TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 27 aprile 2021

Fratelli a tavola. Cibi, menù, vizi e virtù della cucina massonica

 

Oggi per il mio 72° compleanno mi è arrivato del tutto inaspettato questo graditissimo dono.

Fratelli a tavola. Cibi, menù, vizi e virtù della cucina massonica

In questo libro vedrete schemi di comportamento per fare una cucina che non è né utile né pratica ma piena di sentimenti e di  fascino. Agli iniziati risulterà emotiva ed edificante, agli occultisti un po’ magica e ai profani, scettici del mondo esoterico, piacevole e accattivante. Un viaggio nelle sacralità del cibo e nei suoi significati, ma anche nelle tecniche e nelle culture gastronomiche. Un modo per vedere il piatto con altri occhi e gustare il cibo con un palato “risvegliato”.

Così recita il risvolto di copertina.

Ma pochi sanno che, oltre a tramare oscuri complotti, come molti ancora pensano, i Liberi Muratori hanno consuetudine al termine dei loro lavori rituali di condividere  il pane ed il vino a rinsaldare la loro fratellanza. Si tratta di una usanza antichissima che risale alle corporazioni muratorie, ai costruttori delle grandi cattedrali gotiche che, a stare alle parole di un famoso cronista medievale,  "come un manto bianco ricoprono l'Europa”. Consuetudine ripresa dalla Massoneria speculativa moderna. Che un pasto in comune fosse abitualmente consumato al termine dei lavori di Loggia, almeno a partire dal 1717 o comunque dalla fondazione della Gran Loggia di Londra, è attestato dai Doveri di un Libero Muratore allegati alle Costituzioni elaborate dall’Anderson nel 1723. Infatti, all’art. 2 dei Doveri, sotto il significativo titolo di Comportamento quando la Loggia è Chiusa ed i Fratelli non sono usciti che consente di situare le relative prescrizioni dopo la chiusura dei lavori rituali, si legge: «Potete divertirvi con innocente allegria, trattandovi l’un l’altro a vostro talento, ma evitando ogni eccesso, o di spingere alcun Fratello a mangiare o bere oltre la sua inclinazione…».

Ancora meno persone sanno che proprio a questo tipo di banchetto si riferiva il giovane Marx, iniziato con Engels alla Lega dei Giusti (che diventerà poi dei Comunisti), organismo paramassonico che in derivazione diretta dal Compagnonaggio riuniva gli operai socialisti francesi che della Fratellanza universale avevano fatto il loro motto, lo stesso che ancora oggi campeggia all'Oriente di ogni Loggia italiana: Libertà-Uguaglianza-Fratellanza.

Scrive Marx, che a questi banchetti partecipò da giovane liberale e ne uscì conquistato all'idea di una società di uomini liberi e uguali:

“Quando gli operai comunisti si riuniscono, essi hanno primamente come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo è diventato scopo. Questo movimento pratico può essere osservato nei suoi risultati più luminosi se si guarda ad una riunione di “ouvriers” socialisti francesi. Fumare, bere, mangiare ecc. non sono più puri mezzi per stare uniti, mezzi di unione. A loro basta la società, l'unione, la conversazione che questa società ha a sua volta per iscopo; la fratellanza degli uomini non è presso di loro una frase, ma una verità, e la nobiltà dell'uomo s'irradia verso di noi da quei volti induriti dal lavoro”.

Meglio non si sarebbe potuto descrivere lo spirito autentico di una agape massonica, che non è una semplice appendice conviviale ai lavori nel Tempio.

Un libro da leggere dai "figli della vedova", ma anche dai "profani". Fonte di meditazione per chi voglia comprendere il senso profondo di pratiche spesso ripetute in modo meccanico e superficiale, e dunque non iniziatico, ma anche una scoperta per chi non ha timore ad andare controcorrente e vuole non giudicare secondo stereotipi, ma capire.


Mauro Bonanno- Maria Costa
Fratelli a tavola
Cibi, menù, vizi e virtù della cucina massonica
Gruppo editoriale Bonanno, 2020


lunedì 26 aprile 2021

Autonomia operaia a Genova e in Liguria (1973-1980)

 

Autonomia operaia a Genova e in Liguria

(1973-1980)

Il fatto che l’Autonomia operaia negli anni Settanta sia stata a Genova e in Liguria, rispetto ad altre aree in Italia, una vicenda minore (o meglio, che ha fatto parlar meno di sé) non costituisce un buon motivo per non scriverne. Da un lato ci sono abbondanti ragioni che spiegano perché, nonostante la storica centralità, economica e industriale, della città e della regione, e nonostante la ricchezza culturale espressasi localmente almeno sino alla fine degli anni Sessanta, una prassi innovativa come quella dell’operaismo militante prima e dell’Autonomia operaia poi si sia schiantata contro il muro della composizione di classe locale e della sua rappresentanza politica. Dall’altro un movimento così ricco nei suoi momenti culminanti (il Settantasette romano e bolognese) e così persistente nel tempo e radicale nelle analisi, è proprio nelle situazioni apparentemente più povere o meno clamorose che può meglio essere studiato, perché è lì che si presenta in modo più addensato ed essenziale. Ed è lì che l’arretratezza del contesto può mostrare in anticipo i segni del suo superamento.

Il libro, prima parte di un’opera in due volumi, ricostruisce il percorso di una federazione di comitati che nel corso degli anni Settanta, a Genova, hanno dato forma a una critica radicale al duplice conservatorismo locale: quello del ceto mercantile e redditiero e quello del Partito comunista in alleanza con il sindacato. Lo scontro, aspro e violento, si è svolto in uno scenario caratterizzato dal declino industriale di quello che era stato uno dei vertici del triangolo economico dell’Italia del Novecento, dall’egemonia del Partito comunista e dalla vicenda totalizzante delle Brigate rosse.

Gli autonomi fanno intervento nelle fabbriche, praticano e diffondono l’autoriduzione, intercettano il movimento delle donne, creano centri di aggregazione territoriale, si espandono nelle scuole, si scontrano in piazza, fondano un giornale e una libreria, affrontano la difficile partita identitaria di una scena mediatica e politica interamente subordinata alla repressione. Questo libro è il racconto di questa «breve ma intensa estate ligure».

Gli autonomi genovesi sperimenteranno, infatti, in anticipo la ristrutturazione capitalistica che nei decenni successivi porterà alla scomparsa del lavoro operaio e dovranno trasformarsi in laboratorio di ricerca per nuovi piani della critica.

Roberto Demontis (1960), genovese, militante dell’Autonomia operaia, è stato tra i fondatori della Associazione Città Aperta e tra gli organizzatori delle mobilitazioni contro il G8 nel 2001. Giorgio Moroni (1951), genovese, ha militato in Potere operaio e in Autonomia operaia. Ha pubblicato saggi e interventi sul movimento e sui gruppi negli anni Settanta. È autore di una ricerca inedita sulla sinistra radicale a Genova a partire dagli anni Cinquanta. È stato tra i fondatori dell’Archivio dei Movimenti a Genova.


Gli autonomi, vol. VII
Prima parte
Autonomia operaia a Genova e in Liguria.
(1973-1980)
A cura di Roberto Demontis e Giorgio Moroni
DeriveApprodi
euro 20,00

sabato 24 aprile 2021

Dialogo con un amico sulla Resistenza e la memoria

 


Giorgio Amico

Dialogo con un amico sulla Resistenza e la memoria

Verso il 25 aprile. Vedo che su alcuni profili fb vengono proposte le immagini dei martiri della Resistenza, sottolineando il sacrificio a cui si sono consapevolmente sottoposti, lottando per la libertà contro un nemico spietato e dalla forza militare soverchiante. Sono perplesso che queste forme di comunicazione (le stesse da 70 anni) siano adeguate per far comprendere qualcosa alle nuove generazioni (funzionavano forse ancora con la mia che adesso ha cinquant'anni suonati). Credo che sia necessario cambiare linguaggi e modalità. Preciso, a scanso di equivoci, che non ritengo i giovani d'oggi "rincoglioniti" dai social: ma la società, la cultura, le mentalità sono cambiate profondamente in questi ultimi decenni. Il martirologio non serve (anche perché i fascisti del 21. secolo controbattono con il loro, e conta poco che sia falso o decontestualizzato). Pero' cambiare cosa, come? Ci rifletto da molto tempo ma non so cosa rispondere.

Marco B.


Caro Marco,

una volta, quando ero giovane, pensavo che i fatti parlassero da soli e che bastasse ricordarli per farli rivivere. Sbagliavo. I ricordi hanno colore e sapore solo per chi ha vissuto in prima persona quei momenti. Il racconto, fatto da altri, quando diventa celebrazione, inevitabilmente scade nella retorica e nel banale. Il culto dei morti, come collante della “Nazione”, è parte integrante del processo di nazionalizzazione delle masse, che proprio il fascismo portò alle sue estreme conseguenze, rendendolo non solo grottesco, ma rendendo così impossibile il reale superamento/realizzazione degli ideali del Risorgimento a cui pure dichiarava di ispirarsi. Che anche il Risorgimento, ricordiamolo, fu tempo di amori e odi, guerra civile e pure feroce.

