domenica 30 maggio 2021

Per una politica dell'inatteso. La rivoluzione surrealista

 


Enrico Giosuè Biraghi

Per una politica dell'inatteso

Per gentile concessione degli eredi la casa editrice di Roberto Massari pubblica le memorie del rivoluzionario surrealista Pierre Naville, originariamente apparse per le Èditions Galilée di Parigi nel 1977. La curatela della presente edizione è affidata a José Fernando Padova. Naville fu saggista marxista e prese le difese di Trotsky nel ’27.

Precursore del surrealismo è il movimento dada, il quale «sviscerava con molto spirito tutte le pubblicazioni che per tradizione veicolavano idee consacrate». Anche se «le sue navi incendiarie furono effimere», esse «si moltiplicavano silurando pubblicazioni venerabili a colpi d’innovazioni tipografiche e di un’elaborazione sintattica della pagina stampata». Da questa corrente il nucleo composto dai surrealisti si distacca presto. «Eravamo alla ricerca di luci più terrestri, di un meraviglioso più esplosivo», dirà Naville.

Vede allora la luce La Révolution surréaliste, rivista per la cui pubblicazione viene presa una speciale accortezza: «il tipografo fu scelto il più lontano possibile dalle botteghe in cui si confezionano edizioni d’arte». Lessico del surreale: beffardo, grottesco, ambiguo, macabro, perturbante, spugnoso. Gli aderenti al movimento provano l’impulso ad avventurarsi in dedali sinora inesplorati dalle correnti d’avanguardia, oltre ad analizzare i propri desideri inespressi e quelli che vien fatto per errore di contrariare. Si elevano alla forma sublime dell’arte i sussulti della coscienza, il prosciugamento dello spirito stremato da traumi e i sinistri presentimenti inascoltati - una forma di devozione per le percezioni sensoriali più minute. Non si pensi a un indugio di accento “psicologico”: le «logomachie freudiane» sono ormai lontane dalla nuova sensibilità, al pari di una psicanalisi troppo spesso consultata «come guida dei percorsi turistici dell’inconscio». Viene rigettata risolutamente ogni idea di canone, mentre si rifiutano con sdegno tabù e mode ideologiche in nome della vitale eruzione del vulcano della poesia e della volontà di compiere effrazioni contro ciò che è conforme ad ipocrite norme sociali; si critica poi l’individualismo della speculazione filosofica e quello della “vita privata”, «negata dal surrealismo fin dalla sua comparsa concertata». Prende forma un’inedita riflessione sulle proprietà dell’immagine, vista come «collisione abbagliata di due termini tratti da solitudini lontane» cui si oppone la prigione delle costrizioni sociali che «fin dall’infanzia siamo addestrati a trattenere e fissare sulle nostre retine e nella nostra faringe». Nasce una dialettica dell’«infinitamente sottile», vivente di molecolari e fortuite fusioni; fisica assai singolare, si direbbe “magica”, una paradossale logica della materia, legata alla vita - dice Éluard - «non come un’ombra ma come un astro». È il surrealismo un materialismo che appare terso. 

Vengono inviate infuocate missive ai referenti dell’ordine concentrazionario borghese: i lacchè dell’ufficialità giornalistica, i primari corrotti delle istituzioni manicomiali, i ministri demagoghi, i rettori autoritari delle università europee, asiatiche, africane e naturalmente fra i destinatari c’è anche la «Chiesa di Roma».

«Meteora infrangibile» del movimento e uno dei suoi più importanti artefici - «se non il principale» per Naville - è il poeta Benjamin Péret. Nel ’30 aderisce alla Lega comunista e da allora lo si ritroverà sempre a fianco degli operai che insorgeranno in Brasile, Spagna e Messico. È su posizioni lontane da quelle dell’antimilitarismo morale, poiché «il fiore non merita la canna del fucile». Cosa potremmo temere dal futuro se «da qualche parte vi è un marinaio che la poesia di Péret trasforma in sognatore»? Ecco la metamorfosi cui pare invero essere “destinato” il cosmo, quell’infinito processo all’interno del quale l’uomo non è che un «eccesso di materia solare, con un’ombra di libero arbitrio come dardo» (René Char).

Da qui l’origine di una poetica dei suoni-rumori, che trovi gli archetipi e i simboli acustici primordiali e si metta «alla ricerca del valore tonale delle parole». Nello sguardo di Naville «la poesia è di per sé un modo di mantenere all’istante le proprie promesse nel semplice scintillio o nella dolcezza di una pupilla, se succede».

(L'Albatros n. 2 aprile/giugno 2021)

www.utopiarossa.blogspot.com

sabato 29 maggio 2021

La Massoneria russa nell'Ottocento

 


Giorgio Amico

La Massoneria russa nell'Ottocento


La storia della massoneria russa presenta elementi di grande interesse. Prima di tutto è una storia complessa e anche drammatica, scandita da periodi di clandestinità e di altri, più rari, di attività alla luce del sole.

Lasciando da parte la tesi, che la ricerca storica contemporanea respinge come leggendaria, che l'introduzione della Massoneria in Russia risalga a Pietro il Grande che sarebbe stato a sua volta iniziato in una loggia operativa (cioè di veri muratori) inglese, l'arrivo della Liberia Muratoria in Russia risale ai tempi dell'imperatrice Caterina che, affascinata dall'illuminismo francese, ne favorì le attività al fine di modernizzare il paese e portarlo al livello culturale della parte più avanzata d'Europa. Il progetto fallì clamorosamente quando l'imperatrice stessa capì che in un regime autocratico fondato sulla servitù della gleba la diffusione di principi di uguaglianza e libertà non poteva restare chiuso nell'ambito dei circoli intellettuali, ma rappresentava un potenziale pericolo per l'ordine costituito. Di conseguenza le logge furono chiuse nel 1792.

Seguì dunque un periodo di persecuzione poliziesca, interrottosi poi brevemente alla morte dell'imperatrice sotto gli imperatori Paolo I, lui stesso massone, e Alessandro I . Periodo chiuso definitivamente nel 1822 con il bando delle logge, bando riconfermato nel 1826 dopo il tentativo di colpo di stato democratico degli ufficiali decabristi in gran parte massoni e fortemente influenzati dalla Carboneria italiana.

Dal 1822 dunque la Massoneria cessò di esistere in Russia, anche se non ne cessarono le attività. Alcune logge continuarono a riunirsi clandestinamente a Pietroburgo e a Mosca, ma con una partecipazione sempre più ristretta e in una assoluta clandestinità.

Diversa la situazione all'estero, dove a partire già dai primi anni trenta dell'Ottocento troviamo russi che si fanno iniziare nelle logge dell'Europa occidentale, soprattutto in Francia. Per tutto l'Ottocento Parigi sarà il vero centro della Massoneria russa, ruolo che rivestirà di nuovo dopo il bando bolscevico della Massoneria nel 1918.

All'inizio sono uomini d'affari e mercanti che cercano nelle logge contatti utili per le loro attività, ma a partire dal 1840 e dall'aperto coinvolgimento della Massoneria nei movimenti rivoluzionari che porteranno poi alla grande ondata rivoluzionaria del 1848, a iniziarsi sono soprattutto intellettuali, molti di provenienza aristocratica, affascinati dal giacobinismo e dalle attività delle società segrete di cui la Carboneria italiana rappresenta uno dei principali esempi.

Questo spiega l'adesione del futuro padre dell'anarchia Michail Bakunin, iniziato nel 1845, e attivo soprattutto in Italia in una loggia fiorentina del grande Oriente d'Italia, fino a raggiungere il 32° grado (il penultimo) del Rito Scozzese Antico e Accettato. Bakunin addirittura organizzò una sua “Fratellanza Internazionale” e scrisse un “Catechismo moderno della Massoneria”, convinto che come era avvenuto per la Carboneria, la Massoneria rappresentasse la via migliore per la costruzione di una efficace organizzazione rivoluzionaria. Questo spiega anche come N. I. Utin, uno dei fondatori della sezione russa della Prima Internazionale, pur non essendo massone, si riunisse con i suoi compagni nei locali del tempio massonico di Ginevra.

