sabato 30 gennaio 2021

Storia, memoria, verità: riflessioni sull'ultimo libro di Marcello Flores

 


Riprendiamo dalla pagina web di Sinistra per Israele, una riflessione sulla memoria e la storia, che è anche una recensione di “Cattiva memoria”, l'ultimo libro di Marcello Flores.

David Bidussa

Storia, memoria, verità: riflessioni sull'ultimo libro di Marcello Flores

Cattiva memoria di Marcello Flores dà l’opportunità per tornare a riflettere non solo sul rapporto tra memoria e storia, ma soprattutto sui molti modi attraverso i quali oggi si produce discorso sulla storia.

A lungo abbiamo pensato che storia e memoria fossero agli antipodi e dunque che si trattasse di scegliere o di indicare intorno a quale dei due poli lavorare.

Marcello Flores ci dice in prima battuta che esiste una dimensione vischiosa di ciò che conserviamo nella memoria, ma anche che di fronte esiste un cammino impervio di provare a ricostruire fatti, eventi, scelte, opzioni perché al centro della memoria stanno prevalentemente individui, voci. Ovvero figure e che periodicamente tornano a confrontarsi con il passato che raccontano, con quello visto e/o vissuto e ogni volta la sfida è riconoscersi o meno con la versione precedente dei fatti narrati.

In questa dimensione la partita, sottolinea Flores, non è tra memoria e oblio, ma tra cancellazione, conservazione e memoria. La memoria è in breve il risultato di

1)      ciò che si ricorda; ma anche di 2)      ciò che si vuole ricordare; e soprattutto di 3) come si vuol ricordare.

Ogni volta così la narrazione del passato corrisponde non solo alle sfide del tempo presente, ma è in relazione col presente. Un presente che deve fare i conti con le eredità del passato e che spesso affronta quel percorso “controvoglia”.

Un profilo e un disagio che riguardano le memorie dei comunismi e di chi oggi si vuol fare erede di quelle storie; dei fascismi e di chi oggi pensa di aver “pagato pegno” a sufficienza e dunque si ripresenta sul mercato politico offrendo le stesse ricette di a un tempo pensando che il disagio economico e sociale, il malessere esistenziale sia una buona opportunità e una piattaforma per ripresentare ricette che già una volta hanno avuto corso nella storia. Ma soprattutto quel tema delle cattive memorie riguardano alcune questioni dirompenti che stanno nel nostro presente.

Quella che ci riguarda direttamente è l’identità dell’UE e il confronto tra le realtà politiche e culturali dell’Europa occidentale e le realtà politiche dell’ex-impero sovietico. Conflitto che è stato esaltato e in forma plateale della discussione sulla legge 2019, e che oggi rimette in discussione la centralità del 27 gennaio come data della memoria europea. Un presente segnato dalla rapida parabola delusiva del sogno europeo.

Percorso segnato da molte svolte: prima l’euro, poi il rifiuto dell’approvazione della costituzione nel 2005, poi un allargamento a Est senza un fondamento culturale e politico ma in gran parte segnato dall’ansia di stabilire un confine. Dentro il ritorno dei particolarismi, l’innalzamento delle intolleranze, l’espandersi di un clima di violenze dove progressivamente sono in aumento le zone proibite, i luoghi a rischio della convivenza.

Ma anche conflitto che denuncia oggi una stanchezza di quella data e la necessità di ripensarla pensando anche a una procedura culturale diversa. Se a lungo la scenografia dei “giorni della memoria” (non solo il 27 gennaio) è stata mettere al centro del discorso le vittime, forse occorre iniziare a considerare che quella modalità di ricordo non deve fondarsi sull’etica del risarcimento, bensì su quella della autoriflessione.

Ovvero: in ogni giornata della memoria ciò che deve stare al centro è il “non detto” del discorso collettivo. “Non detto” che implica mettere al centro non chi è stato escluso, ma l’imbarazzo. Ne discende che al centro di quel tipo di data deve stare la dinamica di “dire la verità”.

Dire la verità non significa solo dare voce agli esclusi, ma smontare le opinioni e le convinzioni su cui a lungo si è definito il compromesso culturale che ha legittimato gli equilibri di un lungo secondo dopoguerra dove ogni volta il problema era individuare un colpevole.

Dire la verità in questo senso implica decisamente come giustamente sottolinea Marcello Flores dare spazio al discorso della storia e al ruolo dell’indagine storica, ma significa anche riconoscere e vedere i limiti dell’azione culturale degli storici. Ovvero distinguere tra i percorsi della ricerca storica e dei risultati proposti dagli storici, ma poi non tralasciare la costruzione della vulgata cui pure gli stessi storici talvolta contribuiscono.

Processo in cui l’effetto è la banalizzazione della storia cui non sono estranei gli storici allorché si mettono sul piano della divulgazione, della narrazione semplificata, laddove incrociano le loro ipotesi di ricerca con la semplificazione del racconto.

Nella dimensione del ruolo pubblico dello storico non ci sono solo gli effetti di banalizzazione, e non c’è solo la competenza, ma c’è anche la consapevolezza che il racconto di storia e la ricostruzione della scena della storia non è solo il risultato di mettere insieme i fatti o di raccogliere i documenti, come a lungo molti storici hanno ritenuto. Se quel lavoro è necessario, non è più da solo sufficiente.

Ricostruire la scena della storia, soprattutto in età contemporanea, nel tempo in cui i protagonisti della scena sono ancora vivi, e gli elementi testimoniali sono ancora sul campo, significa sapere che anche altre competenze sono necessarie, spesso non possedute da una sola competenza.

Riguardano (per esempio): una sensibilità semiotica, una sensibilità letteraria, una competenza disciplinare per l’analisi sociologica, per quella antropologica, per le culture scientifiche. Una competenza legata alle forme della comunicazione che non si limita ai dati di fatto, ma come questi vengono confezionati, raccontati, costruiti e “venduti” come pacchetto di spiegazione “convincente”.

Insomma, la scena della storia necessita per affrontare la questione di raccontare il vero, di un concorso di competenze, di una ricerca che è un laboratorio, sia di temi che di figure, che lo storico tradizionale del ‘900 non è in grado di soddisfare da solo. Il che significa anche avere una percezione chiara della crisi del racconto storico, come prodotto della ricerca storica, così come ci è stato consegnato nel Novecento.


http://www.sinistraperisraele.com/2021/01/30/cattiva-memoria/

Auschwitz: Pio XII sapeva? Certo e con lui Roosevelt, Stalin e Churchill

 


Giorgio Amico

Auschwitz: Pio XII sapeva? Certo e con lui Roosevelt, Stalin e Churchill


Il giorno delle memoria e nei giorni precedenti si è sentito ripetere un po' da tutti il solito ritornello sull'Armata Rossa che, sfondati i cancelli del campo di Auschwitz, avrebbe rivelato al mondo l'orrore dello sterminio effettuato dai nazisti. Nel suo programma di storia Paolo Mieli ha, come sempre dottamente, discusso con l'accademico di turno se Papa Pio XII, fosse a conoscenza di quell'orrore. La risposta, come sempre, è stata: probabilmente si, ma tacque per non nuocere alla Chiesa nei territori occupati dai nazisti.

Mere ripetizioni di luoghi comuni privi di fondamento, che mostrano la superficialità con cui si fa informazione anche in momenti importanti quali il Giorno della Memoria, e in trasmissioni che si presentano non di semplice intrattenimento, ma con il proposito dichiarato di fare informazione storica.

Il 12 novembre 1944, due mesi e mezzo prima dell'arrivo dei russi a Auschwitz,, Victor Serge, intellettuale antifascista e antistalinista, allora esiliato in Messico dove viveva in una povertà estrema, annota nei suoi Carnets:

“Letto The Black Book of Polish Jewry [Il libro nero degli ebrei polacchi] – spaventoso.Cento volte ripetuta, con varianti di sadismo e di bestialità tecnicamente organizzato, la stessa rappresentazione di violenza , di umiliazioni e infine di sterminio negli impianti adatti.Con gli ebrei di Russia, questo porta a tre milioni di assassinati – almeno. Si supera ogni possibile immaginazione, la razionalità vacilla. Difficile pensare razionalmente.”



