TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 29 novembre 2021

Arrigo Cervetto – Danilo Montaldi. Storia di una amicizia 1

 


Di Danilo Montaldi sono stati messi in risalto gli stretti rapporti con Socialisme ou Barbarie, con il Partito comunista internazionalista di Onorato Damen, con Raniero Panzieri e il gruppo nascente dei Quaderni Rossi. Nessuno, né Merli, né Mangano, tantomeno Fofi, giusto per citare i più noti studiosi che si sono occupati dell'intellettuale cremonese, ha mai speso una parola sul rapporto che ci fu – e strettissimo – fra Montaldi e Arrigo Cervetto. Una lacuna che la pubblicazione del carteggio fra i due rende ora possibile colmare.


Giorgio Amico

Arrigo Cervetto – Danilo Montaldi. Storia di una amicizia 1


Nello stesso anno Montaldi stringe i primi contatti con i Gruppi anarchici di Azione proletaria. Il 25 gennaio 1954 Pier Carlo Masini relaziona ai compagni dei Gaap in merito ad una riunione tenutasi a Milano per dare corso al progetto di fare del mensile «Prometeo» del Partito comunista internazionale l'organo teorico comune della sinistra rivoluzionaria:

«Alla riunione erano presenti, oltre al sottoscritto, Damen, tre giovani cremonesi del PCInt,, Bellini e Galli. Si trattava quindi di una riunione allargata, non ancora di una riunione della Redazione. […] Dei tre giovani di Cremona, Montaldi (che tuttavia parò poco e andò via prima della fine) è il più vicino a noi. […] Montaldi, come sai, si occupa già della diffusione del giornale». (Masini a Vinazza. In A. Cervetto, Opere 24, Milano, Edizioni Lotta comunista, 2019, p. 10).

Dal resoconto di Masini emergono due elementi di grande interesse: l'atteggiamento, già sottolineato da altri, di estrema cautela tenuto da Montaldi nelle riunioni pubbliche, ed il fatto, del tutto sottovaluto finora, che mentre collabora con gli internazionalisti di Damen, il giovane militante cremonese funge anche da punto di riferimento a Cremona per i Gaap diffondendone in città il giornale «l'Impulso».

Ma Montaldi non si limita a questo, egli instaura uno stretto rapporto con il quasi coetaneo Arrigo Cervetto, caratterizzato da reciproca simpatia e grande amicizia. Montaldi e Cervetto concordano insieme un lavoro di ricerca sulle prime forme di opposizione in Russia. In particolare Montaldi traduce la Piattaforma Smirnov-Sapronov del 1923, mentre Cervetto lavora sul libro della Kollontaj « L'opposizione operaia in Russia».

«Sto vedendo – scrive Montaldi – il modo di tradurre estratti dalla “Piattaforma Smirnov-Sapronov” secondo quanto avevamo concordato insieme. È un lavoro interessante, questo che si può fare. Parlare prima delle Opposizioni nel partito russo, poi delle Opposizioni nell'Internazionalew: Pannekoek, Gorter, Rühle. Questo lavoro andrebbe fatto soprattutto con ampie citazioni dei testi e con brevi note di accompagnamento. Lefort nel suo articolo sui Temps Modernes cita due altri gruppi di opposizione che Trotsky stesso avrebbe contribuito a reprimere: il “Gruppo Operaio” e “Verità Operaia”. Sarebbe interessante poter inserire nel lavoro che stiamo facendo un'analisi anche breve di questi gruppi minori. Non puoi trovare del materiale […] magari sulla stampa anarchica». (Montaldi a Cervetto, lettera del 28 maggio 1954. In A. Cervetto, cit., p. 57)

Oltre al riferimento a Claude Lefort, esponente di punta dei socialbarbari, è interessante qui notare come Montaldi lavori sui fattori che già dall'inizio degli anni '20 pongono le basi in URSS poi della controrivoluzione staliniana. Montaldi non ha preclusioni ideologiche, tanto da cercare appigli nella stampa anarchica a partire proprio da “L'Impulso” che sta portando avanti una innovativa sintesi del pensiero marxista e di quello libertario. Cervetto risponderà con una lunga e articolata lettera in cui non solo accetta, ma addirittura rilancia la proposta di Montaldi ampliandone gli ambiti ad un lavoro « per fare una vera storia del Pcb (e della rivoluzione russa e della controrivoluzione stalinista) in confutazione di quella “ufficiale”». La chiusura della lettera rivela la profonda stima che lo lega al compagno cremonese e al gruppo di giovani riuniti attorno a lui:

« A mia conoscenza per le città che ho girato, avete l'unico gruppo superiore della media e ciò mi ha fatto piacere. Lo dico disinteressatamente. Anzi spero di poter col tempo essere di nuovo a Cremona perché ho trovato basi serie e interessanti di discussione abbastanza elevata. Dunque io credo che a Cremona si possa fare questo lavoro collettivo. E in seguito si possa fare anche un convegno di studi delle rispettive organizzazioni. Vedremo.» (Cervetto a Montaldi, lettera del 1 giugno 1954. In A. Cervetto, Opere, 24, cit., p. 59)

Proposta immediatamente accettata con entusiasmo da Montaldi con una lettera a Cervetto del 7 giugno che evidenzia anche il rapporto di amicizia e di reciproca stima creatosi fra i due giovani rivoluzionari:

«Caro Cervetto,

per quanto interessa Toller, appena riceverò il libro da Vinazza, cercherò di scrivere qualcosa per Prometeo con del materiale inedito in Italia (Poesie, lettere, ecc.). ti sarei grato se mi potessi indicare qualche saggio su riviste (escluso il Politecnico).

Per l'opposizione Smirnov-Sapronov so portando a termine la traduzione. Si tratta di un opuscolo di ottanta pagine, che bisogna ridurre moltissimo, e questo non è facile. È già pronto il tuo saggio sull' “Opposizione operaia” ? Me ne potresti mandare una copia? Mi servirebbe come indicazione. Mi interesserò per le collezioni di riviste francesi. Intanto aspetto la tua bibliografia e a giorni pereparerò anch'io per te una cosa del genere, ma te lo dico subito, non ho molto. Siono d'accordo completamente su quanto concerne il lavoro per una storia del Pcb.

Anche i compagni sono d'accordo. Bottaioli ci potrebbe aiutare. (…)

Allo stato attuale delle cose bisogna coordinare i nostri sforzi. (…) A Cremona c'è qiualcuno che potrebbe fare altre cose. Vedi tu nell'ambuente dei GAAP le possibilità che ci sono per un lavoro in équipe. Scrivi presto. Ti scriverò ancora.

Saluti ai compagni.

Fraternamente» (Ivi, pp. 65-6)






Franco Astengo, Bordiga nell'insensibilità della indifferenza


 

Franco Astengo

Bordiga nell'insensibilità della indifferenza


Bordiga, il fascismo e la guerra, 1926-1944”, pubblicato da Massari: un testo nel quale Giorgio Amico, storico attento delle diverse “derivazioni comuniste” del XX secolo, affronta il tema dell’atteggiamento tenuto dal fondatore del P.C.d’I verso il fascismo e la guerra.

Un testo molto documentato che richiama molti degli autori che nel tempo si sono cimentati con questo passaggio storico interrogandosi sulla sorta di “insensibilità dell’indifferenza” che il primo segretario del Partito Comunista tenne nei confronti delle tragedie di quello scorcio di secolo.

Sono molti gli episodi che colpiscono nel corso della lettura e non vale la pena richiamarli in questa sede.

E’ il caso invece di soffermarsi su di una operazione intellettuale che percorre, quasi come filo rosso, tutto il lavoro di Amico e che può essere raccolta nella frase finale che l’autore parafrasa traendola dal linguaggio hollywoodiano : l’Humphrey Bogart della “è la condizione umana bellezza” (”é la stampa bellezza, e tu non puoi farci niente: “Quarto Potere” regia di Orson Welles, 1941).

Non si tratta però di una semplice presa d’atto della realtà da affrontare come tale.

Siamo invece dentro nella storia di Bordiga ad una visione nella quale la condizione umana e la teoria politica sono portate dentro l’estremo di una rigida visione del determinismo storico.

Piuttosto ci si dovrebbe chiedere : ci troviamo nella condizione umana o nella miseria della condizione umana?

Il libro ci conduce verso questo interrogativo: attorno all’ing. Bordiga che lascia (momentaneamente) la politica perché un “suo”disegno è stato sconfitto si stava muovendo l’epopea di un secolo.

In quei decenni di esercizio da parte di Bordiga dell’assenteismo dell’indifferenza si consuma una crisi epocale del capitalismo, sale al potere Hitler mentre Stalin vince la lotta per il potere, scoppia la Guerra Civile Spagnola, si avvia la Shoah e il tutto, alla fine, è ricoperto dal ferro e dal fuoco del più esteso conflitto della storia.

Si staglia nell’immaginario collettivo e nella quotidianità della vita lo scontro tra il bene e il male: anzi tra il “Bene” e il “Male” con le maiuscole ben evidenziate.

Il Bene e il Male però non interessano :non c’è spazio però per prendere partito ; tutto è putrido e ci penserà lo scorrere del fiume mentre siamo fermi sulla sua riva a presentarci i cadaveri di coloro che il fato ha deciso di far soccombere.

Non traspare neppure il dilemma di tanti operai rosi dal dubbio: “sarà necessario perdere la guerra, tra lutti e rovine, per togliere di mezzo il fascismo ? E far così trionfare quello che si pensava potesse essere il Bene”.

Nel suo lavoro Amico non passa il guado della fine della guerra, della ripresa dell’attività politica di Bordiga che rimarrà chiuso soltanto all’interno dello stesso concetto che aveva accompagnato il suo “star fuori” quando l’esprimersi avrebbe comportato il pericolo della reprimenda da parte del delegato di polizia.

