domenica 25 giugno 2023

Putin, la rivoluzione d'Ottobre e i mercenari di Prigožin









Stemma dei tagliagole della Wagner


E adesso vediamo se i filoputiniani di casa nostra (ANPI e neostalinisti vari) avranno ancora il coraggio di sostenere le "ragioni" di Putin.

PUTIN, IMPAURITO DAI MERCENARI DI PRIGOŽIN

rinnega la Rivoluzione del 1917 e di fatto s’identifica con lo zar Nicola II

Di Piero Bernocchi


Incredibile ma vero: Putin nel panico rinnega la rivoluzione russa del '17 (quella dell'Ottobre) e di fatto s'identifica con lo zar Nicola II. Dice, infatti, non solo che la ribellione armata messa in atto dai gruppi paramilitari Wagner di Prigožin contro l’esercito regolare rappresenta una minaccia mortale per la Russia, ma va ben oltre, paragonandola con “la pugnalata alle spalle del 1917 che ha consegnato la vittoria al nemico comune nella Prima guerra mondiale". Come già fatto dal suo illustre predecessore e modello Iosif Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin ("uomo d'acciaio"), nel momento del massimo pericolo se ne fotte di storia, princìpi, ideologia e fa appello alla Grande Madre Russia. Che, aggiunge, sta subendo un tradimento analogo a quello del '17 ("Quello che stiamo affrontando non è altro che un tradimento causato dalle eccessive ambizioni”). Come allora, secondo Putin, "il tradimento potrebbe avere conseguenze catastrofiche"; e come allora, “intrighi, litigi, politica alle spalle dell'esercito e del popolo si sono trasformati nel più grande shock, la distruzione dell'esercito e il crollo dello Stato, la perdita di vasti territori”. Dunque, questo fu il risultato della Rivoluzione russa dell'Ottobre, secondo Putin: distruzione dell'esercito e crollo dello Stato, perdita di vasti territori.  E il tutto provocato non dalla volontà di chiudere con lo zarismo e con un regime feudale, ma, miserabilmente, da intrighi, litigi, politica alle spalle dell'esercito e del popolo. Alla fin fine questo, e non altri motivi "nobili", avrebbe spinto i bolcevichi a fare la rivoluzione, con gli effetti "catastrofici" sottolineati da Putin.

Sbalorditivo, no? Certo, tra tutti i possibili sviluppi dell'invasione russa dell'Ucraina, questo era davvero il meno prevedibile, di sicuro quello che Putin, autistico e solipsista come tutti gli autocrati dal comportamento e dalle pratiche dittatoriali, non aveva manco preso in considerazione. L'imperialismo sovietico, nel corso di una settantina di anni, di infamie e imprese ignobili ne ha compiute una infinità, ma la follia di mettersi nelle mani di eserciti mercenari, per giunta in un'impresa ad altissimo rischio come  l'invasione dell'Ucraina, non l'aveva mai fatto. E invece il neoimperialismo russo, rilanciato da Putin nell'ultimo ventennio, è riuscito a dare a decine di migliaia di feroci professionisti della guerra e a un losco figuro come Prigožin un potere inaudito, cancellando il fatto che i mercenari si chiamano così perchè guerreggiano per denaro, non hanno ideali nè bandiere o princìpi, e vanno con chi paga di più e meglio.

Poi Prigožin si accontenterà delle sinecure che Putin sembra disposto a concedergli in extremis, con la Wagner a 200 km da Mosca, e della dimostrazione data al mondo che Putin non era e non sarebbe in grado di fermarlo: e magari anche i suoi mercenari se la caveranno in qualche modo. Ma il colpo al prestigio e alla credibilità putiniana è di quelli mortali, e inciderà ulteriormente sul morale, già bassissimo, delle truppe russe, regolari o mercenarie, sul fronte ucraino, con possibili conseguenze assai rilevanti sull'andamento della guerra e sui tempi della sua auspicabile fine. E dire che ancora fino a pochi mesi fa, per il 99% dei pacifisti italiani (veri o finti, "storici" o dell'ultimissima ora) l'unica possibilità di fine della guerra non poteva che essere la resa incondizionata dell'Ucraina: "tanto non hanno alcuna possibilità di vittoria, così prolungano solo distruzioni e massacri", era il leitmotiv ripetuto ossessivamente, di fatto incolpando non Putin e la Russia, ma gli ucraini del prolungamento delle atrocità in atto. E invece..