Per tornare a Bakunin, egli era stato fortemente influenzato dall'esperienza italiana ed in particolare dalla figura di Giuseppe Garibaldi, a sua volta iniziato nel 1844 in una loggia di Montevideo. E proprio a Garibaldi si deve una delle prime apparizioni, dopo il bando del 1822, di logge massoniche sul territorio dell'impero russo.

Nel 1874 il Grande Oriente d'Italia costituì una loggia a Odessa, la “Stella di giustizia” attiva nella comunità italiana. Va ricordato che la Crimea era stata di fatto colonia genovese e che fino alla seconda guerra mondiale ospitava una comunità di lingua italiana di circa 300 mila persone. Nella seconda guerra mondiale questa comunità fu deportata da Stalin nel gulag siberiano e praticamente sterminata. Dopo la guerra gli italiani di Crimea non erano ormai più di tremila, costretti a nascondere le loro origini e a prendere nomi russi, pur mantenendo nel segreto della famiglia l'uso della lingua italiana. Una storia drammatica quasi sconosciuta in Italia che solo dopo la caduta del comunismo si è incominciato a ricostruire.

La Loggia ebbe comunque vita breve, tanto che negli anni Ottanta non se ne trova più traccia. Lo stesso accadde con le logge aperte dal Grande Oriente di Francia ai tempi della guerra di Crimea. Va comunque detto che anche questo logge riunivano soprattutto mercanti e marinai francesi e non svolgevano alcuna attività fra i russi e dunque venivano tollerate. Anch'esse comunque ebbero vita breve.

La rinascita della Massoneria russa avvenne a Parigi e solo a partire dalla fine dell'Ottocento con la fondazione della loggia “Cosmos” nel 1887 di cui il principale esponente fu il Professor Pavel Nikolayevich Yablochkov (1847-1894), prestigiosissimo uomo di cultura in esilio volontario in Francia.

La Cosmos si rivolse ai giovani intellettuali russi, soprattutto medici e scienziati, venuti a studiare e a lavorare nelle università occidentali, raccogliendone l'élite. Scopo della loggia la modernizzazione della Russia, la trasformazione del paese in una monarchia costituzionale, la soluzione del problema contadino e delle minoranze nazionali oppresse a partire da quella polacca.

In questo ambito si colloca l'adesione alla Massoneria di Maxim Maximovich Kovalevsky (1851-1916) prestigioso professore universitario e vero padre della Massoneria russa moderna.

Nell'estate del 1900 Kovalevsky aprì a Parigi un “Istituto russo di Scienze sociali”, aperto a giovani ricercatori di tutte le tendenze che divenne la fucina della futura classe politica democratica protagonista della storia russa dalla rivoluzione fallita del 1905 al 1917. La Scuola teneva corsi di filosofia, storia, letteratura, diritto costituzionale, economia politica, sociologia, antropologia. A questi corsi parteciparono centinaia di giovani studiosi che in parte non piccola si inizieranno alla Massoneria e durante i fatti rivoluzionari del 1905 torneranno in Russia ad aprire le prime logge. La Scuola, gestita secondo i principi massonici della tolleranza e della più assoluta libertà di pensiero, vide la partecipazione come relatori sulla questione sociale in Russia di personaggi del calibro di G. V. Plekhanov, il padre del marxismo russo, e dello stesso Lenin.

La partecipazione ai corsi era praticamente gratuita, l'iscrizione costava solo 30 franchi all'anno. Le spese venivano coperte dallo stesso Kovalevsky, ricco proprietario terriero, che a questo scopo vendette gran parte delle sue proprietà a Kharkov. Coerente con le sue idee democratiche e con la convinzione che il problema centrale della Russia fosse la trasformazione dei contadini russi da massa informe a classe di piccoli proprietari, egli cedette le sue terre ai contadini che già le lavoravano.

Da questo ambiente uscirono i quadri dei futuri partiti russi ed in particolare del Partito Costituzionale Democratico e del Partito Socialista Rivoluzionario. Ma qui inizia la storia di un altro periodo della Massoneria russa destinato a concludersi con la rivoluzione del febbraio 1917 e il rovesciamento dell'autocrazia zarista. Ne parleremo in un'altra occasione.


venerdì 21 maggio 2021

Novità in libreria. Bordiga, il fascismo e la guerra (1926-1944)


Novità in libreria
Bordiga, il fascismo e la guerra (1926-1944)


Nella storia politica di Amadeo Bordiga, fondatore e primo capo del Partito comunista d’Italia, esiste un vuoto di quasi 15 anni, dal 1930 al 1944, di cui egli non parlò mai se non per accenni minimi. Dopo la lettera a Korsch del 28 ottobre 1926, nella produzione scritta di Bordiga esiste un vuoto totale, interrotto solo da alcune lettere del periodo del confino, e da una serie di lettere e memoriali per lo più di argomento privato inviate ad autorità di polizia negli anni ‘30. Lo testimonia lo scrupoloso studio bibliografico, l’unico finora esistente, curato nel 1995 da Arturo Peregalli e Sandro Saggioro. Nel volume, di ben 250 pagine, gli anni fra il 1926 e il 1945 occupano meno di tre pagine. Un vuoto destinato a durare fino alla primavera del 1945 e a segnare una frattura indelebile nella vita politica di Bordiga. Certo, nel dopoguerra egli riprende la parola e rivendica, come se nulla fosse stato, la piena continuità ideale e politica con la propria battaglia precedente il 1927. Ma è una forzatura e per un semplice motivo: non si può essere rivoluzionari a corrente alternata a seconda delle fasi politiche attraversate.

Il dovere di un rivoluzionario, è persino banale, è fare la rivoluzione e questo nei momenti storicamente più sfavorevoli significa non fughe in avanti avventuristiche, ma tenerne aperta la possibilità per il futuro con la penna e la parola. Questo fece Marx dopo il 1848, accingendosi allo studio scientifico dell’economia per comprendere il perché della sconfitta della rivoluzione, e Lenin con il suo enorme lavoro analitico-organizzativo negli anni intercorsi fra la sconfitta del 1905 e il 1917. Questo è ciò che, fra mille contraddizioni, fece Trotsky e che gli costò la vita per mano di un sicario staliniano inviato in Messico a impedirgli per sempre di pensare. Ma anche quello che tentò di fare, pur con un’estrema povertà di mezzi, il pugno di militanti internazionalisti italiani riuniti in Belgio e in Francia attorno a Ottorino Perrone. Per non parlare di Gramsci capace, giorno dopo giorno, nonostante l’isolamento politico e la malattia, di compilare quei Quaderni che restano quanto di meglio il marxismo seppe esprimere in quegli anni terribili.

Bordiga no, egli scelse il ritiro alla vita privata, il silenzio e l’inazione. A questo dovere rivoluzionario Bordiga abdicò proprio negli anni in cui più importante era tirare dei bilanci e condurre una lotta senza esclusione di colpi contro i totalitarismi gemelli del fascismo e dello stalinismo, manifestazioni entrambe della controrivoluzione in atto. Lo fece poi nel dopoguerra, e con risultati non disprezzabili, ma solo quando l’odiatissima democrazia gli permise di farlo in tutta tranquillità e senza alcun rischio. Negli anni bui della dittatura, in tempi di ferro e di fuoco, segnati dall’avvento del nazismo in Germania, dalla rivoluzione spagnola e dalla Seconda guerra mondiale, oltre che dalla liquidazione per mano staliniana dell’intera vecchia guardia bolscevica, la sua scelta fu quella di restare alla finestra e di mantenere un silenzio che qualcuno ha definito «impressionante».

Proprio a questi anni di ostinato silenzio pubblico, ma anche di imbarazzanti dichiarazioni private, è dedicato il libro “Bordiga, il fascismo e la guerra (1926-1944)”, appena finito di stampare per i tipi della Massari Editore, che sulla base di una larga mole di testimonianze e documenti, permette al lettore di farsi una opinione più precisa di quello che realmente accadde e di come il fondatore del Partito comunista si relazionò con il regime negli anni dell'apparente trionfo del fascismo e poi in quelli rovinosi della guerra.


A partire dalle prossime settimane il libro sarà ordinabile nelle librerie oltre che in rete.  Può essere tuttavia già richiesto direttamente all'editore.