Dunque già nel 1944 esisteva una informazione circostanziata, facilmente accessibile, su quanto stava avvenendo in Polonia. Addirittura si era già in grado di calcolare, anche se in difetto, la portata numerica dello sterminio. Almeno tre milioni di morti, dice Serge che poi si stupisce del silenzio dei governi dei paesi, come gli Stati uniti, che pure sono in guerra con la Germania nazista.

“Un mistero assoluto – scrive -circonda i campi di sterminio [“campi di sterminio” dice Serge e non semplici campi di concentramento], vagoni asfissianti, camere a gas, ecc”.

“Camere a gas”: siamo nel dicembre 1944 e il libro a cui si riferisce era uscito a New York nel 1943. Eppure nessuno aveva ripreso quelle notizie, tutti i governi antifascisti, compreso quello sovietico, mantennero il più assoluto silenzio sullo sterminio. “Derisorie” è il termine che usa Serge per definire le reazioni alla denuncia circostanziata dell'orrore che si stava compiendo nei lager nazisti.



The Black Book of Polish Jewry è un libro di 400 pagine, pubblicato nel 1943 a cura della Federazione Americana a sostegno degli Ebrei Polacchi e dalla Associazione dei Rifugiati Ebrei e degli immigrati dalla Polonia. Il suo autore si chiamava Jacob Apenszlak e descriveva nei dettagli la politica di sterminio effettuata nei campi di Treblinka, Bełżec, e Sobibór. Il volume conteneva anche un vasto repertorio fotografico sugli orrori perpetrati dai nazisti, ne riportiamo due pagine in copertina. Dunque si sapeva, la notizia dello sterminio era di pubblico dominio e non solo a conoscenza dei governi o dei servizi segreti Eppure, tutti tacquero fino a guerra finita.

Perche? Se lo chiese Victor Serge nel 1944, continuiamo a chiedercelo noi oggi.

giovedì 28 gennaio 2021

mercoledì 27 gennaio 2021

Il simbolismo della montagna

 



Fin dalle sue origini l'uomo ha cercato di dare senso e significato alle cose. Un significato che andasse oltre la semplice apparenza, che cogliesse l'essenza intima di ogni manifestazione della vita sia degli uomini che della natura, ma che soprattutto ne esprimesse la sostanziale omogeneità e l'unità profonda. Una visione simbolica che riprende, come nota Baudelaire, il linguaggio del cosmo. In questa rappresentazione simbolica ogni cosa rimanda ad un'altra e tutte insieme alla sacralità della vita in tutte le sue manifestazioni. Il libro, di cui oggi proponiamo un passo relativo al simbolismo della montagna, è fondamentale per varcare la soglia che introduce in questa dimensione che l'uomo di oggi tende a perdere. Lo illustriamo con un lavoro di Bobo (Taz) Pernettaz, scultore valdostano, sul simbolismo profondo dell'ascesa. Taz è un poeta che si esprime con il legno al posto delle parole, ma che sa ancora guardare il mondo con gli stessi occhi di Baudelaire.

G.A.


La Natura è un tempio dove incerte parole
mormorano pilastri che sono vivi,
una foresta di simboli che l’uomo
attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari.

Charles Baudelaire


“Il simbolismo della montagna è molto ricco. Deriva innanzitutto da simbolo dell'altezza e in questo è legato alla volta celeste. La montagna è ritta, è verticale e diretta alla volta celeste. Alta si avvicina al cielo e così partecipa alla forza e alla trascendenza. La montagna deriva in secondo luogo dal simbolismo del centro. È l'asse del mondo, la dimora degli dei, il luogo in cui l'uomo può raggiungere la divinità. Come centro essa è anche punto di incontro del cielo e della terra, scala che l'uomo sale con fatica verso le cime del mondo al fine di raggiungere il mondo celeste o almeno di avvicinarsene. Come simbolo dell'altezza e simbolo del centro, la montagna è legata all'esperienza del sacro. Lo è in modo eminente come luogo privilegiato di teofanie e ierofanie.”

Julien Ries, professore di storia delle religioni all'Università di Lovanio. Ha curato il Trattato di Antropologia del Sacro edito da Jaca Book in dieci volumi. È uno dei massimi esperti viventi di simbologia.



Julien Ries 
Simbolo 
Jaca Book, 2020




domenica 24 gennaio 2021

Karl Marx


Vita e opere di Karl Marx. Materiali di un corso tenuto a Savona nel 1996.

Il quaderno è ora online e può essere scaricato. Si prega solo, se utilizzato, di citare la fonte.  

https://www.academia.edu/44967873/Karl_Marx


L'orto. Magia senza tempo

 


Il rapporto con i libri è molto simile a quello con gli uomini. Ci sono libri che attirano e poi, appena aperti e conosciuti un po' meglio, ti respingono. Ci sono libri che invece sono destinati a incontrarti. Ti aspettano, su uno scaffale di libreria o un banchetto di mercatino, sapendo che prima o poi passerai di lì e li incontrerai e sarà amore a prima vista. Sono occasioni fortunate per chi ama i libri perché si fanno scoperte che, come tutti gli amori, ti segnano nel profondo. A me è capitato ancora pochi giorni fa in edicola, dove, seminascosta fra libri illustrati per bambini e riviste dei più vari tipi, ho visto, mentre aspettavo di essere servito, la copertina di un libriccino che sembrava facesse di tutto per farsi notare. E così ho scoperto un libro affascinante, semplice e profondo, pieno di richiami al mondo della mia infanzia, alla scoperta della montagna, a quella Val Varaita, conosciuta per caso durante il servizio militare, che è con la Valle d'Aosta parte del mio cuore. Insomma quel piccolo libro conteneva un mondo. Ed è stato amore a prima vista. Di cosa tratta questo libro? Di una cosa semplice, ma fondamentale per la vita, antropologicamente e culturalmente molto più complessa di quanto si possa immaginare, una sorta di microcosmo e di storia condensata dell'umanità: l'orto di casa ed in particolare l'orto della gente della montagna. Come scrive l'autore: l'antico sogno alpino della famiglia contadina. Un libro da ricercare e da leggere per chi ama i libri, le piante, i fiori e la montagna. Di seguito la presentazione editoriale, l'indice e una scheda dell'autore.

G.A.

Fin da quando l’uomo è diventato agricoltore, la necessità di far crescere piante alimentari, ornamentali ed aromatiche, accanto all’abitazione, non si è ancora spenta. La limitata superficie agraria iniziale si è successivamente allargata e diversificata: le coltivazioni hanno occupato vasti appezzamenti, per poter produrre per il mercato, e la creazione del giardino gli ha consentito di soddisfare il proprio gusto estetico. Col tempo, quindi, l’agricoltura ha cambiato aspetto e dimensione, mentre gli ornamenti vegetali hanno sottolineato, con importanza certamente non minore, gli stili architettonici delle varie epoche. Ma l’elemento primitivo, originario di tutto questo, l’orto, l’antica dispensa famigliare, è rimasto immutato in ogni ambiente, cultura e tradizione. Molto probabilmente, è il più antico segno che l’uomo ha lasciato e che ancora oggi continua a “tracciare” ovunque esista un suo insediamento, rurale o urbano. Quasi un carattere del suo patrimonio genetico, che continua a tenerlo legato alla terra e che gli ricorda le sue primordiali origini.

