TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 31 gennaio 2022

I bordighisti e la Democrazia Cristiana

 



La storia delle minoranze comuniste in Italia, o eresie come piace oggi chiamarle inserendo nel concetto personaggi come Rossana Rossanda o Magri che tutto furono meno che eretici, resta nonostante i lavori di Sandro Saggioro, Arturo Peregalli, Diego Giachetti, Paolo Casciola ancora in larga parte da fare. Può essere perciò interessante scoprire cosa nel gennaio 1952, esattamente settanta anni fa, pensassero della Democrazia cristiana e della sua politica i bordighisti che, solitamente, si ritiene fossero solo interessati a tallonare da sinistra il PCI e il PSI. Naturalmente, come ben si vede dall'articolo che presentiamo, l'analisi della natura della DC diventa occasione per ribadire la critica rivoluzionaria alla politica di Togliatti e di Nenni.

Democrazia Cristiana. Partito totalitario borghese

Alla Democrazia Cristiana non abbiamo mai riconosciuto né i carattere di partito democratico nonostante le retoriche affermazioni antitotalitarie, né quello di partito clericale, nonostante l'innegabile puzzo di sacrestia che ne emana. Tanto meno le riconosciamo di seguire, stando al timoni dello Stato, le mistiche fantasie di Cristo. E ciò, bene inteso, non perché rivendichiamo al partito proletario la democrazia e il cristianesimo sociale, siccome fanno gli scribi e i farisei dei partiti predicanti la solidarietà delle classi. Alla Democrazia Cristiana non riconosciamo di essere né democratica né clericale, per il semplice fatto che non crediamo né nella possibilità di sopravvivenza della democrazia come forma di governo borghese in opposizione al grande capitale, né nella esistenza di una classe ecclesiastica dominante.

Il partite marxista rivoluzionario non è democratico: è antiborghese; non è anticlericale: è antireligioso. Propugna la distruzione . del potere borghese nella sua duplice forma liberale e totalitaria: non preferisce la democrazia al fascismo. Propugna la scomparsa dalla mente degli uomini delle nebbie preistoriche della superstizione religiosa; non preferisce il laicismo al clericalismo. Ma, allorché i rivoluzionari mettono la D. C. sullo stesso piano di qualunque partito borghese, o meglio grande-borghese, e le negano di rappresentare altro potere che quello capitalista, essi non traggono risultanze da deduzioni puramente dottrinali. Al contrario, si lasciano impartire lezioni dai fatti, come è nel metodo scientifico del marxismo.

Alla D. C. non abbiamo mai riconosciuto natura e funzioni di democrazia sociale, e pertanto abbiamo bollati come traditori della fiducia cieca delle masse lavoratrici quei partiti che con essa collaborarono al tempo della Esarchia e del Tripartito, per il semplice fatto che nella politica borghese la democrazia esiste come i fossili nella storia naturale. La storia della democrazia sociale, cioè della direzione piccolo-borghese della società capitalistica, è breve e triste, come quella di Mimi nella Bohème: nata debole e impotente, essa morì di consunzione.

Marx ne celebrò il funerale sin dalle giornate di giugno del 1848, che videro l'aborto di governo repubblicano piccolo-borghese invocare le orde armate della reazione capitalistica contro le resistenze opposte dal proletariato parigino a lasciarsi imprigionare nelle maglie di ferro dello sfruttamento capitalista insito nella repubblica borghese. Disdicendo l'alleanza col proletariato per abbattere le ultime vestigia delle forme feudali dello stato, e cercando ed ottenendo l'alleanza del grande capitale e dell'alta finanza, la Democrazia piccolo borghese, che la rivoluzione rossa del proletariato riempiva di nevrastenico terrore, firmava la propria definitiva sentenza di morte. E nemmeno tirava le cuoia in un clima di epopea tragica, come cinquantacinque anni prima il Governo rivoluzionario del Terrore: spariva dalla scena della storia, buttata fuori da una pedata nel sedere, lasciando posto non a Napoleone il Grande, « eroe della rivoluzione », ma al filibustiero politico Napoleone III, detto il Piccolo. Finiva in Francia e nel resto del mondo l'epoca storica favorevole anche solo a esperimenti e tentativi di governi democratici piccolo-borghesi: Venne il massacro della Comune (1871), l'imperialismo, le guerre mondiali, il fascismo, cioè il dominio aperto e non più dissimulato delle grande borghesia, delle oligarchie industriali e finanziarie, cui la media e la piccola borghesia dovevano e devono lustrare le scarpe e fornire il personale subalterno delle forze della controrivoluzione.

Tuttavia l'alleanza con la Democrazia Cristiana, nell'immediato. dopoguerra e fino allo scoppio della guerra fredda, venne giustificata dagli stalinisti e dai socialisti con la tesi che il partito democristiano non impersonasse gli interessi del capitalismo italiano, ma militasse nel campo delle cosiddette « forze popolari e progressive », cioè nella coalizione antifascista delle masse lavoratrici e degli strati « più evoluti» della media e piccola borghesia. L'alone di militaresca gloria fumigante sui resti della guerriglia partigiana servi a condire di un pizzico dl pepe rivoluzionario l'unione sacra, e si parlò di una seconda rivoluzione democratica, di « secondo risorgimento.

Nenni, seguendo 'suo istinto istrionico, si drappeggiò da giacobino del ventesimo secolo: si inneggiò alla rinascita della Democrazia, alla riscossa sui « gruppi monopolisti », alla mortificazione della dominazione totalitaria del grande capitale portata all'acme dal fascismo mussoliniano. Ma era vero che, all'epoca della Esarchia e del Tripartito, il potere dello stato poggiasse altrove che sulla grande borghesia capitalistica? Era vero che « allora » la Democrazia Cristiana fosse un partito democratico, esponente degli interessi dei ceti medi, e quindi non ancora degenerato » nel totalitarismo, come pretendono, per scusarsi degli amori passati, stalinisti socialisti? E' chiaro che una risposta positiva significherebbe lo sconfessamento del certificato di morte steso dal marxismo alla democrazia. Eppure, la risposta positiva fu data, non solo nel campo dottrinale, ma in quello pratico politico, dai partiti di Togliatti e di Nenni.

Noi, invece, non abbiamo mai riconosciuto al partito democristiano una natura che non fosse capitalistica, e una funzione che non fosse antiproletaria e controrivoluzionaria, e quando Togliatti e Nenni sedevano accanto a De Gasperi e Scelba abbiamo riguardato costoro come espressioni politiche di un potere che derivava dalla forza materiale della classe capitalistica, e precisamente dalle forze armate degli eserciti anglo-americani. Se è vero che le forze del capitalismo italiano, dissestate ma non distrutte dalla sconfitta militare, sonnecchiavano e si mimetizzavano, non pertanto poteva parlarsi allora di governi fondati sull'alleanza della piccola e media borghesia e delle masse sfruttate. Dietro le forze sanculotte combattenti contro le orde reazionarie della Prussia e della Russia zarista si ergeva la Comune del 1792, questo sì un potere democratico fondato sulla piccola borghesia, sui contadini, sui proletari urbani. Ma dietro il governo dei pervertiti politici, spuntati nella fungaia dei C.L.N., e blateranti di democrazia, si ammassavano i carri armati e i cannoni degli Stati più capitalistici, più imperialistici, più antidemocratici della terra: gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, per tacer della Russia.