fonte:www.utopiarossa.blogspot.com

giovedì 22 giugno 2023

Sette occulte, gruppi iniziatici e Massoneria secondo Mircea Eliade

 


Mircea Eliade tenne nell’autunno 1956 presso l'Università di Chicago una serie di letture sotto il titolo Patterns of Initiation, poi raccolte in volume. Dall'edizione italiana, più volte ristampata, riprendiamo un passo delle conclusioni in cui si parla delle società iniziatiche nel mondo moderno. Da sottolineare, considerato anche la contiguità in età giovanile dello studioso alla Legione dell'Arcangelo Michele e al pensiero di Codreanu, la valutazione positiva della Massoneria.


Come abbiamo visto, il mondo moderno ignora le iniziazioni di tipo tradizionale. (...) Certo, esiste oggi un numero considerevole di sette occulte, di società segrete, di gruppi pseudo-iniziatici, di movimenti ermetici, neo-spiritualisti, ecc. La società teosofica, l’antroposofia, il neo-vedantismo e il neo-buddhismo, non sono che le espressioni più note di un fenomeno culturale presente un po’ in ogni parte del mondo occidentale.

Questo fenomeno non è nuovo. L’interesse per l’occultismo, accompagnato dalla tendenza a raggrupparsi in società segrete più o meno iniziatiche, spunta in Europa già nel secolo XVI e raggiunge il punto più alto nel secolo XVIII.

L’unico movimento segreto che presenta una certa coerenza ideologica, che ha già una storia e gode di prestigio sociale e politico è la massoneria.

Il resto delle organizzazioni di pretesa iniziatica è costituito per lo più da improvvisazioni recenti e ibride. Il loro interesse è soprattutto di ordine sociologico e psicologico: esse illustrano il disorientamento di una parte del mondo moderno, il desiderio di trovare un sostituto alla fede religiosa; illustrano pure l’irriducibile attrattiva per i ‘misteri’, per l’occulto, per l’aldilà, che fa parte integrante dell’essere umano e che è constatabile in tutte le epoche e a tutti i livelli di cultura, specialmente in tempo di crisi.

Non tutte le organizzazioni segrete ed esoteriche del. mondo moderno comportano rituali d’ingresso o cerimonie iniziatiche. L’iniziazione si riduce quasi sempre a un’istruzione libresca. ({Il numero di libri e di riviste ‘iniziatiche’ che vengono pubblicati nel mondo è impressionante). Quanto ai gruppi occulti che praticano un’iniziazione, se ne sa ben poco: si tratta di ‘riti’ inventati o ispirati da certi libri che si pensa custodiscano rivelazioni preziose sulle iniziazioni antiche.

I rituali detti ‘ iniziatici ’ denotano spesso una deplorevole povertà spirituale. Il fatto che gli adepti abbiano potuto vedervi dei mezzi infallibili per accedere alla gnosi suprema prova a che punto l’uomo moderno ha perso il senso dell’iniziazione tradizionale. Ma il successo di questi tentativi prova pure il bisogno profondo di essere ‘iniziato’, cioè di essere rigenerato, di partecipare alla vita dello spirito.

Da un certo punto di vista, le sette e i gruppi pseudo-iniziatici svolgono una funzione positiva, poiché aiutano l’uomo moderno a trovare un senso spirituale alla sua esistenza drasticamente desacralizzata. Uno psicologo direbbe perfino che la stravagante inautenticità dei riti sedicenti iniziatici importa poco; importante è che la psiche profonda di coloro che vi partecipano ritrovi, grazie a tali ‘riti’, un certo equilibrio.