Questo libro ne analizza gli aspetti riferiti al territorio alpino, dove l’orto ha mantenuto, pressoché inalterate, le sue caratteristiche, fin dalla notte dei tempi. Uno spazio che è anche l’unico tipo di giardino che, in questo ambiente morfologicamente e climaticamente difficile, è possibile realizzare, mescolando piante ornamentali ad ortaggi. La ricerca di testimonianze, sia storiche che attuali, è stata orientata, in particolare, alle valli Po e Varaita, in provincia di Cuneo, non solo in quanto sono le più conosciute dall’autore, attraverso esperienze di vita e di studi, ma anche perché hanno costituito la parte più estesa dell’antico Marchesato di Saluzzo. Un piccolo territorio che, nei suoi circa cinquecento anni di storia, tra il XII ed il XVI secolo, ha visto svolgersi le proprie vicende in un’area essenzialmente montana. In essa si sono amalgamati, anche con gli ambienti transalpini confinanti, diversi aspetti culturali, che sono leggibili soprattutto nelle tradizioni, rimaste vive fino ad alcuni decenni fa, e nei secolari elementi antropici del paesaggio.

Perché questo libro

Introduzione
Il territorio alpino
Tipologia dell’orto
L’orto nella storia documentata
L’uomo e il tempo
La Luna e la vita
La donna
Posizionamento dell’orto
Il terreno e le pratiche colturali
Gli attrezzi
Recinzioni
I ripari
Malattie delle piante
Gli spaventapasseri
Toponomastica
Ortaggi
Nuove piante dalle Americhe
Piante aromatiche e officinali
Fiori
Frutta nell’orto
Alimentazione in montagna
Ricette
Orti in Valle Varaita
Dall’orto al giardino
Orti nel Novecento
Orto didattico

Bibliografia

Aldo Molinengo, agronomo paesaggista, è nato a Saluzzo (CN) nel 1953 e vive a Rifreddo, in Valle Po. Ha conseguito la specializzazione in Parchi e Giardini presso la Facoltà di Agraria dell'Università di Torino, e si occupa di tematiche del paesaggio.

sabato 23 gennaio 2021

Raffaele K. Salinari, Sandokan e gli Assassini

 


Raffaele K. Salinari

Sandokan e gli Assassini

«Sandokan, udendo quel grido che era echeggiato in direzione del fiumicello, si era slanciato verso quella parte con velocità fulminea, seguito tosto da Yanez e da Tremal-Naik… Presso la riva cinque uomini semi-nudi, colla testa coperta da un piccolo turbante giallo, stavano trascinando fra le erbe, mediante una corda, qualche cosa che si dibatteva e che Sandokan sul colpo non poté comprendere che cosa potesse essere, essendo i kalam piuttosto alti. Avendo però poco prima udito quel grido: «Aiuto, mi strozzano!», era più probabile che si trattasse d’una povera creatura umana che d’un capo di selvaggina preso al laccio. Senza esitare un solo istante, il coraggioso pirata, con un ultimo balzo, si scagliò verso quegli uomini, gridando con voce minacciosa: «Fermi, bricconi, o vi fucilo come cani rabbiosi!». I cinque indiani, vedendo piombarsi addosso quello sconosciuto, avevano abbandonata precipitosamente la corda levando dalla fascia che cingeva i loro fianchi dei lunghi coltelli simili a pugnali e colla lama un po’ curva. Senza pronunciare una parola, con una mossa fulminea si erano disposti in semicerchio come se avessero avuto l’intenzione di chiudervi dentro Sandokan, poi uno di loro aveva svolto rapidamente una specie di fazzoletto nero, lungo un buon metro, che pareva avesse ad una delle estremità una palla od un sasso, facendolo volteggiare in aria. Sandokan non era certamente l’uomo da lasciarsi accerchiare, né intimorire. Con un salto si sottrasse a quella pericolosa manovra, puntò la carabina e fece fuoco sull’indiano del fazzoletto, gridando contemporaneamente: «A me, Yanez!». Il thug, colpito in pieno petto, allargò le braccia e cadde col viso contro terra senza mandare un grido».

Così nel XVI capitolo delle Due Tigri, Emilio Salgari descrive uno dei tanti incontri tra la Tigre della Malesia, i suoi amici più fidati Yanez e Tremal-Naik, e la terribile setta dei Thug, gli strangolatori che adoravano la Dea Kalì. Se, infatti, il tracotante Sir Brooke era il suo più potente nemico, il capo dei Thug, Suyodhana, era certo il più infido. La lotta tra Sandokan e i Thug era ancora più acerrima poiché Tremal-Naik stesso era stato uno di loro. La saga inizia infatti ben prima, con I misteri della giungla nera, pubblicato a puntate su di un quotidiano nel 1887 col titolo originario Gli strangolatori del Gange.

I Thug, storia e leggenda

E allora, come in tutte le fantastiche storie del marinaio d’acqua dolce Salgari, che si era spinto solo poche miglia oltre la sua modesta casa natale, ma la cui immaginazione travalicava gli oceani ed i continenti, il sottofondo storico della presenza di questa leggendaria setta di assassini consacrati alla Dea Kalì è storicamente accertata. E dunque, chi erano, come e perché adoravano la loro Dea?

Il primo dato nel quale situare ciò che crediamo di sapere su di loro, è che al tempo delle prime cronache apparse in Europa sulla loro presenza, l’India era un dominio inglese. Questo significa che ogni notizia era, se non falsata o strumentalizzata al fine di aumentare la presa dell’Impero sui suoi vari possedimenti, certo filtrata dalla sensibilità britannica. Chi per primo fece conoscere i Thug al grande pubblico fu Philip Meadows Taylor, ufficiale dell’esercito e poi della polizia di Hyderabad, nell’India centrale. In questa funzione indagò su misteriosi delitti che potevano essere attribuiti ai Thug. In quelle occasioni, in base alle confessioni raccolte, scrisse un romanzo storico dal titolo Confession of a Thug (1839) in cui mischiò abilmente realtà storica e romanzata. Meadows combina dunque la sua esperienza di poliziotto con quella di un suo collega d’armi, William Henry Sleeman, che aveva dato la caccia alla setta e anche ipotizzato come essi fossero i lontani discendenti del misterioso esercito dei Sagartii, citati negli scritti di Erodoto, che si battevano armati di un laccio di cuoio e di un pugnale, o gli epigono della setta degli Assassini, dalla parola Hascisc, di origine musulmana. L’uso di questa droga era, infatti, una delle armi comuni nell’attività degli strangolatori sacri. In realtà il nome Thug è un adattamento inglese dall’hindi Thag che significa «ingannatore», poiché gli appartenenti alla setta si chiamavano Phansigar che in un dialetto indù significa «strangolatori».

Grazie alle gesta di Sleeman, narrano le cronache dell’epoca, ben tremila Thug vennero catturati, molti altri giustiziati o deportati per i lavori forzati nelle isole Andamane. La descrizione dei delitti, che i britannici definivano «efferati», naturalmente mettendo da parte le loro stragi coloniali, rafforza l’agiografia di un India selvaggia e morbosa, da acculturare. Nel Guinness dei primati di quegli anni entra addirittura un Thug di nome Buhram, detentore di un record sinistro: avrebbe strangolato personalmente ben 931 vittime. Comincia così la loro lunga presenza letteraria: un Thug compare nel romanzo L’ebreo errante di Eugène Sue, Mark Twain ricorda di averne sentito parlare nel suo diario di viaggio a Varanasi. Anche la filmologia contemporanea non li disdegna: nel film The Deceivers del 1988 (Sul filo dell’inganno in italiano), Pierce Brosnan impersona una sorta di Sleeman impegnato in una tenebrosa avventura all’interno della setta, per non parlare di Indiana Jones in lotta contro una confraternita che molto li ricorda, ne Il tempio maledetto. Gli eredi, più o meno diretti, dei loro delitti rituali arrivano sino ai giorni nostri, basti pensare che alcuni criminali indiani come Koose Muniswamy Veerappan, serial killer con 120 morti sulla coscienza e numerosi rapimenti a scopo di estorsione, si rifaceva a loro. Partendo da ciò che sappiamo, possiamo dire che essi sono stati una setta certo di assassini che contava su un numero imprecisato, ma significativo, di seguaci, ma anche di simpatizzanti. L’appartenenza era segreta e gli adepti erano spesso persone che conducevano una vita comune. E dunque quali erano le origini del loro culto?

