TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 27 marzo 2018

Cinema e Resistenza. Il riflusso degli anni '80 e il declino del cinema italiano



Con gli anni '80 inizia il riflusso. Negli anni '90 il crollo del muro di Berlino e dell''esperienza sovietica del socialismo reale segna la fine della guerra fredda, ma non dell'anticomunismo che in Italia con Berlusconi gode di uno straordinario revival. In un momento politico in cui i nostalgici di Salò entrano al governo, la Resistenza non può che tornare nell'ombra. Fa eccezione nel 2000 Il partigiano Johnny, un grande film di paesaggio.

Il riflusso degli anni '80 e il declino del cinema italiano

Nonostante la grande fiammata del '77, la seconda metà degli anni Settanta è nel segno del riflusso, della ritirata nel privato, in una dimensione individuale e non più collettiva di cui anche la scelta delle armi, con il suo avanguardismo esasperato e senza prospettive, è una manifestazione. Sono gli anni del ripensamento, del tentativo di inserire in modo organico anche gli anni della rivota nel flusso più generale della storia d'Italia. Anche la rappresentazione della Resistenza rientra in questo tentativo di rileggere la storia sul lungo periodo. Ancora una volta è Bertolucci con “Novecento” (1976) a cercare attraverso le vite parallele di un contadino e di un padrone terriero un filo rosso nella storia d'Italia dall'inizio del secolo all'avvento della Repubblica. Un lungo periodo in cui la Resistenza trovi finalmente la sua collocazione.

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta inizia la china discendente del cinema italiano. La televisione, soprattutto dopo il boom delle reti private, fa una concorrenza spietata al cinema. Il videoregistratore e le cassette portano i film in casa. Come negli anni '50 i produttori tornano a privilegiare sempre di più film a basso costo e di qualità scadente. E' il trionfo del western all'italiana, dell'horror sanguinolento, di polizieschi fascistoidi come “La polizia incrimina, la legge assolve”, “Il cittadino si ribella”, “Milano odia, la polizia non può sparare”. La commedia all'italiana diventa farsa erotica o cinepattone. Si aprono le prime sale a luci rosse e la pornografia viene sdoganata. Sulle televisioni private imperversano con ascolti stellari trasmissioni come “Colpo grosso” totalmente incentrate sull'esibizione sempre più esplicita e volgare del corpo femminile. La televisione diventa centrale nella costruzione dell'immaginario collettivo. Lo stesso linguaggio cinematografico cambia, adattandosi sempre più ai tempi frenetici della narrazione televisiva.



Gli anni Ottanta segnano anche l'avvio di un “revisionismo strisciante”che legge la Resistenza come una parentesi buia, un succedersi di orrori e di errori soprattutto a causa della presenza di un partito comunista che si descrive interamente volto ad un piano eversivo. Inizia la riabilitazione dei “giovani di Salò”. Con il pretesto dell'omaggio ipocrita e retorico ai caduti, fascisti e antifascisti sono assimilati. Sono i temi che renderanno Pansa un autore di successo. Non è un fatto spontaneo e neppure innocente. L'eclisse della prima Repubblica, segnata dalla stagione giudiziaria di “Mani pulite” e dall'avvento dell'Italia berlusconiana porta questo processo alle sue estreme conseguenze. Il crollo del muro di Berlino e dell''esperienza sovietica del socialismo reale segna la fine della guerra fredda, ma non dell'anticomunismo che in Italia con Berlusconi gode di uno straordinario revival. In un momento politico in cui i nostalgici di Salò entrano al governo, la Resistenza non può che tornare nell'ombra.

Nel cinema resistenziale degli anni '80 e '90 c'è tutto questo, a partire dagli echi della lotta armata. Nel 1980 esce “Uomini e no” di Valerio Orsini, trasposizione cinematografico del romanzo di Vittorini, incentrato sulla guerra dei GAP e con un finale che ricorda Dante di Nanni (ma anche Walter Alasia). Nel 1992 è la volta di “Gangsters” di Massimo Guglielmi. Ambientato nella Genova dei primi mesi dopo la Liberazione, il film racconta la tragica parabola di un gruppo di partigiani comunisti (ex gappisti) che non hanno lasciato le armi e si trasformano appunto in gangsters. Una riflessione sul sottile discrimine che separa ideali politici e violenza fine a se stessa, attualissima negli “anni di piombo”, ma non priva di ambiguità. Come la sequenza finale che allude apertamente all'uccisione da parte dei carabinieri di quattro brigatisti genovesi in via Fracchia, un fatto la cui dinamica non fu mai chiarita a fondo.


La riflessione può prendere però anche i toni della poesia e della pietas. E' il caso dei fratelli Taviani con “La notte di San Lorenzo” (1982) dove la dimensione della guerra civile è descritta in tutta la sua ferocia, ma in una forma quasi onirica sostanziata da una profonda compartecipazione al dolore e alla sofferenza di uomini e donne travolti da avvenimenti più grandi di loro.

Gli anni '90 due film rompono il silenzio ormai calato sulla Resistenza con due storie entrambe ambientate nel Nord-Est. Nel 1997 Daniele Luchetti riprende il romanzo (bellissimo, ma poco conosciuto) di Luigi Meneghello “I piccoli maestri” per raccontare una storia di formazione antieroica e antiretorica ambientato in un Veneto in cui la lotta partigiani ha soprattutto i colori del Partito d'Azione e della Democrazia Cristiana. Nello stesso anno Renzo Martinelli con “Porzus” ricostruisce lo scontro fratricida fra garibaldini e partigiani non comunisti nel contesto più complessivo del tentativo jugoslavo di spostare il più possibile a ovest i confini. Racconto di un eccidio, occultato per decenni (come la tragedia delle foibe), Porzus è un tentativo civile di ristabilire la verità storica e allo stesso tempo di esplicitare le contraddizioni di un'unità antifascista spesso solo di facciata.


Negli anni 2000, quelli del berlusconimo rampante e dello sdoganamento definitivo di Salò la Resistenza sparisce dagli schermi. Fa eccezione, proprio all'inizio del nuovo millennio, la trasposizione cinematografico del capolavoro incompiuto di Beppe Fenoglio. Totalmente privo di intenti ideologici, ma lucidissimo nella ricostruzione di luoghi e personaggi “Il partigiano Johnny” di Guido Chiesa tenta con esiti felicissimi l'operazione che pareva impossibile di tradurre sullo schermo un testo così articolato e complesso. Un film di paesaggi, di silenzi, un film che ha come protagonista la Langa. “Un film molto fisico – ha scritto un critico - sul precario lavoro del partigiano, sul faticoso e doloroso mestiere di sopravvivere sui monti con il suo carico di pioggia, neve, fango, agguati, fughe, sangue, paura, dubbi, spie, rappresaglie, solitudine. È forse il primo film che racconta con coinvolgente efficacia che cosa fosse un rastrellamento e che della guerra per bande espone la casualità”.

Poi più nulla, se si eccettua “Una questione privata” dei fratelli Taviani (2017), film inconcludente e sostanzialmente malriuscito dove la Resistenza serve solo da sfondo. Uno sfondo sfuocato ben rappresentato dall'incomprensibile ambientazione in una Val Maira smorta e anonima invece che nelle langhe carne e sangue della narrativa fenogliana, ma che bene si presta a simboleggiare la fine di una storia, quella della Repubblica nata dalla Resistenza di cui il cinema, parlando della guerra di Liberazione, ha in realtà raccontato il travaglio.

(Giorgio Amico, Da "Roma città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza nella filmografia italiana 6)