Bordiga concederà una sola intervista televisiva, per la trasmissione “Nascita di una Dittatura”: lo farà soltanto perché l’autore, Sergio Zavoli è stato il commentatore del suo amato giro d’Italia nel “Processo alla Tappa”.

Ecco:la storia della prima fase di vita del comunismo italiano sembra scorrere tra due poli: l’interrogarsi sul dilemma tra “pessimismo dell’intelligenza e “ottimismo della volontà” e l’ “insensibilità dell’indifferenza”.

Entrambe le opzioni finiranno sconfitte, come sempre o quasi, dal trionfo della “Realpolitik” e dal gioco sottile dell’autonomia del politico portato da chi, in quel momento, sapeva parlare la “langue russe”.

Ma questa sarebbe un’altra storia.


(Da: sinistra savonese.it)


venerdì 19 novembre 2021

Razzismo e schiavitù

 


Un sistema come quello schiavistico non poteva non creare a livello di massa una ideologia che in qualche modo ne fornisse una giustificazione e allo stesso tempo servisse alle classi dominanti per consolidare il loro potere. Questa ideologia fu la convinzione diffusa della inferiorità naturale del nero e della sua pericolosità sociale. Una convinzione destinata a sopravvivere alla fine dello stesso sistema economico che l'aveva creata.


Giorgio Amico

Razzismo e schiavitù


Fin dalle prime società organizzate, pensiamo agli antichi Egizi o ai Greci, la schiavitù è sempre stata accettata come un aspetto naturale e normale dell'esistenza umana, però quasi mai, nella storia tale istituzione fu fatta poggiare su basi razziali. In genere si diventava schiavi in quanto prigionieri di guerra, o frutto di razzie, addirittura per debiti. Il colore della pelle c'entrava comunque poco.

La schiavitù che prese forma nel Nuovo mondo fu invece fin dall'inizio fondata su fattori etnici. A partire dal XVII secolo la quasi totalità degli schiavi delle Americhe erano africani, e ciò comportò che la schiavitù diventasse di fatto una condizione basata sulla razza. La presa del razzismo fu di conseguenza più forte in quelle nazioni (Inghilterra, Francia, Olanda ) che più direttamente parteciparono alla trasformazione del mondo moderno e alla nascita della società capitalistica. Il razzismo moderno, inteso come ideologia di massa e non come presunta teoria scientifica, è la risultante di un insieme di profondi mutamenti della società e di conseguenza anche della psicologia delle masse. Con il nascere del capitalismo e il tramonto progressivo dell'agricoltura e dell'artigianato a favore dello sviluppo dell'industria muta radicalmente il modo di lavorare e quindi di vivere. Nonostante si pensi il contrario, nel mondo moderno si lavora di più, con ritmi più intensi, senza i lunghi periodi di riposo assicurati dalle numerosissime festività religiose tipiche del mondo medievale. Questo nuovo e totalizzante modo di lavorare determina la formazione di un nuovo tipo di lavoratore: uomini e donne totalmente privi di controllo sui processi produttivi e dunque sulla loro stessa vita, in termini marxisti totalmente alienati, professionalmente e socialmente insoddisfatti. Il sistema capitalistico richiede per il suo stesso funzionamento la costante repressione di impulsi naturali e la subordinazione alle logiche della produzione. Come ben descritto nelle opere di Foucault nei secoli di transizione, XVI e XVII , si modifica progressivamente la psicologia umana. Il singolo impara fin dai primi anni a reprimere i propri istinti più naturali, a sublimarli in altro modo. E ciò rende il bambino moderno diversissimo da quello molto più libero da condizionamenti delle società precedenti.

Nei suoi lavori Rawick si rifà alla situazione creatasi in Inghilterra nei secoli XVI e XVII, in cui le classi superiori erano alle prese con la crisi della società contadina tradizionale, una economia non di mercato in cui l'agricoltore era abituato a lavorare solo quel tanto che gli era sufficiente per vivere o per i bisogni della collettività tipo la manutenzione delle strade, e ostile a considerare il lavoro solo in termini monetari. Da qui la protesta dei ceti dominanti contro i "senza padrone" che avevano avuto una volta un posto nell'ordinamento sociale e che ora invece girovagavano elemosinando, rubando, commettendo violenze. Un popolo di ex contadini e di artigiani impoveriti destinati a diventare un enorme serbatoio di manodopera non specializzata, disposta a lavorare per salari di sussistenza. Questo mutamento profondo che di fatto disumanizzava sempre più l'uomo, allontanandolo dai suoi simili e costringendolo via via a pensare solo in termini di guadagno, ebbe effetti profondi anche sul modo di pensare delle masse. In questo contesto l'incontro con l'altro, rappresentato dall'africano, ebbe effetti dirompenti e di lunga durata.

Le reazioni estreme degli europei all'incontro con gli africani possono essere davvero comprese se si considera come gli abitanti dell'Africa Occidentale di quel periodo fossero, sotto numerosi aspetti, molto simili a ciò che gli europei erano stati fino a non molto tempo prima, portatori di una visione della vita ormai considerata in Europa tipica di periodi primitivi e barbari. Nasce con lo sfruttamento delle Americhe e dell'Africa, di cui la schiavitù rappresenta uno dei principali aspetti, il concetto della missione civilizzatrice dell'Occidente che Kipling definirà a fine Ottocento “il fardello dell'uomo bianco”. Ma se il bianco è portatore di civiltà, il nero non può che essere barbaro e dunque inferiore. Il razzismo diventa così un modo di pensare e soprattutto una sorta di giustificazione del fenomeno, questo si barbaro, della tratta. I mercanti di schiavi, a cui addirittura vengono eretti monumenti per il benessere procurato alla comunità con il loro commercio, si sentono espressione di una società che non solo trova nulla di negativo in ciò che fanno, ma che, proprio in base alla concezione del nero come un essere subumano, considera la schiavitù un fattore oggettivo di civilizzazione.

Le economie africane erano in larga parte economie agricole di sussistenza con rapporti di lavoro consuetudinari. Il lavoro era profondamente intriso di sacralità, scandito da pratiche cerimoniali che lo rendevano indistinguibile dalla religione. Come per il contadino medievale, lavorare la terra seguendo il ciclo delle stagioni era partecipare alla vita del cosmo e dunque compiere un atto che avvicinava al divino. Per i bianchi questo modo di pensare era ormai incomprensibile. Lo scarso interesse per il denaro veniva visto come un segno di infantilismo, di qui l'idea del nero come un eterno bambino, necessitante anche in età adulta di una autorità capace di disciplinarne le tendenze distruttive. In realtà, l'africano era tutto meno che un anarchico, la comunità tribale era strettamente coesa quasi una sorta di famiglia allargata dove gli anziani svolgevano un ruolo centrale. Altro punto era l'atteggiamento dell'africano nei confronti della natura e delle forze, anche immateriali, che essa sprigiona. Centrali erano i miti e i riti relativi alla fertilità. Ne derivava un atteggiamento verso la sessualità, soprattutto femminile, relativamente poco repressivo. Un atteggiamento scandaloso per gli inglesi che lo consideravano come segno di una promiscuità animalesca e della totale mancanza di senso morale. Anche questo contribuiva a rafforzare l'idea di una superiorità etnica del bianco rispetto al nero, anche se, va detto, a livello inconscio questa visione del nero sessualmente libero scatenava fantasie e desideri che dovevano essere repressi e il razzismo si prestava bene anche a questa funzione.

Le tensioni psicologiche create dal guardare ai neri da un lato come come bestie da lavoro o da riproduzione e dall'altro dal dover ammettere che erano comunque esseri umani, erano troppo grandi per una società fondata sulle piantagioni. L'unica soluzione stava nella rimozione del problema, accettando come un dato oggettivo, addirittura frutto della volontà divina, l'inferiorità degli uomini di colore. Ciò rendeva impossibile anche l'idea che neri e bianchi potessero vivere insieme su un piano di parità. In una realtà come gli Stati del Sud dove la presenza dei neri era molto forte, tutto questo si traduceva nell'idea che la sottomissione dei neri fosse fondamentale per l'esistenza stessa della società e della civiltà. Solo il mantenimento di “corretti rapporti” fra le “razze” potevano garantire l'ordine sociale. Ideologia di una classe dominante fatta di grandi proprietari di piantagioni, questa concezione era condivisa dalle classi subalterne in base ad una logica perversa per cui anche l'ultimo dei “poveri”, se di pelle bianca era solo per questo superiore a un nero. Il razzismo dunque come un pilastro della società sudista, funzionante come un collante sociale: nell'atteggiamento da tenere verso i neri non esistevano differenze di classe, l'interesse del grande proprietario e quello del proletario erano gli stessi. Da qui la difesa strenua dell'istituto della schiavitù.

Siamo di fronte ad una specificità tipica degli Stati del Sud. Nelle Indie Occidentali, dove gli atteggiamenti razzisti non erano certo inferiori, i bianchi poterono comunque accettare pacificamente l'abolizione della schiavitù poiché essi, di fatto, non avrebbero dovuto vivere in mezzo ad un popolazione di neri liberi. Nelle isole caraibiche i bianchi erano pochi, assai diffusa era la figura del proprietario assenteista che trascorreva la sua vita a Londra e mai avrebbe pensato di stabilirsi nei Caraibi. Negli Stati Uniti l'abolizione della schiavitù avrebbe richiesto invece l'accettazione della coesistenza. di neri e bianchi nello stesso territorio, condizione inaccettabile per la maggioranza dei bianchi . Inoltre i piantatori del Sud non volevano rinunciare allo stile di vita. aristocratico e raffinato che li contrapponeva ai gretti industriali del Nord. Certo, I piantatori avrebbero potuto impiegare gli schiavi nell'industria nascente, cosa che un piccolo numero di essi fece, ma la maggior parte non si mosse in quella direzione, poiché vedeva nell'industria una minaccia allo stile di vita tipico del Sud.