Mi son sempre chiesto cosa pensassero davvero i vecchi garibaldini, portati a sfilare in camicia rossa nelle manifestazioni “patriottiche” del regime. Mi è capitato spesso di pensarlo negli ultimi anni dei partigiani, ormai novantenni. Da quando mi chiamano a parlare ai giovani del '68 conosco la risposta. La leggo negli occhi dei giovani che ascoltano, magari con interesse, il mio racconto.

È destino dei vecchi che i loro ricordi siano letti come favole. Davvero la fabbrica del mito non cessa mai di operare. La portiamo radicata nell'angolo più profondo del nostro inconscio. 

Questo sul piano personale. Sul piano storico il discorso non è poi molto diverso.

È destino delle rivoluzioni essere tradite. Furono traditi i garibaldini e con loro i contadini del Sud. Garibaldi e Mazzini furono resi icone inoffensive erigendo loro migliaia di lapidi e monumenti mentre si sparava su chi lottava per il pane e la dignità. Lo furono i partigiani, lo fu anche la mia generazione. Ma lo fu anche il rabbi Jeshua. Tanto che quello che noi chiamiamo cristianesimo è opera di Paolo, che neppure lo conobbe, né partecipò a quegli eventi, ma che seppe però trasformare una predicazione di cui sappiamo molto poco in un mito salvifico e in una Chiesa che ancora oggi regge.

Perché una rivoluzione è il tempo dell'Avvento, e parteciparvi una conversione, il momento della scoperta del senso autentico delle cose, dove tutto assume un altro significato e si guarda il mondo con occhi diversi. Una esperienza totalizzante per chi la vive. È la follia amorosa di Orlando, ma anche del partigiano Milton. Per questo non esiste memoria né rievocazione storica che possa trasmetterla davvero, se non a chi l'ha a sua volta vissuta.

Poi lo strappo si ricuce, la vita quotidiana riprende i suoi spazi. La normalità ritorna padrona. Resta la nostalgia in chi ha partecipato di una stagione irripetibile, di un momento in cui tutto era chiaro e la libertà esperienza di ogni attimo e non una parola. La nostalgia, ma anche il rimpianto. Perché una rivoluzione è l'isola che non c'è, perduta e mai più ritrovata.

Come si fa a trasmettere tutto questo a chi non c'era, a chi non l'ha vissuto sulla sua pelle? Non ho risposte da darti. Ma comunque un paio di cose credo ormai alla mia età di averle capite. La memoria non può essere trasmessa a forza, perché lo richiedono i programmi ministeriali o perché è giusto in astratto. I giovani non sono contenitori vuoti da riempire usando le ricorrenze come imbuti. Il giovani non sono piante, è uno slogan del '68, da allevare in serra preservandoli dal caldo o dal freddo eccessivo. La realtà e contraddittoria. Lasciamo dunque che le contraddizioni esplodano. In questo aveva ragione il vecchio Camus a sostenere che, se sono rari i tempi della rivoluzione, è invece sempre tempo di rivolta. E l'oggi non fa eccezione.



sabato 17 aprile 2021

La Fiera di Sant'Orso. Bobo Pernettaz: racconto dolce e amaro

 


Se la cattedrale era il cuore spirituale della città medievale e il palazzo comunale il cuore politico, la fiera era la comunità che si apriva all'esterno, orgogliosa dell'abilità dei suoi artigiani, ma allo stesso tempo aperta al confronto e allo scambio. La fiera come incontro pacifico di genti e di culture, momento sacro tanto che avveniva sotto il patrocinio del vescovo ed in occasione della ricorrenza di un Santo particolarmente venerato.

Con la modernità la fiera si è ridotta a mera esibizione di merci, ha perso la sua sacralità. Ma a Aosta, no. Alla Fiera di Sant'Orso si respira un'aria diversa. E non è folklore, è il cuore di una città, di una valle e di un popolo che quel giorno si manifesta in un incontro che è appartenenza ad una comunità, a una storia e ad una cultura, ma anche orgoglio di mostrare cosa nel mondo delle macchine sanno ancora fare le mani di un artigiano.

La Fiera di Sant'Orso è Aosta e la sua valle. In quel giorno la città si mostra senza veli. Nessuno può dire di conoscere Aosta se non ha almeno una volta partecipato alla Fiera. Perché a Sant'Orso si va per partecipare, non per vedere e tanto meno per comprare. La Fiera è il legno delle opere esposte, ma anche le risate, gli incontri, il vino bevuto insieme a rinsaldare vecchie amicizie e a suggellarne di nuove. Tutto questo è Sant'Orso.

Oggi presentiamo un libro, affascinante, che racconta la Fiera dall'interno attraverso le narrazioni degli artigiani che espongono le loro opere. Sono racconti di vita, attimi fermati e messi sulla carta, incontri. Fra tutti il racconto di Bobo Pernettaz, per me Taz, “il sarto dei legni esausti”, capace di dare vita ed anima a quelle che per chi non ha il suo cuore di bimbo sono solo vecchie tavole abbandonate. Taz, l'amico di gioventù, perso e poi ritrovato, perché la vita è misteriosa e magica, proprio come le sue tavole.

G.A.


    "Un guitto malinconico" Tavola di Bobo Pernettaz


Un racconto salato, dolce e amaro

Roberto Bobo Pernettaz è uno degli exposant più creativi: arrivato tardi a lavorare il legno, da qualche anno assembla vecchie tavole ricavandone pannelli dai colori tenui, molto suggestivi e originali. Per questo motivo è noto come il sarto dei legni esausti.

Bobo racconta: «Il retro del banchetto a la Foire è una angolo attrezzato per consumare agili spuntini con gli amici che, di passaggio, sostano per un saluto masticato. Quindi: tagliere con coltelli, bicchieri di plastica e bottiglie di vino, pani di fogge diverse, salumi, grappina, vov..., nel mio caso su di un tavolino posticcio che non mi ha mai tradito. Pare che claudichi azzoppato dalle tante edizioni della Foire, ma continua a reggere indomito.

Mio fratello, contadino della bassa Valle, lo riforniva di vecchie tome e salumi portentosi e, non pago della sua generosità, lo dotava anche di coltello. Un anno mi regalò l'Opinel decorato, l'anno dopo quello con il manico colorato... fino a donarmi uno splendido coltello sardo: un Pattada. Ovviamente a fronte del regalo, secondo tradizione, chiedeva in cambio una moneta.

Mio fratello a marzo muore, il gennaio successivo, a Sentùr, per sentirlo ancora con me, calzo il suo cappello verde e attrezzo il retro-banchetto come lui avrebbe fatto: cibi e pattada inclusi. La Fiera si svolge celebrando il rito dell'incontro, del saluto, del commento ai lavori esposti. Lo cerco con gli occhi anche se so che non si avvicinerà più, ma il pattada è lì a testimoniarne la presenza.

È quasi sera e la luce inizia a declinare, quando vedo avvicinarsi un conoscente. Ci scambiamo un saluto distratto e mi chiede di poter assaggiare un formaggio invitante. “Prego” gli rispondo e gli giro le spalle per iniziare con un'altra persona la trattativa di una vendita. Mi dilungo in ciance e quando mi giro lui non c'è più ma non c'è più neppure il pattada di mio fratello.

Una fiera tristissima per me,senza mio fratello e vittima di un furto indegno. Mai rubare! Mai rubare na roba cara e mai rubare a Sentùr dove le anime si sposano leggere per fare festa»,




Francesco Di Vito (testi) – Vasco Marzini (disegni)
La Fiera di Sant'Orso
Un artigiano racconta

Il libro, da leggere per capire un poco l'animo vero della Valle e dei suoi abitanti, può essere richiesto alla Libreria Briviodue, Piazza Emile Chanoux, 28, 11100 Aosta. http://www.libreriabrivio.it

giovedì 15 aprile 2021

Gorbaciov e la crisi del socialismo reale



 https://www.academia.edu/46886291/A_dieci_anni_dalla_morte_di_Mao.

2001. Un anno di politica italiana


Il quaderno raccoglie gli articoli apparsi sul mensile "L'Internazionale" per l'anno 2001.

domenica 11 aprile 2021

Leonardo Sciascia da giovane. Fra fascismo, Democrazia cristiana e Partito comunista

 



Giorgio Amico

Leonardo Sciascia da giovane. Fra fascismo, Democrazia cristiana e Partito comunista*

Nel 1951 si sviluppò su alcuni organi di stampa una polemica fra un non meglio identificato “Ex” e Leonardo Sciascia. L'ancora semisconosciuto scrittore aveva pubblicato su un giornale (democristiano) siciliano un articolo irridente Mussolini e dalle colonne del fascistissimo “Meridiano d'Italia” un anonimo firmatosi “Ex” gli aveva risposto con una dura lettera che terminava con un “è ridicolo che oggi fai l' antifascista, perché in tanti ricordano bene quando eri fascista”.