Non c'era nemmeno e non c'è il potere della Chiesa, dietro la Democrazia Cristiana sortita dai Comitati di Liberazione. C'erano i generali di un paese capitalista, gli. U.S.A., che meno di tutti i poteri borghesi ha avuto bisogno degli strumenti ecclesiastici per assurgere alla strapotenza schiacciante, che oggi pesa sul proletariato mondiale. Perciò, non abbiamo mai riconosciuto alla Democrazia Cristiana il carattere dì partito clericale. Quale enorme confusione di termini! Partiti clericali erano, al tempo della rivoluzione antifeudale del secolo decimottavo, quelle forze politiche che riflettevano gli interessi della classe dominante aristocratico-ecclesiastica, e militavano per-tanto nel campo nemico della Democrazia, stendardo della borghesia. Clericali erano nel 1793 le orde controrivoluzionarie della Vandea, ribelli di fronte al governo rivoluzionario della Democrazia giacobina. Allora, non si poteva essere nello stesso tempo , democratici e clericali, non lo si può oggi, a meno che non si seguano le ciarlatanesche teorie storiche di un Nenni. Per noi la Democrazia Cristiana non è stata ieri, non è oggi, né democratica né clericale, ma è stata ed è soltanto borghese. E siccome non si può, dall'epoca del massacro della Comune, essere forza di governo del capitalismo senza essere totalitari, la D. C. doveva nascere e crescere totalitaria; fascista, se preferite.

Perciò, non abbiamo atteso che il Ministero De Gasperi imbavagliasse la stampa, permettesse le manifestazioni neofasciste, mettesse mano ai decreti legge, ecc., ecc. per scorgere in essa il partito qualificato della reazione capitalistica italiana. Non l'abbiamo atteso per vedere in essa l'erede dei fascismo, perché sappiamo con Marx che il potere della borghesia, lo Stato borghese, nacque storicamente come potere della grande borghesia detentrice dei mezzi di produzione e dei prodotti. Perché sappiamo che i brevi fugaci esperimenti di governi democratici piccolo-borghesi furono possibili solo in epoche anteriori al 1860-80 in cui il recente trionfo del modo di produzione capitalistico non aveva ancora per-messo in pieno la concentrazione dei capitali ín mostri industriali strapotenti e la necessaria progressiva espropriazione e subordinazione economica dei cosiddetti ceti medi, della piccola proprietà. in Italia, come ín tutti i paesi capitalistici, la concentrazione del capitale e la trasformazione dei « ceti medi » in lacchè del grande capitale era un fatto compiuto molto tempo prima che De Gasperi sbucasse dalle biblioteche vaticanesche e Togliatti dal bombardiere inglese proveniente da Algeri.

Se oggi succede che il capitalismo italiano abroga le concessioni formali, più apparenti che reali, e mostra senza dissimularlo il brutale e tirannico volto di uno spietato dominio di classe, ciò non ci sorprende. Se per fascismo si vuole intendere la dominazione spietata dei capitalismo, ebbene si può dire che il capitalismo è nato fascista. I regimi di Mussolini, di di Franco non dovevano che rendere palese questa verità, colta da un secolo dal marxismo. De Gasperi sta facendo del suo meglio per imitarli. Come movimento politico secolare, noi abbiamo visto morire la democrazia piccolo-borghese quando era veramente reale, e non abbiamo sprecato una sola lacrima sul suo miserabile cadavere. Non lo faremo oggi, che è solo un fantasma. Il partito democristiano non ha ritegno di invocare « un partito forte per uno Stato forte », cioè fascista? I proletari non debbono invocare la resurrezione del cadavere della Democrazia, ma lavorare a gettare le fondamenta di un partito di classe forte, più forte del partito e dello Stato borghese, prepararsi teoricamente e politicamente per rispondere alla violenza organizzata del totalitarismo borghese con la violenza organizzata della rivoluzione di classe.

Battaglia comunista, n.1, 9-23 gennaio 1952

domenica 23 gennaio 2022

1922-2022: Amadeo Bordiga e la Massoneria

 


1922-2022: Amadeo Bordiga e la Massoneria

Cento anni fa Amadeo Bordiga, allora principale esponente (la figura del segretario generale non esisteva ancora) del Partito comunista d'Italia,  scrive un articolo per la stampa dell'Internazionale comunista in cui precisa il suo punto di vista sulla Massoneria. Il problema non era secondario, visto che sia in Italia che in Francia numerosi erano i militanti anche con funzioni dirigenti che erano stati massoni al tempo della loro militanza nei partiti socialisti e qualcuno continuava ad esserlo soprattutto nel partito comunista francese. Bordiga si era fatto conoscere prima nella giovanile del PSI e poi nel partito grazie anche alla battaglia condotta contro la Massoneria che allora svolgeva un ruolo egemone negli ambienti radicali e socialisti. Proprio a causa della presenza dei massoni nel partito Bordiga era entrato in aperta polemica con la direzione della sezione di Napoli del PSI e stretto rapporti molto intensi con Benito Mussolini, esponente di punta della componente rivoluzionaria del partito e implacabile sostenitore della tesi dell'incompatibilità fra l'appartenenza al Psi e alla massoneria. Tesi fondata sulla convinzione ferrea che fosse necessario nella battaglia rivoluzionaria per l'abbattimento del potere borghese e l'instaurazione della dittatura proletaria distruggere la Massoneria in quanto principale pilastro politico e culturale della democrazia in Italia. Per Mussolini e Bordiga la Massoneria era il veicolo attraverso cui le idee democratiche penetravano nella classe operaia e questo la rendeva il nemico principale che andava abbattuto ad ogni costo. E d'altronde l'influenza delle tesi mussoliniane sul “complotto massonico” emerge ben chiara anche nello scritto del 1922 che riportiamo in appendice. Nonostante la divaricazione dei loro percorsi dall'ottobre 1914, entrambi rimasero fedeli tutta la vita a questo convincimento. Mussolini mettendo la Massoneria fuori legge nel 1925, Bordiga continuando fino alla fine della sua vita (1970) nei suoi scritti e discorsi a ribadire la coerenza marxista delle sue posizioni antimassoniche e a giudicare corrette le posizioni mussoliniane. Sempre e comunque per entrambi in nome di un odio viscerale contro la democrazia vista come strumento della borghesia. Non è dato sapere quanto, almeno per Bordiga, giocò in questo sua avversione profonda verso l'istituzione massonica il fatto che la sua famiglia sia nel ramo paterno che in quello materno avesse legami profondi con la Massoneria che risalivano addirittura alla partecipazione alle attività della Carboneria. I bordigologi ci perdonino, ma da nipotini di Freud in questa vera e propria fobia antimassonica di Bordiga, un pochino ci pare di intravvedere anche l'uccisione rituale della figura paterna. Non a caso il giovane Amadeo iniziò a manifestare questa sua avversione prima ancora di iscriversi al Psi, ai tempi dell'Università e dunque agli inizi della sua vita autonoma da adulto. D'altronde fu lo stesso Bordiga a ricordare in svariate occasioni come avesse preso la decisione d iscriversi al Psi in aperta reazione al fatto che alcuni amici del padre, come lui massoni, lo avessero contattato per proporgli di entrare in Loggia..

(G.A.)


Amadeo Bordiga

Il movimento operaio italiano e la massoneria


La questione della massoneria ha, nel movimento operaio italiano, tutta una storia. La massoneria è stata estremamente influente in Italia. Raggruppando tutte le diverse società segrete di tendenza liberale borghese che avevano giocato un ruolo storico considerevole durante le lotte per l’indipendenza e l’unità nazionali, essa seppe occupare un posto di prim’ordine tra i politicanti e tra l’élite della classe dominante. La massoneria aveva in Italia delle tradizioni d’azione rivoluzionaria cospirativa, e persino di dedizione. Era la portabandiera dell’ideologia anticlericale, che aveva caratterizzato la formazione dello stato borghese unitario contro la resistenza del Vaticano e dell’ultracattolica Austria-Ungheria.