Razzismo e lotta di classe

Dopo la guerra civile e la fine schiavitù l'inferiorità civile dei neri, codificata per legge e imposta con le armi dal Ku Klux Klan, diventerà negli Stati del Sud lo strumento per tenere sotto controllo una popolazione di colore il cui tasso di natalità era più alto di quello dei bianchi e che dunque tendenzialmente rischiava di divenire maggioranza. La libertà formale non mutò in meglio la situazione dei neri, passati da schiavi a salariati. In molti casi addirittura la peggiorò.

D'altronde, gli stessi Stati Uniti erano nati nel segno della contraddizione. Figli di una Costituzione avanzatissima i cui estensori erano però in larghissima parte proprietari di schiavi. Gli Stati Uniti nascono nel segno sia della libertà in forme sconosciute in Europa se non nel breve periodo giacobino in Francia, sia della permanente esclusione dal contratto sociale dei neri e dei nativi americani. La cosa non fu senza conseguenze anche per quanto atteneva i rapporti fra le classi. Il movimento operaio nascerà “bianco” e, come per i “poveri bianchi” del Sud, anche l'ultimo degli immigrati appena sbarcato sul suolo americano si sentirà, proprio perché bianco, comunque superiore alla popolazione nera che pure abitava quel paese da secoli. La divisione fra bianchi e neri diventerà l'arma principale di divisione dei proletari ed uno dei motivi per cui il socialismo non attecchirà mai, neppure nei momenti in cui più acceso era lo scontro sociale, negli strati profondi della classe operaia.


1977



giovedì 18 novembre 2021

L'economia schiavistica nel Sud degli Stati Uniti

 


Assieme allo sterminio dei nativi americani, la schiavitù prima e la politica della segregazione razziale poi rappresentano una macchia indelebile nella storia degli Stati Uniti. In questa parte si tratterà dell'economia schiavistica degli Stati del Sud e dei mezzi messi in atto dagli schiavi per riuscire a mantenere un minimo di vita normale nel contesto della piantagione. Centrale fu in quest'opera di autodifesa, vera e propria rivolta silenziosa, il ruolo delle donne. Avvertiamo, come sempre, che nel corso della trattazione viene quasi costantemente usata dagli autori citati il termine “negro/negri”. Ovviamente non esiste alcun intento denigratorio nell'uso del termine che rispecchia il momento culturale in cui quelle opere furono redatte o tradotte in italiano. Trattandosi di citazioni, abbiamo ritenuto corretto mantenere il termine originario e non procedere a censure postume in nome di quello che oggi si considera un linguaggio politicamente corretto.

Giorgio Amico

L'economia schiavistica nel Sud degli Stati Uniti


Mentre ,come si è visto, alla fine del '700 l'economia schiavista è ormai una palla al piede per lo sviluppo di una moderna società industriale, nel Sud degli Stati Uniti la schiavitù fa un enorme passo avanti, diventando la base di un tipo di economia atipico. Infatti mentre per anni si era discusso sulle caratteristiche dell'economia di piantagione del " Deep South ", definendola di volta in volta una società agraria in lotta contro gli abusi dell'industrialismo, oppure una forma particolare di economia capitalistica, si è dovuto aspettare la pubblicazione dell'opera di Eugene Genovese sull'economia politica della schiavitù per riuscire ad averne una definizione esatta. Per Genovese l'economia del Sud ha caratteristiche sue proprie, di tipo essenzialmente precapitalistico e aristocratico.

«Nata come semplice appendice del capitalismo inglese, quella dei piantatori finì con il diventare una società potente e in larga misura autonoma, con pretese e possibilità di tipo aristocratico - anche se pur sempre legata al mondo capitalistico dai vincoli inevitabilmente connessi alla produzione di merci. L'elemento essenziale in questa particolare società era la posizione di assoluto predominio goduta dai proprietari di schiavi». (18)

Questo impetuoso sviluppo era dovuto ad alcune innovazioni tecniche che avevano permesso uno sfruttamento industriale del cotone. Nel 1764 viene costruita in Inghilterra la “Jenny”, primo rozzo esempio di filatoio meccanico, che permetteva di utilizzare contemporaneamente sedici fusi. Nel 1777 al filatoio meccanico viene applicata la forza del vapore, permettendo di meccanizzare l'intera operazione della cardatura e della filatura del cotone. Ciò permise un intensissimo sviluppo della industria cotoniera inglese, che divenne l'industria capitalistica per eccellenza. Il cotone del Sud degli Stati Uniti diventò la materia prima fondamentale dell'industria tessile inglese. Sempre secondo i dati di Williams, mentre negli anni 1786-1789 il cotone americano equivaleva a 1/100 dell'import inglese; nel periodo 1846-1850 esso assorbiva ben i 4/5 delle importazioni britanniche. Anche negli Stati Uniti era stata un 'innovazione tecnica a permettere ai piantatori di tenere i1 passo con la crescente richiesta di cotone proveniente dalle industrie inglesi: l'invenzione, nel 1794, della sgranatrice meccanica. Secondo Carles e Comolli:

«In relazione allo sviluppo dell'industria tessile in Inghilterra. la coltivazione del cotone prese un enorme slancio e il Sud degli Stati Uniti divenne il regno esclusivo e il fornitore nel mondo intero del cotone. I piantatori - circa 400.000 - si trasformarono in capitalisti sfruttando immensi territori e disponendo di armate di schiavi. Il valore di mercato del "pezzo di ebano" (negro ideale di m.1,80, di età dai 18 ai 35 anni) salì dai 100-200 dollari degli anni anteriori al 1800, fino ai 2000 dollari del 1870, anno in cui gli schiavi raggiunsero il numero di 4.000.000». (19)

Le catene della schiavitù, nonostante il sorgere di attive società abolizioniste, venivano quindi rinsaldate proprio dalle stesse cause economiche che le spezzavano per gli schiavi delle colonie inglesi delle Antille.

«Il re cotone , come lo si cominciò a chiamare allora, era il vero signore. L'invenzione, avvenuta in Inghilterra, attorno al 1814, di uno speciale telaio per tessere la fibra di cotone, ne rese ancora più remunerativa la coltivazione e allo stesso tempo rese indispensabile la manodopera negra per produrre su vasta scala e ad un prezzo economico». (20)

Le condizioni di vita degli schiavi

Il libro di George P. Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all 'alba, basato su interviste fatte ad ex schiavi neri negli anni ' 20 e '30 documenta la nascita di comportamenti culturali, politici e sociali alternativi a quelli richiesti dai padroni bianchi. Rawick polemizza con tutta una storiografia tendente a dimostrare che non esiste una storia degli schiavi neri americani indipendente da quella dei bianchi. Esiste, invece, una molteplicità di documenti degli ex schiavi fuggitivi sufficiente ad attestare la realtà di una cultura alternativa nelle piantagioni americane una vera e propria cultura degli schiavi che rinnovava adattandola alle nuove condizioni l'originaria cultura africana. Gli schiavi usarono quello che avevano portato con sé dall'Africa per far fronte alla nuova condizione in cui erano costretti a vivere: crearono nuove forme sociali e modelli di comportamento che mescolavano, nelle particolari condizioni della vita in schiavitù nel nuovo mondo, elementi africani e americani .

Notevoli furono però le difficoltà nella creazione di una cultura e comunità nera indipendente. Rawick dimostra come vi sia per lo schiavo una contraddizione interna, derivata da motivi psicologici, che gli fa contemporaneamente accettare ed odiare il padrone, desiderare e temere la libertà. Dalla narrazione di un ex schiavo fuggito viene messa in evidenza tale contraddizione: egli aveva. sempre risposto affermativamente a chi gli domandava se avesse un padrone buono. Ciò dimostra che aveva in parte assimilato la volontà del padrone. E la cosa si spiega benissimo in termini di equilibrio mentale. Lo schiavo era inevitabilmente costretto a trovare un adattamento psicologico alla sua situazione, a pensare che la schiavitù fosse la condizione naturale per quelli come lui. Rawick mette in luce le difficoltà di creare una cultura nuova nelle condizioni della piantagione. Se i coloni bianchi poterono portare con sé tutti gli strumenti della loro cultura originaria e furono liberi di conservarne o mutarne gli aspetti, lo schiavo africano possedeva solo il ricordo della sue cultura, che doveva ora adattare alle nuove esigenze; senza contare come fossero tra loro diverse le culture africane che venivano a contatto. Di qui nasceva la difficoltà per gli schiavi di adattarsi l'uno all'altro e di far sorgere una cultura comune, indipendente, senza possedere alcun modello di riferimento. Nonostante tutte queste difficoltà, il nero - come Rawick sostiene insistentemente - non fu 1a "vittima infantilizzata" che l'immaginario bianco ha costruito, ma un uomo integrale portatore comunque di una sua cultura originale.