La lettera da immediatamente il via ad una serie di precisazioni e repliche da una parte e dall'altra. Al primo “Ex” se ne aggiunge presto un secondo che ricalca la dose ricordando come Sciascia avesse tenuto comizi per il Partito fascista ricavandone citazioni e premi. Al che Sciascia replicherà irridente che i suoi discorsi erano stati in realtà delle beffe in cui utilizzando le riunioni del regime si era fatta propaganda antifascista per conto del Partito comunista clandestino:

“I due "ex" ci accusano di avere, tra il ' 40 e il ' 43, parlato in qualità di iscritti al Guf, da fascisti e a pubblico fascista. Verissimo il fatto di avere una o due volte, e poi in un convegno di universitari, parlato in luoghi e su temi "fascisti". Ma c' è un piccolo dettaglio: nel 1938, a Caltanissetta, noi entrammo nelle file del Partito comunista clandestino. I fascisti erano stupidi - continua - e ne approfittavamo. Segnaliamo agli ex il quindicinale "di Guardia" della federazione fascista: troveranno degli articoli che potremmo oggi ripubblicare senza arrossire. Ma naturalmente i fascisti non capirebbero ancora, come non capirono allora. Una volta a un convegno abbiamo persino (parlando male del fascismo) ricevuto un premio in denaro che immediatamente abbiamo trasformato in sigarette imparzialmente divise tra tutti gli "amici". Fu un tempo di divertenti beffe, e lo ricordiamo con quel piacere che accompagna sempre le cose della prima gioventù”.»

Della cosa non si parlò più e fu dimenticata. Sciascia stesso si guardò bene dal parlarne, finché uno studioso nei primi anni duemila decise di approfondire il tema degli scritti giovanili di Sciascia di cui nessuno si era mai apparentemente occupato e la cosa non fu senza conseguenze.

Cogliendo l'accenno a “di Guardia!” organo dei Fasci di combattimento di Caltanissetta, da una ricerca sul giornale, assai difficile da trovare come tutti i giornali d'epoca fascista – forse perché qualcuno pensò bene dopo la guerra di far sparire tracce di un passato compromettente – venne fuori che tra il 1940 e il 1941 Leonardo Sciascia aveva effettivamente collaborato al giornale con ben dodici articoli firmati e forse anche con altri contributi rimasti anonimi. Dunque, nel primo anno di guerra Sciascia contribuì stabilmente alla redazione del giornale con articoli di sostegno allo sforzo bellico italo-tedesco, l'esaltazione di Mussolini e la denigrazione sistematica delle democrazie corrotte e plutocratiche angloamericane. Tra gli articoli uno colpisce particolarmente l'attenzione, perché, abbandonato per una volta il tema della guerra e della politica estera, Sciascia riprende e fa suo un argomento tipico della propaganda fascista, quello della donna anglosassone, stupida e vuota, contrapposta alla donna italica, sposa e madre destinata a dar figli alla patria e al Duce.

“Come tutte le macchine stupide la donna borghese è maledettamente complicata di leve di tasti di lubrificazioni e di scatti. Vive in un vuoto pneumatico. Si muove su un binario morto. Teatro cinema libri di fama e variazioni sportive sono per lei un sistema di ventilazione – una cultura pretesto o uno sport pretesto. Tra il tennis e Pearl Buck conserva la sua parvenza di manichino. Anche se va in cerca d’emozioni. Anche se fuma sigarette estere. Anche se legge Caldwell. Sulla sua intelligenza tutto scivola come l’acqua sulla pietra. Importante è il monocolo del signor M. N. o la frase di spirito che il Signor F. S. ha buttata annoiatamente come un mozzicone di sigaretta. Un’eco di pescecanismo è oggi nella loro vita. Io – e basta”. (L[eonardo]. S[sciascia], Cristallizzazione, «di guardia!», 20 gennaio XIX, II, 6, 3.)

Per essere una forma mascherata di propaganda antiregime non c'è male. Così come viene naturale domandarsi come mai il fascismo sia caduto solo il 25 luglio del 1943, visto che tutti gli organi di stampa fascisti, dai più importanti ai più provinciali, erano redatti in larga parte da intellettuali guarda caso concordi nel dichiarare a cose fatte di essere stati “temporibus illis” in realtà tutti convinti comunisti intenti a minare il regime dall'interno. Meglio lasciar perdere, il discorso porterebbe lontano e investirebbe in pieno quel particolare carattere della storia nazionale che è stato ed è il trasformismo.

Comunque sia Emanuele Macaluso, anche lui di Caltanissetta, garantisce per Sciascia che, a suo dire, fu sempre comunista. Nonostante l'autorevolezza e la caratura del personaggio, le perplessità tuttavia restano inalterate. Non pare ad esempio credibile, considerate le rigorosissime regole di clandestinità del PCI, che alle attività di una cellula partecipassero elementi, come Sciascia che per primo ammette di essere stato un comunista non iscritto, dunque nell'ipotesi migliore, un semplice simpatizzante. Ma, anche ammesso che quella cellula sia davvero esistita, colpisce che invece di operare fra i minatori e i contadini, limitasse la sua attività a prendersi gioco sul giornale della federazione fascista dei temi della propaganda del regime. A meno che, come probabile, non si sia trattato molto più realisticamente di un gruppo di studenti che amavano sentirsi comunisti giocando sulle parole per sfidare , come affermò lo stesso Sciascia, la stupidità dei fascisti. Insomma, più una goliardata che cospirazione vera e propria. Sono gli interrogativi,che in forma non direttamente politica e molto raffinata, si pone un illustre studioso dell'opera di Sciascia:

“E tuttavia potremmo definire ‘politica’ un’operazione simile, solo se feticizzassimo al massimo le dichiarazioni d’autore (su Brancati e Savinio maestri di antifascismo, ad esempio): in sé, in effetti, i riferimenti non sono poi molto esplicativi. L’allontanamento dal regime è più che altro comprovato da una torsione nelle letture private, dal ripiegamento in un dialogo con i propri autori. Le allusioni sono talmente complesse da costituire una sorta di gioco intimo e iperletterario più che una testimonianza pubblica. Arriviamo così ad un primo punto importante: il materiale d’impiego dell’operazione di Sciascia in Cristallizzazione è letterario e colto e pur tuttavia non è impiegato in senso allusivo. L’opacità e la non organicità dei rimandi sembrano indicare una volontà di occultamento più che un invito alla scoperta. Il pubblico è del tutto estromesso.messo... Ma allora a chi parla Sciascia? Oltre che a se stesso, è legittimo pensare ad ristretto gruppo di conoscenze con cui condivideva esperienze, opinioni, letture”. (Enrico Fantini, "L’intellettuale ‘rondista’: su alcuni tic retorici nella scrittura di Sciascia". In “I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo”. Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon, Roma, Adi editore, 2016, p,5)

L'affermazione è chiara. Se intento antifascista c'era, esso era totalmente incomprensibile al pubblico.Insomma, un gioco colto fra giovani intellettuali moderatamente dissidenti. Ma potrebbe benissimo anche non essere stato un gioco e che l'uso dell'aggettivo “antifascista” a definirlo sia del tutto fuori luogo. Importante, ci pare, a questo proposito il giudizio recentissimo di un altro illustre studioso, questa volta americano, Joseph Francese che già nell'introduzione del suo studio mostra di credere alla natura genuinamente fascista degli scritti di Sciascia:

“In questo articolo prendo in esame, nel loro contesto storico, undici editoriali di Leonardo Sciascia pubblicati nel 1940-41 in di guardia!, la pubblicazione bisettimanale dei Fasci di Combattimento di Caltanissetta. Questi articoli trattano quasi esclusivamente di politica estera. Un'analisi che mi ha fatto comparare e mettere a confronto l'immagine del giovane Sciascia che esce direttamente dalle pagine de In guardia! Con la miriade di affermazioni autobiografiche che lo scrittore fece in supporto di sé e della propria immagine creata e perfezionata per quattro decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Pietra angolare di questa immagine è una coscienza antifascista generata dalla Guerra civile spagnola(1936–1939). Ma i contributi di Sciascia a di guardia!—tutti perfettamente allineati con la tipica propaganda di guerra fascista — dipingono il ritratto di un giovane che è davvero molto d'accordo con la politica estera di Mussolini, suggerendo che la conversione dello scrittore all'antifascismo avvenne nel periodo successivo all'attacco giapponese a Pearl Harbor e durante l'occupazione alleata della Sicilia”. (Joseph Francese, "Leonardo Sciascia in the pages of di guardia! Quindicinale della Federazione dei Fasci di Combattimento di Caltanissetta", Forum Italicum: A Journal of Italian Studies , Vol 53, Issue 3, 2019).

Macaluso, si è visto, è categorico tanto da ribadire in diverse occasioni la fede comunista dello scrittore siciliano, pur ammettendo che questi non fu mai iscritto al partito e attraversò anche momenti di forte critica. È quanto nel 2010 ebbe a dichiarare a La Repubblica:

“La vicenda di Sciascia e il PCI fu assai travagliata. Leonardo ebbe momenti di grande critica verso il partito, soprattutto ai tempi del governo Milazzo nel 1958, ma anche periodi di grande adesione. Comunque dal 1946 fino al 1979 votò sempre comunista pur criticando aspramente il partito". ("Vi racconto la verità su Sciascia e il PCI", La repubblica, 12 ottobre 2010)

Ma, a parte che il voto è per definizione segreto e pertanto poco si spiega una affermazione così perentoria, è davvero andata in questo modo?