Ma quanto erano simpatici questi trotskisti. Ricordi di un rivoluzionario diventato ministro

 



Pochi, al di fuori ovviamente degli addetti ai lavori, probabilmente sanno che Giorgio Ruffolo, prestigioso economista e infine per cinque anni ministro, fu in gioventù fra i fondatori e i dirigenti dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari, sezione italiana della Quarta Internazionale trotskista. Da un suo garbatissimo e ironico libro di memorie, uscito qualche anno fa e di cui consigliamo la lettura, riprendiamo alcuni passi che ricostruiscono alla perfezione il clima in cui in Italia (e non solo) fra il 1948 e il 1956, nacque e operò la minoranza rivoluzionaria trotskista. (I titoletti sono nostri)

Ma il compagno Togliatti può sbagliare?

Correvamo anche qualche rischio. Non tanto da parte della polizia, che si limitava a schedarci (la cosa preoccupò solo gli americani, che molto più tardi mi negarono il visto),quanto dei nostri comunisti, che qualche volta ci aggredirono, anche fisicamente. Erano (stati) convinti che fossimo provocatori fascisti. Non sempre, però. Talvolta non capivano bene chi fossimo e ci lasciavano parlare.

Nella sezione di San Lorenzo qualcuno interruppe Maitan, chiedendogli: «Ma allora, secondo te, Togliatti si sbaglia?».

«Sì», rispose lui dopo qualche esitazione. Silenzio tombale.

«Ma se il compagno Togliatti sbaglia, allora sbaglia anche il compagno Stalin?».

Livio raccolse tutte le sue forze.

«Sì, anche Stalin sbaglia».

A quel punto, quando già stava per coprirsi la testa, scoppiò una gran risata. I compagni, evidentemente, l’avevano preso per matto.

Questo era il clima, nel grande partito. Non soltanto nella base, ma anche tra i suoi prestigiosi intellettuali. Uno dei più assurdi, Felice Platone, il manipolatore della prima edizione degli scritti di Gramsci, scrisse: «Solo dei mentecatti possono mettere in dubbio che l’Unione Sovietica sia la patria del socialismo»

I trotskisti e il calcio

Praticavano un’opposizione inflessibile, non una lotta di religione. Lo stalinismo non era da loro considerato una perversione infernale, ma una deviazione temporanea; il Partito comunista, una forza tuttora disponibile per la rivoluzione; l’Unione Sovietica,un grande paese tuttora socialista, da difendere contro le aggressioni del capitalismo internazionale.

Personalmente, erano molto più simpatici dei burocrati del Cremlino, certo, ma anche dei comunisti nostrani,quando questi erano in servizio. Erano umani, come tutti i perseguitati. Ciascuno di essi si portava dietro un romanzo di battaglie combattute su due o tre fronti, di tormenti patiti, di ingiustizie e calunnie subite, di familiari incarcerati e massacrati, di terrore e di solitudine.

C’erano di quelli che avevano sperimentato tutti e due i «campi», il lager e il gulag: come due tedeschi che incontrai a Parigi, si chiamavano Hippe e Haas, erano stati per anni nei campi di Hitler e poi, consegnati ai russi dopo il patto tedesco-sovietico, in quelli di Stalin: tutta una vita. Erano bianchi come sedani.

Di alcuni personaggi conservo un ricordo particolarmente vivo. Ernest Mandel, che ho già evocato, per esempio. Logico inflessibile,con tendenza spiccata, come lui stesso diceva, al talmudismo, teorico rigoroso, erudito enciclopedico. E anche incredibilmente ingenuo. Era stato a Milano e ci disse entusiasticamente di avere letto sui muri scritte inneggianti all’Inter. Non aveva pensato che si trattasse di una squadra di calcio, ma dell’Internazionale [trotskista].

La segretezza prima di tutto

Cornelius Castoriadis, economista, filosofo, psicanalista, che girava a Parigi con una vecchia Pontiac priva dello sportello posteriore, sicché da dietro spiccava il suo crapone calvo e lucido. Era funzionario dell’Oecd (ci rimase per vent’anni) con l’ufficio a due passi dal mio.Nessuno, io per primo, sapeva che si chiamava anche Pierre Boulez (e anche Jean-Marie Coudray , e anche Paul Cardan) e che dirigeva la rivista «Socialisme et barbarie». Quando un giorno mi incontrò per le scale mentre l’avevo tra le mani, impallidì: forse pensò a un messaggio cifrato, o a una provocazione. Ci scherzammo insieme, più tardi.


(Da: Giorgio Ruffolo, Il libro dei sogni. Una vita a sinistra raccontata a Vanessa Roghi, Donzelli, 2007)


lunedì 17 maggio 2021

Per una storia del Manifesto 1969-1979

 



I cinquant'anni del Manifesto quotidiano sono stati occasione di una serie di iniziative editoriali che, a partire da un ricco supplemento dedicato dal giornale alla sua storia, contribuiscono ad una migliore conoscenza del percorso politico del gruppo che dette origine al giornale, agli omonimi centri di iniziativa politica e poi al Partito di unità proletaria per il comunismo.

In particolare spiccano due volumi che segnaliamo a chi continua nonostante tutto ad andare ostinatamente contro corrente, cercando di evitare di essere progressivamente omologato al sistema vigente sempre più frammentato e disumanizzante. Insomma, per citare il buon Paolo di Tarso, protettore di tutti i Bastian Contrari (in altri tempi avremmo detto “rivoluzionari”) chi ancora si ostina a essere nel mondo ma non del mondo.


Il primo è un volume dedicato a ricostruire il percorso politico e intellettuale di Lucio Magri, significativamente definito “non post-comunista, ma neo-comunista”, proprio a indicare la coesistenza nel suo pensiero di elementi di continuità e di novità. L'autore è Simone Oggionni (1984), responsabile nazionale Cultura di articolo Uno e già membro della segreteria nazionale di SEL.



Il secondo, a cura di Luciana Castellina e Massimo Serafini, ripercorre la storia dal 1969 al 1979 del giornale e del gruppo politico del Manifesto, raccogliendo numerosissime testimonianze soprattutto sull'intervento di fabbrica e nel sindacato, a sfatare la leggenda, che ancora circola, di un gruppo di intellettuali tutto sommato salottieri come da sempre è costume di una certa intelligentsia di sinistra.


domenica 16 maggio 2021

Quando gli operai arabi e ebrei lottavano insieme. Storia del movimento operaio in Palestina (1906-1948)

 


Giorgio Amico

Quando gli operai arabi e ebrei lottavano insieme. Storia del movimento operaio in Palestina (1906-1948)

In un momento tragico come l'attuale, molti sui media prendono posizione contro la presenza ebraica in Palestina, qualificandola sbrigativamente come una invasione avvenuta dopo la fine della seconda guerra mondiale e permessa dalle grandi potenze come una sorta di risarcimento per la Shoah. Nulla di più falso. Prima di tutto perché una consistente presenza ebraica in Palestina non cessò mai neppure dopo l'invasione araba del VII secolo dC. E poi perchè la potenza occupante, la Gran Bretagna, fece di tutto, come dimostra il caso della nave Exodus, per impedire che molti dei sopravvissuti dai campi di sterminio nazisti raggiungessero nel 1946 la comunità ebraica già presente. 

Comunità composta in larga parte da operai e contadini, che dopo la prima guerra mondiale avevano costituito sindacati e partiti assai combattivi. Una attività di organizzazione che si era presto estesa anche ai lavoratori arabi creando non pochi timori nell'amministrazione inglese e nel notabilato semifeudale arabo.Un libro, uscito qualche anno fa per le edizioni dell'Università di Berkeley, ricostruisce questa storia del tutto sconosciuta in Italia. Ne consigliamo la lettura, peraltro assai avvincente, a chi ha anche solo una media conoscenza della lingua inglese.

Il libro esplora il pensiero e la pratica dell'ala sinistra del movimento sionista, e in particolare i suoi rapporti con lavoratori arabi. In particolare si ricostruisce dettagliatamente la lunga e complessa storia degli sforzi del movimento operaio sionista per organizzare i lavoratori arabi sotto la sua tutela, i dibattiti che accompagnavano quel progetto e le contraddizioni che spesso questo comportava, in particolare con il partito comunista, allora esclusivamente composto da ebrei, ma fortemente antisionista.