Allorché incominciò a delinearsi un movimento rivoluzionario della classe operaia, la borghesia di sinistra seppe sfruttare contro tale movimento quelle tradizioni che potevano conferirle una certa popolarità, e la massoneria divenne il perno di una campagna volta a distogliere la classe operaia dai suoi obiettivi socialisti e dalla lotta di classe. Dopo la fase della dura reazione del 1898 vi fu il periodo della politica democratica dell’estrema sinistra parlamentare, che comprendeva in un “blocco popolare” i radicali (democratici borghesi), i repubblicani e i socialisti. La politica del blocco anticlericale, basata sulla demagogia e sui luoghi comuni del libero pensiero, veniva portata avanti non soltanto in parlamento ma anche nei comuni, ed era sostenuta da tutta una serie di associazioni e circoli anticlericali che volevano controllare la propaganda e l’agitazione proletaria.

La massoneria dirigeva tutto questo lavoro dal suo centro occulto. Quella fu anche l’epoca caratteristica del “giolittismo”, cioè della politica abilmente controrivoluzionaria della collaborazione di classe. Giolitti era massone; e lo era anche il re democratico – che si è ora rivelato fascista.

Fu allora che il riformismo intensificò la propria azione e trascinò il movimento operaio sulla strada più pericolosa. Esso sostenne i ministeri borghesi e costituì dei blocchi elettorali, e Bissolati – socialista – si recò al Quirinale.

Nel partito socialista si produsse una reazione contro questa degenerazione. La nostra tendenza di sinistra si scontrò con il problema della massoneria. Il lavoro delle logge massoniche, che non soltanto mantenevano sotto la propria influenza i nostri intellettuali e i nostri capi ma che avevano anche organizzato una sapiente propaganda nella classe operaia attirando a sé tutti i militanti del movimento sindacale, era riuscito ad influenzare l’opinione e l’organizzazione del partito.

Il congresso socialista di Reggio Emilia (luglio 1912), che sancì la scissione con Bissolati e coi riformisti, fautori della collaborazione ministeriale e della guerra di Tripolitania, adottò una risoluzione di principio contro i massoni, ma l’influenza massonica era tale, anche in seno alla sinistra, che la questione venne rimandata ad un referendum. L’accanita propaganda dei massoni fece fallire il referendum grazie ad una maggioranza di astensioni.

Fu soltanto al congresso successivo, nel 1914 ad Ancona, che grazie agli sforzi dell’estrema sinistra e della gioventù socialista si ottenne, dopo un dibattito assai movimentato, una risoluzione sull’incompatibilità della massoneria con il socialismo. Bisogna aggiungere che anche alcuni riformisti erano contrari alla massoneria, e che alcuni membri della sinistra vi aderivano. Ma questi casi personali non cambiano molto la portata dell’influenza e dell’“infiltrazione” massonica nel partito. Fu in larga misura grazie a quella risoluzione, in seguito alla quale diversi massoni ci abbandonarono (altri, che nascondevano la loro affiliazione, vennero espulsi), che il nostro atteggiamento rispetto alla guerra mondiale poté essere tanto felicemente diverso da quello della maggioranza dei partiti della vecchia Internazionale.

Un episodio eclatante della campagna antimassonica si verificò a Napoli, dove un piccolo gruppo di compagni rivoluzionari, del quale io facevo parte, sostennero una lunghissima lotta contro gli elementi massoni e “bloccardi” che esercitavano un controllo totale e scandaloso sul partito. La corruzione aveva raggiunto un livello inimmaginabile, e gli avvenimenti successivi ne hanno portato le tracce: il nostro partito ha pubblicato un piccolissimo opuscolo che racconta l’edificante storia di questi fatti. A Napoli i politicanti riformisti e i candidati di professione erano massoni; e lo erano anche i militanti più noti e i capi dei raggruppamenti sindacalisti rivoluzionari.

La politica del partito e delle organizzazioni operaie veniva decisa in anticipo nelle logge massoniche, che spendevano a tal fine non poco denaro, fornito dai loro affiliati borghesi. Lo scandalo fu più grande che altrove, ma il metodo era generale e veniva applicato nei confronti di tutto il movimento operaio italiano.

* * *

Ecco perché il comunista italiano, che si ricorda come tale questione abbia potuto facilmente essere risolta prima della guerra, quando non avevamo ancora né un’Internazionale rivoluzionaria né dei partiti comunisti, si meraviglia nel sentire ancora chiedere perché non si potrebbe essere nello stesso tempo massone e buon militante comunista. Tanta incomprensione dimostra ancora oggi che il problema deve essere risolto in linea di principio. In Francia la questione massonica ha per lo meno la stessa importanza che in Italia. Basti ricordare del periodo “combista”,2 in cui l’isteria anticlericale borghese raggiunse il suo apogeo. Un altro fatto, che il movimento massonico sfruttò dovunque, e in Italia non meno che altrove, fu l’esecuzione di Francisco Ferrer.

Ferrer era anarchico: l’anarchico spagnolo Malato mi dichiarò in un’intervista del 1913 di aver abbandonato la massoneria perché essa, che aveva sfruttato dappertutto il cadavere di Ferrer, in Spagna non aveva fatto nulla per salvarlo. Ma la grande manifestazione parigina che ebbe luogo nella serata stessa del giorno dell’esecuzione era diretta da Édouard Vaillant, che arringò la folla dall’alto della scalinata della Sorbona vestito delle insegne ufficiali dell’ordine massonico, cosa che, secondo il complicatissimo rituale massonico, avviene unicamente in situazioni del tutto eccezionali.

La questione della massoneria giunge a mostrarci quale utilità positiva vi sia sempre nel mettere della precisione nei nostri metodi di lotta. La pigrizia caratteristica dell’opportunismo riformista ci ha ficcato in testa, dopo d’allora, l’argomento secondo cui tutti i mezzi sono buoni ammesso che si sia socialisti, e che si deve penetrare anche nelle logge massoniche per militarvi. Vediamo invece che, in quell’ambiente dominato dagli elementi borghesi, erano i socialisti ad essere influenzati e deformati nella loro ideologia di classe.

Ma che cos’è il socialismo? Il socialismo all’epoca delle nostre lotte contro la massoneria si stava trasformando in un ideale beneducato, in grado di mostrarsi nella buona società e nei saloni alla moda. Diventava una variante del democratismo borghese, pacifista, umanitario, amico della civiltà e del progresso, detentore del monopolio della scienza che illuminava l’umanità ignorante e della filantropia che consolava le sue sofferenze. Il socialismo si era dimenticato di essere nato dalla più formidabile critica che si era opposta alla democrazia borghese e al cumulo di ipocrisia e di menzogne sul quale essa è stata costruita grazie all’ingenuità di coloro che stanno alla base e alla furbizia di quelli che occupano il vertice. Potemmo ristabilire, per noi stessi e per il proletariato, queste verità feconde nella dottrina e nella propaganda grazie allo slancio iconoclasta con cui facevamo penetrare la luce nelle ombre discrete del tempio del Grande Architetto.

La polemica ci forniva delle armi contro il riformismo evoluzionista, la collaborazione di classe e il falso umanitarismo borghese, che dovevano dar vita al nazionalismo più sanguinario. In questa evoluzione la sinistra borghese democratica e massonica non fu affatto da meno della destra cattolica e reazionaria, in Francia più che altrove.