Macaluso, che quando rilasciò questa intervista aveva già una età rispettabile, ricorda molto male. Perché, se è vero che Sciascia nel dopoguerra fu sempre un rigoroso antifascista, non solo non votò sempre PCI, ma almeno fino al 1951 fiancheggiò attivamente, pur senza prendere la tessera, la DC siciliana e nazionale, scrivendo decine di articoli per giornali locali e addirittura per il Popolo, l'organo centrale del partito. E sono gli anni in cui in Sicilia con l'aiuto della mafia la DC prende saldamente il controllo del potere. Gli anni, per capirci, dell'inizio della Guerra fredda, della cacciata delle sinistre dal governo , dalla sconfitta con l'aiutino di CIA e Vaticano del fronte Popolare nel 1948, dell'attentato nello stesso anno a Togliatti, della repressione durissima del movimento operaio e delle sinistre.

Sull'attività pubblicistica di Sciascia in quegli anni esistono vistosi spazi bianchi, in parte colmati oggi da una voluminosa ricerca di Riccardo Scarpa, apparsa su "Todomodo", prestigiosa rivista di studi sciasciani, organo della Associazione Amici di Leonardo Sciascia e dunque fonte al di sopra di ogni sospetto. Nello studio, “La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso”, il Prof. Scarpa tratteggia nei dettagli questo percorso con affermazioni che già dalle prime pagine non lasciano adito a dubbi sulla estrema vicinanza dello scrittore alla Dc siciliana della fine degli anni Quaranta:

“Sciascia ha raccontato di sé molto e spesso: ma resta un autore dalla cronologia malcerta e con più di una zona bianca. Gli anni della sua formazione culturale e civile, diciamo tra il 1937 e la prima metà degli anni cinquanta,sono una stratificazione di preistorie: quasi sconosciuta alla paleontologia letteraria, composta di un numero di strati e sottostrati più elevato di quanto si creda. È probabile anzi che il numero effettivo sia maggiore di quanto risulti anche al carotaggio più scrupoloso. Per analizzarli occorrerà il lavoro di più studiosi, ma difficilmente si arriverà a portare in luce ogni cosa. Qui su «Todomodo» presento i materiali più notevoli di una ricerca avviata nel 2009. Mi limiterò ai primi sei-sette anni del dopoguerra, uno spaccato geologico che finora non aveva offerto granché”. (Domenico Scarpa, "La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso", Todomodo, Rivista internazionale di studi sciasciani, anno IV, 2014).

poco più avanti parla di “un liberalismo in fieri, che nei primi anni del dopoguerra andò svolgendosi per prove ed errori, in un percorso di auto-formazione di cui sappiamo poco”. (ibidem)

Questa costante collaborazione con gli organi della DC, anche se, come si è detto, su posizioni rigorosamente democratiche, antifasciste e antimafiose coinvolse numerose testate. E' il caso di «Sicilia del Popolo», organo regionale della DC con redazione in Palermo, o della rivista “la Prova” nata con la benedizione di Don Sturzo, per terminare poi con “Il Popolo”.

Altro che voto costante al PCI, sulle simpatie politiche di Sciascia in quegli anni il prof. Scarpa non manifesta il minimo dubbio:

“Si può scommettere che Sciascia non abbia mai preso la tessera Dc come d’altronde non prese mai la tessera di nessun partito. Ma è altrettanto inoppugnabile che agì, all’incirca nel periodo 1948-51, come attivista democristiano”. (ibidem)

Collaborazione, durata fino al 1951, e culminata in alcuni articoli sul Popolo, l'organo centrale romano della Dc. La situazione cambierà verso la metà degli anni '50. Da quel momento Sciascia, comunque sempre allergico alle tessere, si collocherà stabilmente a sinistra, ma non farà nulla per impedire che, come per il periodo fascista,  anche la fase democristiana cada nell'oblio. Come si legge nello studio più volte citato del Prof. Scarpa:

“Le Cronache scolastiche erano uscite nel ’55 su «Nuovi Argomenti», rivista fondata da Moravia, e nello stesso anno cominciava la sua collaborazione con «L’Ora» di Palermo. Di lì a poco i suoi editori principali sarebbero stati Laterza e Einaudi. Altri interlocutori, altre tribune di sinistra avrebbero contribuito alla biografia intellettuale successiva”. (ibidem)

Biografia, fondata su una prudente e accorta opera di rimozione, a costruire un mito che solo oggi si inizia a sfatare per restituirci nelle sue inevitabili contraddizioni la storia autentica dell'uomo, ché la grandezza dello scrittore non è mai stata in discussione.

* Un grazie particolare a Paolo Casciola, studioso raffinato dell'opera e della vita di Sciascia, che in pigre conversazioni telefoniche da tempi di pandemia ci aprì le porte di un mondo che non conoscevamo.

(In copertina il libro che lo stesso Sciascia considerava più autobiografico, un compendio di tutti i temi che avrebbe poi trattato nella sua opera)

martedì 6 aprile 2021

«Il tempo nuovo del sindacato». Dialogo tra Luciana Castellina e Maurizio Landini

 


«Il tempo nuovo del sindacato».

Dialogo tra Luciana Castellina e Maurizio Landini

Cgil. Misurarsi con la grande questione ambientale comporta la definizione di un piano complessivo a partire dalla centralità dell’occupazione e di una sua trasformazione. Il «sindacato di strada» potrebbe essere uno degli strumenti importanti per rivitalizzare la mobilitazione. Perchè oggi viviamo una condizione che non è più quella degli anni ‘60

Luciana Castellina

In questo anno di pandemia abbiamo tutti imparato molte cose che non sapevamo. Adesso sappiamo che la Terra è molto malata, che la stessa umanità è a rischio di estinzione. E anche il capitalismo, che fino a ieri appariva trionfante, è ormai privo delle sue arroganti certezze. Dello scenario apocalittico che si intravede noi non siamo più premonitori, siamo noi stessi, ci piaccia o meno, protagonisti. Ne parliamo con il segretario generale della Cgil Maurizio Landini.

Pensi che della particolarità del tempo che viviamo ci sia piena coscienza? Che il sindacato possa giocare in questo quadro un ruolo anche diverso da quello del passato ( o forse potremmo dire: recuperare in pieno il ruolo politico che ha giocato nella storia del nostro paese?).

La pandemia ha messo drammaticamente in evidenza l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo che ha portato alla rottura degli equilibri con la natura. La diffusione del virus ha fatto emergere, in modo drammatico, contraddizioni peraltro presenti già da tempo e ha accelerato la crisi della democrazia già in atto. Il lavoro si è precarizzato e svalorizzato al punto che si è poveri anche lavorando. Il potere decisionale si è accentrato in mano di pochi. Contano di più grandi multinazionali che singoli Stati. Sono diventati sempre più lontani e impenetrabili i luoghi dove vengono assunte decisioni determinanti per tutti noi. Mi chiedi se di tutto ciò vi sia piena coscienza. Io sono certo di una cosa: di fronte alla portata della crisi che stiamo vivendo non si può tornare a fare, come pure qualcuno pensa, le stesse cose di prima. C’è bisogno di un cambiamento radicale: di pensare a un diverso modello di società. E anche il sindacato deve cambiare. È cresciuto in un mondo nel quale i termini crescita, sviluppo, progresso tecnologico, diffusione del benessere coincidevano. Oggi siamo di fronte a un quadro radicalmente nuovo: si è spezzato quel rapporto che sembrava scontato quanto lineare tra sviluppo e benessere. Inoltre la crescita deve misurarsi con un tema nuovo per il sindacato e non solo: il concetto di “limite”, che ci dice che le risorse naturali – aria, acqua, la terra stessa – non sono infinite. Occorre prendere atto che il modello di crescita che si è affermato fino ad oggi mette in discussione la vita delle persone sul pianeta o quanto meno la sua qualità, innescando un nuovo meccanismo di selezione tra ricchi e poveri. E’ questo il terreno nuovo, difficile, su cui il sindacato deve operare. Il tema di “cosa produrre, come produrre, per chi produrre” diventa decisivo se non si vuole che a pagare il conto della crisi sia il mondo del lavoro.

 È specialmente nei tempi di transizione che il sindacato è stato coinvolto nel dibattito politico generale. Penso, innanzitutto, al Piano del Lavoro, proposto da Di Vittorio nel dopoguerra. Ma penso anche all’apice del “miracolo economico”, nei primi anni ’70, quando i metalmeccanici usarono la forza, accumulata anche dalla spinta sessantottina, per superare l’orizzonte puramente salariale delle rivendicazioni, per aggredire l’organizzazione stessa della produzione, intaccare il potere padronale in fabbrica e trascinare nel conflitto l’intera condizione umana del lavoratore – il suo abitare, la sua salute, la scuola. Fu quando i Consigli di fabbrica produssero anche i Consigli di zona che a loro volta spinsero la creazione di preziosi organismi: Medicina Democratica, Magistratura Democratica, finanche Polizia Democratica. La proposta che tu hai avanzato quando sei stato eletto segretario generale, di sperimentare, accanto a quelli tradizionali di categoria, anche un “sindacato di strada”, mi ha sollecitato a rivisitare quelle memorie. Tanto più interessanti oggi che nuovi movimenti, nati dalle nuove contraddizioni prodotte dal sistema, hanno fatto nascere sul territorio inedite e dinamiche figure sociali che hanno proprie specifiche forme di mobilitazione. Mettere in rete questi soggetti potrebbe arricchire il potere contrattuale di tutti, conferendo al sindacato una nuova preziosa centralità. L’urgenza di definire un progetto adeguato alla difficoltà che presenta la transizione ecologica non avrebbe forse bisogno, per esempio, di un nuovo Piano del lavoro, non affidato agli uffici studi, ma definito coinvolgendo ”la strada”?