Il mito della fondazione

Secondo il loro mito fondativo la Dea, all’inizio di questo kalpa, uno dei grandi periodi cosmici, dovette lottare contro il demone Mahishasura, generato da Brahma stesso. Grazie ad intense preghiere, infatti, Mahishasura ebbe da lui la grazia di non poter essere sconfitto da alcun uomo o essere celeste. In virtù di questo potere, attaccò e sconfisse anche la sacra Trimurti, Brahma, Visnù e Shiva, scatenando il terrore sulla terra, in cielo e negli inferi. Dato che nessun uomo poteva sconfiggerlo poiché dalle gocce del suo sangue nascevano sempre nuovi mostri, fu generata Durga, letteralmente «colei che difficilmente si può avvicinare», una delle cui ipostasi è appunto Kalì.

Durante la battaglia finale la Dea, stanca, si sedette e si asciugò la fronte con un lembo di stoffa. Poi creò dal suo sudore due uomini affidando loro il lembo di stoffa con il quale si era detersa perché, servendosi di esso, l’aiutassero nella battaglia: strangolando i demoni con la stoffa non si sarebbe più sparso il loro sangue e così non ne sarebbero nati altri. Alla fine della contesa, la Dea ristabilito l’ordine cosmico, ordina ai due strangolatori di conservare per sempre il laccio usato e di trasmetterlo ai discendenti, i quali avrebbero così potuto strangolare tutti i nemici, eccetto le donne, i bambini, gli asceti, i musici e i maestri di danza. Essi potevano, anzi dovevano, uccidere per diritto divino.

Il Tantra della mano sinistra

Questo mito ci porta alla radice del loro credo religioso, che rientra in quel vasto ambito della spiritualità indiana che prende il nome di Tantra, ed in particolare quello della «via della mano sinistra». Le uccisioni perpetrate dai Thug avevano dunque lo scopo di ingraziarsi la Dea Kalì, guadagnando così meriti per sfuggire all’eterna ruota del Samsara, il ciclo delle reincarnazioni, e ciò non solo per loro stessi, ma anche per le loro vittime. Ciò però era possibile solo se queste venivano uccise secondo uno specifico rituale, che nel caso dei Thug, come vedremo, riprende il mito fondatore. Per non andare troppo lontano, basta ricordare cosa avviene nella messa cristiana con il momento centrale della Comunione, che richiama lo stesso principio. Nello specifico il loro rito sacrificale veniva chiamato Thagi, e prevedeva l’uccisione per strangolamento; era importante che avvenisse senza spargimento di sangue, proprio nel rispetto del mitologema.

E dunque a cosa si riferisce il Tantra praticato dai Thug? In esso si distinguono due percorsi principali: il dakshinachara (o samayachara), il «sentiero della mano destra», e il vamachara (o vama marga), o «sentiero della mano sinistra»; purtroppo questi termini, come tanti altri, sono stati travisati ed abusati dagli occultisti occidentali sino a farli diventare sinonimi di magia bianca o nera, satanismo e via enumerando, incluse le propaggini new age della cosiddetta Caos Magic e simili.

Tornando al Tantra, che significa letteralmente «tessitura», va detto che il tantrika, colui il quale segue le pratiche spirituali (sadhana) tantriche, pur nella molteplicità di espressioni peraltro non riconducibili alla tradizione Vedica, ricerca comunque, attraverso rituali fondati sull’unione dei principi maschile e femminile (Shiva e Shakti), una particolare via verso la Liberazione (moksa). Ciò detto, non è questa la sede per parlare di un cammino così articolato, profondo e pieno di sfumature anche in apparente contraddizione tra loro; per questo rinviamo ai testi specializzati, ed in particolare alla biografia dell’Aghori – colui che pratica la via dell’Aghora – Vimalananda, di R. E. Svoboda.

Restando in tema, vale la pena soffermarsi su alcuni aspetti dell’Aghora, proprio perché può illuminare la spiritualità dei Thug: è un cammino di purificazione e ricerca del ricongiungimento permanente con la divinità, in questo caso ipostasi della Shakti nella sua specifica forma, che ha per scopo la Liberazione (moksa), dal giogo dell’Ego e dell’illusione (maya). Si tratta di una strada classicamente iniziatico esoterica che si serve di pratiche rituali specifiche molto complesse, e oltremodo pericolose anche per la sanità mentale e fisica dei suoi adepti; non a caso viene anche definita la via delle «acque corrosive», ad indicare una corrispondenza col percorso alchemico trasmutativo.

In sanscrito il termine Ghora significa «tenebra», «oscurità», qui intese come mancanza di illuminazione, come ostacolo alla realizzazione. L’aggiunta della A privativa, da cui deriva anche l’alfa privativa greca, porta al termine Aghora, ossia mancanza di Oscurità intesa classicamente come illuminazione, liberazione dal giogo delle tenebre dell’ignoranza (avidya), e dunque alla Luce come Verità dello spirito. L’ignoranza è la causa principale della permanenza degli enti nel samsara, la ruota delle reincarnazioni, e del dispiegarsi della duhkha, la sofferenza. L’ignoranza implica un disconoscimento della natura illusoria dei fenomeni, e questo comporta all’accettazione di questo inganno come normalità.

Aghora è anche una delle cinque facce di Shiva, quella che indica la distruzione/rigenerazione, legata all’elemento fuoco ed al senso della vista. L’Aghori è dunque un sadhu, un asceta che ha intrapreso la ricerca della verità suprema; ma ciò che lo contraddistingue è la specifica condotta di vita. Il suo luogo elettivo, potremmo dire il suo tempio, infatti, sono i grandi Ghat lungo le sponde del sacro fiume Gange, la Ganga in hindi, dunque una vera e propria divinità femminile. In particolare Varanasi, la città di Shiva, dove troviamo il Manikarnika Ghat, o Mahasmashan, il più grande campo di cremazione della megalopoli e, di conseguenza, uno dei luoghi più sacri di tutta l’India. Per la visione induista poter bruciare qui il proprio cadavere giunti alla fine dell’effimera esistenza del corpo fisico, significa onorare un principio sacro. In questo luogo saturo di morte, ma anche di intensa spiritualità, dove non esistono più distinzioni di genere, di censo o di casta, dove tutto è cosparso della cenere che si deposita dal denso fumo delle cremazioni, è possibile trovare il sadhu Aghori in meditazione accanto alla pira funeraria.

Infine, evidentemente la Dea che gli Aghori venerano, come d’altronde la loro variante Thug, è Kali, l’«oscura», consorte terribile di Shiva il distruttore: la Dea simboleggia dunque il carattere oscuro ed al tempo stesso trasformatore del Dio. Qui, allora, emerge un aspetto di grande attualità del tantrismo, un approccio cioè che tiene in considerazione, oltre alla Liberazione, anche il godimento del mondo: non c’è mukti (liberazione) senza bhukti (godimento); il altre parole il mondo non è solo illusione (maya), ma potenza trasformativa, o meglio l’illusione se orientata, diventa potenza trasformativa. E Kalì è così nera, più nera delle notte, perché così essendo fa brillare l’Oscurità intorno a sé. La figura di Kalì è, bene precisarlo, non ha nulla a che vedere col kali–yuga, l’ultimo dei quattro yuga, o periodi dell’attuale kalpa, il ciclo cosmico detto anche «giorno di Brahma», di questa Manifestazione.

Baudelaire e I fiori del male

Vogliamo terminare questa breve storia dei Thug con una poesia di Baudelaire in cui, con la sua sensibilità di poeta certo «alla sinistra di Dio», egli sembra avere accesso alla visione della Dea attraverso le stesse pratiche: «Nei sotterranei di un’insondabile tristezza, Dove il destino mi ha relegato; Dove non entra mai un raggio rosa e lieto; Dove sto solo con la Notte, ospite tetra. Sono come un pittore che un Dio pieno di scherno, Condanna a dipingere sulle tenebre, O come un cuoco di funebri appetiti, Faccio bollire e poi mangio il mio cuore. Ma per un attimo brilla, si allunga e si espande, Uno spettro di grazia e di splendore. Dal suo sognante portamento orientale, Quando raggiunge il suo culmine, Riconosco la mia bella visitatrice: È lei, nera eppure luminosa».