(Mircea Eliade, La nascita mistica. Riti e simboli d'iniziazione, Morcelliana, p.191)


lunedì 19 giugno 2023

Lo spettacolo delle morti parallele

 


Raffaele K. Salinari

Lo spettacolo delle morti parallele


Un bimbo di cinque anni muore investito da una Lamborghini guidata da degli youtuber che stanno girando un video per incrementare i like del loro canale e continuare a fare soldi creando spettacolo voyeuristico.

La stampa ne parla, i sociologi ne discutono, l’opinione pubblica si interroga, mentre i loro video vengono cliccati e le grandi company inserzioniste aumentano i guadagni sulle pubblicità abbinate alle visualizzazioni.

Nello stesso momento nel mare centinaia di bambini muoiono annegati, senza nome, almeno per noi, senza volto, senza dibattito, senza interrogarsi sulle responsabilità collettive.

È solo «un altro Cutro», che sarà presto dimenticato: nessun guadagno, nessuna pubblicità, nessun like per loro; ma anche loro valgono più da morti che da vivi.

Ce lo spiega il filosofo Foucault che, nella sua celebre definizione di biopolitica, cioè della plusvalenza che si può ricavare direttamente dai corpi, ci dà una nuova definizione di potere sovrano: mentre nei tempi andati, prima delle modernità, il massimo del potere era quello di dare la morte e concedere la vita, oggi esso risiede nella possibilità di sostenere la vita o di lasciarla morire. E dunque, il corollario è evidente e lo vediamo quotidianamente proprio nelle storie parallele del bimbo morto a causa dell’incidente spettacolare e spettacolarizzato, e dei bimbi annegati: nel primo caso il bimbo vale più da morto che da vivo: fa guadagnare, se ne può ricavare una grande plusvalenza, sia economica sia, ed è drammaticamente vero, culturale. Lui verrà dimenticato presto, magari i ragazzini che hanno causato la sua morte riceveranno una qualche condanna, ma l’idea che con una telecamera e qualche rischio si possano fare soldi facili verrà radicata ulteriormente nella testa di tanti altri ragazzi.

I morti annegati, invece, per lo stesso motivo, devono restare sotto il mare, loro, infatti, così veicolano un altro messaggio, altrettanto drammatico e feroce: di voi non ce ne frega nulla, potete anche crepare, non vi aiuteremo; anche voi valete più da morti che da vivi per il nostro spettacolo.

Ora, è veramente così?

Il cinismo della società contemporanea, questo voltarsi solo dalla parte dei soldi, indipendentemente da come vengono ottenuti, resta solo a livello dell’etica pubblica o, invece, scava un solco profondo, asciuga giorno dopo giorno l’energia vitale di tutti, coinvolti o meno, indifferenti o partecipi, avanzando come un deserto in quella che una volta era la creatività umana, intossicando come un veleno quella che una volta era la solidarietà di specie che, seppur conflittuale, non aveva mai mostrato l’indifferenza che oggi ostentiamo verso i nostri simili.

E ancora, possiamo veramente pensare che queste morti non incidano sulla nostra percezione della vita? Che il voltarsi dall’altra parte, il lasciare alla politica becera dei respingimenti il governo delle coscienze, possa in qualche modo salvarci dal declino animico che ci minaccia?

L’inverno demografico ha certamente le sue cause seconde nei problemi della precarietà del lavoro, dei tempi di vita, dell’impossibilità di trovare una casa e via enumerando ma, se siamo onesti sino in fondo, se andiamo oltre le spiegazioni “rassicuranti” di questo tenore, scopriamo che ciò che manca è la voglia di vivere e dunque di dare la vita.

E allora, ancora una volta, accogliere questi bambini che abbiamo lasciato morire, vorrebbe dire tornare a vivere, perché la vita vive nel rischio, nell’impredicibilità del suo stesso avvenire.