Il libro ricostruisce anche le posizioni e le azioni dei lavoratori arabi, dimostrando chiaramente come questi non fossero oggetti passivi della attività delle organizzazioni sindacali ebraiche, ma protagonisti a pieno titolo delle lotte del nascente movimento operaio ebraico-palestinese. .

Una parte importante del libro è dedicata poi a una ricostruzione approfondita della storia del sindacato ferrovieri, il più forte e avanzato politicamente dei sindacati allora esistenti.


Il libro è scaricabile gratuitamente a questo link:

https://libcom.org/files/Comrades%20and%20Enemies%20Lockman.pdf







Novità in libreria. Uno sguardo dall'interno sulla storia delle Brigate Rosse

 


Brigate Rosse: un diario politico

L'arresto di alcuni ex-brigatisti da anni rifugiati in Francia ha aperto un largo dibattito volto più a demonizzare le lotte operaie e studentesche di quegli anni, la zona grigia da cui le BR sarebbero nate e su cui si sarebbero appoggiate, che a fare opera di chiarezza storica. In realtà la storia degli “anni di piombo” è molto più complessa e contraddittoria di quanto sia stata presentata in interviste e dichiarazioni che, a partire di quelle di Mattarella, di fatto tendono a criminalizzare una intera stagione di lotte studentesche e operaie. Interventi che non aiutano a capire cosa realmente accadde in quegli anni. Il libro che presentiamo, di fatto un documento interno delle BR degli inizi degli anni 80 quando era chiara ormai la sconfitta del loro progetto politico, contribuisce a capire meglio cosa realmente pensassero i brigatisti. Teorie troppo sbrigativamente definite come “deliranti”. Ne riportiamo la presentazione editoriale con la premessa che dovrebbe essere inutile, ma che in questi tempi è comunque opportuna a evitare fraintendimenti, che conoscere non significa né giustificare né condividere, ma solo fare il primo passo perché simili tragedie non possano di nuovo accadere.

G.A.

“Il primo rendiconto critico e autocritico della storia delle Brigate rosse a opera di alcuni suoi autorevoli dirigenti e militanti. Questo eccezionale documento inedito corredato da un ampio apparato di note, ricostruisce, fase per fase – dal biennio 1968-69 alla metà degli anni Ottanta – i convulsi mutamenti del contesto storico-politico italiano, permettendo al tempo stesso di entrare all’interno di dinamiche ancora oggi sconosciute della complessa storia delle Brigate rosse. Soprattutto il lento dissidio tra la componente dei suoi fondatori storici imprigionati da anni e la direzione esterna. Dissidio insanabile che, dopo l’esito del sequestro Moro, sfocerà in una serie di scissioni, preludio dell’esaurirsi di un progetto politico rivoluzionario che ha segnato in modo indelebile la storia recente del nostro paese”.


Brigate rosse: un diario politico
Riflessioni sull'assalto al cielo
Silvia De Bernardinis (a cura di)
DeriveApprodi, 2021

sabato 15 maggio 2021

Sul "genocidio" di Gaza

 

Sul “genocidio” di Gaza

Per secoli ebbe gran fortuna "l'accusa del sangue", la leggenda che gli ebrei fossero assassini di bambini cristiani, rapiti per essere usati in sacrifici rituali. Ancora oggi la chiesa cattolica venera alcuni di questi presunti martiri. Nonostante l'orrore della Shoah, “giornate della memoria” e quant'altro, c'è chi pare continui a pensarla così. E non solo nella destra filonazista o nell'integralismo cattolico.

A vedere certi post sembra che il governo israeliano di punto in bianco, senza motivo, per puro sadismo, abbia iniziato a bombardare la pacifica città di Gaza facendo strage dei suoi cittadini e accanendosi soprattutto sui bimbi. E' quello che sostengono senza alcun pudore coloro che scendono in piazza, non per chiedere pace, ma per condannare “l'aggressione” israeliana. Addirittura qualcuno parla di fermare il “genocidio” del popolo di Gaza. Ma è proprio così? I comunicati, non del governo israeliano, ma di Hamas offrono una versione molto differente. Ma i fanatici, si sa, non hanno bisogno di leggere, avendo ben chiaro a priori dove stiano torti e ragioni, chi siano i buoni e cattivi. Eppure i comunicati stampa non si prestano ad equivoci.

Comunicato ANSA del 10 maggio 2021 ore 23.59

“Il movimento islamico palestinese di Hamas ha lanciato un altro ultimatum a Israele, avvertendo che condurrà un attacco su larga scala a meno che le forze di sicurezza israeliane non si ritirino dalla Spianata delle Moschee o Monte del Tempio entro le 2 del mattino “.

Ed infatti nelle 24 ore successive Hamas lanciava da Gaza, da rampe collocate in mezzo ai palazzi,  più di mille missili sulle città israeliane. Inutile, ovviamente, sottolineare che fino a quel momento l'esercito israeliano non aveva sparato un solo colpo di fucile su Gaza.

Comunicato ADN Kronos del 13 maggio ore 13.57

"Colpire Tel Aviv, Gerusalemme, Ashkelon, Ashdod, Beersheba e Dimona, vicine e lontane, è per noi più facile che bere un bicchiere d'acqua". Lo ha affermato in un videomessaggio diffuso sui social Abu Obeida, portavoce dell'ala armata di Hamas, le Brigate Izz al-Din al-Qassam, dicendo che ''siamo pronti a tutto per Gerusalemme''.

Le responsabilità del governo Netanyahu nell'aver per l'ennesima volta fatto crescere la tensione a Gerusalemme è fuori discussione. Così come è fuori discussione il diritto del popolo palestinese ad avere un proprio Stato e non essere costretto a vivere sotto la cappa della semioccupazione militare israeliana.

Ma altrettanto fuori discussione è il diritto del popolo israeliano alla sicurezza e all'autodifesa.

Ma evidentemente a molti, anche a sinistra, gli ebrei piacciono solo se si lasciamo condurre nei forni senza reagire.










venerdì 14 maggio 2021

I Palestinesi e l'Italia. Dedicato a chi ha tante certezze e poca memoria

Di fronte a tragedie come quella attualmente in corso in Israele e a Gaza con decine di vittime innocenti da una parte e dall'altra crediamo che l'unica cosa che proprio non serva siano le verità a senso unico e il fanatismo che porta a dividere i buoni dai cattivi senza capire minimamente la complessità terribile del problema.


Ci è capitato così di trovare questa foto sotto il titolo: Non solo Berlinguer, ma anche Andreotti e Craxi sapevano da che parte stare...

Di quegli anni siamo stati testimoni e qualcosa ancora, a differenza di molti, ricordiamo. Almeno quanto basta a capire che la realtà è stata terribilmente più complessa di come i fanatici e i deboli di memoria la rappresentano.

E allora a nostra volta ci chiediamo da che parte stavano le decine di vittime dei due attentati palestinesi all'aereoporto di Fiumicino e il bambino ebreo di due anni assassinato davanti alla sinagoga di Roma?



Strage palestinese di Fiumicino 1973-34 morti



  Strage palestinese di Fiumicino 1985 - 16 morti


Sequestro palestinese della Achille Lauro 1985


Attacco palestinese alla sinagoga di Roma 1982  - Assassinato un bimbo di due anni

ROLANDO MIGNANI l’indefinibile (memoria del senso) a cura di Sandro Ricaldone

 


ROLANDO MIGNANI

l’indefinibile

(memoria del senso)

a cura di Sandro Ricaldone


Entr'acte
via sant'Agnese 19R – Genova
13 maggio – 8 giugno 2021
orario: giovedì-venerdì 16-19
apertura: giovedì 13 maggio ore 17
ingressi contingentati

Dopo l’ulteriore pausa imposta dalle prescrizioni contro la diffusione della pandemia, Entr’acte riprende l’attività espositiva con una mostra dedicata a Rolando Mignani, a dieci anni dalla vasta antologica allestita presso il Museo d’arte contemporanea di Villa Croce ed a venti dalla sua ultima esposizione personale.

Mignani è una delle figure di spicco del gruppo della Scrittura Visuale, riunito attorno ad Ugo Carrega che ne è stato il teorico e il promotore, in un ambito liminale “tra significante e significato”.