C’era anche il vantaggio di far rispettare energicamente la disciplina del partito proletario e di salvaguardarne l’organizzazione contro la penetrazione delle influenze borghesi. Che cos’è la disciplina politica? La sua caratteristica fondamentale risiede nell’unità. Non si possono avere “due” discipline. Il membro del partito, che deve essere pronto in ogni momento a ricevere la parola

d’ordine del suo partito, non può impegnarsi – e per di più segretamente – ad eseguire un ordine diverso, attinente agli stessi problemi, che provenga dalla massoneria o da altre organizzazioni del genere.

La prova di questa incompatibilità, che è tanto teorica quanto pratica, ci è stata fornita da numerosi fatti; basti dire che, quando il partito stabilì una tattica elettorale intransigente, i suoi membri massoni, che erano tenuti a sostenere il blocco di sinistra, furono spinti a infrangerne la disciplina. Così si producevano i più spiacevoli conflitti.

L’epurazione del partito dagli elementi che concepivano il socialismo e la sua disciplina in maniera tanto ridicola e sorprendente si rivelò, in Italia, di un’immensa utilità. Gli operai rimasero con noi. Gli arrivisti e i parassiti del movimento proletario ci abbandonarono in gran numero. Una simile operazione non può che essere ricca di buoni risultati. Nascondersi il male sarebbe un crimine, per un partito che vuole essere comunista. I nostri amici francesi debbono porre la questione in tutta la sua ampiezza, svilupparne l’aspetto ideologico e attuare coraggiosamente l’epurazione che si impone: benché sia tardi per farlo, questa campagna antimassonica deve essere intrapresa, in conformità con le risoluzioni dell’Internazionale, alla luce del sole di fronte al proletariato francese, al quale la menzogna democratica stringe dolcemente il collo per strangolarlo.


[Amadeo] Bordiga, “Le mouvement ouvrier italien et la Franc-Maçonerien” (sic), La Correspondance Internationale, a. II, n. 97, 16 dicembre 1922, pp. 740-741; traduzione dal francese di Paolo Casciola

mercoledì 19 gennaio 2022

Da leggere: Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione

 


Negli anni del nostro scontento
Diario della controrivoluzione

Questo libro è un diario pubblico esente da buoni sentimenti, che registra e commenta, giorno dopo giorno, la grande trasformazione del modo di produzione dominante, delle forme di vita, degli stili di pensiero, seguita alla sconfitta dei movimenti rivoluzionari. 

L’autore, che di quei movimenti fece parte e insieme a molti altri fu imprigionato, dopo la sconfitta si è dedicato alla filosofia. Ma dal 1988 al 1991 ha osservato la controrivoluzione capitalistica: non una restaurazione dell’ordine antico, ma una rivoluzione al contrario, impetuosa e cruenta. Innovazione del processo lavorativo: flessibilità, part-time, prevalenza di prestazioni linguistiche e cognitive. Innovazione della sfera sentimentale, con il dilagare di paura, cinismo, opportunismo. Innovazioni filosofiche, dal «pensiero debole» a teorie della mente ignare di storia e politica. 

L’autore recensisce il libro di memorie del giudice che lo ha condannato, discute della scomparsa dei flipper, beffeggia Habermas e Vattimo, racconta la fine ingloriosa del Pci e del socialismo sovietico, elegge l’esodo a modello politico. E si trattiene volentieri su piccole cose, incidenti quotidiani, programmi televisivi ridicoli o infami, voci dal sen fuggite: come si addice a ogni diario pubblico che si rispetti.

(Dalla presentazione editoriale)


Paolo Virno
Negli anni del nostro scontento
Diario della controrivoluzione
DeriveApprodi, 2022
20,00

12 tavole di Asger Jorn (1960)

 

12 TAVOLE DI ASGER JORN
DA STAVRIM, SONETTER (1960)
a cura di Sandro Ricaldone


Entr'acte
via sant'Agnese 19R – Genova
20 gennaio – 11 febbraio 2022
giovedì-venerdì 16-19
https://www.entractegenova.it

Nel marzo del 1960, in occasione del quarantesimo compleanno di Jørgen Nash usciva a Copenhagen, per i tipi di Permild & Rosengreen, Stavrim, Sonetter, un volume di poesie illustrato da diciotto tavole di matrice informale e di straordinaria qualità immaginativa, realizzate dal fratello minore Asger Jorn nel corso degli anni Cinquanta, dodici delle quali vengono presentate nella mostra allestita nello spazio di Entr’acte dal 20 gennaio all’11 febbraio 2022.

All’epoca Nash e Jorn erano membri dell’Internationale situationniste, dalla quale Nash verrà espulso nel 1962, (fonderà allora la Seconda Internazionale situazionista nella sua fattoria di Drakabygget, in Svezia), mentre Jorn, pur rimanendo vicino alle posizioni di Debord e continuando a partecipare all’organizzazione sotto pseudonimo, si era ufficialmente ritirato l’anno precedente.

Stavrim, sonetter verrà successivamente ripubblicato senza variazioni da Gyldendal nel 1966.

La mostra sarà visitabile osservando le disposizioni vigenti per il contenimento del contagio (SuperGreenPass, mascherina FFP2 obbligatoria, accesso limitato a due persone per volta).

I lavori in mostra potranno peraltro essere fruiti anche a distanza, accedendo alla pagina FB di Entr’acte: https://www.facebook.com/EntracteGenova.

sabato 15 gennaio 2022

L’alchimia delle bolle, un gioco antico

 


Raffaele K. Salinari

L’alchimia delle bolle, un gioco antico

Dalla forma alla pratica. Tra scienza ed esoterismo, dagli egizi agli studi di Newton, alle simbologie dei dipinti

Un antico gioco di bimbi e un’ancora più antica Arte per conoscere e riconoscersi nei segreti della Natura: le bolle di sapone e l’Alchimia. Nelle immagini che nascono da questa poetica relazione possiamo, in realtà, trovare concretissime suggestioni su come affrontare le sfide delle mutazioni ambientali, su quali tecnologie, ma soprattutto quale forma mentis dobbiamo acquisire per riequilibrare le vite umane alle altre che condividono con noi l’unico pianeta per ora disponibile. Vediamo come.

Le bolle di sapone

Abbi divertimento sulla terra e sul mare, Infelice è il diventare famoso! Ricchezze, onori, false illusioni di questo mondo. Tutto non è che bolle di sapone. Il sonetto, che riprende il titolo del quadro che stiamo per utilizzare in questo viaggio alchemico attraverso le bolle di sapone, veniva citato il 9 dicembre 1992 dal fisico francese Pierre-Gilles de Gennes, professore al Collège de France, dopo il conferimento del premio Nobel per la fisica. La poesia, come ci ricorda Michele Emmer nel suo libro Bolle di sapone tra arte e matematica (2009), compare come chiosa di una incisione del 1758 di Jean Daullé dall’opera andata perduta di François Boucher La souffleuse de savon.

La storia della relazione tra le bolle di sapone e l’Alchimia molto probabilmente inizia con l’uso del sapone, già diffuso nell’antichità egizia ed anch’esso prodotto di scarto delle manipolazioni alchemiche, come tanti altri quali l’acqua ragia, in origine Acqua Regia, scoperta dall’alchimista persiano Gerber già nel settimo secolo. Nell’estremo Oriente molte sono le stampe che raffigurano maestri Zen che indicano con il loro sorriso ineffabile agli apprenditi estasiati il volo delle bolle di sapone prodotte accidentalmente dal vento passando attraverso le maglie di un tessuto insaponato: metafora materiale della leggerezza e della lievità dello Spirito, l’essenza del Neidan, l’Alchimia interiore.