Il Manifesto/Alias – 23 gennaio 2021

Novità in libreria. Pcd'I 1921

 


Novità in libreria. Pcd'I 1921

Nel gennaio 1921 a Livorno nasceva il Partito comunista d'Italia, sezione italiana dell'Internazionale comunista. Ma chi erano gli uomini e le donne che di accinsero all'impresa di rompere con il riformismo di Turati e il massimalismo di Serrati? Questo libro, interessantissimo, ricostruisce nei dettagli le storie di cento militanti di base. Un libro da leggere.

“Un secolo corre ormai dalla fondazione, nel gennaio 1921, del Partito comunista d’Italia, Sezione italiana della III Internazionale. La ricorrenza da una parte sollecita una ricognizione su quella pagina di lotta e sul suo sfortunato epilogo, un bilancio militante rigoroso e spassionato che dalle sconfitte del passato permetta di trarre insegnamenti per il futuro. Dall’altra è occasione per trarre dal quadro vivo delle biografie di cento tra i militanti d’avanguardia del PCd’I una testimonianza della riserva di abnegazione, coraggio, passione rivoluzionaria e disponibilità alla lotta di cui il proletariato è capace. Tutto questo, insieme, arricchisce di orientamenti l’impegno di oggi e di concretezza la prospettiva per il futuro”.

(dalla presentazione del libro)

martedì 19 gennaio 2021

A proposito della storia del PCI a cento anni dalla sua fondazione

 


Giorgio Amico

A proposito della storia del PCI a cento anni dalla sua fondazione


È appena uscito il libro di Piero Bernocchi e Roberto Massari “C'era una volta il PCI” che sarà presto nelle librerie e che comunque può già essere richesto direttamente all'editore.

Il libro rappresenta un bilancio, sintetico ma molto approfondito, della storia del Partito comunista al di là del mito, ricostruendone via via le origini, la deformazione staliniana a partire dalla “svolta” del 1928, l'asservimento agli interessi di potenza dell'URSS in tutte le sue giravolte, compreso l'alleanza di fatto con il nazismo che nel 1939 con l'aggressione congiunta alla Polonia diede origine alla guerra. Il libro denuncia con coraggio la complicità diretta di Togliatti e del gruppo dirigente del partito nei crimini di Stalin a partire dalla liquidazione fisica di anarchici e trotskisti nella Spagna del 1937. Compicità continuata nel dopoguerra con l'appoggio esplicito all'intervento sovietico in Ungheria e poi all'impiccagione di Nagy e degli altri esponenti comunisti che avevano osato rivoltarsi contro l'imperialismo russo e chiedere più libertà e autonomia per il loro popolo. Infine nell'ultima parte il volume tratta della crisi e poi della disgregazione finale di un partito e di un gruppo dirigente, Berlinguer in primis, incapace di comprendere davvero l'evoluzione della situazione italiana e internazionale degli anni '70-80.

Ed in effetti fu proprio così. Nonostante il mito ancora perdurante della lungimiranza del Partito e dei suoi dirigenti, Togliatti e Berlinguer fra tutti. Quest'ultimo oggetto di un vero e proprio culto che lo vede il punto più alto nella storia del partito, fu invece con la sua politica ondeggiante fra compromesso al ribasso con la DC e massimalismo verbale, uno degli artefici della crisi e del declino che in pochi anni, complici anche gli avvenimenti internazionali e il crollo dell'URSS, condusse alla tragicomica gestione Occhetto e alla fine ingloriosa del partito.

Un partito colto di sorpresa dal biennio rosso 68-69, incapace di comprenderne la profonda carica innovativa tanto da usarne l'enorme forza propulsiva per tentare di ricucire, con la politica del compromesso storico, lo strappo del 1947 con la DC e la strategia rivelatasi già fallimentare allora, di un governo di unità nazionale DC-PCI.

Dunque negli anni '70 mancarono risposte adeguate alla crisi del centrosinistra e all'ondata di lotte che aveva rimesso in discussione gli assetti tradizionali del potere, ma non fu l'unica occasione. Tutta la storia del PCI del dopoguerra è fatta di occasioni mancate da un partito che mai capì davvero come il Paese stesse cambiando. Nel 47 si escludeva assolutamente la possibile cacciata dal governo, nel 48 si era totalmente convinti della vittoria elettorale, nello stesso periodo si rifiutò il Piano Marshall sostenendo che avrebbe definitivamente affondato l'economia italiana. Analogamente pochi anni dopo si rifiutò più o meno con le stesse argomentazioni il MEC e, prigionieri di una schema che vedeva il capitalismo irreversibilmente in crisi, non si vide arrivare il boom economico. Così si teorizzò fino agli anni '60 il carattere stagnante e arretrato dell'economia italiana. E non fu solo questione di errori nell'analisi economica. Nonostante il suo esteso radicamento sociale non si capì cosa stesse davvero succedendo nelle fabbriche, vedi la sconfitta FIAT a metà degli anni '50, il luglio 60 fu una sorpresa e così le lotte del '62 con la lotta dura degli elettromeccanici e la rivolta di Piazza Statuto denunciate come opera di provocatori. Non si colse il fermentare della rivolta studentesca del 68 e neppure di quella operaia del 69, tanto che la FIOM difese a lungo le commissioni interne contro i consigli di fabbrica e inizialmente considerò primitiva la richiesta operaia degli aumenti uguali per tutti.

Certo il PCI fu uno dei grandi partiti della Repubblica, ma se si guarda ai dati elettorali si vede come dal 1948 alla spallata del 1968 non ci fu una significativa crescita elettorale. E comunque il partito sostanzialmente tenne, ma, come il partito francese, grazie all'enorme capitale accumulato con la Resistenza e soprattutto grazie alla totale subalternità del PSI negli anni '50 e poi al fallimento del centrosinistra negli anni 60. Tenne, è fu un grosso risultato, e si rilanciò grazie alle lotte, che pure aveva non solo non capito ma anche osteggiato del 68/69. Un rilancio non dovuto ad un ritorno a posizioni più classiste, che anzi il PCI usò questa nuova forza per trattare con la DC una ripresa della politica di unità nazionale già fallita nel 47, ma perché essendo il principale partito di opposizione questi raccolse naturalmente la grande richiesta di cambiamento espressa dalla contestazione studentesca e operaia. Un fenomeno comune a tutto l'Occidente. Per cui il maggio francese portò al governo i socialisti di Mitterand, la rivolta studentesca tedesca la SPD di Brandt e in Italia, dove il PSI era quello che era, si riversò sul PCI. Quindi nella crescita elettorale degli anni '70 non c'entra ne l'abilità di Longo ne quella di Berlinguer che al contrario, come Togliatti nel 46/47, non seppero usare questa spinta di massa per ottenere equilibri più avanzati e furono poi travolti dal suo rifluire. Riflusso a cui la politica del compromesso storico e dei sacrifici non fu certo estranea. Insomma se la spinta della lotta partigiana aveva sorretto il PCI per vent'anni, quella del '68, molto meno forte, già nel 1980 era totalmente esaurita determinando la crisi irreversibile di un partito e di una politica, quella di Berlinguer, del tutto incapace, una volta crollato il falso socialismo sovietico, di fare davvero i conti con la propria storia e trovare una propria identità. In pochi anni si passò dal togliattismo semistalinista del dopo '56, al compromesso storico, poi all'eurocomunismo per approdare infine alla piena accettazione del neoliberismo incipiente. In questo contesto la Bolognina e quello che ne seguì non poteva essere una sorpresa.

Franco Astengo, Emanuele Macaluso

 


Franco Astengo

Emanuele Macaluso

La sinistra italiana è rimasta orfana anche di Emanuele Macaluso, strenuo combattente per i diritti dei lavoratori, a 18 anni segretario della camera del lavoro di Caltanissetta.

Essere segretario della Camera del Lavoro di Caltanissetta in quel 1944 con la Sicilia occupata dagli americani e il separatismo in piena azione anche militare, voleva dire porsi il compito di difendere gli zolfatari da uno dei livelli di sfruttamento più inumani mai registrati nella storia del movimento operaio italiano.

