque immediato è l'accostamento a riti riguardanti la caccia, nella scultura si rappresentano figure femminili mai mascherate, sempre nude. Oggetti pensati per stare in piedi conficcati nel terreno e dunque oggetti di culto.

In quelle antichissime culture il corpo femminile, generatore di vita, fu sentito come sede della Forza numinosa che anima il Cosmo. Una realtà misteriosa attorno a cui ruotava un sistema di riti. Ma di che tipo di riti si trattasse resta sconosciuto. Erano riti maschili, femminili o misti? E che legame avevano con i riti dei cacciatori rappresentati nelle pitture? Non lo sappiamo.

La Grande Dea partogenetica, cioè autogenerata, è generatrice di vita, e quindi rappresentata spesso nella posizione del parto, dispensatrice di fertilità, nutrice, rappresentata con seni e glutei prominenti, ma anche reggitrice della morte. Il tema centrale del simbolismo della Dea ruota attorno al mistero della nascita e della morte. L'utero, la vulva, i seni, le natiche diventano i segni costitutivi della simbologia della Dea.

La scoperta della ceramica determina la nascita di altre forme simboliche. Levi Strauss ce lo racconta ne La vasaia gelosa. Il vaso diventa rappresentazione della forma femminile. Il contenitore del principio vitale. Una cosa è certa. Fin da tempi remotissimi la donna, in quanto madre, diventa non solo il simbolo della vita, ma anche dell'immortalità, cioè della continuazione della vita in un'altra dimensione. La forza magica della donna appare altrettanto misteriosa di quella del cosmo e a questo direttamente legata da una molteplicità di fili invisibili. È un potere che turba gli uomini. Chi è padrone del mistero della vita lo è anche di quello della morte. La dialettica santa-strega non è una scoperta moderna, ma una costante della storia dell'umanità ed esprime il tentativo inconscio del genere maschile di porre sotto controllo quelle forze misteriose che il corpo femminile sembra possedere.

Nel 1851 Johann Bachofen, eminente storico tedesco, collega il culto della dea ad una teoria generale dello sviluppo sociale. Le società più antiche sarebbero state matriarcali con discendenza matrilineare. E questo anche per la mancanze di conoscenze su come avviene la fecondazione dell'ovulo. Le pietre della fertilità, su cui le donne si strofinavano o scivolano per restare incinte, dimostrano come in origine la fecondazione non venisse collegata allo sperma maschile, ma a potenze numinose esterne presenti in luoghi ben precisi o evocabili con riti particolari. Una tesi ripresa parzialmente anche da Freud per il quale il culto delle divinità femminili rappresenta l'emergere di fantasie inconsce universali. Jung nella sua teoria degli archetipi, ci ritornerà  con il principio femminile dell'Anima.

Nel 1955 Erich Neumann sviluppa le tesi junghiane in un'opera fondamentale La Grande Madre. Il matriarcato viene visto non tanto sul piano sociale o politico, ma come una realtà che ancora opera nella psiche dell'uomo. Importante la conclusione a cui perviene: “la cultura primitiva è in larga misura il prodotto del gruppo femminile”.Una tesi oggi largamente accettata e ripresa in particolare da Joseph Campbell per il quale si può parlare di una grande rivoluzione nei rapporti con il sacro, parallela alla trasformazione della società da matriarcale in patriarcale. Anche nei riti gli uomini prendono il sopravvento. Lo sciamano, come tramite con il sacro e dunque espressione delle forze positive del cosmo sostituisce la sciamana ridotta allo stato di strega e dunque potenza negativa e malefica.

Inutile dire che il femminismo riaprirà la questione, recuperando Bachofen e cercando in alcune sue espressioni, che si rifanno sia a tradizioni esoteriche sorte a a cavallo del XIX e del XX secolo, sia a ricerche scientifiche come quelle di Margaret Murray, di ripristinare la tradizione primordiale. È la cosiddetta religione delle streghe, il neopaganesimo della Wicca, con riti legati ai cicli lunari e della vegetazione.