Con l’affermarsi del metodo galileiano le bolle di sapone divengono materia di osservazione scientifica e non solo un gioco infantile. Ora, sia detto per inciso, questa espressione «gioco di bimbi», viene spesso usata nell’Arte Regia per designare la via stessa che porta al suo segreto, con un chiaro riferimento alla purezza dello spirito che l’operatore deve avere per accostarsi alle verità ultime della materia e soprattutto di ciò che la vitalizza. Nell’Alchimia cosiddetta cristiana, centrale è infatti il sinite parvulos venire ad me (Marco 10, 14)… talium enim est regnum Dei. Amen dico vobis: quisque non receperit regnum Dei velut parvulus, non intrabit in illud.

E così le bolle di sapone divengono uno strumento scientifico, specie agli occhi di studioso di grande levatura come il Libero Muratore, ma anche esperto alchimista, fisico e matematico nonché fondatore della Royal Society come Isaac Newton il quale, racconta una storia, occupato nei suoi studi di ottica, vede per caso un fanciullo che fa le bolle di sapone e in quelle osserva il fenomeno dei colori per la rifrazione dei raggi luminosi. Più di cento anni dopo il conte Paolo Tosio di Brescia in una lettera del 13 settembre 1824 al pittore Pelagio Palagi la racconterà per descrivere la scena del dipinto che gli voleva commissionare e che oggi si trova col titolo: Newton scopre la teoria della rifrazione della luce, a Brescia presso i Musei Civici d’Arte e Storia.

In effetto, Isaac Newton nella sua Opticks descrive in dettaglio i fenomeni che si osservano sulla superficie delle bolle di sapone: «Se si forma una bolla con dell’acqua resa prima più viscosa sciogliendovi un poco di sapone, è molto facile osservare che dopo un po’ sulla sua superficie apparirà una grande varietà di colori. Per impedire che le bolle vengano agitate troppo dall’aria esterna (con il risultato che i colori si mescolerebbero irregolarmente impedendo una accurata osservazione), immediatamente dopo averne formata una, la coprivo con un contenitore trasparente, ed in questo modo i suoi colori si disponevano secondo un ordine molto regolare, come tanti anelli concentrici a partire dalla parte alta della bolla. Via via che la bolla diventava più sottile per la continua diminuzione dell’acqua contenuta, tali anelli si dilatavano lentamente e ricoprivano tutta la bolla, scendendo verso la parte bassa ove infine sparivano. Allo stesso tempo, dopo che tutti i colori erano comparsi nella parte più alta, si formava al centro degli anelli una piccola macchia nera rotonda che continuava a dilatarsi».

Alla fine di una successiva osservazione, la numero 18, aggiunge: «Nel frattempo nella parte alta che era di un blu scuro, e appariva anche cosparsa di molte macchie blu più scure che altrove, comparivano una o più macchie nere e tra queste altre macchie di un nero più intenso […] e queste si dilatavano progressivamente fino a che la bolla si rompeva […]. Da questa descrizione si può dedurre che tali colori compaiono quando la bolla è più spessa».

Ora, questa che sembra une mera osservazione scientifica, cioè puramente rivolta alla natura fisica della luce, nasconde, come la macchia oscura che Newton osserva, una verità esoterica nota in Alchimia come Coda del Pavone. E la bolla diventa così un prisma morente, un cristallo, il Cristo ermetico sulla croce: INRI: igne natura renovatur integra, cioè la natura si rinnova interamente nel fuoco, là dove l’Artista spera di ottenere infine la Pietra Filosofale: lo Spirito corporificato.


    K. Dujardin, Ragazzo che soffia bolle di sapone (1663)

Il quadro allegorico

Esiste un quadro del pittore Karel Dujardin titolato Ragazzo che soffia bolle di sapone. Allegoria della transitorietà e della brevità della vita umana (1663) che epitomizza, come solo certe opere d’arte hanno il potere di fare, la densità simbolico-alchemica delle bolle di sapone, e dunque anche le possibili suggestioni per evolvere l’attuale fase della modernità, il cosiddetto atropocene. Il ragazzo è in piedi su di una conchiglia, una Capasanta per la precisione, la stessa che, dai tempi mitici dell’antica Grecia, la vede come simbolo di Afrodite, la Dea della Bellezza e dell’Amore.

Nata attorno al membro di Urano gettato nel vasto mare dopo la sua evirazione da parte di Crono, Afrodite, dal greco afros, significa al tempo stesso spuma ma anche sperma, simboleggiando dunque la forza irrefrenabile e invincibile della passione erotica temperata, però, all’Armonia che sempre caratterizza la vera Bellezza. Da questo mare dunque tutto nasce, prende vita, ma anche tutto ritorna, dato che la Dea nasce dall’acqua stessa, fonte di ogni virtualità e trasformatrice di ogni sostanza.

Ma Venere è anche la dea dell’alleanza tra il cielo e la terra, dato che dal primo essa discende mentre, mettendo piede sulla terra la rende fiorita, come possiamo vedere nel ciclo delle belle allegorie a lei dedicate nel Palazzo Te a Mantova. Per rendere ancora più visibile questa presenza invisibile, ecco che una delle bolle di sapone disegna una mezza luna, sostegno ancora oggi della Vergine, ed al suo fianco brilla la stella del mattino e della sera, Venere appunto «che ‘l sol vagheggia or da coppa or da ciglio», come magistralmente la descrive Dante (Paradiso VIII, 12).

I punti toccati dal pianeta brillante nella sua orbita celeste disegnano un pentalfa perfetto, simbolo che Arturo Reghini, latomista e matematico insigne, ha lungamente studiato nelle sue dissertazione sui numeri pitagorici, come ci dice l’omonimo libro a cura di Stefano Loretoni e Christian Scimiterna, e che ancora fanno parte del percorso iniziatico di alcuni riti di perfezionamento della Libera Muratoria come il Rito Simbolico Italiano.

E allora possiamo pensare il bel giovane del dipinto come una ipostasi di Eros stesso, non armato delle sue tradizionali frecce d’oro e di piombo, ma di queste lievissime bolle di sapone che ammira mentre lui stesso le crea. I suoi piedi posano su una forma che potrebbe al tempo stesso essere sia una bolla di sapone sia una perla trasparente, dato che da essa si diparte un filo di queste ultime sino a perdersi nel mare.

La simbologia ermetica

Il quadro esprime così un’allegoria molto più complessa di quella che da il nome al dipinto, la cui ulteriore lettura ci porterà sottili suggestioni per uscire da questo tunnel di distruzione ed autodistruzione che stiamo ciecamente percorrendo. L’alchimia infatti, l’Arte di Ermes, è l’antica Arte della trasmutazione di se stessi nelle cose, la capacità cioè di immedesimarsi nei fenomeni naturali e di accordare ad essi la propria esistenza personale e collettiva. Ermes è il dio dei transiti, degli scambi, ma anche del segreto, del silenzio che si deve alle cose ineffabili. Egli è anche psicopompo, traghetta cioè le anime nella loro dimora forse definitiva.

La prima cosa che notiamo allora è, abbiamo detto, la conchiglia. È quella che vediamo sui pettorali dei Pellegrini che si recano a San Giacomo di Compostela, ma che troviamo, insieme alla mezzaluna, anche come simbolo della Madre di Dio, la versione cristiana della Grande Dea creatrice, la Natura Naturans che tutto genera nel suo grembo, Iside velata cui «nessun mortale ha mai osato sollevare il velo», come ci ricorda Plutarco. Ma la tradizione alchemica ci dice che fare un pellegrinaggio a San Giacomo di Compostela significa anche intraprendere il magistero della Grande Opera, di quella trasmutazione del proprio vile metallo, il piombo, in oro, il metallo incorruttibile, simbolo solare dello Spirito «che soffia dove vuole». Ecco allora che il bel bambino poggia sulla Natura stessa, come il lavoro dell’alchimista, a sua volta galleggiante sul mare, come noi tutti dovremmo comprendere con umiltà e riconoscenza.