Non è certo questa la sede per ripercorrere il suo cammino politico, la sua coerenza riformista, le sue travagliate vicende personali.

Nel PCI si era sempre distinto per la chiarezza della posizioni e la determinazione nel sostegno alle sue idee con l’utilizzo di una scienza politica ben degna del rappresentare uno degli ultimi epigoni della tradizione togliattiana.

Macaluso lo si poteva contrastare (e la sinistra comunista lo contrastò molto vivacemente in diverse occasioni) ma non certo senza riconoscergli coerenza e profonda onestà intellettuale

Em.Ma (come firmava i suoi editoriali all’epoca della direzione dell’Unità) sostenne sempre con grande forza le ragioni dell’unità a sinistra pensando anche ad un approdo di compiuta socialdemocratizzazione del Partito.

Per questo motivo, pur aderendo alla svolta occhettiana, restò sempre in posizione critica ritenendo quel processo politico non solo incompiuto ma oscillante e generico nelle sue coordinate di fondo: così sviluppò, ad esempio, il suo intervento nell’occasione della presentazione alla Camera del “Sarto di Ulm” di Lucio Magri, da lui distante per posizioni politiche ma sicuramente accostabile nel senso della tenacia di una ricerca per una dimensione diversa non dogmatica nella presenza della sinistra non soltanto all’interno del sistema politico italiano ma anche sul piano della dimensione internazionale.

Un ricordo politico coerente per Emanuele Macaluso allora può essere portato avanti anche nel solco di quel tentativo di superamento delle divisioni storiche che abbiamo cercato di realizzare attraverso il “Dialogo Gramsci – Matteotti”.

Sicuramente lui non si sarebbe fermato al “aveva ragione questo” o “aveva ragione quello” e neppure si sarebbe arreso considerando la sinistra vittima di una “eterna dannazione” come si sta cercando di descrivere in questi giorni, nei pressi del centenario di Livorno.

Ricordiamo allora Emanuele Macaluso ribadendo i punti di principio sui quali abbiamo cercato di elaborare, proprio nel nome del dialogo Gramsci – Matteotti, una visione strategica per una nuova sinistra.

Da molto tempo la sinistra italiana ha bisogno di avviare un processo di vera e propria ricostruzione.

Alcuni punti fermi di una tale rifondazione sono a nostro avviso ben individuabili e costituiscono i presupposti fondamentali della possibile ripartenza:

1) L’inutilità del mero assemblaggio delle residue forze esistenti e della stanca riproposizione di liste elettorali sempre diverse, ma immancabilmente votate al fallimento;

2) la necessità di richiamarsi ad un patrimonio storico e culturale valido sia sul piano della teoria, sia su quello della dinamica politica, superando in avanti antiche divisioni;

3) è ora di riavviare, senza anacronistici riferimenti a modelli passati (Bad Godesberg, Epinay, Primavera di Praga: tra l’altro tra loro del tutto diversi) l’elaborazione di un progetto originale che riparta delle contraddizioni e “fratture” fondamentali, incrociandole però con le nuove contraddizioni imposte dal presente. Se da una parte infatti non basta più da sola l’antica “contraddizione principale” fra capitale e lavoro, certo non si può neanche sbilanciare il discorso dall’altra parte, lasciando campo solo a temi pure urgenti come la questione ambientale, peraltro strettamente legata al modo di produzione, o una strategia dei diritti riorganizzata esclusivamente attorno alle questioni di genere. Occorre invece tornare a pensare insieme i due piani: materiale e immateriale, struttura e sovrastruttura, economia e diritto. Le faglie oggi definite “post- materialiste” devono stare dentro una strategia complessiva di trasformazione dell’esistente. Per dirla con Carlo Marx: “Non basta interpretare il mondo, occorre cambiarlo”;

4) Strettamente connesso a quanto appena detto sui mutati rapporti tra economia e politica, finanza e modello sociale, tecnica e vita civile, è anche lo sfrangiarsi individualistico della società, ma soprattutto la crisi evidente della democrazia, palesatasi dopo il 1989. Allora la fine della Guerra Fredda lungi dall’aprire ad un’epoca di “noia democratica”, ad un mondo pacificato all’insegna del liberalismo/liberismo, aprì piuttosto all’epoca della “guerra infinita” ovvero a modelli equivoci detti di “democrazia del pubblico” o “democrazia recitativa”. Si aprì insomma un’epoca di tensioni planetarie potenzialmente antidemocratiche, fondate sulla scissione tra procedimento elettorale e partecipazione dei cittadini, con l’esercizio del potere popolare messo pericolosamente in discussione. Per questo la sua rifondazione è oggi più che mai una priorità per una nuova sinistra che voglia essere all’altezza delle sfide del tempo nuovo;

5) della crisi di sistema appena richiamata sono indizio anche alcune pulsioni che pensavamo ormai accantonate, da quelle nazionalistiche, a quelle imperialiste, al ritorno di fantasmi quali il razzismo e il fascismo. Anche tutto questo ovviamente deve essere inquadrato nel contesto del mutamento delle dinamiche internazionali degli ultimi decenni. La fase presenta infatti elementi di emersione di nuovi livelli di confronto tra le grandi potenze e di profonda modificazione del processo di globalizzazione, così come si era presentato alla fine del XX secolo e, successivamente, nella fase della “grande crisi” del 2007. "Grande crisi" riaperta improvvisamente all'inizio del 2019 con l'esplosione globale dell'emergenza sanitaria. Un'emergenza che reclama sicuramente un vero e proprio "mutamento di paradigma" nelle coordinate strategiche di qualsivoglia ipotesi di cambiamento rivolta al recupero del senso dell'uguaglianza, così ferito nel corso degli anni;

6) In questo senso non ci interessa costruire una sorta di Pantheon comune fra compagne e compagni che hanno vissuto passate divisioni e che invece oggi sono unicamente impegnati ad affrontarne sfide nuove ed inedite; molto più interessante semmai una ricerca in mare aperto su quelle che definiamo “linee di successione” rispetto ai grandi del pensiero e dell’azione politica di sinistra del ‘900.

Queste la ragioni di fondo della nostra riflessione che abbiamo voluto intitolare ai due grandi martiri dell’antifascismo.

L’occasione dolorosa della scomparsa di Emanuele Macaluso nella sua proposta di laica forza del pensiero ci sembra proprio da cogliere per portare avanti il senso complessivo di questa nostra proposta di riflessione.


Comprendere è impossibile, conoscere è necessario

 


La Sezione A.N.E.D.  di Savona in collaborazione con  la  Sezione ANPI di Vado Ligure   e con il patrocinio del Comune di Vado Ligure e  dell'Isrec "Umberto Scardaoni" di Savona ha organizzato per la giornata di SABATO 23 GENNAIO 2021 alle ore 15    sulla piattaforma zoom un incontro  per ricordare il 76° anniversario della Liberazione del Campo nazista di Aushwitz Birkenau. Il  27  gennaio 1945 in quella data divenuta simbolica si celebra il Giorno della Memoria in cui viene ricordato uno dei periodi più bui dell'umanità ; la pianificazione dello sterminio di ebrei, disabili, oppositori politici, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, asociali e apolidi.

Ma ricordare significa sopratutto conoscere ciò che è avvenuto e le sue cause, perché come ammonisce Primo Levi " Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario".

Durante l'evento , sarà presentato il libro   "Destinazione Ravensbrück - L'orrore e la bellezza nel lager delle donne" scritto da Donatella Alfonso, Laura Amoretti e Raffaella Ranise .