La religione degli schiavi

Lo schiavo lavorava dall'alba al tramonto, ma aveva comunque momenti per sé che dedicava alla. creazione e ricreazione della propria personalità e alla comunità. Dal tramonto all'alba, la domenica, i giorni di festa, e in tutte le occasioni in cui non lavorava - e talvolta anche durante il lavoro – egli si dedicava a creare situazioni che in qualche modo rinsaldassero una immagine positiva di sé. Solo comprendendo questo aspetto della vita dello schiavo è possibile capire come la sua personalità fu salvata dalla distruzione e in che modo riuscì anche in quelle condizioni a costruire una nuova comunità in cui riconoscersi. Il senso del sacro fu l'arma segreta degli schiavi. Nelle tribù africane non c'era distinzione tra attività religiose e secolari, e l'elemento sacro era presente in tutte le attività: la religione era una considerevole forza sociale. Anche per spezzare questi legami, i bianchi tentarono di imporre agli schiavi il cristianesimo come forma. di controllo sociale e manipolazione culturale, ma non ebbero fortuna perché questi continuarono segretamente la pratica delle riunioni di preghiera notturna. La preghiera per lo schiavo è stata intesa da molti come mezzo di evasione dalla dura realtà della piantagione, come la speranza in una futura salvezza. Essa era al contrario lo strumento per sviluppare la resistenza alla propria oppressione, creando le condizioni per la lotta per la libertà e rendendo sopportabile la vita in schiavitù. Le riunioni avevano luogo a tarda notte in una delle baracche degli schiavi, una volta alla settimana essi pregavano, cantavano e si sentivano "felici".Queste riunioni rafforzavano i legami tra le persone, rinsaldavano la comunità. I padroni bianchi vietarono di riunirsi e pregare per paura. ohe ciò facilitasse la possibilità di rivolte, ma gli schiavi trovarono comunque sempre il modo di riunirsi. In queste adunanze religiose gli schiavi discutevano i fatti del giorno, ricavano la forza per tirare avanti e concertavano strategie di sopravvivenza. La religione degli schiavi neri non era più solo africana, ma un composto sincretico delle culture africane e del cristianesimo imposto dai padroni. Gli schiavi rielaborarono contenuti africani mescolandoli con elementi della vita religiosa protestante o cattolica.

La famiglia nera durante la schiavitù

Per molti studiosi, gli schiavi usavano la casa, il più delle volte un tugurio ad una sola stanza, solo per trascorrervi la notte e ripararsi in caso di cattivo tempo. Secondo questa teoria, l'abitazione non era il centro di una attiva vita familiare. Una tesi che ha alimentato il mito che gli schiavi non avessero una vita familiare normale, e che, per la maggior parte, vivessero promiscuamente senza legami stabili fra di loro. Rawick sottolinea invece la forza di questi legami e in particolare quelli tra madre e figli, più forti di quelli fra padre e figli, anche perché i padri potevano essere venduti e separatamente e allontanati dai loro bambini, mentre le madri, in caso di vendita, venivano offerte con i figli piccoli ancora bisognosi di cure.

Anche se agli schiavi non era permesso stipulare un contratto di matrimonio legale, uomini e donne in schiavitù non procreavano semplicemente in modo promiscuo, ma tra loro vi erano rapporti socialmente approvati. La cerimonia nuziale era molto semplice. Lo schiavo doveva chiedere il permesso al padrone, e , se la ragazza era di un'altra piantagione, bisognava chiederlo anche al padrone di questa. Quindi veniva loro chiesto se si amavano e, dopo la risposta affermativa, dovevano ,secondo una vecchia usanza, saltare una scopa. Era il padrone che eseguiva il semplice rito; molto raramente veniva. impiegato un pastore.

Talvolta si provvedeva ad un allevamento di schiavi: il padrone sceglieva un uomo robusto, una bella ragazza e li metteva assieme, perché facessero razza. La studiosa Jessie Bernard afferma che il matrimonio tra i neri era così poco comune che quasi tutti i bambini neri nascevano al di fuori dei vincoli matrimoniali, poiché pochi padroni incoraggiavano il matrimonio degli schiavi. Inoltre non era mai richiesto voto di fedeltà per la vita, e il legame era fragile, fondato sulla attrazione reciproca. Questa tesi sembra essere contraddetta da molte testimonianze degli schiavi, che, dopo la guerra civile, andarono in cerca dei parenti e li trovarono; inoltre molti degli schiavi intervistati conoscevano la storia della loro famiglia.

Un eminente studioso, Franklin Frazier, ha tentato di mettere in evidenza elementi che confermassero la tesi secondo la quale gli schiavi neri lottarono per mantenere una. struttura familiare coerente, contro l'opposizione dei padroni che spesso ne smembravano la famiglia. Frazier afferma che lo schiavo creò una vita sociale con quasi tutti i caratteri di una qualsiasi altra società. La comunità degli schiavi funzionava come un esteso sistema di parentela entro il quale tutti gli adulti badavano a tutti i bambini, e ciò era. molto utile nella. condizione della schiavitù in cui sia il padre che la madre lavoravano nei campi. Inoltre c'era sempre qualche persona anziana che assumeva il ruolo dei genitori nella cura dei bimbi ed i bambini più grandi avevano grande responsabilità nella cura dei più piccoli. Va sottolineato come questo sistema di cura collettiva dei bambini corrispondesse a quanto gli antropologi hanno appurato riguardo i costumi tribali africani. Dunque, anche in questo caso, come nei culti religiosi, gli schiavi riprodussero nella vita di piantagione elementi propri della propria esperienza africana. E ciò avvenne non solo per la prima generazione, ma per trasmissione soprattutto materna anche nelle generazioni successive fino all'abolizione del regime schiavista.

Lo schiavo e il padrone: la resistenza

L'esistenza della cosiddetta “bush mail”, cioè di un sistema orale, ovviamente clandestino, di trasmissione delle notizie, rappresenta un fattore centrale nella resistenza degli schiavi all'oppressione padronale. Per quanto fosse considerato illegale insegnare a leggere a a scrivere agli schiavi, molti di essi, sia da piccoli che da adulti, imparavano a leggere ed alcuni anche a scrivere.

I neri liberi diffondevano le idee sull'abolizione e sull'orgoglio nero. Fin dall'inizio a dispetto delle differenze sociali e di status, vi fu una comune unità d'esperienza tra i neri americani schiavi e liberi. Gli afroamericani liberi degli Stati del Nord crearono il movimento della National Negro Convention, che collegava tra loro varie organizzazioni di neri liberi attive in diversi Stati dell'Unione. Il giornale dell'abolizionista bianco William Lloyd Garrison era sostenuto in primo luogo da neri liberi che costituivano la maggioranza dei suoi abbonati. Va detto anche che i neri liberi erano spesso le maggiori vittime del sistema poiché non vi era per loro alcuna garanzia economica o sociale .Non esistendo di fatto alcun canale di assimilazione gli ex schiavi o i neri nati già liberi vivevano ai margini della società bianca, relegati il più delle volte e non solo negli Stati del Sud in una condizione di paria inferiore anche ai più poveri dei bianchi. Da questa posizione di minorità essi impararono molto dei modi di funzionamento della società bianca e dunque anche i mezzi più adatti a combattere le loro lotte all'interno di questa società. Il movimento abolizionista, il più delle volte presentato come un movimento di soli intellettuali bianchi, fu invece in larga parte un prodotto di queste comunità di neri liberi, sebbene i bianchi abbiano avuto una parte non piccola nell'azione di propaganda fra i cittadini bianchi. Come ormai dimostrato dalla ricerca storica degli ultimi decenni, il movimento abolizionista fu in ogni momento egemonizzato da esponenti della comunità afroamericana.

Anche le rivolte degli schiavi, numerose e molto violente, affondavano le loro radici nella religione degli schiavi, proprio in quanto potente fattore di coesione comunitaria. Ripercorrendo la storia delle tre più importante rivolte di schiavi della storia del Sud, troviamo che due di esse furono guidate dai cosiddetti "esortatori", pastori laici che svolgevano un ruolo centrale nelle riunioni religiose dei neri, mentre la terza fu guidata da un nero libero, che aveva comunque come consigliere ed aiutante un esortatore.

Note

18) E. Genovese, L'economia politica della schiavitù. Torino 1972, p. 18.

19) P.C. Carle- J.-L.Comolli, op. cit., pp. 80-81

.20) C. Gorlier, Storia dei negri degli Stati Uniti, Firenze 1963, p. 18.


3. continua


mercoledì 17 novembre 2021

Lo Lugarn. 700 anni di rivolte occitane

 


È uscito l'ultimo numero della rivista Lo Lugarn, organo del Partito della nazione Occitana. Ne riprendiamo un ampio estratto dell'editoriale.

Libertà per l'Occitania


I programmi di storia delle scuole elementari, medie e superiori francesi generalmente non affrontano la questione dell'Occitania. L'Occitania semplicemente non esiste, poiché nel "romanzo" nazionale francese la Francia è eterna.

In realtà, la Francia è una costruzione artificiale che riunisce volente o nolente popoli diversi ai quali ha imposto la sua lingua, il francese, e il suo sovrano assoluto.

Questa costruzione è in parte il risultato di alleanze matrimoniali ma soprattutto di invasioni militari con il pretesto, nel caso dell'Occitania, di combattere l'eresia catara. Durante la crociata contro gli albigesi o catari, che godevano di una relativa tolleranza da parte dei signori occitani, una battaglia essenziale segnò il destino di una parte dei nostri antenati. Fu la battaglia di Muret, vicino a Tolosa, il 12 settembre 1213. Esso contrappose Raimondo VI, conte di Tolosa, e i suoi alleati Raimondo Roger, conte di Foix; Pietro il Cattolico, re d'Aragona, conte di Barcellona e signore di Montpellier, e Bernardo IV di Comminges, contro le truppe crociate francesi comandate da Simon de Montfort.

Questo è stato un momento chiave in cui la vittoria della coalizione occitana e catalana avrebbe potuto aprire la strada alla creazione di uno stato occitano-aragonese-catalano e cambiare il volto dell'Europa. Tuttavia, la sconfitta annunciò un processo di conquista, compresa quella della Linguadoca, che fu annessa alla corona francese.

L'annessione del territorio del "popolo della nostra lingua", come diceva il conte di Tolosa, iniziata con l'Alvernia e poi la Linguadoca nel 1271, doveva comprendere l'entrata delle truppe francesi a Bordeaux nel 1453, l'annessione della Provenza nel 1482, del Béarn nel 1620 e della contea di Nizza nel 1860.