La figura del ragazzo è poi addobbata da una semplice veste e da un leggero mantello mosso dal vento, come fosse una vela che lo porta lontano da quella terra che si vede in lontananza: una landa scura, quasi minacciosa, irta di torri da difesa. Qui riappare allora una Pathosformel, termine coniato da Aby Warburg per definire alcune immagini che ritornano in contesti differenti attraverso i secoli della storia dell’arte. In particolare Warburg aveva «fissato» la sua attenzione, e non usiamo il termine a caso come vedremo tra poco, sulla figura della Ninfa, ipostasi delle forze elementari che condividono con noi la casa comune, e che egli aveva infine individuato nella costante archetipica del panneggio ondulato mosso da una brezza sottile, o dal suo stesso movimento, come quelli della Venere di Botticelli, della Gradiva del racconto visionario di W. Jensen che tanto fece riflettere S. Freud, o della «signorina-porta-in-fretta» come lo stesso Warburg chiamava la figura dipinta dal Ghirlandaio per la Nascita del Battista nella cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella a Firenze e che lo fece letteralmente impazzire.

Il Battista è «colui il quale da i nomi», e dunque che fa esistere le cose, ragione del suo decollamento da parte di Erode Antipa su istigazione di Salomè, come ci ricorda Franco Farinelli nei suoi studi sulle proiezioni cartografiche tolemaiche. Ma, non a caso, la «polvere di proiezione», è una delle caratteristiche della Pietra Filosofale, che in questo caso non serve a proiettare su un piano una superficie sferica ma, al contrario, far convergere il piano della realtà fenomenica verso la Sfera Universale dell’Uno: ciò che ascende converge.

Anche la fila di perle ha un significato profondo: già Giordano Bruno, martire del libero pensiero, sosteneva l’esistenza di «infiniti mondi», non solo nello spazio ma anche nel tempo, esattamente come troviamo detto nella cosmologia induista nella quale Brama «apre e chiude ogni giorno i suoi occhi su un cosmo differente», introducendo così l’immagine della catena dei mondi, come fossero appunto perle di una stessa ininterrotta collana che, però, come nel dipinto, si perde nell’infinito mare dell’Essere.

Infine, ma non meno importante, le perle toccano un ramo di corallo rosso, simbolo della rigenerazione e della trasmutazione della materia, di quella «fissazione», in questo caso dal fluente principio acqueo, che Ovidio ben descrive nel brano delle Metamorfosi (IV, 740-752) dove parla di Perseo e della testa di Medusa :«L’eroe intanto attinge acqua e si lava le mani vittoriose; poi, perché la rena ruvida non danneggi il capo irto di serpi della figlia di Forco, l’ammorbidisce con le foglie, la copre di ramoscelli acquatici e vi depone la faccia di Medusa. I ramoscelli freschi ancora vivi ne assorbono nel midollo la forza e a contatto con il mostro s’induriscono, assumendo nei bracci e nelle foglie una rigidità mai vista. Le ninfe del mare riprovano con molti altri ramoscelli e si divertono a vedere il prodigio che si ripete; così li fanno moltiplicare gettandone i semi nel mare. Ancor oggi i coralli conservano immutata la proprietà d’indurirsi a contatto dell’aria, per cui ciò che nell’acqua era vimine, spuntandone fuori si pietrifica».

Fissare il volatile

Ma, evidentemente, ciò che caratterizza il quadro è il gesto focale della produzione di bolle di sapone. E questo ci porta molto vicino alla soluzione di uno dei grandi problemi discussi, con più o meno successo, nelle tante conferenze sul clima: il livello di CO2. Ora noi sappiamo che una delle cause dei mutamenti climatici, ed usiamo la parola mutazione e non cambiamento a ragion veduta, mutuandola anche dalla medicina oncologica, è appunto l’aumento del livello di anidride carbonica nell’atmosfera. Sappiamo anche che gli alberi sono i grandi «fissatori» di questo prodotto organico, attraverso il Ciclo oscuro, altro prezioso riferimento all’Opera al Nero, ma che al momento le estese deforestazioni e l’eccesso della sua produzione non ne permettono l’assorbimento richiesto. E allora? Ecco che ricompare una delle formule centrali del Magistero Alchemico: fissare il volatile. Tutta l’Opera è rivolta a raggiungere questo scopo, che in realtà tende a «fissare» lo Spirito, cioè il Principio vitale innato ed incondizionato, che sostiene tutte le forme del vivente. E con la parola «vivente» non si intende solamente ciò che si muove o passa da uno stato di vita ad uno di morte, ma tutta la materia creata, tutto ciò che vibra e si trasforma. Fissare il volatile significa dunque sentire questa presenza in ogni cosa e, così avvertendola, agire nel rispetto di ciò che unisce tra di loro tutte le forme manifestate. E allora, quando produciamo una bolla di sapone, non stiamo in qualche modo fissando il volatile? Non è esattamente un frammento di CO2 quello che per un solo fantastico momento, stiamo intrappolando nella nostra effimera creazione? L’Armonia delle bolle di sapone corrisponde così al ritmo armonico del respiro della Natura stessa; non è forse di questa semplice identificazione che abbiamo bisogno per rinascere al Tutto?

il Manifesto/Alias – 15 gennaio 2022


lunedì 10 gennaio 2022

Sulle Ramblas di Barcellona in tempo di rivoluzione.

 


Mary Low e Juan Brea, inglese lei, cubano lui, poeti surrealisti e militanti trotskisti, nel 1936 corrono a Barcellona ad arruolarsi nelle milizie del POUM. Costretti dalla controrivoluzione stalinista ad abbandonare la Spagna, scriveranno nel 1937 un libro sulla loro esperienza di valore almeno pari al molto più celebre “Omaggio alla Catalogna” di George Orwell. Finora mai tradotto e dunque praticamente sconosciuto, ne stiamo curando la prima edizione italiana di cui presentiamo una pagina.


Mary Low

Sulle Ramblas di Barcellona in tempo di rivoluzione.


Cominciammo a camminare per le stradine che si snodano tra le vie principali. Di tanto in tanto grandi fogli di carta bianca incollati sopra la targa di un negozio o di un'attività commerciale attiravano la nostra attenzione. C'era scritto: "Requisito da..." e poi seguiva il nome di uno dei partiti dei lavoratori. Sulle facciate delle case c'erano scritte con le sigle frettolosamente scarabocchiate in rosso dei partiti che le avevano occupate. Era tutto straordinariamente eccitante. Mi guardai intorno. Una sensazione di rinnovata forza e attività sembrava irradiarsi dalla folla di persone che riempiva le strade.

Siamo tornati sulle Ramblas e siamo rimasti a guardare il trambusto Tutto sembrava concentrarsi lì. Le bandiere sventolavano dalle facciate delle case, formando un lungo viale di un rosso abbagliante. Sprazzi di bianco e nero offrivano occasionalmente un contrappunto ai colori. Nell'aria c'era un intenso frastuono di altoparlanti e la gente era riunita in gruppi qua e là sotto gli alberi, con i visi alzati verso il piatto rotondo da cui sgorgavano gli slogan. Andavamo da un gruppo all'altro e ascoltavamo anche noi. Era quasi sempre gente che parlava della rivoluzione e della guerra, a volte si sentiva una voce di donna, ma erano soprattutto voci di uomini. Negli intervalli, frammenti dell'"Internazionale" rimbalzavano sulla folla.