Riprendendo in modo più scientifico le tesi di Bachofen e fondandole su una robusta ricerca archeologica la studiosa lituana Marija Gimbutas (1921-1994) ritrova in tutta Europa. dal Baltico ai Balcani, numerosissime tracce che rivelano “la grammatica e la sintassi di una sorta di meta linguaggio” primordiale. Simboli che rappresentano un sistema ideologico organico, la religione del primo periodo agricolo del bacino del Mediterraneo. Una religione incentrata su una figura femminile, la Dea, fonte di vita, Grande Madre dal cui grembo sgorga la vita di tutte le cose, la “Signora” delle piante e degli animali.

Tracce di una religione precedente, legata alla rivoluzione agricola del neolitico, scomparsa poi dopo l'arrivo degli indeuropei, portatori di una visione maschile del sacro incentrata su culti solari. La religione degli dei solari, prende il posto della dea lunare, signora della notte e dell'acqua. Ma la Dea non sparisce nel nulla, essa continua a vivere nella psiche della specie, generando le fantasie inconsce di cui parla Freud. Lo testimoniano, al di là dei significati massonici dell'opera, la Regina della notte e il Sarastro mozartiani.

La Dea primigenia viene assunta, anche se in posizione subalterna, nella religione solare olimpica. Il mondo classico erediterà le dee (Atena, Minerva, Era, Artemide, Ecate) che diventeranno spesso spose degli dei celesti. Divinità della natura, della terra, della generazione in una società, diventata patriarcale, dove il potere politico e religioso è saldamente nelle mani degli uomini, la Dea resta padrona della notte e dei suoi riti, sempre più legata alla morte e ad una magia vista come pericolosa.

L'invasione degli indoeuropei rovescia totalmente i valori tradizionali. Il guerriero prende il posto dell'agricoltore-allevatore. Il maschio sottomette definitivamente la femmina. Il padre prende il posto della madre. Il rapporto con il numinoso diventa, e per la chiesa cattolica lo è ancora, monopolio maschile.Nondimeno, la religione della Dea e i suoi simboli sopravvissero, come una corrente sotterranea, sotto la forma della dea vergine, signora degli animali e delle piante, non maritata a un dio, di cui è esempio Artemide. Un culto sotterraneo, misterico di cui Apuleio, che ne fu iniziato e forse sacerdote, nell' Asino d'oro, (II secolo d.C.) ci ha lasciato una traccia vivissima.

“Io, madre di tutte le cose, signora di tutti gli elementi, principio di tutte le generazioni nei secoli, la più grande dei numi, la regina dei Mani, la prima dei celesti, archetipo immutabile degli dei e delle dee, a cui concedo di governare col mio assenso le luminose volte del cielo, le salutari brezze di mare, i lacrimati silenzi degli inferi; io, la cui potenza, unica se pur multiforme, tutto il mondo venera con riti diversi, con diversi nomi”.

La fine del mondo classico non segna la morte della Dea, in epoca cristiana essa riappare nella figura della Madonna, la Vergine Madre, collegata con l'acqua e le sorgenti miracolose simbolo di vita e di purificazione. Ma questo è un altro discorso.

(Testo di una lezione tenuta nell'ottobre 2016 presso il MUDA di Albisola)



martedì 1 dicembre 2020

Tornare a Manosque. Jean Giono a cinquant'anni dalla morte

 