Misurarsi con la grande questione della transizione ecologica vuol dire battersi non per una sommatoria indifferenziata di progetti e investimenti. Comporta la definizione di un piano complessivo a partire dalla centralità del lavoro e di una sua trasformazione. Questo vuole dire cambiare radicalmente l’attuale modello di produzione e di consumo; passare dalla produzione di beni di consumo individuali a quella di beni collettivi. Vuol dire occuparsi di risanamento delle aree urbane, della mobilità collettiva, di suolo, aria, sanità, formazione, ricerca, cultura. E soprattutto di energie rinnovabili e di riuso per impedire lo spreco. L’economia circolare, ad esempio, che tutti citano ma nessuno sembra prendere realmente sul serio, vuole dire una nuova politica industriale che implica però il passaggio dalla logica dell’ ”usa e getta” a quella basata sulla manutenzione.

È un campo che offre grandi potenzialità per nuovi settori di occupazione. Naturalmente un nuovo modello di sviluppo non è un progetto illuministico che si cala dall’alto. Si può attuare a condizione che ci sia un grande progetto di cambiamento generale che nasca dalla contrattazione nei posti di lavoro e nelle vertenze territoriali. E che coinvolga quelli che tu chiami nuovi soggetti, movimenti, figure sociali, frutto delle contraddizioni di questo sistema. E che, non c’è dubbio, bisogna provare a “mettere in rete”, arricchendo così la capacità contrattuale di tutti. In secondo luogo per un cambiamento di tale portata serve il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. Bisogna investire sul lavoro e sulla sua qualità, a partire dal superamento della precarietà e dal diritto alla formazione permanente e alla conoscenza.

Un diritto fondamentale se non si vogliono subire le nuove forme di disuguaglianze, di cui l’esclusione dal sapere rappresenta la forma più discriminatoria. I lavoratori devono poter dire la loro, con competenza, sulla natura degli investimenti, sugli indirizzi delle imprese. Si tratta perciò anche di pensare a nuove forme di democrazia economica, di sperimentare nuove forme di codeterminazione nelle imprese, consapevoli che oggi è anche più acuta l’esigenza di una riflessione sulla contraddizione tra il diritto di proprietà e la libertà della persona nel lavoro. In sostanza si deve far si che la Costituzione non rimanga fuori dai cancelli dei posti di lavoro. Penso sia il momento di un sostegno legislativo alla contrattazione collettiva che dia validità erga omnes ai contratti collettivi nazionali. E di una legge sulla rappresentanza che recepisca gli accordi interconfederali, sancisca il diritto di voto delle lavoratrici e dei lavoratori per approvare gli accordi che li riguardano, che certifichi la rappresentanza delle controparti datoriali.

Il progetto di transizione rende necessarie riforme profonde. Sarebbe grave se pensassimo che dovrà pensarci il Parlamento. In quella sede si misurano i rapporti di forza in base ai quali si definiscono i possibili compromessi che poi le caratterizzeranno. Così è stato in passato, quando la sinistra ha avuto la forza, pur non stando al governo, di strappare conquiste decisive. Se oggi non otteniamo più quasi niente è anche perché c’è stata una delega che ha sottratto la politica ai cittadini e ha insterilito lo stesso scontro parlamentare.

Il “sindacato di strada” potrebbe in effetti esser uno degli strumenti importanti per rivitalizzare la mobilitazione della società. Perché oggi viviamo una condizione molto diversa da quella, ad esempio, degli anni ‘60. Allora c’era una omogeneità nelle condizioni di lavoro. Oggi non è più così. Le catene degli appalti e dei subappalti, le esternalizzazioni, le delocalizzazioni hanno prodotto un mondo del lavoro frammentato e diviso. E ciò produce disuguaglianze di reddito e di diritti. La stessa solidarietà fra lavoratori non è più un dato scontato ma un elemento da ricostruire. Oggi giocano un ruolo decisivo strutture sindacali confederali, orizzontali oltreché categoriali, indispensabili per riunificare ciò che è stato diviso. Occorre riscoprire il ruolo fondamentale delle Camere del lavoro, rinnovando la straordinaria funzione che ebbero alla loro nascita, quando furono la sede della costruzione della solidarietà tra persone che facevano lavori diversi o che lavoro non lo avevano affatto, il luogo della mutualità, della formazione e dell’impegno per dare una risposta collettiva a problemi diversi. Proprio per via della frammentazione, il territorio diventa il luogo dove si possono incontrare i lavoratori, in particolare quelli che vivono le condizioni di maggiore disagio. Inoltre, la presenza sul territorio consente di aprire vertenze su servizi, casa, trasporti, cultura, tempo libero. È da lì che si guarda al lavoratore e alla lavoratrice non solo in rapporto al loro lavoro ma anche alla loro complessiva condizione sociale. Significa vedere la connessione tra luoghi di lavoro e ciò che sta fuori, coglierne tutte le dimensioni.

 In questo contesto non pensi che il “sindacato di strada” potrebbe in qualche modo costituire anche un’indicazione positiva nell’ormai asfittico dibattito che tormenta la sinistra: sulla forma partito, se servono o non servono, se contano ormai solo i movimenti o le organizzazioni di volontariato, sulla società civile spesso mitizzata. Insomma: il “sindacato di strada” potrebbe essere il seme che dà forma alla sperimentazione di nuove forme di democrazia organizzata che colmino il pericoloso vuoto che la crisi dei partiti di massa ha lasciato. Un lavoro aggregante, di rete, che potrebbe costituire il terreno su cui proviamo a ridar sostanza alla democrazia, a dare alla partecipazione continuamente invocata un riferimento chiaro. Che è comunque la premessa per ridar senso ai partiti. Non voglio volare troppo alto, ma penso che a partire da questo tipo di esperienza si potrebbe rilanciare la proposta di Gramsci di far crescere sul territorio “consigli”, organismi emersi dal consolidamento dei movimenti in grado di ridurre l’autoreferenzialismo dei partiti e di condizionare gli effetti dello storico esproprio della gestione della società operato dalla burocrazia statale. Nel senso che consentirebbe via via di riappropriarsene, anche rilanciando l’esperienza cooperativa, in qualche settore (l’acqua, per esempio?) oggi abbandonato all’arbitrio delle istituzioni statali. Poiché in questi giorni si celebrano i 150 anni della nascita di Rosa Luxemburg, anche lei, come Gramsci, convinta della necessità di accompagnare con nuove forme di democrazia diretta l’assetto politico, ho provato a buttar lì nelle conferenze che in sua memoria sono state promosse, il tema “Rosa Luxemburg e il sindacato di strada di Landini”. Ho incontrato grande entusiasmo dei compagni.

Come ho già detto, il “sindacato di strada” può aiutare a ricostruire un protagonismo del mondo del lavoro, indispensabile a far fronte dei grandi problemi che abbiamo fin qui delineato. Tanto più quando veniamo da anni durante i quali la partecipazione democratica è stata mortificata da una visione della politica che ha considerato come unica bussola la “governabilità” e “la manutenzione tecnica” del sistema. Le molteplici riforme istituzionali e costituzionali hanno tutte implicitamente espresso un obbiettivo: accentrare la decisione politica negli esecutivi, “liberare il campo da tutte le reti dei poteri intermedi”. Le stesse forze progressiste e di sinistra sono state dentro questo processo e hanno via via spezzato i fili della rappresentanza con il mondo del lavoro. La loro afasia dipende anche da questa rottura.

Io penso invece che cambiamento voglia dire dare vita ad un progetto di trasformazione sociale che si sostanzia del rapporto concreto con le persone. Anche per questa ragione riteniamo fondamentale la tenuta del rapporto unitario con Cisl e Uil. È un rapporto che va rilanciato e che, nel vivo dell’esperienza concreta, deve saper prospettare un nuovo sindacato confederale unitario, plurale, partecipato, democratico. Oggi tra l’altro, c’è una condizione nuova, non scontata, ma che potrebbe consentire di andare in quella direzione: non esistono più le divisioni prodotte dalla guerra fredda. D’altronde, la stagione più intensa della partecipazione democratica, quella degli anni ’70, ha coinciso proprio con l’esperienza unitaria dei consigli di fabbrica e dei consigli di zona. Le stesse riforme strappate allora, quelle che furono chiamate “riforme di struttura”, non erano, come invece accade oggi, editti, ma il frutto di una intelligente pratica sociale: lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e lo sviluppo della contrattazione collettiva, la riforma sanitaria del 1978, che era il compimento delle lotte operaie sulla salute in fabbrica e di una medicina alternativa praticata nei territori; la 180 per il superamento dei manicomi che è stata preceduta dalle esperienze di Basaglia a Gorizia e a Trieste; il divorzio e la legge 194 che furono anche il frutto della crescita del movimento femminista che affermò il principio del riconoscimento della cultura di genere e della differenza; la straordinaria esperienza delle 150 ore.