Camminavamo in una sensazione di aria e di luce. Passammo vicino ad un albero con un nastro e fiori, proprio dove un uomo era caduto combattendo. Miliziani e marinai ci passavano accanto, a braccetto, o percorrendo rumorosamente su camion le vie adiacenti, brandendo in alto fucili, di cui la luce intensa del sole faceva scintillare le canne. Le caserme erano state abbattute e al loro posto c'erano spiazzi vuoti pieni di una terra biancastra e polverosa.

Su ogni lato della passeggiata centrale c'era una folla di piccole bancarelle allineate sotto gli alberi  e mentre proseguivamo, ci avvicinammo per vedere cosa vendevano e compravano con tanto impegno. All'inizio c'erano donne anziane, sedute con le ginocchia spalancate sotto strati di gonne , su cui poggiavano vassoi di caramelle. I dolci erano di color verde, ambrato, marrone e nero, ognuno impilato nel mucchietto del suo colore, tagliati a quadratini e ogni quadratino avvolto in carta lucida. Erano trasparenti, come mattoncini di acqua colorata ammucchiati e brillanti alla luce del sole. Accanto a loro uomini accovacciati sul marciapiede con i loro zoccoli bianchi, davanti a loro cravatte di seta rossa e fazzoletti ricamati con la falce e il martello. Poi, un gran numero di bancarelle di berretti da miliziano. Infine, c'erano i distintivi.

Mi sono avvicinata ad una bancarella e li ho esaminati con curiosità. Ce n'erano di tutti i tipi e forme, fatti con le iniziali dei vari partiti. Alcuni erano molto attraenti - grandi scudi d'argento, con la falce e il martello in rosso, o in bianco su uno sfondo come una stella rossa, e poi altri di forma quadrata divisi diagonalmente in due triangoli, uno nero e uno rosso, i colori dell'anarchia. Era sorprendente quanti tipi diversi ce ne fossero, e quanta gente li vendesse. Mi guardai intorno sulle Ramblas. Quasi tutti portavano un qualche tipo di distintivo appuntato sulla camicia.

(Mary Low-Juan Brea, Taccuino rosso spagnolo – Traduzione nostra)

domenica 9 gennaio 2022

Ciao, Gigi


Ciao, Gigi

E così, in silenzio, all'improvviso, se ne è andato anche Gigi. L'avevo incontrato poco prima di Natale al Prolungamento, io diretto al Priamar, lui alla spiaggia per un tuffo invernale che era, come mi raccontò, ormai diventata una abitudine quotidiana. Abbiamo parlato a lungo, come fanno i vecchi, del tempo che passava e di noi che ce ne andavamo con lui senza sapere bene dove fossimo diretti. Con la sua solita aria sfottente, Gigi aveva, ridendo, detto cose molto profonde in cui mi ritrovavo totalmente.

Gigi rideva sempre e buttava tutto in battuta, ma in lui ho sempre visto una vena malinconica e un po' amara, come di chi abbia ben chiara l'inumanità del mondo in cui ci tocca vivere e come la solitudine e l'incomprensione siano purtroppo spesso il prezzo da pagare proprio per averlo capito e detto.

A Gigi volevo bene. Insieme avevamo fatto parecchie cose e altre ancora ne avremmo fatte se non fosse arrivato il covid a bloccare tutto. Di tutte ricordo l'intervento sul carcere di Savona e il giornaletto che insieme facemmo, finché ce lo lasciarono fare, io come responsabile della scuola in carcere e lui come animatore culturale.

Quando quell'esperienza finì, e finì presto perché alle "Autorità" non garbava, un giovane detenuto nordafricano mi regalò una sura del Corano dipinta su un foglio da disegno. "Non avere paura - diceva - perché anche nei momenti più difficili non sei mai solo. Il Signore cammina al tuo fianco".

Non avere paura, Gigi, cammina tranquillo sul nuovo sentiero che hai intrapreso, noi non ti dimentichiamo e siamo con il nostro cuore accanto a te.


venerdì 7 gennaio 2022

I briganti di Trisulti e di Collepardo

 


Poco prima che il covid rendesse impossibile viaggiare, ho avuto la fortuna, grazie alla disponibilità di una coppia di amici espertissimi dei posti, di poter girare in lungo e in largo la Ciociaria, straordinario scrigno di ricchezze paesaggistiche, architettoniche, artistiche e storiche. Tra queste la splendida abbazia di Trisulti, spersa nei boschi e tra le montagne. Arrivarci fu un'impresa, ma ne valeva la pena. Il carattere selvaggio dei luoghi, che contrastava con l'eleganza geometrica dei giardini e l'armonia degli edifici abbaziali, ben si addiceva alla meditazione e al raccoglimento dei monaci, ma anche – lo scopro oggi sfogliando un vecchio libro del 1897 – ad imprese sicuramente meno mistiche. Inutile dire che il post è dedicato a Sergio e Marcella, con l'augurio che l'anno nuovo ci permetta di riprendere a viaggiare insieme. (G.A.)


I briganti di Trisulti e di Collepardo


I briganti quando si videro attaccati e cacciati a fucilate da quelle località, dove fino allora per colpa di pochi ed indegni funzionari e di molti paurosi possidenti, avevano trovato protezione e ricovero, giurarono di vendicarsi. Alle minaccie tennero ben presto dietro i fatti, e quei disgraziati paesi, fino allora tranquilli, furono teatro di ogni sorta' di rapine e delle più efferrate scelleratezze degne appena dei popoli più barbari e selvaggi.

II Governo, a giusta ragione impensierito, nulla risparmiò per estirpare tanto flagello; spese ingenti somme, basti dire che dallo scorcio del 1865 ai primi del 1870 nella sola provincia di Fresinone le spese straordinarie per il brigantaggio ammontarono a due milioni e cinquecentomila lire!

Le truppe furono ancora aumentate, ebbero armi speciali, e retribuite come in tempo di guerra.

Le più rigorose misure vennero adottate per impedire ogni transito d’armi e di viveri ai briganti sulle montagne, c si obbligarono perfino i boscaiuoli ed i carbonari a non portare più viveri in montagna, anche in minime proporzioni, obbligandoli di scendere al piano, quando volevano mangiare, in date località occupate militarmente.


Trisulti.    L'abbazia vista dalla grande peschiera. 

Nei primi mesi del 1863 la località detta Prati di San Nicola, esteso altipiano nel territorio di Verdi — situato fra la storica Abbadia di Trisulti ed il villaggio di Collepardo, era uno dei punti più strategici, perché passaggio che conduceva alla Valle dell’Inferno ed altre contrade che servivano di quartier generale alle bande Fuoco, Cipriano La Gala, Ciciguerra Andreozzi, ecc.veniva giornalmente occupata da un forte distaccamento di truppa, agli ordini di un ufficiale. Il distaccamento a turno era fornito dalle guarnigioni stanziate in Trisulti e in Collepardo. Questo reparto di truppe frazionato in piccoli posti avanzati aveva incarico di impedire il transito di viveri di qualsiasi specie che potessero pervenire alle bande brigantesche, e t perquisire tutti i carbonari e boscaiuoli che per ragioni del loro mestiere dovevano recarsi in montagna.

I risultati di tale servizio, che durò vari mesi, furono soddisfacenti, perché costrinse i briganti colà annidati, circa 200,di abbandonare alla spicciolata quelle località, dopo essere stati attaccati e battuti in due scontri, ai quali presi parte, che avvennero il martedì e il venerdì santo della Pasqua di quell’anno, da varie colonne del 1° reggimento linea agli ordini del colonnello Azzanesi.