E chi più di quelli che rischiano la vita per affermare la vita, come fanno i migranti, può trasmetterci questo luminoso ottimismo che spazza via le tenebre della tristezza esistenziale, il peso dell’anima gravata dagli oggetti di consumo, liberare lo sguardo accecato dai loghi? Diamoci una opportunità di tornare a vivere, facendo vivere chi ha dimostrato di voler continuare l’umana avventura.

(Fonte: il Manifesto, 18 giugno 2023)

domenica 18 giugno 2023

Ricordo di Sebastian Volkov (Sieva) 1926-2023

 


A 97 anni è mancato Esteban Volkov, nipote di Trotsky, uno degli ultimi sopravvissuti alle purghe di Stalin. Nato a Mosca nel 1926, Sieva – come lo chiamavamo noi amici – visse lo stalinismo sulla propria pelle. Sua madre, Zinaida Bronstein, nota come Zina, era figlia della prima compagna di Trotsky, Aleksandra Sokolovskaya, prominente rivoluzionaria di suo. Suo padre, Platón Volkov, membro del sindacato insegnanti, fu fucilato nel 1937. Nina, sorella di Zina, morì di tubercolosi nel 1928. La figlia di essa, Volina, intorno all’età di tre anni fu presa in carico dalla nonna Aleksandra, che dirigeva l’Opposizione di Sinistra a Leningrado.

Nel gennaio 1931 Zinaid ottenne un visto per cominciare una terapia all’estero e giunse a Prinkipo, in Turchia, dove Trotsky si trovava in esilio. Aveva con sé il piccolo Sieva, ma aveva lasciato dietro di sé Platón e l’altra sua figlia, Aleksandra. Sconvolta per la morte di sua sorella Nina, accudita nonostante fosse lei stessa malata, Zinaida andò a Berlino per curarsi. Sieva rimase con Trotsky e Natalia Sedova, la sua seconda moglie, cosicché poté raggiungere sua madre solo alla fine del 1932. Terrorizzata dal nazismo e consumata dalla malattia, Zina si suicidò col gas il 5 gennaio 1933. 

Successivamente Sieva, a 7 anni, venne accudito da Lev Sedov – nato nel 1905, figlio di Trotsky e Natalia – che lo portò a Parigi dove viveva e dirigeva il movimento trotskista. Tuttavia nel 1938 Sedov morì sotto i ferri durante un’operazione di appendicite, nonostante con ogni certezza venne avvelenato da agenti di Stalin.

Imprigionata nel 1935 dalla polizia segreta sovietica (GPU), la nonna Aleksandra fu vista per l’ultima volta in un campo di lavoro a Kolymá nel 1937. Di Volina se persero le tracce nelle purghe, così come per Alexandra Volkov, la sorella di Sieva. Platón venne fucilato nel 1938.

L’odissea di Sieva non era ancora finita. Secondo quanto mi raccontò lui stesso, visse per un po’ di tempo a Parigi presso Dina Vierny (Dina Aïbinder, 1919-2009), collezionista, gallerista e musa dello scultore Aristide Maillol, oltre che militante trotskista e per un certo periodo amante di Vlady, il figlio di Victor Serge.

Nel 1939 Marguerite Thevenet e Alfred Rosmer, vecchi militanti operai e amici di Trotsky, portarono Sieva in Messico, dopo una lunga battaglia giudiziaria tra Trotsky e Jeanne Martin des Pallières, la vedova di Sedov, per ottenere la sua custodia. Sieva aveva allora tredici anni. Nel maggio del 1940 fu ferito nell’attentato di Siqueiros contro Trotsky; conobbe quello che alla fine sarebbe stato l’assassino, credendolo “un compagno” e in agosto vide come uccise suo nonno.

I successivi 83 anni Sieva li passò in Messico in maniera relativamente tranquilla curando la memoria del nonno e creando istituzioni come il Museo Casa León Trotsky, consagrato alla memoria del rivoluzionario russo. Intraprese anche una carriera scientifica, si sposò ed ebbe quattro figlie, tutte donne brillanti. E la cosa più imposrtante: non perse la speranza della possibilità di costruire un mondo migliore.