L'annessione non significò assimilazione, almeno in termini linguistici.In effetti, la lingua occitana rimase la lingua maggioritaria in Occitania almeno fino alla seconda guerra mondiale. Nonostante gli sforzi zelanti della maggior parte dei funzionari della Repubblica per applicare le leggi di Jules Ferry e per sradicare con la forza il "patois", è stato necessario per completare l'opera di distruzione della nostra lingua e della nostra cultura, oltre alla scolarizzazione in francese, che i francesi di Parigi prendessero il controllo dei mass media e che gli occitani interiorizzassero l'idea che la promozione sociale non poteva essere ottenuta che attraverso il francese.

Ma la perdita della lingua occitana, ignorata oggi dalla maggioranza degli occitani, non significa assimilazione e perdita di identità.

Nel corso della loro storia, dall'inizio della conquista francese, di fronte al potere centrale parigino, sia reale che repubblicano,g li occitani sono riusciti a volte a creare istituzioni proprie in rottura con questo potere, o almeno si sono ribellati in varie parti dell'Occitania in modo più o meno duraturo (...).

Senza pretendere di essere esaustivi, ecco alcuni esempi. Cominciamo con la Repubblica degli Escartons di Briançon nel Delfinato, che riunisce territori di montagna [ oggi divisi fra Italia e Francia, nota nostra] con uno statuto speciale definito da una carta del 1343 che durò fino al 1789 per la parte sotto amministrazione francese (le attuali Hautes-Alpes)

A Bordeaux, nel 1652, nacque un movimento rivoluzionario chiamato l'Union de l'Ormée (una spianata piantata di olmi a sud di Bordeaux). Riunisce le professioni liberali, i mercanti e gli artigiani. Ha denunciato il parlamento e i giurati. L'Union de l'Ormée era una società di mutuo soccorso, un circolo di riflessione e un partito politico. Era repubblicano e democratico (...). I suoi membri rappresentavano non meno di un quarto della popolazione di Bordeaux. Il movimento si radicalizzò rapidamente. Dopo sanguinose battaglie di strada contro le truppe reali, l'Ormée prese il potere a Bordeaux e installò un governo rivoluzionario con una bandiera rossa! Circondati dalle truppe reali di Mazzarino nel luglio 1653, gli ormisti capitolarono senza condizioni. La repressione fu feroce. Resta il fatto che una repubblica rivoluzionaria occitana è esistita, anche se brevemente, 136 anni prima della rivoluzione francese.

Contrariamente alla versione ufficiale, nel 1871, fu in Occitania, a Marsiglia, che fu proclamata la prima Comune, 7 mesi prima di quella di Parigi. I repubblicani marsigliesi e i socialisti influenzati da Mistral e dal movimento Félibrige avevano simpatie per il federalismo. Il 7 agosto, i marsigliesi si impadronirono del municipio e crearono un comitato centrale di azione rivoluzionaria di breve durata. La polizia si impadronì del municipio, ma il 4 settembre gli insorti presero la prefettura e proclamarono la repubblica. La seconda Comune di Marsiglia durò solo fino al 7 novembre ma sfidò Parigi per qualche tempo, così come la Comune di Narbonne, ispirata da Marsiglia. Ci furono anche tentativi a Tolosa e Limoges.

Nel corso dei secoli, ci furono molte rivolte popolari occitane contro il potere centrale francese e le sue istituzioni; La rivolta dei Tuchin nel XIV secolo, la rivolta dei Croquants nel XVI e XVII secolo, i Camisards nel XVII secolo, la guerra delle Demoiselles (1829-1872), la resistenza provenzale al colpo di stato di Napoleone nel 1851, la rivolta dei viticoltori della Linguadoca nel 1907, durante la quale Ernest Ferroul, consapevole dell'esistenza di un popolo occitano, sognò di creare un piccolo stato all'interno del grande stato francese.

Nel 1935, Paul Ricard crea il Partito Provenzale e propugna il federalismo. La resistenza in Occitania durante la seconda guerra mondiale, in particolare nel Limosino con Gingouin, flirtava con il separatismo. Più vicino a noi, negli anni 1970, i contadini occitani del Larzac hanno imposto il rifiuto dell'estensione delle servitù militari (Gardarem lo Larzac). (…)

Il Partito della Nazione Occitana crede che sia ancora possibile per gli attivisti politici occitani far emergere ciò che sta sotto la superficie, rendere il popolo occitano consapevole e portarlo alla volontà di liberare la sua nazione. L'Occitania libera è tutt'altro che uno slogan vuoto.



La tratta degli schiavi e lo sviluppo dell'economia inglese


La tratta degli schiavi fu uno dei fattori principali che portarono alla rivoluzione industriale e resero l'Inghilterra la principale potenza economica mondiale. Il sangue degli schiavi si trasformò in capitali che permisero un rapidissimo sviluppo delle industrie britanniche. Ricordiamo ancora che nel corso della trattazione viene quasi costantemente usata dagli autori citati il termine “negro/negri”. Ovviamente non esiste alcun intento denigratorio nell'uso del termine che rispecchia il momento culturale in cui quelle opere furono redatte o tradotte in italiano. Trattandosi di citazioni, abbiamo ritenuto corretto mantenere il termine originario e non procedere a censure postume in nome di quello che oggi si considera un linguaggio politicamente corretto.


Giorgio Amico

La tratta degli schiavi e lo sviluppo dell'economia inglese


La tratta degli schiavi, gestita ormai quasi con carattere di monopolio dagli Inglesi, era parte integrante di un più esteso sistema commerciale chiamato "Grande Circuito" (Davidson ) o "triangolare" (Williams) fondato su tre assi: dai porti inglesi partivano navi cariche di manufatti a basso prezzo dirette alle coste africane. Arrivate sulle coste africane, le navi inglesi vendevano le merci alle popolazioni costiere e ripartivano per l'America cariche di schiavi. Scaricati e venduti gli schiavi nelle isole dello zucchero gli inglesi tornavano in patria con un carico di prodotti coloniali. I profitti erano rilevanti e derivano dalla vendita di beni di consumo alle popolazioni africane, dalla vendita degli schiavi ai proprietari di piantagione americani e infine dalla vendita in Inghilterra dei prodotti delle piantagioni, soprattutto zucchero e tabacco.

Il Seicento e il Settecento furono i secoli d'oro del commercio triangolare. Per l'lnghilterra lo sviluppo impetuoso del commercio triangolare rappresento la base stessa del suo futuro sviluppo industriale. È sempre Williams, il primo a studiare a fondo questo fenomeno, a darcene la migliore descrizione:

«Il traffico triangolare forni un triplice incentivo all'industria britannica. I negri venivano acquistati con manufatti inglesi; trasportati nelle piantagioni, essi producevano zucchero, cotone, indaco, melassa e altri prodotti tropicali, la cui trasformazione creava nuove attività industriali in Inghilterra, mentre il mantenimento dei negri e dei loro padroni nelle piantagioni offriva un altro mercato all'industria inglese, all'agricoltura della nuova Inghilterra, e alle pescherie di Terranova. Nel 1750 era difficile trovare una città commerciale o manifatturiera in Inghilterra che non fosse in qualche modo collegata con il traffico triangolare o con quello diretto con le colonie. I profitti ricavati costituirono uno dei principali elementi di quell'accumulazione di capitale che finanziò in Inghilterra la rivoluzione industriale”. (13)

Tutta l'industria inglese ebbe rapporti intensi e continuati con il traffico triangolare, a partire ovviamente dalla navigazione e dall' industria cantieristica. Il XVIII secolo sarà il periodo di maggior sviluppo delle città portuali inglesi. Bristol, Liverpool, Glasgow ebbero, in quanto centri commerciali, lo stesso ruolo che Manchester e Birmingham avrebbero avuto più tardi nel periodo industriale. Anche l'industria ebbe un forte impulso dallo sviluppo dei commerci legati alla tratta. Come ci ricorda Williams:

«lo sviluppo di Manchester è strettamente collegato a quello di Liverpool, suo sbocco sul mare e sul mercato mondiale. Il capitale accumulato da Liverpool con il commercio degli schiavi si riversò nell'entroterra per fertilizzare le energie di Manchester e le merci prodotte da questa città per il mercato africano vennero trasportate da navi negriere di Liverpool». (14)

La stessa industria metallurgica ebbe stretti legami con la tratta; ceppi, catene, lucchetti, ferri per schiavi, venivano prodotti dalle industrie inglesi e venduti assieme a fucili, (Birmingham divenne anche il centro del commercio di armi ) , forni per lo zucchero, ruli per spremere la canna, coltellerie. Un insieme di merci interamente destinato al mercato africano e delle piantagioni americane. Lo stesso sviluppo dell'industria cantieristica diede ulteriore impulso all'industria pesante, con la nascita delle prime fonderie a Liverpool. Tali e tanti erano gli interessi degli industriali inglesi nel sistema economico della schiavitù, che, quando il Parlamento affrontò il problema dell'abolizione, i produttori e i commercianti di ferro, rame, ottone e piombo di Liverpool presentarono una petizione contro la proposta che avrebbe creato disoccupazione nella città.

Molte delle banche che nel Settecento furono create a Liverpool e a Manchester, erano direttamente collegate al commercio triangolare; Così come fin dal loro nascere nel 1692 i Lloyds di Londra assicuravano le navi che operavano per la tratta e il commercio con le Indie. Furono anni di grandi innovazioni tecniche, stimolate direttamente dalle necessità del nascente sistema industriale: si poteva soddisfare la crescente domanda di manufatti soltanto elaborando di continuo nuovi e più funzionali sistemi di produzione. «Era nato 1'industrialismo e fu il commercio dell'Africa Occidentale con tutti i suoi agganci, che presiedette a questo evento». (15).