Tu mi chiedi se oggi il “sindacato di strada”, rivisitando quella memoria, possa contribuire ad aprire una nuova stagione di democrazia e di partecipazione. Ti rispondo con qualche considerazione. In primo luogo proprio la frantumazione del lavoro che ha fatto seguito alla controffensiva capitalista degli anni ’80, ha messo in difficoltà la nostra stessa capacità di rappresentanza. È una questione che in gran parte riguarda la politica ma coinvolge anche il sindacato. Bisogna allora pensare e praticare forme di democrazia capaci di raccogliere la complessità delle condizioni di lavoro. Si può, ad esempio, pensare a delegati di sito e di filiera, lavoratori cioè che tentano, a partire dalla loro funzione di rappresentanza, di unire ciò che oggi è diviso. In secondo luogo “sindacato di strada” significa fare del sindacato un soggetto attivo entro un processo aperto e più ampio attraverso il confronto e l’iniziativa con soggetti che possono contribuire a costruire progetti di trasformazione della società e di affermazione di nuovi diritti. Questo vuol dire, come Bruno Trentin ricordava spesso, costruire forme nuove di consultazione e collaborazione reciproca. Forme nuove di rappresentanza, di organizzazione, di partecipazione, non certo sostitutivi degli istituti della democrazia delegata, ma suo arricchimento. Si tratta di problemi non solo italiani, ma europei. E a quel livello dobbiamo affrontarli, costruendo esperienze, e vertenze, comuni, qualcosa che fino ad oggi, diciamo la verità, abbiamo fatto ancora assai poco.

Il manifesto, 6 aprile 2021

Franco Astengo, Un «nuovo soggetto», la campana suona per tutti

 


Franco Astengo

Un «nuovo soggetto», la campana suona per tutti

Sinistra. È evidente che non basta un “populismo gentile” autarchico, funzionale a recuperare un po’ di voti per contare al tavolo della spartizione elettorale e non è sufficiente neppure affrontare lo schema "della frammentazione e del minoritarismo del piccolo gruppo, dei pochi ma buoni, del benaltrismo senza fine"

Perché da più parti stiamo reclamando l’apertura di un confronto a sinistra finalizzato a costruire una nuova soggettività ? A giudizio di alcuni (forse molti) è arrivato il momento di capire perché può ancora servire una sinistra in grado di svolgere un ruolo incisivo nel mutamento in atto delle condizioni politiche e della dimensione sociale, fornendo anche un contributo di riaggregazione su entrambi i fronti sociale e politico.

La ragione di questa richiesta non risiede semplicemente nel cercare di far sì che si esca da una fase di irrilevanza per questa frantumata sinistra, una irrilevanza che si accompagna ad una vera e propria “apatia sociale” che sembra pervadere il Paese.

Eppure questa richiesta di ricerca di soggettività non deve essere intesa come un semplice richiamo politicista il cui scopo sarebbe quello di realizzare un recupero di presenze istituzionali per ricostruire così quello che potremmo definire un “ceto politico” mascherato da “classe dirigente” (un film già visto in questi anni dalle parti di PD, Lega, M5S). Neppure serve partire da uno schema di alleanza politica stipulata semplicemente per “fermare la destra” e tanto meno da ipotesi preventivamente “governista”.

I nodi sono due, ineludibili: l’autonomia ideale e politica, la tensione egemonica. Il discorso sulle alleanze può soltanto essere sviluppato sulla base di poter disporre di questi due fondamentali elementi distintivi. Si tratta di riflettere ed esprimere una capacità di proposta per metterci in condizione di affrontare temi aperti come interrogativi (per i quali chi scrive ovviamente non dispone di risposta):

1) ”Ha vinto Amazon”, così Miguel Gotor conclude il suo “L’Italia nel novecento” appena uscito da Einaudi e che può essere giudicato come un “articolato affresco”. A questa affermazione “Ha vinto Amazon” lo sciopero di qualche giorno fa ha aggiunto un punto interrogativo: e su quel punto interrogativo dovremmo lavorare. E’ il caso allora di chiederci: siamo ineluttabilmente diretti verso un indirizzo di “democrazia pilotata” racchiusa in un orizzonte di egemonia tecnocratica? Con quali strumenti possiamo contrastare l’estensione dei meccanismi di sfruttamento che pesano sulle espressioni quotidiane e vitali frutto della complessità di contraddizioni delle quali fino a qualche anno fa avevamo vago sentore e che adesso sono esplose anche in forme del tutto impreviste (come quelle dettate da un’emergenza sanitaria globale che non si concluderà nel momento di un allentamento della morsa epidemica) ? Può essere ancora possibile proporre un’alternativa allo sfruttamento complessivo esercitato dal dominio tecnocratico?;

2) Come si sta ristrutturando in Italia il complesso dei poteri nel momento in cui si sta trasformando il quadro globale? Un quadro globale (quello che Limes definisce “caoslandia”) segnato dall’idea di una “nuova alleanza” dell’Occidente patrocinata dalla presidenza americana. L’esito delle elezioni statunitensi ha chiuso sia la fase del “gendarme del mondo” e quella della “America first” e si trova a dover fronteggiare contemporaneamente una superpotenza in grado di competere sul piano economico e, nel contempo, la costruzione di una articolazione non prevista di schieramento (a partire dal ripresentarsi di una faglia est/ovest all’interno dell’Unione Europea).

Allora come si articola attorno a questi elementi l’insieme del sistema di potere economico e politico del nostro Paese dopo gli sbandamenti del governo giallo verde, la Brexit, l’apertura già ricordata di una frattura Est/Ovest all’interno dell’Unione Europea, la parte orientale del Mediterraneo in mano russo/turca e tutto il resto che sta cambiando in una situazione di vera e propria corsa al riposizionamento strategico?

Insomma: non è un capriccio chiedere con forza l’apertura di una discussione di fondo all’interno di ciò che rimane della sinistra italiana intorno al tema della possibile costituzione di una soggettività adeguata, di ricostruzione di una identità posta al di fuori da stilemi ormai evidentemente inadeguati.

È evidente che non basta un “populismo gentile” autarchico, funzionale a recuperare un po’ di voti per contare al tavolo della spartizione elettorale e non è sufficiente neppure affrontare lo schema “della frammentazione e del minoritarismo del piccolo gruppo, dei pochi ma buoni, del benaltrismo senza fine.”

La campana suona per tutti, ha scritto Norma Rangeri, ma dobbiamo disporci per non farla suonare invano.

Il manifesto, 6 aprile 2021

Victor Serge, testimone del suo tempo

 


È in via di pubblicazione per Massari Editore una nuova traduzione del capolavoro di Victor Serge È mezzanotte nel secolo, romanzo uscito nel pieno della controrivoluzione staliniana. Ne anticipiamo la bozza dell'introduzione. 

Giorgio Amico

Victor Serge, testimone del suo tempo


Militante anarchico, poi bolscevico, protagonista della rivoluzione russa e fra i primi critici della sua involuzione burocratica, vicino all'Opposizione trotskista e poi sostenitore del Poum e per questo scomunicato da un Trotsky insofferente ad ogni tipo di critica, Victor Serge è stato un testimone del tuo tempo. Un testimone scomodo, tormentato, l'esatto contrario del vero credente imbottito di dogmi e di false certezze. Di sicuro, nonostante la sua lunga militanza, non fu un grande politico, gli mancavano il cinismo e il gusto del potere. E neppure un teorico. Semmai un osservatore curioso e critico di ciò che accadeva attorno a lui. La sua fu, fin dagli inizi anarchici, una militanza vissuta con coerenza e determinazione, sorretta da una spinta etica che lo vide sempre, a partire dall'affaire Bonnot, schierato dalla parte dei perdenti, dei senza volto e dei senza storia. Di queste vite trascurate dalla storia Serge volle essere il testimone, perché la memoria delle loro speranze e del loro sacrificio non andasse perduta. Un impegno vissuto come un dovere morale, senza alcuna concessione al proprio ego, tanto da scrivere: «È importante lasciare una testimonianza su questi tempi; il testimone passa, però può succedere che la testimonianza rimanga».