La vita di Sieva che termina oggi simboleggia la tragedia di una rivoluzione che si cannibalizza. Si potrebbe dire che con lui muore – ora davvero - il secolo XX con le sue utopie e i suoi incubi; ma al tempo stesso, con la sua personalità soave ed anche con la sua ostinazione, Sieva simboleggia l’umanesimo rivoluzionario que non muore mai. Non dimenticherò i suoi occhi azzurri, la sua amicizia e l’onore che mi fece invitando me, anarchico da sempre, ai suoi compleanni che festeggiavamo in un ristorante russo nel sud di Città del Messico.

Sulla vita di Sieva va segnalato il documentario di Adolfo García Videla, “Mis memorias con Trotsky. Entrevista a Esteban Volkov” presentato nel plantel Centro Histórico dell’Universidad Autónoma de la Ciudad de México (UACM) il 20 agosto 2013. Coerente con sé stesso, Volkov disse in questa occasione che “il capitalismo è arrivato a un livello di sfruttamento, di distruzione del pianeta; il marxismo è una delle alternative esistenti. Magari vi fossero altre ideologie, altri metodi che ci possano dare una soluzione per uscire da questo inferno in cui sta vivendo gran parte della popolazione…”

Claudio Albertani

(fonte:www.utopiarossa.blogspot.com)

venerdì 2 giugno 2023

René Lefeuvre e i Cahiers Spartacus

 


Alla fine degli anni 60, tra il 1968 e il 1969, su sollecitazione di un ex bordighista che manteneva stretti rapporti con il milieu internazionalista parigino, mi abbonai ai Cahiers delle Edizioni Spartacus. In quella occasione René Lefeuvre mi spedì una raccolta dei quaderni apparsi dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Sessanta, accompagnati da una lettera gentilissima. Essendo allora poco più di un ragazzino la cosa mi riempì di orgoglio. Quel materiale, così generosamente donato, mi aprì gli occhi sulla realtà dei crimini dello stalinismo in Spagna e sull'orrore della realtà del gulag sovietico. Erano libri preziosi, quasi del tutto sconosciuti in Italia, un antidoto alla vulgata tardo togliattiana di chi, come la Rossanda o Ingrao, dopo il 1956 e il XX Congresso, quando quella realtà non si potè più negare, si nascondevano dietro a frasi ipocrite del tipo "noi non sapevamo...allora non si poteva sapere". E invece si sapeva e come, bastava volerlo e alzare lo sguardo verso la Francia dove da sempre quei materiali circolavano, nonostante gli attacchi violentissimi degli stalinisti del Pcf e degli intellettuali al loro servizio che li bollavano come falsità, fatte circolare ad arte da chi, calunniando la "gloriosa" esperienza sovietica, voleva fermare l'avanzata del movimento operaio.

Con il '68 e il dilagare di un'editoria di sinistra, oggi quasi del tutto scomparsa, alcuni di quei lavori apparvero anche in Italia, ma spesso frutto di traduzioni frettolose e abborraciate. Nessuno cenno venne però fatto al lavoro svolto per oltre mezzo secolo da Lefeuvre e dai suoi compagni.

Questo quaderno cerca di colmare almeno parzialmente questo vuoto e al tempo stesso essere un ringraziamento postumo a chi, come René Lefeuvre, per tutta la sua vita credette fermamente nei giovani, convinto che, come affermato da Condorcet, "la verità appartiene a coloro che la cercano e non a coloro che pretendono di possederla".