A proposito dell’opera di Mignani proprio Carrega scriveva, nel presentarne nel 1971 una personale al Centro Tool di Milano: “Non si tratta di usare la poesia visuale per dire le stesse cose di sempre. Non si tratta di conferire alle parole una conformazione mimetica. Si tratta di usare i tracciati spaziali della pagina come significanti, di avere consapevolezza che tutto ciò che viene messo sulla pagina deve rispondere ad una necessità sintattica (di rapporto fra i segni) per un finale risultato semantico, che tutto è materiale usabile in poesia e che tutto il materiale può essere usato su due piani: denotato (oggetto cosa) e denotante (parola segno che sta per la cosa oggetto)”.

Rolando Mignani (1937-2006) nasce nel quartiere di Rivarolo da una famiglia di sarti. Lavora fin da giovanissimo nell'edilizia e nel porto, e a 15 anni comincia a interessarsi alla poesia. Lavora in fonderia (prima alla Bruzzo poi alla Grondona, come gruista). Fa amicizia con Ugo Carrega ed entra in contatto con altri poeti genovesi che sperimentavano la verbovisualità: Corrado D'Ottavi, Martino Oberto e Rodolfo Vitone. Grazie al Centro Tool fondato da Carrega partecipa a varie mostre collettive e pubblica sulle riviste del gruppo. In questo periodo si avvicina alla poesia di E. E. Cummings su cui continuerà a riflettere per il resto della sua vita. Negli anni Settanta si avvicina a Carlo Romano, intellettuale non allineato e gestore, con il fratello Mario, della Libreria Il Sileno: con lui e Alfredo Passadore fonderà l'Atelier Bizzarro, un "centro studi e documentazione sull'immaginario" che produce un Bollettino e pubblica due suoi libri d'artista: La rimozione dell'orecchio nell'elargizione dell'occhio e Si può dimostrare quel che si vuole ma a un certo punto del gioco C vale G, entrambi del 1975. Nel 1976 esce invece Quaderno per il raddrizzamento delle nome e dei cosi per La Nuova Foglio di Macerata, editrice attenta al movimento della poesia visiva e concreta. A partire dalla fine degli anni Settanta ha contatti e collaborazioni con vari giovani artisti genovesi come Giuliano Galletta e Nicola Bucci e inizia a coltivare la performance. Negli anni Ottanta è impegnato nella redazione di riviste centrate su questioni politiche ed estetiche, come Stato inferto e Ghen Liguria. In particolare a quest’ultima collaborano filosofi e studiosi di grande livello come Jean-Luc Nancy e Mario Perniola. Nel 2001 tiene alla galleria Leonardi V-Idea di Rosa Leonardi la sua ultima mostra personale, PILGRIMage - in collaborazione con Paolo Argeri - al cui centro è ancora una volta Cummings.

In occasione della mostra viene attivato il sito https://rolandomignani.it, dedicato all’opera dell’artista.

domenica 9 maggio 2021

Terrorismo. Caro Mattarella, basta con la retorica da comizio.

 


Riprendo un interessante corsivo di Franco Astengo che conferma quanto sappiamo dal dicembre 1969. Da questo Stato e dai suoi rappresentanti non ci si può attendere che venga fatta definitivamente luce su quella stagione. Al massimo volano gli stracci o, come accade in questi giorni,ci si accanisce contro contro chi si è ribellato, giusta o sbagliata che fosse la protesta. In questo lo Stato è implacabile. Ma l'invito a far chiarezza sulle “zone grige” del potere, che poi tanto grige non sono, resta solo retorica da comizio. E questa vale per Mattarella come per tutti coloro che lo hanno preceduto, Pertini compreso. Prenderemo sul serio questi signori quando inizieranno a fare nomi, sia ben chiaro, non dei colpevoli che ufficialmente non si conoscono e che comunque è compito della magistratura individuare, ma almeno di chi era informato dei fatti. L'elenco è lungo e conosciuto. Ne citiamo solo qualcuno: Segni, Andreotti, Taviani, Moro, Rumor, Saragat, lo Stato Maggiore dell'Esercito, il Comando generale dell'Arma dei carabinieri, l'Ufficio Affari riservati del Ministero degli Interni. Per non parlare ovviamente dei servizi Segreti che tutto erano, meno che deviati. Per cui il buon Mattarella smetta di far retorica. Smettiamola anche con l'utile idiota Gelli e la sua P2, non perchè non c'entrasse, ma perché era un burattino (anche se con la B maiuscola) mosso da burattinai che guarda caso rientrano giusto nell'elenco degli intoccabili senza nome.  Siamo stufi ogni anno di sentire sempre il solito invito a”far luce definitiva” sugli anni bui. Oltretutto è inutile. Lo ha già detto bene Pasolini, a cui fu subito chiusa la bocca, “Noi sappiamo già”. Detto questo mi onoro di aver fatto parte in quegli anni del “circolo della critica”, qualunque cosa voglia dire. Sempre meglio dei circoli di quel potere democristiano da cui Mattarella proviene.

G.A.

TERRORISMO di Franco Astengo


Il lungo testo dell’intervista sul terrorismo rilasciata dal presidente Mattarella a Repubblica è attraversata da un “nocciolo duro” .

Una tesi di fondo riferita alle “incompletezze” degli elementi di conoscenza di cui disponiamo rispetto a quel tragico periodo.

Dobbiamo interrogarci però sul dove dovrebbe essere ancora rivolta la domanda di verità avanzata dal Presidente della Repubblica.

Una domanda sul chi dovrebbe essere chiamato a rispondere e a svelare le “zone grige” che certo non corrispondevano agli intellettuali che , all’epoca, si schierarono con “né con lo Stato, né con le Br”.

Mattarella nella sostanza identifica il presunto terrorismo rosso nella “Resistenza Tradita” in una sorta di richiamo ad un dannunzianesimo anarcoide e il presunto terrorismo nero (sul quale si ammettono collegamenti interni ed esteri) ad un tentativo di “eversione della giovane democrazia italiana”.

Nel primo caso Mattarella ritiene, ancora adesso, non sufficientemente condannati gli intellettuali appartenenti a una sorta di “circolo della critica”, mentre nel secondo caso non rivolge la sua richiesta di verità verso quei “corpi separati” che, in realtà, ebbero parte grandemente attiva all’esplosione terroristica almeno sul piano del determinarne tempi e modi (a partire da piazza della Fontana).

In queste condizioni è’ inutile chiedere la verità, auspicare la cattura (dopo 40 anni) dei latitanti all’estero: non sta lì la risposta compiuta, ma sta dentro alle strutture e ai servizi della Repubblica dell’epoca e all’interno dello stesso sistema politico.

Per comprenderci meglio: il rapimento e l’uccisione di Moro furono sicuramente da attribuirsi al filone delle BR.

Deve però essere considerato come quel fatto fu anche l’unico che determinò una deviazione di fondo nell’insieme del sistema politico italiano: come il punto di inserimento di una nuova frattura rispetto a quella determinatasi con il 18 aprile’48 e corrispondente alla divisione del mondo in blocchi.

Una deviazione che portò alla fine della “Repubblica dei Partiti” e che non poteva essere identificata nell’attacco al “compromesso storico” inteso come tentativo di saldatura della divisione cui si faceva cenno poc’anzi e che aveva portato alla “conventio ad excludendum” e alla democrazia bloccata: questa tesi regge, ad esempio, il libro di Veltroni recentemente pubblicato ed è patrimonio di gran parte della vulgata corrente.

La deviazione nell’andamento del sistema politico si ebbe, invece, sulla faglia “fermezza/trattativa”, con i protagonisti che ricordiamo e con una paradossale eterogenesi dei fini.



venerdì 7 maggio 2021

Dego negli scritti di Giuseppe Cesare Abba

 


Nel 1875 a Milano per l'editore Civelli esce “Le rive della Bormida nel 1794”, romanzo storico di Giuseppe Cesare Abba. Ne riprendiamo le prime pagine contenenti una bella descrizione di Dego.