Giorgio Amico

Tornare a Manosque. Jean Giono a cinquant'anni dalla morte


L'emergenza sanitaria, dovuta al Covid 19, ha fatto annullare gran parte delle iniziative organizzate in Francia in occasione del cinquantenario della morte di Jean Giono. Un peccato davvero, perché alcune erano di grande interesse, soprattutto a Manosque che non è poi così lontana da noi e dove lo scrittore passò gran parte della sua vita. Un'esistenza attiva, attenta ciò che accadeva nel mondo attorno a lui, comprese due guerre mondiali che gli costarono entrambe problemi giudiziari. Per pacifismo la prima, per collaborazionismo, accusa rivelatasi poi del tutto infondata, la seconda. Eppure, fu proprio lui a dichiarare, contro la retorica di una certa critica per la quale la scrittura doveva essere necessariamente “impegnata”: «Se invento dei personaggi e ne scrivo, è semplicemente perché sono alle prese con la grande maledizione dell'universo, a cui nessuno presta mai attenzione: la noia». Affermazione volutamente bugiarda e non priva di una punta di sarcasmo

Un autore, Jean Giono che sentiamo nostro e non solo perché proveniente da una famiglia di origine piemontese, ma in quanto cantore di una Provenza di cui il nostro estremo Ponente, da Bordighera in avanti, rappresenta di fatto un'anticipazione. C'è ancora chi ricorda quando molte ragazze ponentine andavano proprio nella zona di Manosque a raccoglier lavanda per potersi fare un minimo di dote. Biamonti ne parla in uno dei suoi libri più belli. “Campi di lavanda e di vento” li chiama,  tratteggiando una descrizione quasi pittorica che sarebbe piaciuta a Giono:

“Tutto l'altopiano era una zattera del cielo. Un altro vento era cominciato la brezza della «montagne de Lure» . Il deserto della lavanda, terre apriche, adesso era freddo e stellato”.

E a Manosque Giono vive, ispirandosi per i suoi romanzi ai paesaggi e agli abitanti della Provenza. Nei suoi libri, a partire dallo splendido L'uomo che piantava gli alberi, la natura è sempre in primo piano e non un semplice sfondo per le storie dei suoi personaggi. E anche in questo l'influsso sulla scrittura di Biamonti è profondo, La sua è una Provenza, reinventata ma realistica fatta di vento e di sole dove bellezza e tragedia si fondono in maniera inestricabile.

« Il romanziere – si legge nella prefazione all'ultimo volume delle sue opere apparso da poco nelle edizioni de La Pléiade – fa così saltare tutte le frontiere esistenti per creare un «Sud immaginario» di cui non si trovano i contorni su alcuna carta. (…) Queste «Alte Colline», questo «Alto Paese» d’Ennemonde, questi altipiani battuti dai venti, sono una terra immaginaria che deve tanto alla lettura degli autori greci e latini, divorati in gioventù da Jean Giono, che a quella di Whitman o più tardi di Faulkner - un territorio mitico, poetico, spesso tragico Se di Provenza si tratta, Giono presta la massima attenzione a rifiutarne i luoghi comuni”,


Ma non è solo la vicinanza geografica che ci lega a Giono. Nella sua produzione letteraria l'Italia ha un ruolo importante, a partire dal ciclo dell'Ussaro così carico di echi stendhaliani. E proprio L'ussaro sul  tetto è stato da poco ristampato da Guanda che a maggio ha pubblicato, per celebrare il cinquantenario,  la prima traduzione italiana di Melville, una biografia romanzata e in larghissima parte reinventata del grande scrittore americano autore di Moby Dick. Un libro affascinante, nato da una serie infinite di riletture del capolavoro melvilliano. Nel 1936 Giono lavora alla prima traduzione francese dell'opera di cui deve curare anche la prefazione. Prefazione che non uscirà mai perché Giono la trasforma in un romanzo in cui immagina come  lo scrittore americano durante un soggiorno a Londra nel 1849 abbia concepito l'idea del romanzo che lo avrebbe reso immortale. Un Melville che si muove tra la quotidianità della vita, compresa una storia d'amore, e la navigazione sugli sconfinati "campi di lavanda" del mare, simile nel suo tardo romanticismo a Angelo Pardi, l'ussaro innamorato assetato di avventure come il Fabrizio del Dongo de La Certosa di Parma. Una narrazione sospesa tra biografia e invenzione, l'omaggio straordinario di un grande scrittore ad un maestro della letteratura di tutti i tempi.