L'economia inglese andò sempre più basandosi sull'esportazione di manufatti industriali, le nuove industrie - basate su tecniche nuove - avevano bisogno di mercati stranieri in espansione e di materie prime a basso prezzo, e non di schiavi nelle piantagioni. Lo sviluppo industriale era ormai in contraddizione col monopolio dello zucchero, base della economia di piantagione. Agli industriali inglesi non garbava che , a causa dei dazi protezionistici sui generi alimentari, il costo del lavoro tendesse costantemente ad aumentare. Questo fece si che per la prima volta si creassero in Inghilterra le condizioni politiche per l'abolizione della tratta e della schiavitù. Infatti, prima del 1783, tutte le classi della società britannica erano unite nella difesa della tratta; l'opinione pubblica era d'accordo con il deputato Temple Luttrell che nel 1777 apertamente dichiarava:

«Alcuni gentiluomini possono, in verità, considerare il commercio degli schiavi empio e disumano; ma se vogliono conservare e sviluppare le nostre colonie, ciò che può farsi solo con il lavoro dei negri africani, è certo meglio procurarci quei lavoratori per mezzo di navi inglesi piuttosto che acquistarli con la mediazione di Francesi, Olandesi, e Danesi». (16)

Trent'anni più tardi le condizioni erano cambiate, le colonie dello zucchero non solo erano superate, ma anche dannose; nel 1828 si calcola che gravassero annualmente sul popolo inglese per più di un milione e mezzo di sterline. I capitalisti manchesteriani, ansiosi di ridurre i salari, sostenevano una campagna durissima contro i dazi sui grani e lo zucchero. La Lega contro la Legge sui grani dichiarava addirittura di basarsi sullo stesso giusto principio che aveva visto nascere la Società contro la schiavitù. Gli abolizionisti, fino ad allora piccola minoranza di intellettuali senza alcun peso politico, si videro dal un giorno all'altro appoggiati congiuntamente dagli industriali e dal Governo. Williams fa rilevare come l'attacco alla tratta degli schiavi (abolita nel 1807 ), la lotta. contro la schiavitù (abolita nel 1833), l'abolizione dei dazi sullo zucchero e sul grano del 1846 fossero tre fasi,tra loro inseparabili di un unico processo che doveva portare dal mercantilismo all'affermarsi di un'economia industriale basata sul "laissez faire":

«L'attacco agli interessi indo-occidentali fu qualcosa. di più di un attacco allo schiavismo :fu un'offensiva contro il monopolio; loro avversari erano non soltanto coloro che erano mossi da. sentimenti umanitari, ma i capitalisti (…) gli spiriti umanitari, aggredendo il sistema nel punto più debole, e più indifendibile, parlavano un linguaggio che le masse potevano comprendere: non avrebbero mai potuto riuscirvi cent'anni prima, quando tutti gli interessi capitalistici fondamentali erano schierati a difesa del sistema coloniale». (17).

L'aspetto più interessante di tutta questa tragica vicenda resta tuttavia come, nonostante un'esperienza tanto orribile da essere paragonata dagli esponenti più radicali del movimento afroamericano alla Shoah, gli schiavi siano riusciti a mantenere i caratteri centrali della loro cultura anche nei luoghi del Nuovo Mondo dove furono forzatamente deportati. Ma prima fi passare a trattare questo argomento, è importante esaminare brevemente perché proprio nel periodo in cui la schiavitù come sistema produttivo perde interesse per gli uomini d'affari inglesi, essa diviene la base di un originale sistema economico nel Sud degli Stati Uniti.

Note


13) E. Williams, op.cit., pag.68.
14) Ivi, pag.91.
15) B, Davidson, op.cit., pag.84.
16) E.Williams, op.cit, pag.65.
17) Ivi, pag.184.
18) E. Genovese, L'economia politica della schiavitù. Torino 1972, p. 18.
19) P.C. Carle- J.-L.Comolli, op. cit., pp. 80-81.
20) C. Gorlier, Storia dei negri degli Stati Uniti, Firenze 1963, p. 18.


2. continua 


martedì 16 novembre 2021

La tratta degli schiavi e il razzismo come pilastri della modernità dell'Occidente

 


Postiamo la prima parte di una ricerca, svolta nel 1976-77 nell'ambito delle attività della sezione genovese dell'Istituto Italo-africano. Con una premessa doverosa: nel corso della trattazione viene quasi costantemente usata dagli autori citati il termine “negro/negri”. Ovviamente non esiste alcun intento denigratorio nell'uso del termine che rispecchia il momento culturale in cui quelle opere furono redatte o tradotte in italiano. Trattandosi di citazioni, abbiamo ritenuto corretto mantenere il termine originario e non procedere a censure postume in nome di quello che oggi si considera un linguaggio politicamente corretto.

Giorgio Amico

La tratta degli schiavi e il razzismo come pilastri della modernità dell'Occidente


La prima notizia che si ha sulla tratta degli schiavi risale al 1441, ossia alla spedizione del portoghese Gonçalvez sul Rio de Oro. Gli avventurieri portoghesi cercavano oro, argento e spezie, e l'aver riportato in Europa anche alcuni schiavi (i primi) fu un fatto puramente casuale. Nel 1443 parte la prima incursione organizzata e negli anni che seguono la. tratta diventa un commercio regolare. Dapprincipio la tratta era essenzialmente un commercio regio, sotto la spinta della corte di Lisbona lo schiavismo si estese lungo la costa meridionale africana, ma, pur espandendosi rapidamente, la tratta si mantenne tuttavia nell'ambito di un sistema commerciale in cui altre merci avevano valore e spesso erano più importanti. La tratta degli schiavi costituiva solo una parte dei commerci con l'Africa, e i Portoghesi si mostravano ben più interessati all'oro che consideravano il principale obiettivo delle loro imprese. La domanda portoghese e spagnola di schiavi era limitata e in Francia e in Inghilterra non esisteva per nulla. I commerci con l'Africa rendevano molto, ma si basavano soprattutto sui metalli pregiati, l'avorio e il pepe.

La scoperta delle Americhe cambiò la storia. La richiesta di manodopera nelle piantagioni delle Indie Occidentali e nelle miniere dell'America centrale aumentò con ritmi frenetici. I conquistadores tentarono dapprima di utilizzare le popolazioni indigene, ma gli indios si dimostrarono inefficienti e poco adatti ad uno sforzo prolungato .Allora ci si rivolse verso l'Europa e si cercò di risolvere il problema della manodopera. con l'utilizzo di bianchi poveri legati da contratti o deportati.

In un documento ufficiale, consegnato a Giacomo I nel 1606, Bacone affermava. che con l'emigrazione l' Inghilterra avrebbe ottenuto " un doppio vantaggio, riducendo la popolazione in patria e utilizzandola altrove” . Secondo Eric Williams, al quale dobbiamo l' opera più approfondita sulle origini economiche della schiavitù, "il fattore decisivo ( della. sostituzione dei servi bianchi con gli schiavi neri) fu che lo schiavo costava meno. La. somma necessaria ad acquistare il lavoro di dieci anni del un servo bianco bastava a comperare un negro per tutta la vita”. ( 1)

Nel 1501 - nove anni appena dopo il primo viaggio di Colombo – la Spagna emana le prime leggi relative all' esportazione di schiavi in America. Nel 1515 arriva. in Europa il primo carico spagnolo di zucchero coltivato da schiavi nelle Indie Occidentali. Nel 1518 per la prima volta un carico di schiavi viene trasportato direttamente dalle coste dell' Africa alle Indie Occidentali. Dopo il 1518 la

tratta diventa sempre più un'istituzione, una parte integrante dell' economia spagnola, un aspetto essenziale dell' impero ispano-americano. Il commercio degli schiavi è, come si è già detto, un monopolio regio, dato in appaltoa ricchi mercanti; questo complesso sistema. giuridico era l'assiento, ossia. un permesso regale che comportava il rispetto di ben determinate norme .Per quanto riguarda gli schiavi, l' assiento concerneva solo gli schiavi della Guinea, in quanto la Chiesa proibiva la vendita di schiavi cristiani e scoraggiava l' uso di schiavi nord-africani, perché musulmani.

Ne1 1592 l'appalto diventa di massa, la nuova licenza vale per il trasporto di 38.250 neri in nove anni. Il commercio degli schiavi à ormai un grosso affare: nel 1562 con la spedizione di John Hawkins vi erano entrati anche gli Inglesi. Ad essi si unirono i Francesi, gli Olandesi, i Danesi e gli Svedesi. Gli Olandesi furono ben presto in vantaggio sui loro rivali, erano più abili commercianti e non erano ostacolati da prerogative regie; poco a poco gli Spagnoli e i Portoghesi vennero a perdere le posizioni di predominio, fino ad allora tenute, sulla costa dell' Africa Occidentale e nelle isole caraibiche. Nel 1609 gli Inglesi occupano le isole Bermude, nel 1623 San Cristoforo, nel 1625 Barbados e le Isole Sottovento. I Francesi non furono da meno e nel 1626 occuparono la Guadalupa e nove anni dopo la Martinica. Quanto agli Olandesi, si erano,verso il 1630, insediati nelle isole di Trinidad, Tobago e Curaçao. Da questa espansione coloniale europea al di là dell' Atlantico, venne un nuovo e potente impulso all' esportazione di schiavi dalla Guinea e allo svilupparsi di una economia di piantagione basata sullo zucchero e sul tabacco. Infatti né lo zucchero, né i1 tabacco potevano essere coltivati senza un'abbondante manodopera agricola. I piantatori dipendevano dunque direttamente dal commercio degli schiavi africani, sfruttati in modo tanto intenso da dover periodicamente a causa dell'altissimo tasso di mortalità rinnovare la popolazione di intere piantagioni. Riferisce Davidson che la mortalità nelle piantagioni era cosi elevata che, al1a fine del diciottesimo secolo nella colonia di Suriname, "l'intero gruppo di schiavi sani, composto da cinquantamila persone, si estingue completamente ogni vent'anni"(2).