Chi si parte dalla marina del Finale, e su pel fianco dell'Appennino va verso le Langhe, si arresta trafelando ogni tratto a ripigliar lena, e a vedere quanta sarà ancora la salita, e quanto s'è scostato da quella spiaggia, diversa giù giù per foci di torrenti, per iscogliere tagliate a filo, per promontori neri, dirupati, somiglianti a mostri, che si inoltrano cimentosi nei flutti. Ma guadagnata che abbia la vetta del Settepani, sente l'affanno della via ripida e lunga, quetarsi in una vista maravigliosa. La catena dell'Alpi è di lassù un'occhiata infinita; e se vi si arriva all'apparire del sole, tutta la distesa di picchi, di coni, di aguglie, gli pare un mondo di cose vive e moventi. Si vorrebbe aver l'ali per lanciarsi su qualcuno di quei culmini, così alti nel cielo; e si abbassa di malavoglia lo sguardo, a cercare la via, giù per i gioghi avvolti ancora nell'ombra, lì sotto: dove per un lungo digradarsi di monti, si confondono villaggi, selve, burroni spaventosi; qua Montenotte, là Cosseria, castella e torri feudali per tutto; più lontana e più bella d'ogni altra quella di Vengore, che nera e solitaria si spicca su un altipiano, oltre il quale la nebulosa pianura.

Giù per le selve fumano le carboniere da mille siti. Le donne, colle ceste del mangiare in capo, s'affrettano verso quelle, pei dirotti sentieri; e ti guardano fantasticando sull'esser tuo: gli uomini, a mo' di brusco saluto, ti dicono «animo,» o «allegri!» quasi lassù non potesse passare chi non è lieto o animoso. Non ti paia d'essere capitato fra gente mezza barbara; chè se tu chiederai loro qualche servigio ti saranno cortesi, e interrogati ti additteranno i ripari di pietre ferrigne, fatti dagli Alemanni, superati dai Francesi; e i tumuli erbosi sotto i quali giacciono i morti di quelle genti; gloriandosi di non averli turbati mai. Se l'ora sarà del riposo, e sederai con loro, ti narreranno leggende antiche come quella di Adelasia ed Aleramo; o forse qualche storia della sorta di questa mia, seguita in luoghi che si vedono di lassù; quando i repubblicani Francesi, calarono in Val di Bormida, a piantar alberi di libertà, e a ballare la carmagnola pei sagrati e sin nelle chiese.


Uno dei borghi di quella vallata, in cui per amenità di postura e pel genio allegro degli abitanti, facesse di quei tempi più bello stare, era quello di D...., bagnato dalle acque della Bormida, che ivi scorre con curve leggiadre, all'ombra d'alti pioppi e passa sotto le volte d'un ponte angusto, gettato sopra di esse a guisa d'un patto, stretto cautamente fra quel popolo, in età di poca concordia. Dico così perchè D.... se ne sta diviso in tre vichi; dei quali due giacciono in riva all'acque, di maniera che uno d'essi pare lì per tuffarsi; mentre il terzo li soggioga dalla vetta d'un colle ronchioso e popolato di cerri. La via onde si arriva su questo, serpeggia con repentine svolte per l'erta; e sebbene non tutta a petto, è di molta fatica a salirla. Ma come uno è sulla cima si sente rinato. Piace il sito della chiesa e il campanile che si leva più alto parecchie braccia, con una cupoletta, che miracolo se il vento non se la porta via: piacciono il presbiterio e l'orto; e invoglierebbero ogni uomo d'essere prete, per vivere lassù da curato. Alcune case che fanno corona alla chiesa, quantunque belle pongono anch'esse in cuore un funebre senso. Le ragnatele pendono dai balconi le cui imposte cascano sfasciate; e mentre si direbbe che questa o quella delle tante porte sia lì per aprirsi, dura sempre una quiete altissima, interrotta solo dalle ventate che empiono di suoni cupi le sale deserte. Lassù, nè la state nè il verno, mai che si vegga un comignolo a fumare, e se i nostri fossero altri tempi, a udire l'ore battute dall'orologio di quel campanile, si farebbe credere chi sa quale storia maravigliosa alla gente semplice del contado. Ma ognuno sa che il sagrestano della nuova chiesa parrocchiale, sorta da pochi anni in luogo più basso e più comodo agli abitanti del piano; sale ogni giorno il colle a caricare quel vecchio arnese; e il suo è il solo passo che rompa il silenzio dell'antica parrocchia, sempre vuota come le case che ha intorno. Non più messe grandi nè vespri cantati; non più conviti nè festini; l'ultimo dei pievani dorme da oltre mezzo secolo nel sepolcro dietro l'altare; e delle allegre donne e degli uomini buontemponi vissuti lassù, rimane appena il ricordo nella mente vagellante di qualche vecchio ottuagenario.

Questo gruppo di case per essere stato sede dei feudatari della terra si chiamava il castello; e gli abitanti venuti dopo costoro, padroni della parte più vasta e ubertosa del paese, erano tutti signori. Nei vichi a piè del colle, le famiglie agiate e le case di bell'aspetto erano poche; ma in quello della riva sinistra del torrente se ne vedeva una, notevole per la grandezza, e più alta di tutto un piano sul vicinato, quasi tutto catapecchie. Mostravano di qual sorta di gente fosse, il piazzale, l'atrio, il giardino che le fioriva da un lato; e più di tutto le finestre ampie e chiuse di vetriate, le quali sebbene fatte a riquadri strettissimi, costavano di quei tempi molto danaro.

Novità in libreria: Pandemia amorosa dolorosa - di Nicla Vassallo

 

Pandemia amorosa dolorosa", la terza raccolta di poesie della filosofa Nicla Vassallo 

Ardore, sfida, qui risiedono assolutezza e risolutezza, senza narrazione, né morbidezza; disarticolazione con passione; spregiudicatezza prudenziale e virale; originalità, caparbietà: questo rivelano i versi, dolorosi, amorosi di Nicla Vassallo in un universo, personale e personalistico, esteriore e interiore, universo per nulla universale, universo segnato dalla pandemia, una mania, una malattia che si riversa nella poesia, con denuncia e grazia, senza calunnia, né disgrazia.


“Le poesie di Nicla Vassallo sono fatte di ‘vocaboli’, isolati, monofamigliari, un po’ scontrosi. Non sono sicura di entrare in contatto con loro, ma ammiro la loro capacità (forse di derivazione filosofica) di fare a meno della frase, del paese, della città. A meno che sia una città di torri, guardata da lontano.”


Ginevra Bompiani


Nicla Vassallo (https://niclavassallo.net/), specializzatasi al King’s College London, è filosofa di fama, Professore Ordinario di Filosofia Teoretica, Associato Isem-Cnr., autorità nelle ricerche dei gender studies. Fa parte di consigli direttivi e comitati scientifici di autorevoli riviste, oltre che di associazioni e fondazioni. Annovera numerosi saggi, oltre centocinquanta, tra volumi e articoli scientifici, in italiano e inglese. Ha vinto il premio Filosofia a Siracusa. Ha pubblicato due volumi di poesie, “Orlando in ordine sparso” e “Metafisiche insofferenti per donzelli insolenti”, entrambi Mimesis. Scrive di cultura e filosofia su blog, quotidiani, riviste.

martedì 4 maggio 2021

Dall'ultima newsletter di Ben Vautier

 


Dall'ultima newsletter di Ben Vautier*

CULTURE

Les artistes
pètent plus haut que leur
trou de cul
c’est normal
une question
de positionnement de leur ego

CULTURE PARIS

Je suis passé voir
3 expos différentes à Paris
toutes mauvaises
on dirait, à peu de chose près,
la même mayonnaise,
et pourtant ils se battent

NICE CULTURE

Personne ne prend
l’art contemporain à Nice au sérieux
Et pourtant nous étions
presque à égalité avec Paris,
grâce à Klein, Arman,
le Nouveau Réalisme, et Fluxus
Avant de s’endormir dans le lit municipal

COVID

Il paraît qu’il y a plus de romans
parus pendant le Covid
les gens s’emmerdent,
ils écrivent

BEN CHEZ BILLY LA BAULE ?

Expo le 6 août
j’ai envie de mettre
une table de roulette au milieu
et décliner comme thème
le hasard l’amour la vie

BEN SUR BEN

Et si je faisais une exposition
De ma collection
Je n’ai jamais rien jeté
depuis mon enfance
Comment décider des prix ?
Il y aura des affaires à faire
Mettre tout sur le net ?
non cela n’a pas de sens
je n’aime pas l’argent
j’aime créer
j’aime les femmes
j’aime les pâtes
j’aime le porto

*Ben Vautier (1935), Artista e performer, vive e lavora a Nizza.