Seguirà   l'intervento della Dott.ssa Ambra Laurenzi Presidente del Comitato Internazionale di Ravensbrück

Gli interessati potranno  frequentare l’iniziativa previo invio di un'e-mail entro MARTEDI' 20 Gennaio  2021   all’indirizzo anpivado@gmail.com  . Nella comunicazione dovranno riportare all’oggetto “Richiesta iscrizione Incontro "Giorno della Memoria ” e specificare: Nome, Cognome, Indirizzo e-mail e N. cellulare.


domenica 10 gennaio 2021

Crisi da Covid. Chi sono i veri garantiti

 

Riceviamo e volentieri riprendiamo questo intervento de L'Internazionale di Livorno. Abbiamo scelto come copertina una vignetta del grande Scalarini, vecchia di un secolo, ma sempre attuale.

Chi sono i veri garantiti

Nel suo discorso di fine anno, Giuseppe Conte si è detto “molto preoccupato” di quello che accadrà dopo il 31 marzo, giorno nel quale finirà il blocco dei licenziamenti. Si prevedono centinaia di migliaia di posti di lavoro in meno. Di fronte a questo cupo scenario, il Capo del governo ha assicurato che “ci stanno lavorando”. Può darsi. Del resto il “blocco” in questione è frutto di un’intesa opaca con le rappresentanze degli imprenditori: loro sono stati sgravati dai contributi per la cassa integrazione Covid e i loro dipendenti non hanno ricevuto la lettera di licenziamento. Una “solidarietà sociale” a costo zero per i padroni. Ora anche questa precaria forma di protezione sta per finire.

È abbastanza chiaro che al problema dovrebbero “lavorarci” anche i sindacati, ma per ora non si hanno notizie di mobilitazioni e di lotte annunciate. La giostra dei miliardi europei anima le contese politiche e, di riflesso, monopolizza l’attenzione dei vertici confederali. Ma il problema della disoccupazione presente e futura rimane. E non può attendere i miracolosi risultati che ognuno attribuisce al Recovery Fund.

La difesa più efficace dalla disoccupazione è quella che viene imposta dalla lotta.

Ottenere orari ridotti a parità di salario, organizzare una spartizione delle ore di lavoro nelle grandi imprese, tra occupati e disoccupati, rivendicare per i disoccupati di lungo periodo il “ristoro” immediato di un salario medio operaio. Sono obiettivi che appaiono oggi irrealistici ma che, nel corso della sua storia, il movimento operaio è riuscito a imporre nei momenti di massima tensione delle proprie forze.

Lottare per non farsi licenziare o perché non vengano cancellate opportunità di lavoro finora esistenti è un interesse di tutta la classe lavoratrice. Tutto ciò che ostacola l’unità dei lavoratori ne allontana la possibilità mobilitazione.

Tra gli argomenti tornati di moda per dividere i lavoratori c’è quello della divisione tra garantiti e non garantiti. Una campagna giornalistica e “culturale” strisciante accomuna imprenditori e operai del settore privato, tutti egualmente esposti, si dice, alle tempeste del mercato. Dall’altro lato della barricata starebbero i dipendenti pubblici. Senza dirlo esplicitamente, si fa passare il messaggio che gli operai del settore privato non hanno niente in comune con i lavoratori statali o delle aziende pubbliche, e che, di conseguenza, chi lavora in un’impresa privata dovrebbe scodinzolare dietro al proprio datore di lavoro, magari appoggiandone le rivendicazioni di ulteriori agevolazioni fiscali, esenzioni e provvidenze varie. La rappresentazione della società così dipinta vede nel garantito una specie di zavorra parassitaria che ostacolerebbe lo zampillare dell’energia creatrice dei nostri eroi dell’imprenditoria.

Ma le cose non stanno così: nell’insieme degli uomini e delle donne che hanno come principale o unica fonte di reddito quella che ottengono da una prestazione di lavoro subordinato, alcuni possono aver avuto la relativa “fortuna” di un impiego in un ufficio statale o in un’azienda municipalizzata, ma di fronte all’organizzazione capitalistica della società sono dei “venditori di forza-lavoro", né più né meno come i loro compagni delle imprese private. Non solo, il peggioramento delle condizioni contrattuali di lavoro colpisce tutte le categorie, spesso trasformandone le caratteristiche. Oggi, un numero enorme di operatori di enti pubblici, ospedali, scuole, comuni, è assunto con contratti a tempo determinato quando non è un dipendente di ditte e cooperative. Il precariato, quindi, si è allargato a tutti i settori e si allarga sempre di più.

Ecco che la rivendicazione di tutele di fronte al pericolo della disoccupazione, del lavoro precario e della miseria diventa un interesse collettivo di tutto il mondo del lavoro salariato. I garantiti veri sono quel 3% degli italiani adulti, che detiene il 34% della ricchezza nazionale. Sono quelli che possono anche chiudere la fabbrica di famiglia, mandando a spasso i propri dipendenti, perché i profitti accumulati per decenni si sono trasformati in patrimoni ingenti che consentiranno loro una vita agiata anche in vecchiaia e ai loro figli di bighellonare e sperperare senza nemmeno far finta di cercarsi un’occupazione. I veri parassiti e le vere zavorre sociali bisogna saperli riconoscere. Senza farsi fuorviare dalla sociologia da quattro soldi di giornalisti e intellettuali altrettanto parassitari e altrettanto garantiti.

4 gennaio 2021

 L’Internazionale 

venerdì 8 gennaio 2021

L'assalto a Capitol Hill. "Frutti avvelenati" di Franco Astengo

 


Franco Astengo

FRUTTI AVVELENATI

L’invasione del Parlamento americano da parte di una torma di facinorosi inneggianti a Trump e alla “vittoria tradita” (strana similitudine con la “vittoria mutilata”) non può essere ridotta a episodio numericamente trascurabile oppure a un rigurgito dell’America profonda o a un’altra qualunque espressione di jacquerie.

Tralasciamo anche la retorica dell’assalto al cuore della democrazia occidentale, al simbolo del sistema, ecc,ecc.

In realtà il sistema è da tempo in profonda crisi, cede il passo e quasi si arrende ai frutti avvelenati di una concezione della politica che non è semplicemente sovranista e/o populista ma rappresenta una interpretazione dei bisogni di massa e una diversa capacità di espressione attraverso il racconto raccolto dai nuovi strumenti tecnologici.

Soprattutto però la crisi deriva dall’isolamento sociale e dall’estendersi e dall’acuirsi delle contraddizioni, al riguardo delle quali la forma della democrazia “liberale” e i soggetti che la animano non riescono più a fornire una plausibile interpretazione.

I tumulti simil-golpisti verificatisi all’interno di Capitol Hill non possono che essere catalogati attraverso categorie sulle quali ci è già capitato di esercitarci e che troviamo oggi occasione di ribadire e al riguardo delle quali appare proprio come insufficiente la riflessione della sinistra a livello internazionale.

Una sinistra ormai ridotta quasi a una mera appendice “politicista” della governabilità comunque.

Siamo di fronte a:

1). Il procedere di un ulteriore processo di disfacimento sociale verso il quale l’idea della sintesi politica (una volta appartenuta alle grandi formazioni partitiche) appare inefficace;

2). L’emergenza del prevalere di una visione politica facile da semplificare nella narrazione, con l’utilizzo di una sorta di “manicheismo”: a di là o di qua, senza sfumature, proprio perché sembra impossibile rintracciare un’appartenenza definita. Si verifica così il passaggio dalla “democrazia del pubblico” (Manin) alla “democrazia recitativa”. Nella “democrazia recitativa” è facile prevedere una fase di egemonia appannaggio della destra;

3). Non è più questione di disaffezione dalle pratiche della democrazia ma di transito di interi settori sociali da una parte all’altra degli schieramenti e di una forte mobilità tra questi: per sfuggire all’incalzare dello sfruttamento, al predominio della tecnologia (cui è attribuita anche la responsabilità dell’emergenza sanitaria), considerando la “paura” quale vera e propria categoria politica, grandi masse si sono rifugiate nella certezza di una identità da difendere, la “propria” appartenenza di “focolare”.

L’azione politica viene così considerata soltanto in chiave difensiva (al limite quasi di difesa antropologica) avendo smarrito il senso dell’appartenenza a una condizione sociale. In questo modo masse di sfruttati e marginalizzati (o neo-marginalizzati) votano a destra perché credono sia loro garantita una riconoscibilità “di gregge”.