All'inizio del XVIII secolo gli Olandesi cominciarono a battere il passo, mentre assumevano via via sempre più importanza gli apparati commerciali inglesi e francesi. Nel 1702 la Compagnia francese della Guinea ottenne l' assiento spagnolo e cambiò il proprio nome in Compagnia dell'assiento. L'Inghilterra ottenne a sua volta l'assiento nel 1713, e dal quel momento il commercio di schiavi verso le colonie spagnole diventò ufficialmente britannico. Nonostante i mercanti dovessero versare un quarto dei loro guadagni direttamente alla Regia Tesoreria Spagnola e un altro quarto a quella inglese, i guadagni restavano elevatissimi. La tratta ne ebbe un fortissimo impulso, basti pensare che ancora alla fine del secolo, nel periodo 1795-1804, proprio quando più forte era 1a campagna abolizionista, dai soli porti di Liverpool, Londra e Bristol partirono ben 400.000 schiavi.

Questa rapida espansione economica creò le basi per la rivoluzione industriale in Inghilterra, non soltanto perché i capitali investiti in questo commercio procuravano grossi guadagni e dunque la base economica necessaria ad una prima accumulazione di capitali, ma, cosa più importante, il commercio stesso degli schiavi creava una domanda sempre crescente di manufatti a buon mercato e dunque contribuì a implementare la nascita di nuove industrie.

Modalità e dimensioni della tratta

Nella prima fase della tratta le coste africane furono esposte a molteplici razzie da parte di piccole spedizioni europee. Ma alla fase piratesca seguì ben presto una fase di alleanze con i capi delle tribù costiere. Gli Europei infatti offrivano merci molto ambite dai capi af'ricani, come cavalli, armi liquori, e in cambio ricevevano spezie e merci pregiate .L'alleanza militare si trasformò ben presto

in un regolare commercio con le tribù della costa. Davidson, nel suo libro Madre Nera, dedicato al rapporto tra l'Africa nera e il commercio degli schiavi, spiega in questo modo lo sviluppo di questi rapporti commerciali

«Ovunque il commercio incontrò capi e sovrani forti, prosperò quasi dal primo momento, dove non riusci a trovarne li creò. Con l'accumulazione delle ricchezze per mezzo di doni, regali e guadagni commerciali; con l'autorità politica che lo schiavismo conferiva a quelli che l'organizzavano; o con la superiorità militare che derivava dalle armi da fuoco, lo schiavismo codificava i1 potere di un capo dove non esisteva prima, oppure lo trasformava dove già esisteva da un potere genericamente rappresentativo in uno autocratico (3).

Via via che la tratta degli schiavi si sviluppava i sovrani africani diventavano sempre più abili a trarne profitto. La storia di quasi tutta la costa africana atlantica, durante questo periodo, è la storia di come le tribù costiere riuscirono a sviluppare e a imporre ai negrieri un ben delineato sistema di tasse e tributi.

«A Grande Ardra (...) è consuetudine che gli Europei diano al re l'equivalente di cinquanta schiavi in merci per avere il permesso di commerciare, e gli paghino diritti doganali per ogni nave; e al figlio del re l'equivalente di due schiavi per il privilegio di far rifornimento d'acqua, e di quattro schiavi per rifornirsi di legna» (4).

In seguito a questo sviluppo del commercio si crearono delle unità di misura e si cominciò a fare ampio uso di un sistema di credito.

La maggior parte degli schiavi proveniva dall'Africa Occidentale, dove venivano acquistati in una ventina di mercati principali, stanziati lungo il tratto di litorale che va dal Senegal all'Angola. Un piccolo numero di schiavi veniva acquistato nell'Africa Orientale, la cui costa dal Mozambico a Zanzibar era battuta prevalentemente dai trafficanti arabi. Le tribù costiere solo in casi rarissimi vendevano ai mercanti schiavi appartenenti alla loro regione. In genere si usava comprare gli schiavi presso le popolazioni che si trovavano all'interno, generando un vero e proprio processo a catena che si estendeva all'interno per varie centinaia di chilometri. Un' altra ricca fonte di schiavi era la Costa d'Oro, dove le popolazioni della costa compravano prigionieri dagli Ashanti per rivenderli agli Europei. Per concludere citiamo un estratto da Davidson:

«Per quanto riguarda l'Africa Occidentale, si può dire che le forti popolazioni costiere e i loro immediati confinanti dell'interno razziavano e compravano a settentrione, senza però spingersi molto lontano. Si rifornivano normalmente presso le popolazioni, relativamente numerose, della cintura delle foreste, e , in proporzioni minori, presso quelle meno dense delle praterie ohe si estendevano di là dalle foreste». (5)

Stabilire il numero esatto degli Africani trasportati nelle Americhe è praticamente impossibile. Non esistono cifre attendibili ed ogni storico ha operato sulla base di stime approssimative. Davidson, ad esempio, non cerca neppure di stabilire una una cifra e si limita a citare alcuni autori:

«Si dice, per esempio, che tra il 1580 e il 1680 i Portoghesi abbiano trasportato in Brasile complessivamente non meno di un milione di Ashanti. Nei cento anni successivi pare che le colonie britanniche del Nord America e i Caraibi abbiano accolto ben più di due milioni di africani. Un eminente studioso di statistica della popolazione, Kuczynski, nel calcolare il totale di schiavi sbarcato vivo sulle terre al di là dell'Atlantico giunse alla conclusione che quindici milioni potesse essere una cifra abbastanza prudente. Alcuni autori hanno accettato questa cifra, sia pure come minimo; alcuni hanno ritenuto che il totale probabile fosse di di circa cinquanta milioni, e altri infine sono stati del parere ohe fosse molto superiore». (6)

Secondo invece il testo di Carles e Comolli sui rapporti tra musica nera e movimento politico degli afro -americani gli schiavi trasportati in America sarebbero stati oltre duecento milioni.(7) Pur tenendo conto che si tratta di un fenomeno spalmato su più secoli, la cifra appare del tutto inverosimile, se solo consideriamo la popolazione di un continente per motivi geografici molto più abitato come l'Europa. È sicuramente più interessante seguire i1 dibattito tra gli studiosi sulle condizioni e il trattamento degli schiavi durante il viaggio.

Secondo Williams «gli orrori della traversata oceanica sono stati esagerati soprattutto ad opera. degli abolizionisti inglesi». (8) Più avanti egli afferma che sostanzialmente lo sfruttamento degli schiavi nelle piantagioni non differisse di molto da quello dei contadini feudali o dalle condizioni di vita dei poveri nelle città inglesi del Settecento. Ora, nonostante l'indubbio merito di cercare di sfrondare la storia della tratta dagli elementi romanzeschi, tuttavia non crediamo si possa, come appunto fa Williams, attribuire l'elevato numero dei decessi durante la traversata alle epidemie, «conseguenze inevitabili dei lunghi viaggi», (9) quando solo poco più avanti si ammette che «era come se si trasportasse bestiame nero». (10) Come non basta per demolire le denunce degli abolizionisti sostenere che «scopo del mercante degli schiavi era il profitto e non il benessere delle sue vittime». (11)

Su questo delicato argomento Davidson prende una posizione intermedia tra le due tesi contrapposte. Infatti, se da una parte egli concorda parzialmente con le tesi di Williams, sostenendo che le condizioni di un viaggio per mare erano dure anche per gli emigranti, tuttavia egli ha il grosso merito di sottolineare come la tratta degradasse le sue vittime, ridotte a cose e non più persone.

«Oltre alla degradazione fisica legata al commercio c'era anche una degradazione morale degli schiavi e degli schiavisti: riducendo gli Africani in schiavitù gli Europei offendevano anche la propria natura umana». (12)

Note :


l) E. Williams, Capitalismo e schiavitù, Bari 1971 , pag.22.
2) B. Davidson, Madre Nera , Torino 1966, pag.79.
3) Ivi, p. 105.
4) Ivi, p.109.
5) Ivi, p. 126.
6) Ivi, p. 99
7) P.C. Carle- J.-L.Comolli, Free jazz, black power, Torino 1973, p. 80
8) E. Williams, cit, p.4.
9) Ivi, p. 44.
10) Ibidem.
11) Ibidem.
12) B. Davidson, op. cit., p. 11.

1. continua

sabato 13 novembre 2021

Danilo Montaldi, adolescente ribelle

 


Continuiamo la pubblicazione di parte delle bozze di una ricerca, in via di completamento, sulla vita e l'opera di Danilo Montaldi.


Giorgio Amico

Danilo Montaldi, adolescente ribelle


Agli inizi del 1946, mentre stanno già spegnendosi le speranze rivoluzionarie innescate dall'insurrezione dell'aprile '45, Danilo Montaldi è in piena crisi esistenziale, tanto da abbandonare gli studi nonostante il suo professore di filosofia, Giuseppe Berti, cattolico impegnato e stimatissimo a Cremona, cerchi in tutti i modi di dissuaderlo da una scelta che considera priva di senso. Una scelta che per l'adolescente Montaldi ha invece il sapore di un vero e proprio cambio di vita, l'abbandono di un mondo in cui non si riconosce e che lo disgusta per la sua ipocrisia perbenista. Insomma un salpare verso l'ignoto, alla ricerca di una nuova e più autentica dimensione umana. Danilo è affascinato dalla figura del ribelle, di chi - piccoli malavitosi o militanti comunisti di base che non si sono arresi - vive con fierezza una condizione di marginalità scelta o imposta dalla vita. Una umanità parallela, una sorta di controsocietà di uomini liberi con i suoi miti e i suoi riti, che si riunisce nelle osterie dei quartieri popolari o lungo le sponde del Po. Un atteggiamento tipico dell'adolescenza, ma che Montaldi non abbandonerà mai, forse perché nel suo caso alla base c'è una forte identificazione con la figura del padre e non il suo assassinio simbolico. È infatti Nino Montaldi, che fa parte di questo ambiente, ad inserirlo nella cerchia degli amici, a iniziarlo ai riti della leggera. È accompagnando il padre in queste vecchie osterie fumose, assistendo a discussioni vivacissime o ascoltando vecchi racconti degli anni del fascismo, che il giovanissimo Danilo entra in contatto con una molteplicità di storie di vita che lo affascinano al punto di diventare poi, nell'età adulta, la base materiale del suo lavoro di ricerca.