L'angolo di Bastian Contrario: Se Bordiga assomiglia a Pol Pot...

 


Giorgio Amico

Se Bordiga assomiglia a Pol Pot che speranza c'è di una società di liberi e eguali?


Un amico ha postato su Fb una pagina in cui Primo Levi riflette sul concetto di totalitarismo in rapporto alla situazione concreta del lager. Proprio la sera prima avevo letto, devo dire con sgomento, un lungo saggio del 1958 di Amadeo Bordiga in cui si esplicitava come essenza del comunismo fosse “l'annullamento della persona singola come soggetto economico, titolare di diritti ed attore della storia umana”. Si, avete letto bene, Bordiga scrive proprio così: il comunismo è l'annullamento di tutto quello che rende un uomo un uomo e non il semplice componente di una specie. E questo spiega perché ho parlato di sgomento. Ma avrei potuto dire anche orrore, perché questo scritto è del 1958 e dunque quando ben conosciuto era “l'annullamento” di milioni di “persone singole” da parte dei totalitarismi nazista e staliniano. Ma questo non turbava Bordiga che anzi, proprio all'inizio del suo scritto, esalta lo sterminio per fame dei contadini russi, quella carestia di ‘Povolzhye” che fra la fine del 1921 e il 1922 fece 5 milioni di morti. Scrive Bordiga:

«Di questo passo di Lenin raccogliamo la nozione del sottoconsumo. Molte epoche hanno presentato questo fenomeno, a cui ha reagito la decimazione della popolazione. L'epoca capitalista mostra di aborrirne, ed insegue il mito della sovrapproduzione, per cui le occorre sovraconsumo e sovrappopolazione. È ora di liberarci da un altro complesso imitativo della forma borghese: la rivoluzione proletaria non può esitare a traversare, se necessario per travolgere il capitalismo, una epoca di sottoconsumo. La rivoluzione di Lenin or sono quarant'anni insegnò che non bisognava esitare; ma il traguardo doveva essere la vittoria del sistema socialista; e non di quello capitalista. Resta tuttavia un grande insegnamento per il proletariato e il suo partito: la dittatura rivoluzionaria avrà il carattere di una dittatura sui consumi, sola via per disintossicare i servi del Capitale moderno, e liberarli dalla stimmate di classe che esso ha loro stampata nelle carni e nella mente.»

Dunque, in nome del comunismo vittorioso e della rieducazione della popolazione ai nuovi valori vigenti, anche la carestia, pudicamente definita “sottoconsumo”, può essere un utile strumento di governo. Pol Pot non avrebbe potuto meglio esprimere la sua identica visione del comunismo.

Marx, ne sono assolutamente certo, sarebbe inorridito scoprendo cosa veniva teorizzato (e purtroppo anche compiuto) in suo nome. Proprio lui che, leggendo la stampa dei socialisti francesi che pure erano lontani anni luce da queste aberrazioni, ci tenne a precisare che, avendo scoperto che alcuni in Francia si dichiarano marxisti, lui non era né tanto meno era mai stato “marxista”.

Di qui la risposta, con qualche aggiustamento formale, al post del mio amico.

«Si riproduceva così, all'interno del Lager, in scala più piccola ma con caratteristiche amplificate, la struttura gerarchica dello Stato totalitario, in cui tutto il potere viene investito dall'alto, ed in cui un controllo dal basso è quasi impossibile. Ma questo "quasi" è importante : non è mai esistito uno Stato che fosse realmente "totalitario" sotto questo aspetto. Una qualche forma di retroazione, un correttivo all'arbitrio totale, non è mai mancato, neppure nel Terzo Reich ne' nell'Unione Sovietica di Stalin : nell'uno e nell'altra hanno fatto da freno, in maggiore o minor misura, l'opinione pubblica, la magistratura, la stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e giustizia che dieci o vent'anni di tirannide non bastano a sradicare. Solo entro il Lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei piccoli satrapi era assoluto. È comprensibile come un potere di tale ampiezza attirasse con prepotenza quel tipo umano che di potere è avido : come vi aspirassero anche degli individui dagli istinti moderati, attratti dai molti vantaggi materiali della carica e come questi ultimi venissero fatalmente intossicati dal potere di cui disponevano.» (Primo Levi, I Sommersi e i Salvati)

Grazie, A., il tuo post mi ha fatto riflettere su come ci si possa ancora definire comunisti oggi dopo l'orrore del gulag russo, cinese, cambogiano, coreano. Il brano che proponi è fondamentale per capire le logiche del potere totalitario. Ma come è potuto accadere? Quale pensiero sta dietro a queste aberrazioni, quale visione dell'uomo e della storia le giustifica? Non possiamo ridurre tutto alla follia razzista hitleriana. sarebbe rassicurante, ma non è così. Nell'ultimo numero di Programma comunista, giornale storico dei bordighisti, viene citato come fondamentale per la comprensione di cosa è il vero programma comunista, uno scritto di Bordiga del 1958. Me lo sono andato a cercare e ieri sera l'ho finalmente letto. La tesi sostenuta è questa "Contenuto originale del programma comunista è l'annullamento della persona singola come soggetto economico [ e fin qui ci possiamo stare], titolare di diritti ed attore della storia umana". E qui non ci stiamo più. Bordiga per venti pagine spiega che l'individuo (per lui un concetto borghese) deve essere annullato come essere pensante, protagonista di scelte autonome, portatore di diritti. Conta solo la specie, perché la "personalità individuale" è una "vuota fantasima". La persona singola va eliminata dalla storia, non ha alcun ruolo, perché contano solo le leggi economiche. La storia, dunque, si fa da sola, con il movimento di masse amorfe e inconsapevoli guidate da una entità superiore, il partito rivoluzionario detentore della coscienza di classe. La rivoluzione, scrive Bordiga, ha bisogno delle "mani armate" degli operai, non della loro intelligenza. La mente è il partito.

Ma se “l'autentico” comunismo è questo, allora la differenza fra Stalin, Pol Pot e Bordiga sta solo nel disporre o meno del potere materiale (l'apparato dello Stato) per costruire questo comunismo da formicaio. Non a caso Bordiga spesso evoca la dittatura spietata che il partito eserciterà una volta preso il potere. Anzi possiamo aggiungere che Stalin, che pure esercitò la violenza su scala di massa contro il suo popolo e il suo stesso partito, non arrivò mai a teorizzare con tanta brutale chiarezza che il proletariato non era che una massa amorfa da utilizzare per la presa violenta prima e la gestione dispotica poi del potere da parte di una élite. Ma la liberazione della classe operaia dallo sfruttamento del capitale non doveva essere opera della classe operaia stessa? Ma il proletariato non doveva, emancipando se stesso, emancipare l'intera umanità?

Leggere queste righe di Levi a poche ore lettura del testo di Bordiga, mi ha confermato che, forzature politiche a parte, la tesi della coincidenza dei due totalitarismi non è poi così campata in aria. Le tesi di Bordiga portano direttamente alla situazione descritta da Levi, dove chi è in basso è un numero, una cosa. Marx parlava di emancipazione e piena realizzazione dell'uomo, non di riduzione dell'uomo a un essere privo di personalità individuale, a un numero tatuato su un braccio o stampato su una tuta da lavoro. Il marxismo è un umanesimo, Gramsci e la Luxemburg lo hanno sostenuto fino alla fine e da qui le accuse di idealismo e democraticismo dei presunti "ortodossi". Se il comunismo novecentesco, realizzato da Stalin e dai suoi epigoni ma anche teorizzato da chi pure come Bordiga si contrapponeva allo stalinismo, è un salto indietro rispetto alle stesse libertà borghesi, allora va respinto proprio in nome di un ritorno al marxismo libertario del giovane Marx dei Manoscritti, innamorato della sua Jenny e dell'umanità. Per lui il comunismo era l'idea di una libertà piena non più condizionata dal denaro e di una vita finalmente umana, non una casa dei morti gestita da un potere impersonale e tirannico, il partito Messia depositario della verità e dunque al di là del bene e del male, che poi nel concreto diventa, come spiega bene Levi, il capriccio personale di "piccoli satrapi" onnipotenti.