La politica appare così lontana dal quotidiano e ridotta a mera espressione di una visione intellettuale capace soltanto di mediare quasi in esclusiva la funzione del potere. Una politica che fa fatica a riconoscere il forte stridio della nuova qualità delle contraddizioni e finisce con l’assumere posizioni “mediane” ormai fuori dal tempo e frutto soltanto di una concezione arcaica dell’autonomia del politico.

Siamo di fronte a fatti che stanno mutando il quadro complessivo: al di là dell’Atlantico la difficoltà nell’insediamento di Biden sarà da verificare nei suoi effetti al riguardo della politica che potrà essere concretamente sviluppata dal nuovo Presidente che dovrà agire in un paese spaccato (Bremner oggi aggiunge anche “sotto ricatto di nuove insurrezioni”), e al di qua dell’Oceano ci sarà da analizzare l’esito della Brexit nel quadro di un tentativo di ritorno all’atlantismo.

Il tutto nel contesto dell’incertezza globale derivante dall’emergenza sanitaria.

La vigilia sembra proprio essere quella di uno “spostamento d’asse”.

mercoledì 6 gennaio 2021

L'angolo di Bastian Contrario. Massoneria, vaccini e Papa Francesco



L'angolo di Bastian Contrario

Massoneria, vaccini e Papa Francesco

Che i massoni da sempre siano dietro ogni cosa che avviene nel mondo, dalla rivoluzione francese a quella russa, dal fascismo al comunismo, dalla degenerazione dei costumi alla criminalità organizzata, è cosa talmente risaputa da non stupire più nessuno. Diciamo che a furia di sentirlo ripetere ormai ne sono convinti pure loro.

Per fortuna c'è chi anche in questo campo prova a dire qualcosa di nuovo. Riprendiamo due recentissime perle di saggezza di un pastore evangelico che imperversa su internet. La prima riguarda la massoneria intenta a allontanare l'uomo da Dio facendolo vaccinare contro il covid. Perché è noto a tutti coloro che hanno fede che contro le pandemie basta leggere la Bibbia e confidare nel Signore.

La seconda è contro Papa Francesco, santamente mandato all'Inferno perché tratta fraternamente chi non la pensa come lui, e dunque è chiaramente un massone:

I massoni vogliono trascinare le Chiese ad avere fiducia nell’uomo anziché in Dio, a confidare nella sapienza umana anziché nella sapienza di Dio, nella forza umana anziché nella potenza di Dio. E’ così evidente che solo i ciechi non lo vedono. (...)

Ma voglio ricordarvi, fratelli, che c’è una maledizione contro chi confida nell’uomo (...) Confidate in Dio quindi, non importa quello che potrà accadere. Nelle mani di Dio siete al sicuro, ma non vi mettete nelle mani degli uomini”.

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Un altro messaggio massonico del massone Bergoglio: “Preghiamo perché il Signore ci dia la grazia di vivere in piena fratellanza con i fratelli e le sorelle di altre religioni”. (...)  “Bergoglio il giorno della tua morte si sta avvicinando, ravvediti e credi nell’Evangelo, ed esci dalla Chiesa Cattolica Romana, altrimenti quando morirai te ne andrai all’inferno”.

***

Che cosa un povero peccatore può aggiungere a tanta fraterna e cristiana saggezza? Neanche il Testimone di Bagnacavallo, il grande e mai abbastanza rimpianto Giorgio Faletti, sapeva fustigare l'umana nequizia con tanto santo vigore.

E voi massoni, mostri perversi, figli del demonio, maestri di ogni turpitudine, pentitevi perché il giorno del giudizio si avvicina. Altrimenti finirete a bruciare nell'inferno insieme al vostro capo Bergoglio (alias Papa Francesco)


L'Ottobre rosso come non l'avete mai visto

 Da un sito di compagni argentini riprendiamo una serie di fotografie sull'Ottobre. in parte conosciute, ma non con questa  nitidezza dei colori che le rende vive





















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Novità il libreria. 68 i muri ribelli

 




Guido Festinese

Mappe dei movimenti, memoria sociale magmatica del futuro


Un lungo ’68 da vedere. Dai prodromi della prima comunicazione grafica sui muri, quando la faccia barbuta di Marx si affacciava sull’intonaco, alla lunga e dimenticata coda di manifesti che va a innervarsi nell’inizio degli anni ’90, quando i centri sociali già mettevano in guardia contro il pericolo di una Lega ancora Nord sempre più aggressiva e abile a spargere veleno razzista, cavalcandone gli esiti funesti.

È 68 I muri ribelli (euro 20, ordinabile presso archiviomovimenti.org), corposo volume illustrato di oltre trecento pagine appena uscito con la curatela dell’Archivio dei Movimenti di Genova, Archimovi, una struttura che, dal 2009, e in collaborazione con la Biblioteca civica Berio ha fatto della memoria e dello studio dei movimenti (non solo in Italia, peraltro) un punto fermo per la produzione di materiali audiovisivi, libri, mostre, raccogliendo ogni tipo di fonte: volantini, opuscoli, filmati, oggetti, riviste, fotografie. Tutto ciò che possa servire a ricostruire i tasselli di un puzzle sociale magmatico e vitalissimo, anche visto con gli occhi di poi, in ogni caso stellarmente distante dalla retorica battente di un intero periodo ridotto alla formula asfittica degli «anni di piombo».

ANNI DI SUPERCONDUZIONE di idee, invece: che non a caso si conquistano il posto d’onore nell’immagine scelta per la copertina del libro, con il celebre manifesto che raffigura un gendarme armato di manganello visto dal basso, dalla prospettiva di un manifestante atterrato brutalmente, diremmo, e con lo slogan efficace «vietato calpestare le idee».

Scorre un fiotto di storia poderoso e imprescindibile, dai «muri ribelli», e se è vero che viviamo in un’epoca di superfetazione delle immagini, spesso costruite in modo da azzerare ogni ulteriore riflessione, nel narcotico bombardamento incessante da schermi grandi e piccoli, è vero anche che, a rivedere in sequenza stampe tipografiche, serigrafie, disegni, eliografie del testo (l’Archivio ne custodisce oltre seicento) si comprende quanto sia stata efficace e costruttiva, invece, una «cultura delle immagini» coi piedi saldi nella storia che si è occupata di fotografare in tempo reale quanto succedeva nella società, comunicandola dai muri delle città e dei paesi.

IL MANIFESTO CHE INVITA a non usare il rame arrivato in porto a Genova sulle navi dal Cile dell’orrore di Pinochet, quelli per il Vietnam sotto i bombardamenti al napalm Usa e il Nicaragua, Valpreda e i boicottaggi delle mostre belliche. Una falce e martello con la scritta «il manifesto».

È l’annuncio di un comizio di Luigi Pintor a piazza Matteotti, cuore di Genova.
Un buon corollario di testi agili e ma densi ricostruisce storia e manifesti dei movimenti, con interventi di Paola De Ferrari, Virginia Niri, Roberto Rossini, Ferruccio Giromimi, schede archivistiche curate da Alice D’Albis, fotografie di Adriano Silingardi.

Una riflessione finale dagli interventi sul libro? Il manifesto politico del «lungo ’68» ha prodotto nuovi oggetti comunicativi che hanno scardinato la benjaminiana «aura» dell’arte, restituendo la possibilità di fare, inventare, creare a tutti: l’arte della comunicazione come bene comune, insomma, o, anche, come si diceva in slogan, «l’immaginazione al potere»: non più fruitori di immagini, ma produttori diretti, quando suona il campanello della storia e della mobilitazione.

UNA LEZIONE che pervade ancora oggi la produzione dei movimenti contro il cambiamento climatico, il Black Lives Matter, e chissà quant’altro in futuro. Con i «muri ribelli» del ’68 c’è anche un aspetto ludico: Massimo Tonon e Virginia Niri hanno ideato una webapp per giocare con i manifesti. Basta inquadrare col telefono il riquadro apposito, e parte il tutto.

Il Manifesto 5 gennaio 2021