Il suo gesto è il rifiuto di un ben preciso ambiente sociale, di una “istituzione conformista, reazionaria e restrittiva”. (Montaldi N., La Matana del Po. Genesi di un documentario, Kurumuny Edizioni, Lette 2018, p. 13). Non sappiamo di più, né il figlio né la moglie si dilungano nei loro ricordi sull'episodio. Si può comunque azzardare l'ipotesi che il gesto del giovane Danilo sia in larga parte determinato dal senso di emarginazione che un adolescente di origine proletaria e di animo libertario non poteva non provare nei confronti di un tipo di scuola come il liceo classico, tradizionalmente riservata, e non solo a Cremona, ai rampolli del notabilato locale. Chiunque abbia frequentato quel tipo di scuola in una qualunque parte di Italia prima della tempesta del '68 sa, se aveva occhi per vedere, di quanta grettezza classista desse, con rarissime eccezioni,quotidiana dimostrazione il personale docente e quanto escludente potesse essere il clima quotidiano della classe per chi non facesse parte dell'élite. Una scuola per i “Pierini”, per usare la definizione di don Milani, per i figli dei “dottori”, destinati a diventare a loro volta dottori. Il che in una realtà conservatrice e culturalmente povera come quella cremonese, dove il termine “operaio” era già per i “benpensanti” di per se equivalente a “poveraccio” se non a “comunista”, non poteva che riuscire insopportabile a un giovane dalle spiccate tendenze libertarie come Montaldi. Dunque, mille volte meglio, la scuola della strada e della vita, far tesoro dei racconti ascoltati nelle osterie da vecchi esponenti della leggera o da quei militanti politici di base rimasti comunisti dentro dopo aver stracciato la tessera del partito togliattiano avviato ormai sulla via della collaborazione di classe.

Abbandono della scuola non significa però abbandono degli studi. Danilo legge in modo quasi compulsivo tutto quello che può trovare passando gran parte del suo tempo presso la Biblioteca statale di Cremona che frequenta pressoché quotidianamente. Lo studio, da mezzo di ascesa sociale si trasforma in strumento di liberazione:

«Leggevo Baudelaire, Dostojevsky. Attraverso noi la parola avrebbe dovuto diventare gesto, gesto che libera. Leggevo Rimbaud: «Eucaris mi disse che era giunta la primavera». Eucaris come un fratello».

In quel periodo manifesta un interesse crescente per la letteratura, la musica, il cinema e la storia della sua città a cui sarà per tutta la vita tanto legato da non volersene mai staccare veramente anche nei momenti alti in cui gli si prospettano possibilità importanti a Milano e addirittura a Parigi. Illuminante la ricostruzione che ne fa il figlio:

“Le letture di Montaldi nei tardi anni Quaranta comprendevano autori francesi come Charles Baudelaire, André Gide, Louis-Ferdinand Céline, Andrè Malraux., Albert Camus, la filosofia e letteratura tedesca da J.W. Goethe, Friedrich Hölderlin a Ernst Toller, come pure Federico Garcia Lorca, Hermann Melville, Henry James, Edgard Lee-Mastwers, Sherwood Anderson e Upton Sinclair. Certamente Montaldi trovava in questi scrittori una dimensione sociale che mancava nella cultura italiana dell'immediato Dopoguerra e nella vita cremonese in particolare. La sua immersione nella letteratura straniera di questo tipo era anche espressione di rivolta contro lo spirito cultural-politico di quel periodo”. (N. Montaldi, cit., p.13)

Oltre che la Biblioteca Danilo è un assiduo frequentatore delle osterie, allora numerosissime a Cremona come in ogni altro centro d'Italia. Una vera e propria «Accademia» di vita, come gli ripete costantemente Orlando Panizzi, uno delle «leggere» di cui poi raccoglierà l'autobiografia nel suo libro più bello. Lì fa la conoscenza di una umanità fatta di marginali e proletari spesso delusi dal riformismo inconcludente della sinistra. Uomini che, pur nella sconfitta e nella deriva esistenziale, mantengono intatto il loro orgoglio sia esso di classe o di aver appartenuto alla vecchia malavita, quei «cavalieri della luna» razziatori di polli e ladri di cavalli, terrore della campagna cremonese. Un' abitudine che non abbandonerà mai, tanto da scriverne con accenti quasi poetici ancora nel 1970 all'amico Guerreschi:

«Qui, dopo qualche giorno triste e nero di pioggia è ripreso un dolce autunno. Di sera si va in qualche osteria di campagna, calda e isolata, in mezzo alla nebbia , dove non imperversi “Canzonissima”» (Lettera a Guerreschi del 12 ottobre 1970. In Montaldi-Guerreschi, cit., p. 312)]

Proprio dalle frequentazioni delle osterie il giovane Danilo acquista a partire dal 1947 una vivissima consapevolezza dell'arretramento che il Paese sta vivendo, della caduta di coscienza politica negli strati popolari conseguente agli esiti totalmente fallimentari della politica di unità nazionale togliattiana di cui la cacciata delle sinistre dal governo è solo l'inevitabile coronamento a livello istituzionale. Il contatto diretto con i proletari proprio nei luoghi, come l'osteria, dove, complice qualche bicchiere di vino, si sentono più liberi di esprimersi, offre a Montaldi un punto di osservazione privilegiato sulle contraddizioni profonde che il proletariato manifesta. In quella sorta di lento apprendistato alla politica che va dal 1946 al 1953, l'ambiente delle osterie gioca per Montaldi un ruolo importantissimo, finora largamente sottovalutato. È nelle osterie che egli incontra i suoi amici e si mescola agli ultimi esponenti di quella leggera di cui ascolta i racconti. È nel tono dei discorsi, in quelle voci accese dal vino, che gli si manifesta con la massima chiarezza il processo di restaurazione in atto non solo a livello della politica “alta”, ma soprattutto nel modo di pensare dei proletari. Insomma, è nei discorsi sentiti all'osteria che Montaldi coglie,per usare una celebre espressione marxiana, il ritorno trionfante di “tutta la vecchia merda” che la lotta partigiana prima e l'insurrezione poi sembravano avere definitivamente cancellato. Ancora una volta è la moglie a offrirci una preziosa testimonianza in merito:

« Un esempio significativo che qualcosa si stava chiudendo […] sono i discorsi degli uomini nelle osterie, discorsi che di nuovo diventano, per citarne un esempio, ostili nei confronti delle donne e della possibilità di una loro minima emancipazione, sia in forma di un lavoro retribuito autonomo fuori di casa, sia tramite la loro recentissima conquista del diritto al voto con le elezioni del 1946. Un'ostilità che culmina nella diffusa richiesta di togliere alle donne di nuovo quel diritto al voto.Era in corso una restaurazione di mentalità e di idee vecchie – anche a sinistra – che sembrava già superata. Danilo sente questi ragionamenti nelle osterie non solo come un passo indietro, ma come un altro fallimento, che si aggiunge a quello della politica “alta”. Ed è proprio lì, nelle osterie dei rioni bassi che doveva rendersi conto definitivamente che le grandi speranze e i sogni, la sensazione di libertà che si era sentita nell'aria, erano scomparsi, almeno per il momento. Improvvisamente lo spazio delle grandi possibilità tornava a restringersi per il giovane Danilo, anzi, a chiudersi, e la grande solidarietà degli ultimi anni risultava essere stata soltanto una Fata Morgana». (Gabriella Montaldi Seelhorst, La formazione. «Lasciare un segno nella vita», cit., pp. 25-6)

Davvero di un brutto periodo si tratta. sono gli anni delle “Madonne pellegrine”, del clericalismo trionfante, dei preti che dal pulpito delle chiese additano all'esecrazione dei fedeli come “pubblici concubini” chi rifiuta il matrimonio religioso e si limita al rito civile. Sono anche gli anni della amnistia togliattiana con i torturatori repubblichini di nuovo in giro, mentre si arrestano i partigiani e nelle fabbriche si licenziano gli operai più combattivi. Per Montaldi si tratta una sorta di traversata del deserto, un “inverno buio” dopo una primavera luminosa. È dentro di sé che occorre trovare la forza di resistere. Il rifiuto politico di quel presente oscuro assume per il giovane il senso della ricerca di una vita etica.

«Rigettati ormai in quelli che non ci sentivamo di considerare “i nostri limiti”, reagimmo come sapevamo. Fu insomma un ritorno agli anni “fascisti”. Ricordo l'inverno buio del millenovecento quarantasette. Diventava chiaro infine perché eravamo così, capimmo che la nostra presenza nel mondo aveva delle ragioni, Conoscere queste ragioni, e noi in esse, rimaneva più difficile. Di quel tempo mantengo il ricordo di un'intimità feroce e pura con me stesso. Ero animato da una permanente metamorfosi che proponeva continuamente la mia vita, senza mai alterarne i dati iniziali, sviluppandosi piuttosto, di situazione in situazione. E pertanto ero disposto continuare con gioia, ad aderire a quello che c'era di completamente umano e dunque di morale nella vita. E a quello soltanto. Sapere, sentire di vivere in un senso irrevocabile una vita mortale, mi rendeva felice.Farla vibrare sulle corde di desideri forti. Portarla ai limiti veri che l'esistenza mantiene. Un'altra nascita, era un'altra nascita».