Bobo Pernettaz, percorso di un artista

 

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Asimov ritrovato

 


È in libreria Delitto all'ABA, forse il più intrigante dei romanzi polizieschi di Isaac Asimov. Autore molto più noto al grande pubblico come scrittore di fantascienza e divulgatore scientifico. Il romanzo, di cui proponiamo la recensione di Enrico Tiozzo, docente emerito di letteratura italiana all’Università di Göteborg, era già stato pubblicato da Mondadori nel 1977 ma, come avverte l'editore in una sua nota editoriale, con pesanti tagli per restare nel formato standard di un centinaio di pagine delle collane “Gialli Mondadori” o “Urania”. Sempre per ridurre il testo alle dimensioni di libriccino da edicola ferroviaria si era provveduto a una traduzione assai libera, che spesso sostituiva pagine intere con parafrasi. La nuova edizione è dunque la prima integrale e con una traduzione che rende perfettamente il senso autentico del testo. Una felice riscoperta per l'appassionato di gialli che finalmente si trova nelle mani una edizione integrale e filologicamente corretta di un testo non secondario della letteratura poliziesca. Quanto a noi, siamo ancora più felici di segnalare l'esordio letterario di Laris Massari, traduttore e curatore esemplare del testo, che ha arricchito con una introduzione e un corpo di note che ne facilitano la lettura. Si, perché, Laris, che abbiamo conosciuto bambino, ha appena compiuto 17 anni e con questo lavoro si segnala come una promettente speranza del panorama letterario ed editoriale italiano.

G.A.


Enrico Tiozzo

Asimov ritrovato

Con la pubblicazione di Delitto all’ABA (Massari editore, 2021), in traduzione integrale e con un ricco apparato di note, viene finalmente restituito ai lettori italiani nella sua interezza un magistrale giallo di Isaac Asimov che ha circolato per quasi mezzo secolo, fin dall’uscita nel 1976, in una versione alterata dalle manipolazioni editoriali (a cominciare dal titolo). A metterle puntualmente in luce e a documentarle, al di là di ogni ragionevole dubbio, ha provveduto finalmente il curatore e traduttore della nuova edizione, Laris Massari, che ha compiuto una fine e accurata operazione filologica riuscendo nello stesso tempo a rendere al meglio lo stile incalzante e avvincente dell’originale inglese, Murder at the ABA.

Nell’edizione uscita nel 1976 e in quelle successive fino al 2012 il libro di Asimov, come dimostra il curatore italiano, era stato vittima di tagli arbitrari su brani da ritenersi essenziali ma giudicati superflui, insignificanti o difficili da tradurre, per un totale di 17 pagine, con un processo di riscrittura dell’originale, capace di spingersi fino alla parafrasi in italiano di alcuni passaggi del testo inglese. Ci voleva un piccolo editore impavido per mettere in evidenza una prassi spiacevole che purtroppo è divenuta quasi abituale per troppe case editrici quando decidono di pubblicare la traduzione italiana di un originale in lingua straniera.

L’aspetto prioritario infatti è di dare al libro uno stile ritenuto «adatto» al lettore italiano, considerato più «leggibile» dal traduttore e dall’editore, anche se ciò comporta un’evidente manipolazione o perfino una vera e propria riscrittura del testo originale. Il problema naturalmente non è nuovo né solo italiano: fra gli altri, se n’è occupato autorevolmente Milan Kundera, nel suo I testamenti traditi, a proposito delle traduzioni di Kafka in lingua straniera.

Nella traduzione elegante ma fedelissima di Laris Massari, il trascinante romanzo giallo di Asimov riacquista tutti i colori smaglianti dell’originale. Il traduttore ha operato come il restauratore che pulisce la superficie di un quadro mediocre per ritrovare il capolavoro che era stato coperto da un pittore occasionale.

Giallista atipico - come non è strano che accada a uno scrittore dai molteplici interessi - ma tutt’altro che spaesato nella letteratura poliziesca, Asimov, con Delitto all’ABA, costruisce un romanzo che fila via come il vento, tra l’umorismo sottile ispirato al suo amato Wodehouse, l’atmosfera riecheggiante a tratti i toni hardboiled del giallo statunitense, e quell’unità aristotelica di tempo, spazio e luogo che è la chiave di volta delle trame più coinvolgenti e riuscite, perché il lettore si sente chiamato in causa, sa di trovarsi sul posto e capisce, di pagina in pagina, che gli eventi stanno prendendo forma sotto i suoi stessi occhi, nel loro divenire.

Magistrale la caratterizzazione dei personaggi, disegnati con pochi ma efficacissimi tratti di penna, in uno stile che ricorda quello di Saul Bellow: «Eccolo lì, a grandezza naturale (poco più di un metro e ottanta), con la sua faccia gradevole e sorridente, con i suoi occhiali pince-nez del tipo che non ti aspetteresti di trovare al di fuori di un museo.

«Combinato con una barbetta bianca sul mento e una crescita generosa di baffi, ugualmente bianchi, sembrava una figura letteraria del diciannovesimo secolo». Altrettanto efficace è lo scambio di battute nei numerosi dialoghi, sempre serrati e percorsi da un geniale umorismo interno, mentre le situazioni in cui viene a trovarsi l’io narrante sono originali e provocatorie. Qui gioca un ruolo determinante l’abilità del traduttore, la sua capacità di rendere in un italiano scorrevolissimo lo stile di Asimov, attento a ogni sfumatura, fedele e insieme creativo.

Ma qual è la traduzione ideale? È necessario partire dal traduttore che dev’essere in grado di padroneggiare, quasi allo stesso modo, la lingua da cui e quella in cui traduce, anche se sappiamo che il bilinguismo perfetto è rarissimo. La fedeltà al testo originale è l’aspetto più importante, fermo restando che le pagine dell’originale devono essere rese stilisticamente al meglio nell’altra lingua. Un pericolo sempre in agguato sono le varianti, cioè le tentazioni di usare parole o espressioni che sono «vicine» a quelle dell’originale, ma che il traduttore ritiene più eleganti o tout court migliori. Kundera fa un esempio calzante a proposito dell’uso dei pronomi e dei sinonimi nelle traduzioni dei libri di Kafka. Se nella stessa frase di un suo libro, Kafka ha ripetuto per tre volte lo stesso sostantivo, il traduttore, pur considerando inelegante la sequenza, non deve servirsi di sinonimi ma deve ripetere anche lui per tre volte lo stesso sostantivo. Bisogna ricordare che Kafka, se avesse voluto servirsi di sinonimi o di pronomi, lo avrebbe fatto da solo. Ma è grave anche quando il traduttore decide di «saltare» il passaggio di un libro non per distrazione, ma perché non capisce il senso del testo e non riesce a tradurlo. Onestà vorrebbe che consultasse l’autore stesso o un esperto, oppure che, permanendo l’intraducibilità, usasse le parentesi quadre riportando in nota il testo originale e il problema di traduzione incontrato, soluzione che però viene immancabilmente esclusa a meno che non si tratti di un testo arcaico.

Altrettanto deprecabili sono i veri e propri errori di traduzione. Purtroppo tutti i traduttori ne fanno qualcuno, ma l’essenziale è che siano pochissimi. Anche padroneggiando una lingua possono capitare espressioni o neologismi dal significato speciale e ben diverso da quello apparente. Ricordo il termine «foglio rosa» di un romanzo italiano, tradotto alla lettera in svedese senza sapere che in italiano il termine indicava il permesso provvisorio di guidare un’automobile, con il risultato della totale incomprensibilità del passaggio in questione. Oppure la parola «vite» tradotta come vitigno mentre significava l’organo di fissaggio, ma gli esempi sono infiniti in tutte le lingue oggetto di traduzioni.

Qui si tratta tuttavia di errori «preterintenzionali», che possono anche essere perdonati giacché il compenso pagato ai traduttori è notoriamente basso e chi traduce deve esporsi a qualche rischio. Imperdonabili invece omissioni e tagli decisi a mente fredda e per motivi di bottega. Per fortuna ogni tanto, come nel caso di Delitto all’ABA, c’è chi rimette le cose a posto.


Isaac Asimov
Delitto all'ABA (Ediz. integrale)
Curatore: Laris Massari
Massari Editore, 2021
16,50 euro