Giorgio Amico


Il quaderno è consultabile e liberamente scaricabile dal sito academia.edu

Malinconia

 


Malinconia


"La malinconia ci prende di sera", cantava Adriano Celentano ai tempi della mia giovinezza. Per me, invece, l'ora della malinconia è al risveglio. Nella penombra della camera, con accanto il respiro di Vilma ancora addormentata che lievemente segna il tempo dei miei pensieri, mi vengono alla mente i volti dei tanti amici persi in questi ultimi terribili anni. Amici e compagni con cui ho condiviso idee ed esperienze, il cibo, il vino, le risate e la rabbia. Con cui ho camminato sulle strade della vita. Alcuni più giovani di me, qualcuno di qualche anno più anziano. Portati via chi all'improvviso, come Pasquale Indulgenza, altri dopo una lunga battaglia con la malattia, come Piero Pentenero. Uno dopo l'altro mi sfilano davanti i loro volti e il flusso dei ricordi mi prende interamente. Poi il giorno, con i suoi affanni e i suoi ritmi, porta la mia mente altrove. Ma una lieve tristezza permane, Forse la vecchiaia è anche questo.

giovedì 1 giugno 2023

il Potere Operaio di Torino (1968)

Dopo il quaderno dedicato a Vittorio Rieser proponiamo la ristampa anastatica dell'opuscolo "Sindacato e comitati operai di lotta", edito nel 1969 da Il Potere Operaio di Torino. Si tratta del sesto dei quaderni pubblicati - e di libera consultazione e riproduzione - per la serie Archivi del movimento operaio sul sito Academia. edu. Il documento è introdotto da uno scritto, già apparso su Vento largo che spiega i rapporti che nel 1968-69 ci legarono a quell'esperienza. Lo riproponiamo qui di seguito.


Giorgio Amico 

Quando a Savona c'era il potere Operaio 

Alla fine del 1967 un gruppo di studenti (fino ad allora noti soprattutto per la frequentazione del mitico bar Euterpe) da vita ad una aggregazione politica dai caratteri ancora incerti. Affascinati dal castrismo e dall'esperienza del Che, ma anche dal maoismo della Rivoluzione culturale, quei giovani iniziano un percorso di discussione e di studio che li porta già agli inizi del 1968 a darsi forma di gruppo politico e a cercare contatti e punti di riferimento a livello nazionale. In particolare si guarda al Potere operaio pisano di Sofri e Cazzaniga, ma una andata a Pisa non porta risultati e all'Unione dei Comunisti Italiani (Servire il popolo) di cui emerge immediatamente al primo contatto diretto il carattere caricaturale.

Contatti più stabili vengono stabiliti con il Potere Operaio di Torino, gruppo che raccoglie i superstiti dei Quaderni rossi ed in particolare con Emilio Soave che di fatto è la figura di collegamento fra l'esperienza panzieriana e la nuova realtà del PO torinese. Parente di una nostra compagna, Soave ci ospita in casa sua. Iniziamo così a partecipare alle riunioni del gruppo, sedendo emozionati sulle panche della leggendaria sede dei Quaderni Rossi. Da Torino ci arrivano materiali che iniziamo a far circolare a Savona. [Vedi l'opuscolo allegato] 

Nel 1968 il gruppo si chiama ormai Potere Operaio di Savona ed inizia un intervento sul territorio con volantinaggi in alcune fabbriche (Arcos di Albisola, Italsider di Savona) ed un lavoro capillare nel quartiere operaio di Piazzale Moroni dove viene impiantato un doposcuola sul modello dell'esperienza della scuola di Barbiana di Don Milani. Attraverso il lavoro di quartiere si stabiliscono contatti con alcuni giovani operai che, senza aderire formalmente, forniscono però informazioni dirette e documentazione sulla realtà di fabbrica, permettendo così l'inizio di un abbozzo di inchiesta operaia. In questa attività forme di collaborazione vengono stabilite con i giovani dello PSIUP e con gruppi anarchici dissidenti dalla FAI e in particolare con Franco Salomone. I fatti di Cecoslovacchia portano ad un allargamento del gruppo con l'avvicinarsi di giovani in rottura con la Federazione Giovanile Comunista. 