Durante quell’epoca le truppe stanziate nella provincia di Marittima e Campagna continuarono sempre ad inseguire ed a attaccare vivamente i briganti ovunque si trovavano.








mercoledì 5 gennaio 2022

La borghesia genovese e la tratta atlantica degli schiavi

 


Riprendiamo il tema già trattato del commercio degli schiavi nell'Atlantico, proponendo alcune pagine da “Marxismo negro. La formación de la tradición radical negra” di Cedric J. Robinson, in cui si dimostra come la tratta iniziò grazie agli ingenti investimenti di capitale da parte della borghesia genovese.*

La borghesia genovese e l'età della scoperta

Ancora più importanti di queste relazioni politiche, tuttavia, e più direttamente collegate al nostro interesse per i portoghesi come forza storica che pose le basi per la tratta degli schiavi dell'Atlantico, furono i mercanti e i banchieri di origine italiana stabiliti in Portogallo (e nei regni spagnoli) durante quel periodo. Anche se l'uso che Verlinden fa del termine "nazione" è figurativo piuttosto che politico, la sua valutazione del ruolo storico di quei capitalisti è utile:

l'Italia fu l'unica nazione veramente colonizzatrice durante il Medioevo. Dall'inizio delle crociate, Venezia, Pisa, Genova, poi Firenze e l'Italia meridionale sotto gli Angioini, così come sotto gli Aragonesi, erano interessati al Levante e alle possibilità economiche e coloniali che vi offriva il graduale declino dell'impero bizantino. Fu all'incirca nello stesso periodo che i mercanti italiani apparvero nella penisola iberica e ottennero un'influenza che doveva persistere fino al periodo moderno, sia nell'economia europea che in quella coloniale.10

Virginia Rau nota che "i primi riferimenti documentari disponibili sulle attività dei mercanti italiani in Portogallo risalgono al sexcolo XIII. Quando iniziamo a sentirne parlare, erano già entrati coraggiosamente nel mercato monetario portoghese.

Questi "commercianti italiani" erano in realtà (in ordine di importanza) genovesi, e figli di Piacenza, Milano, Firenze e Venezia. Rau spiega inoltre che nel XIV secolo, il cui inizio fu opportunamente segnato dalla nomina da parte del re Dinis [Dionisio "il Labrador"] di un genovese (Manuel Pessanha [Emanuele Pessagno]) all'ammiragliato portoghese nel 1317, Lisbona era diventata "il grande centro del commercio genovese".

Con Lisbona e Porto come basi operative, i capitalisti-traders genovesi [. ...] si integrarono in tutta la struttura del potere portoghese, servendo come prestatori di denaro alla monarchia, finanziatori delle ambizioni e delle avventure dello stato, monopolisti in base a carte di sicurezza reali, e infine nobili portoghesi attraverso una serie di eventi che includono decreti reali, matrimoni con la nobiltà nativa e la partecipazione a progetti militari organizzati dallo stato.

Proprio come l'esempio di Rau sulla famiglia Lomellini suggerirebbe- a partire dalla comparsa del mercante Bartholomeu Lomellini in Portogallo nel 1424 fino all'integrazione dei suoi eredi e parenti nell'aristocrazia terriera di Madeira e nella nobiltà peninsulare verso la fine del secolo - e, i principi mercanti genovesi ebbero molto più successo nel loro adattamento rispetto ai loro concorrenti compatrioti (cioè italiani).

A differenza degli arroganti veneziani, i genovesi si resero disponibili finanziariamente, intellettualmente e fraternamente ai loro ospiti. Come ha osservato Wallerstein:

Nella misura in cui [la borghesia portoghese] mancava di capitale, lo trovava facilmente disponibile nei genovesi, che, per ragioni proprie legate alla loro rivalità con Venezia, erano disposti a finanziare i portoghesi. E il potenziale conflitto tra gli indigeni e la borghesia straniera fu smorzato dal desiderio dei genovesi di incorporarsi alla fine nella cultura portoghese.

Mentre i veneziani continuavano a concentrarsi sul dominio del Mediterraneo, e i fiorentini sul loro commercio continentale e nord-atlantico di banche e lana, i genovesi si posizionarono per trarre vantaggio dal commercio che alla fine sarebbe progredito dal Maghreb al medio Atlantico e infine al commercio transatlantico. A metà del XV secolo fu il loro capitale a determinare la direzione e il ritmo della "scoperta". Verlinden osserva:

Lagos [Portogallo] divenne, dal 1310 circa, un porto importante sulla rotta dei convogli italiani verso l'Europa nord-occidentale. Se si ricorda che Lagos, molto più di Sagres, fu il punto di partenza delle prime scoperte portoghesi, l'importanza dei legami stabiliti lì con marinai e imprenditori italiani diventa più evidente.

Inoltre, fu lo status privilegiato di questi italiani in Portogallo a facilitare l'elaborazione a Roma della rivendicazione portoghese che si tradusse in bolle papali a protezione del commercio portoghese e dell'imperialismo statale.

E furono i capitalisti genovesi a sostenere i legami tra le classi dirigenti inglesi e portoghesi, favorendo una relazione con il commercio inglese e lo stato inglese che era direttamente complementare alla loro presenza in Portogallo. In Inghilterra, come in Portogallo, i genovesi costituivano la maggioranza dei mercanti italiani, che a loro volta costituivano la maggioranza dei mercanti stranieri in quel regno durante il XV secolo.

Anche lì ottennero esenzioni reali dalle tasse e dalle restrizioni commerciali, e riuscirono a monopolizzare le merci importate, come le medicine straniere (come la melassa medica) e altre droghe in voga in quel secolo, così come il sughero e lo zucchero portoghesi, dopo essersi assicurati una posizione di monopsonio nei loro punti di origine. Infine, anche in Inghilterra, come prestatori di denaro per i loro re e come intermediari e commercianti per i monopoli reali, arrivarono ad occupare posizioni importanti nel commercio inglese:

Invano gli inglesi protestarono contro i lussuosi privilegi ottenuti da questi mercanti dai re bisognosi, di cui erano diventati i finanziatori, chiedendo che si limitassero a beni di loro fabbricazione; incapaci di competere in ricchezza con le potenti città italiane, le piccole città inglesi ricevettero poca attenzione.

In un'Inghilterra dilaniata dalla guerra civile, dagli intrighi di palazzo e da una classe aristocratica in ascesa, l'appoggio finanziario degli italiani insieme al loro commercio e alle concomitanti fonti di informazioni poteva essere decisivo. La monarchia inglese, con i suoi collaboratori commerciali e finanziari italiani e non, si assicurò per il momento una certa indipendenza dalle sue classi aristocratiche e borghesi autoctone. Così i capitalisti italiani erano in una posizione decisiva per determinare il ritmo, il carattere e la struttura del primo commercio transatlantico di schiavi per il secolo successivo. Senza di loro e senza la complicità di una parte dell'aristocrazia inglese e delle classi mercantili portoghesi e inglesi, e, naturalmente, della nobiltà clericale di Roma, è dubbio che ci sarebbe mai stato un impero portoghese, e senza quell'impero nulla sarebbe stato come è stato.

Cedric J, Robinson, Marxismo negro. La formación de la tradición radical negra, Madrid 2019, Editorial Traficantes de Sueños, pp. 200-203

* Per rendere più scorrevole il testo sono state omesse le numerose note

(.Nostra traduzione dallo spagnolo)