Dunque è la testimonianza che conta e non il testimone. E questo spiega perché la sua opera sia priva di quegli elementi autobiografici che ritroviamo in Koestler o in Solženicyn. Serge non racconta di sé come protagonista e neppure partecipe dei grandi avvenimenti che fanno da sfondo alla sua narrativa. E questo non ha mancato di colpire molti di coloro che hanno scritto su di lui. Egli racconta il dramma vissuto da almeno due generazioni di rivoluzionari travolti dal fallimento del sogno di costruire un mondo di liberi e uguali. In lui non c'è alcun pentitismo e neppure disillusione. Serge non è Koestler e neppure Silone o Orwell. Fino all'ultimo egli rimane convinto della necessità del cambiamento rivoluzionario e della importanza fondamentale dell'Ottobre. È la barbarie stessa della guerra, che osserva dall'esilio messicano, a ricordarglielo. Il problema semmai è capire, non perché il Dio della rivoluzione è fallito, ma perchè gli uomini non siano stati in grado di sviluppare le potenzialità di liberazione che l'Ottobre portava dentro di sé. Osservatore attento degli uomini, Serge non aveva illusioni. La sua non è una visione sentimentale della rivoluzione. Egli sa che gli uomini, messi alla prova della storia, possono esprimere il meglio ma anche il peggio di sé. E dunque l'Ottobre aveva al suo interno anche un cuore di tenebra che avrebbe poi portato all'orrore staliniano. Il rapporto leninismo-stalinismo non è un processo meccanico di causa-effetto. Lo stalinismo per Serge è allo stesso tempo conseguenza di ciò che accade in Russia e nel partito dopo l'Ottobre, ma anche aperta rottura con quella storia. E lo sterminio dei vecchi bolscevichi nelle purghe degli anni Trenta sta a dimostrarlo. Il sogno libertario di una nuova Comune di dimensioni planetarie coabita con la creazione della Ceka e il terrore, la democrazia proletaria con l'autoritarismo di un partito bolscevico sempre più autoreferenziale. Per riprendere lo studio di Roberto Massari sull'Ottobre, rivoluzione e antirivoluzione sono processi complementari. La storia non ha sbocchi prefissati, né è assimilabile ad una corsia d'autostrada. Può avere brusche svolte e anche ritorni all'indietro. E la storia di una rivoluzione non fa eccezione. Passati i primi entusiasmi, Serge già dalla tragedia di Kronstadt è consapevole delle enormi potenzialità, ma anche delle terribili insidie della realtà sovietica, ma soprattutto del suo carattere profondamente contraddittorio. Serge vede gli sviluppi della rivoluzione come conseguenza dell'azione di masse mosse dalla situazione concreta, ma anche come la risultante di scelte individuali. È questa combinazione a renderne complessa l'interpretazione. Da qui l'attenzione all'analisi psicologica delle masse e degli individui e la scelta della letteratura come terreno privilegiato d'impegno. La scrittura viene concepita non come mera narrazione e neanche come una compensazione di un agire politico diventato ormai impossibile nell'URSS staliniana. Scrivere per Serge significa comprendere ciò che sta accadendo e i mutamenti che la nuova realtà produce nelle masse e negli individui, perché solo capire può mantenere viva la speranza e saldi i legami fra chi non vuole cedere al totalitarismo. «Concepisco la letteratura – scrive - come un mezzo di espressione e di comunione tra gli esseri umani: un mezzo particolarmente potente agli occhi di coloro i quali vogliono trasformare la società. Dire ciò che si è, ciò che si vuole, ciò che si vive, ciò per cui si soffre e si lotta, ciò che si conquista. Bisogna dunque far parte di chi lotta, soffre, cade, conquista. »

Serge crede nell'umanità, ma non ha illusioni sugli uomini. Sa che un rivoluzionario sincero e carico di ideali può diventare uno spietato assassino. I suoi personaggi portano appieno nelle loro storie individuali questa ambiguità di fondo. Nei suoi romanzi non ci sono santi e demoni, ma solo uomini travolti da eventi più grandi di loro, spinti avanti nonostante tutto dal vento tempestoso che impedisce all'angelo di Benjamin di fermarsi a piangere sulle macerie della storia.

Scrivere significa testimoniare di questa ambiguità profonda insita nella vita stessa di ogni uomo, descrivere le potenzialità e le contraddizioni di una Storia che altro non è che la sintesi di una pluralità di destini. Un concetto che Serge ha ben chiaro, tanto da scrivere:

«Ricordare, fissare, comprendere, interpretare, ricreare la vita. Non possediamo che una vita, ma questa contiene molti destini possibili. Non è unica nel senso che si confonde con innumerevoli radici, affinità e contaminazioni (la maggior parte delle quali non si possono esprimere razionalmente) con altri uomini, la terra, gli esseri, il Tutto. Scrivere diventa allora la ricerca di una polipersonalità, una maniera di vivere molti destini, di penetrare l’altro, di comunicare con lui.»

L'intera sua opera testimonia di questo tentativo di esplorare l'animo umano, i fili invisibili che legano gli uomini fra loro e che diventano poi la trama vera di quello che chiamiamo Storia, un intreccio inestricabile, una volta si sarebbe detto dialettico, fra individuo e collettività.

La sua è una scrittura solo all'apparenza semplice, e forse proprio per questo poco considerata dai critici letterari. In realtà Serge, per quanto autodidatta, è un grande scrittore e un autore colto. Nelle sue pagine, non c'è nulla di improvvisato, oltre all’influenza della grande scuola del romanzo russo dell'Ottocento, troviamo echi di Joyce, Dos Passos, Proust e fra i russi Boris Pil'njak con cui era stato in grande intimità nella seconda metà degli anni Venti. Così come negli anni dell'esilio manterrà stretti contatti con i surrealisti Breton e Peret e poi in Messico con Octavio Paz. Spesso, si considera solo l'attivista politico e si dimentica che Serge aveva vissuto a Vienna dove aveva avuto stretti contatti con Lukacs e Gramsci, e che, pressoché unico fra i marxisti ortodossi, si era interessato di psicoanalisi approfondendo lo studio di Freud, Adler, Ferenzi. Studi a cui attingerà per descrivere i cambiamenti profondi che vivere in un regime totalitario provoca nei comportamenti individuali e collettivi.

Serge fu un uomo del dubbio e dunque una presenza scomoda prima nell'ambito del Partito russo e poi nelle fila dell'Opposizione. La sua costante volontà di comprendere, il non accettare le versioni correnti, lo esposero a critiche dure e ingiuste anche da parte di Trotsky che lo accusò di essere un intellettuale piccolo borghese prigioniero dei suoi scrupoli. Bolscevico per gli anarchici, anarchico per i bolscevichi, Serge era in realtà un comunista libertario, fautore di un marxismo umanistico che, al pari del giovane Marx, poneva l'uomo al centro di ogni cosa. Centrale per lui restava il fattore umano, e questo sia nel bene che nel male. Esattamente il contrario del rigido determinismo economicistico usato sia da Stalin per giustificare le sue giravolte, che da una opposizione incapace di riflettere sul proprio fallimento e di ripensare il suo stesso modo di stare nel mondo. La sua richiesta alla Quarta Internazionale di essere più tollerante e aperta al dialogo con le altre componenti del campo rivoluzionario viene bollata da Trotsky come un tentativo di dare libertà di parola a confusionari, settari e centristi di ogni sorta. Una visione, autoritaria e centralistica, che spiega l'infinita serie di scissioni che fin dalla sua formazione hanno caratterizzato quella storia.

La sua vita dalla fine degli anni Venti fu, un «viaggio nella disfatta», come scrive, nel Caso Tulaev, il suo romanzo migliore in cui mostra di aver raggiunto una completa maturità espressiva. Una disfatta narrata in È mezzanotte nel secolo attraverso le storie di un piccolo gruppo di rivoluzionari che assistono al progressivo consolidarsi di un nuovo e feroce regime di oppressione che non è però il frutto di una controrivoluzione venuta da fuori, ma è progressivamente lievitato nelle viscere stesse del partito e del regime a partire da elementi già comunque presenti e avvertibili fin dall'inizio. Una disfatta che ha le sue radici anche nelle storie personali e nelle scelte politiche di chi ora è diventato vittima. E proprio in questo sta la tragedia degli uomini e delle donne dell'Opposizione. Assetato di verità, Serge vuol capire come ciò sia stato possibile. Come l'alba radiosa della liberazione si sia trasformata nell'ora più buia del secolo. Non gli basta prendere Stalin a unico responsabile, tanto meno una presunta burocrazia vista come una casta di fatto esterna alla politica. È il partito stesso a essersi progressivamente corrotto proprio a causa di quella politica del terrore indiscriminato, giustificato in nome degli ideali della rivoluzione, diventato poi mera gestione del potere, prassi quotidiana, fino a travolgere gli stessi quadri del partito che lo avevano teorizzato e praticato. Non ci sono innocenti nella Russia di Stalin.

Lo sguardo di Serge sul mondo è quello di un sopravvissuto, di un uomo tornato dal regno dei morti. Uno sconfitto, ma non un vinto: mai egli rinuncerà ad affermare la necessità, prima di tutto morale, di battersi contro un mondo feroce, il nazismo trionfante in Germania, il totalitarismo staliniano nella Russia che doveva essere l'inizio di un nuovo mondo. Per Serge la rivoluzione non ha perso legittimità, il socialismo resta, come per Rosa Luxemburg, l'unica alternativa alle barbarie. Ma, come Rosa Luxemburg, Victor Serge pensa a un socialismo a misura d'uomo, profondamente libertario. Di qui il suo rifiuto netto di continuare a giustificare in nome del fine l'uso di mezzi ignobili, ancora teorizzato da Trotsky in quel testo totalmente inaccettabile che è La nostra morale e la loro. Se si acconsente all'idea che tutto ciò che serve alla rivoluzione è morale e che a decidere cosa serva nelle varie fasi siano solo i vertici del partito, escludendo i lavoratori dalla gestione diretta del Paese, allora davvero lo stalinismo è figlio legittimo dell'Ottobre e del bolscevismo. In questa incomprensione sta proprio il grande errore di Trotsky, ma anche in Italia di Bordiga, che del leninismo colsero e valorizzarono soprattutto l'aspetto centralistico e autoritario.