Dopo una lunga ricerca, troviamo finalmente una sede in una soffitta del quartiere Villetta, accanto al seminario vescovile e ad un austero collegio per fanciulle di buona famiglia (che tentammo inutilmente di portare sulla cattiva strada), che diventa presto un luogo di incontri (e di amori intensi ma di breve durata) e un vago surrogato di comune. Il gruppo intanto si è allargato fino a contare una ventina di elementi di cui però solo la metà attivi a tempo pieno. Intensa è l'attività in ambito studentesco incentrata soprattutto sul Liceo Classico. Alle nostre riunioni partecipano anche studenti universitari impegnati nelle prime occupazioni a Genova di cui ci fanno un regolare resoconto non privo di ironia. E non mancano neppure i tentativi di provocazione. Nell'estate del 1968 una bomba carta esplode su di una finestra della Prefettura. La polizia indirizza immediatamente le indagini verso noi. Portati in Questura, siamo interrogati e pesantemente minacciati. Gli inquirenti sembrano convinti della nostra colpevolezza, ma dopo un paio di settimane la cosa si sgonfia per l'assoluta mancanza di indizi. Sapemmo più tardi che tutto era partito dalla soffiata di un informatore che aveva segnalato la nostra presenza quella notte in un locale molto vicino al luogo dell'attentato e riferito i nostri discorsi piuttosto accesi. 

A differenza di molte altre realtà simili che in quei mesi turbinosi nascono in Italia (magari per spegnersi nell'arco di qualche mese) il Potere Operaio savonese si distingue per una intensa attività di ricerca. Eravamo assolutamente consapevoli dei nostri limiti politici e della nostra totale impreparazione teorica, e dunque della necessità di colmare al più presto le lacune. Spacciandoci per ricercatori, trascorremmo buona parte delle mattinate dell'estate del '68 nella biblioteca dell'Unione Industriali a riaccogliere dati sulla realtà economica savonese in vista di un più organico intervento di fabbrica. Costante era la nostra partecipazione alle attività del Circolo culturale Calamandrei che organizzava allora partecipatissimi dibattiti ed incontri (fondamentale fu quello con gli studenti giapponesi della Zengakuren) e del gruppo di giovanili cinefili (animato da Tatti Sanguineti) che ci permise di conoscere il giovane cinema americano di controinformazione e soprattutto i filmati sul Maggio girati dalla Commissione cinema del Comitato delle occupazioni. Sulla base di questi stimoli il gruppo abbandona progressivamente l'originale terzomondismo per avvicinarsi alle posizioni della Sinistra comunista. 

Centrale in questo percorso di maturazione è il nostro incontro con un ex militante di Programma comunista, Valentino Campi, uno strano mix di situazionismo e bordighismo (che ci dicono ancor oggi in giro per il mondo a far mattane), vicino alle posizioni del gruppo francese Invariance. A Pasqua '69 assieme ad un altro compagno e a Valentino vado a Firenze al convegno della branca italiana di Invariance, in quell'occasione conosco Jacques Camatte, straordinaria figura di teorico marxista. L'impatto è forte, ma il gruppo francese, interamente dedicato al lavoro di ricerca teorica (Camatte sta lavorando al suo grande lavoro sui Grundrisse), non soddisfa la nostra voglia di impegno militante.

Così come deludenti si rivelano gli incontri con militanti de il Programma comunista. Chiusi nelle loro granitiche certezze i bordighisti ci parlano solo di “Amadeo” (“come dice Amadeo...”, “come scrive Amadeo...”) e non perdono occasione di rinfacciarci, quasi fosse una colpa, la nostra natura di studenti piccolo borghesi. Il tutto si risolve in una serie di letture frenetiche, in lunghe discussioni ed in una finale liberatoria litigata. 

Chi non ci rinfaccia nulla e non assume atteggiamenti paternalisti è invece Arrigo Cervetto con cui entriamo in contatto diretto tramite un simpaticissimo e ultradinamico militante leninista (Giulio Pisano, scomparso purtroppo troppo presto) incontrato in uno dei nostri volantinaggi. Cervetto ci ascolta, ci pone domande, si interessa delle nostre attività. L'impatto che ha su di noi è straordinario. Nello spazio di un mese il gruppo si scioglie ed entriamo in massa in Lotta comunista. Inizia così un nuovo percorso, ma questa è un'altra storia.