E allora che fare? Davanti alla reazione crescente egli sceglie la via della letteratura intesa come un dovere di testimonianza. Quando tutto pare perduto, l'attività intellettuale resta la sola possibile. Lo scrive nel gennaio 1942 nei suoi Carnets. Solo così, lavorando sulla memoria, si può andare oltre alla disfatta, continuare la lotta, recuperarne l'originale spinta libertaria. Con lo scopo dichiarato di riuscire a trasmetterne il senso autentico alle generazioni che verranno e impedire che il filo rosso dell'utopia sia definitivamente spezzato, travolto dalle menzogne di un regime che ad ogni tornante politico riscrive la storia, cancellandone chi, come Trotsky, si è trasformato in una presenza scomoda. In una parola, mantenere vive la memoria e la speranza. Per questo egli non sarà mai un pentito, né un transfuga in cerca di nuove certezze atte a sostituire quelle così tragicamente fallite. Per lui la rivoluzione resta un processo aperto, anche se al momento ha subito una dura battuta d'arresto, che però non cancella la validità dell'esperienza dell'Ottobre. « Noi non siamo dei vinti che nell'immediato » scrive nelle sue Memorie. Nonostante l'avvento dei totalitarismi gemelli dello stalinismo e del nazismo, i personaggi di Serge restano, nell'esilio o nei Campi siberiani, ancora in piedi anche se circondati da macerie.

Per Serge prioritaria è la lotta al totalitarismo, mostrarne il carattere disumanizzante, combatterne le menzogne. Una scelta che ne fa un mistico laico, perché come per i mistici deriva da una illuminazione avvenuta in un momento di profonda crisi fisica e spirituale. Il racconto che Serge fa della sua decisione di dedicarsi totalmente alla scrittura è la descrizione di una conversione. Nel 1928 gravemente ammalato, sapendosi in serio pericolo di vita, in uno stato di semidelirio tira un bilancio della propria storia personale: « Pensai che avevo enormemente lavorato, lottato, imparato senza produrre niente di valido e di duraturo. Se per caso dovessi sopravvivere – mi dissi – bisogna che io finisca presto i libri che ho iniziato, scrivere, scrivere... »

Da allora scrivere diventa per lui una missione. Un impegno a cui dedica tutto se stesso, fermamente convinto che, proprio perché tornato da una discesa agli Inferi, il suo dovere è parlare per chi è rimasto là in quel mondo di ombre prive di voce. È per loro che Serge scrive i suoi romanzi. Oltre ad articoli, saggi, traduzioni e perfino un libro di poesie, egli scrive nove romanzi, divisi in due cicli : quello dell'ascesa e del trionfo della rivoluzione e quello della resistenza al totalitarismo. In questo secondo ciclo si colloca È mezzanotte nel secolo, dedicato alla memoria di Kurt Landau, Andrés Nin, Erwin Wolf, tutti assassinati a Barcellona dagli stalinisti. Il romanzo è la storia di un piccolo gruppo di rivoluzionari confinati in Siberia per la loro opposizione al regime. Serge era stato arrestato e deportato a Orenburg, sul fiume Ural, ma il libro non vuole essere una testimonianza autobiografica e neppure un romanzo a tesi. Il romanzo tratta dell'ora più buia del secolo, segnata dal trionfo apparente dei totalitarismi gemelli staliniano e nazista. Siamo in piena controrivoluzione, ma paradossalmente esiste ancora spazio per la speranza, nell'esilio, ma anche nel profondo dell'arcipelago Gulag. Non è per caso che, dopo il capitolo iniziale, la parte del libro ambientata nel confino di Cërnoe si apra con una straordinaria descrizione dell'arrivo della primavera:

« I ghiacci della Cërnaja si aprirono tardi, a metà maggio. In questo periodo la neve si è dileguata, tranne in qualche avvallamento mal esposto ; le acque scintillanti stagnano in pianura. E si vedono gli uccelli svolazzare a stormi. La terra, svanito il suo candore, è conquistata dalle acque, le ali, il cielo. Da dove vengono tutti questi uccelli ? Alcuni, volando, formano dei triangoli. Altri formano dei nugoli che descrivono curve, volteggiano e si sfilacciano come nebulose. Una gioia serena si diffonde tra la terra e il cielo. »

È mezzanotte nel secolo, ma le tenebre non sono destinate a durare, almeno fino a che ci saranno sulla terra uomini ancora capaci di immaginare un mondo diverso, risoluti a non cedere al terrore e all'oscuramento delle menti. Victor Serge crede profondamente in questo futuro positivo, nonostante la solitudine e la povertà dell'esilio. L'Ottobre ha dimostrato che il mondo può essere cambiato, che l'utopia può diventare realtà. A patto però di mantenere salda la fiducia nell'uomo. Si è persa una battaglia, ma la guerra continua. Una lotta in nome dell'uomo, democratica e libertaria, dove non è ammessa alcuna contraddizione fra i fini dichiarati e i mezzi utilizzati per raggiungerli. Proprio in questa profonda visione umanistica, che ci ricorda Erasmo da Rotterdam e il suo tentativo di mantenere viva la ragione nel tempo folle delle guerre di religione, consiste la grandezza dell'uomo e dello scrittore. È questo a renderlo una delle poche autentiche voci libere di un secolo attraversato dal 1917 da un'unica ininterrotta guerra civile, dove la libertà è considerata un lusso che per primi i rivoluzionari non possono permettersi. Un mondo dove, come egli stesso amaramente annota, nessuno dei due due schieramenti cerca ormai di convincere, ma solo di uccidere.

Victor Serge muore all'improvviso di infarto il 17 novembre 1947 in una strada di Città del Messico, vestito poveramente e senza documenti. Il suo corpo viene portato nella camera mortuaria di un ospedale, dove lo trova Julián Gorkin, dirigente del POUM in esilio:

«Lo trovammo a mezzanotte passata, steso in una stanza spoglia dalle pareti grigie. Aveva le scarpe bucate con la suola completamente logora e una camicia da operaio. Un nastro di tela gli chiudeva la bocca, quella bocca che nessun tiranno era riuscito a far tacere. Sembrava un vagabondo raccolto per pietà. E non era forse stato l’eterno vagabondo della vita e di un ideale? Il suo volto esprimeva un’amara ironia, un sentimento di protesta, l’ultima protesta di Victor Serge, l’uomo che per tutta la vita aveva protestato contro le ingiustizie umane.»

venerdì 2 aprile 2021

Notizie ai naviganti

 


Notizie ai naviganti

Qualche amico ci scrive per chiederci preoccupato come mai su Vento largo in questo periodo appaia così poco. Tranquilli, non è a causa del virus. Io sto bene e per fortuna, lo stesso è delle persone che mi sono vicine. Il Covid comunque c'entra, ma in maniera diversa. Questa sospensione del tempo dovuta all'interrompersi di molte delle pratiche che consideravamo abituali, il ridursi oggettivo degli spazi di socialità, la scomparsa in pochi mesi di parecchi cari amici, rappresentano tutti motivi di riflessione sul senso profondo delle cose. Almeno nel mio caso questa situazione di incertezza non priva di ansia crea un bisogno forte di stabilità e di continuità. Da qui il dedicarsi maggiormente agli affetti, Diddina in primis, e allo studio. Insomma,di fronte all'estrema precarietà del presente, diventa prevalente il bisogno di guardare avanti, di concentrarsi su cose proiettate nel futuro, che continuino ad esserci anche dopo di noi. Vale tantissimo per la nipotina, vale anche molto per l'impegno politico e/o culturale.

Il tempo purtroppo è quello che è, le potenzialità intellettuali anche. Alla mia età entrambe (tempo e forze) tendono a ridursi. Ed è logico che sia così. E allora, ad evitare ansie e frustrazioni, la scelta di concentrarsi su qualcosa di meno episodico e frammentario di un post. E il Covid almeno a questo è servito. A farmi finalmente dedicare ad un lavoro di sistemazione di materiali raccolti negli anni, sempre trascurato per inseguire l'attimo presente, l'ultimo dibattito, l'ultima battaglia destinata a essere persa come le altre.

Per cui, cari amici, è vero, Vento largo langue, ma in cantiere ci sono un paio di libri che si prendono tutto il tempo e le energie disponibili. Il lavoro procede intenso e man mano che ci saranno novità ne darò notizia, a partire dal Bordiga “sconosciuto” degli anni 1930-1944 ormai prossimo alla stampa, da un lavoro sul Victor Serge testimone del secolo dei totalitarismi (introduzione a una nuova edizione del suo capolavoro “È mezzanotte nel secolo”), ad una riedizione aggiornata del vecchio libro su Karl Korsch uscito nel 2005, ad una ricerca in corso sulla sinistra “bordighista” italiana nella Francia degli anni Venti e Trenta (vedi foto di copertina) ed altro in via di definizione. Lavori che tra l'altro mi hanno permesso di riannodare vecchi legami, stringerne di nuovi, di costruire collaborazioni e reti per la circolazione di materiali e documenti. E anche questo non è poco.

Giorgio