TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 15 giugno 2019

Vivere un mondo e sognarne un altro. Tre vite controcorrente nella Savona del dopoguerra




Si è tenuto ieri alla Ubik, con gran successo di pubblico, la presentazione del libro , voluto e curato da Giovanni Burzio, 1944. L'anno della storia. Il libro, una graphic novel curata dagli studenti del Liceo Artistico Martini di Savona, contiene anche una serie di contributi sulla Savona della guerra e del dopoguerra. Proponiamo il nostro, dedicato a tre figure importanti della Savona del dopoguerra, e ne approfittiamo per fare a Giovanni i più fraterni auguri per i suoi prossimi 90 anni.

Giorgio Amico

Vivere un mondo e sognarne un altro. Tre vite controcorrente nella Savona del dopoguerra

«Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini. Le foglie il vento le riversa per terra, e altre la selva fiorendo ne genera, quando torna la primavera; così le stirpi degli uomini, l’una cresce e l’altra declina».

Così Omero nell'Iliade, e nulla di più bello è stato poi scritto sul succedersi delle generazioni che una dopo l'altra passano, spesso ignare del mondo in cui è toccato loro in sorte di vivere. In questo fluire di vite, esperienze, sentimenti, sempre uguali eppure ogni volta nuovi e diversi, ci sono uomini che hanno saputo convivere a pieno con il loro tempo, tanto da diventarne testimoni e interpreti. Uomini consapevoli del fatto che, come ebbe a scrivere Francesco Biamonti, è destino di un uomo è di vivere un mondo, ma di sognarne un altro. Uomini capaci di sognarlo a tal punto da vivere ogni giorno come se quel mondo davvero ci fosse, secondo i valori (la solidarietà, la giustizia, il rispetto della dignità altrui) che quel mondo diverso sostanziano. E questo in un mondo come è invece il nostro, retto dalla competizione, dall'apparenza, dal denaro.

Portatori di un sogno che, grazie alle loro fatiche, ha saputo diventare azione politica, movimento sociale, farsi storia. E dunque, come dicevamo, testimoni e interpreti di un'epoca.

Non parliamo di grandi personaggi, spesso miti senza sostanza, ma di uomini semplici, persone che abbiamo conosciuto, con cui abbiamo lavorato, condiviso esperienze, insomma che sono stati una parte della nostra vita.



Come Giuseppe Vallerino, nato e cresciuto a Savona negli anni difficili e bui del fascismo. Figlio di una città, la Savona operaia che da tempo non esiste più e di un quartiere, Villapiana, che comunque, nonostante tutto conserva ancora qualcosa di quel mondo, come dimostra la recente spontanea mobilitazione popolare contro l'arrivo dei fascisti di Casa Pound.

Crescere negli anni Venti a Villapiana in una famiglia operaia voleva dire miseria, qualche volta addirittura fame, soprattutto se non ci si piegava alle direttive del regime, se non si accettava il mito di una Italia “proletaria e fascista”, fatta di sfilate e di uniformi, avviata a un futuro di gloria e benessere come mai si era visto prima. Il risultato fu la guerra, i bombardamenti, la fame, i giovani partiti per il fronte e mai tornati, l'occupazione tedesca, le deportazioni, le fucilazioni, la paura.

Questo il mondo in cui Giuseppe Vallerino, nato nel 1928, fu destinato a vivere, ma un altro il mondo che sognava. Un mondo di pace, di giustizia e di libertà, dove gli uomini fossero davvero fratelli. Quel mondo per Giuseppe aveva un nome, Unione Sovietica e una bandiera, rossa come il sangue dei partigiani trucidati, che era anche la bandiera di tutti i lavoratori, qualunque fosse il loro paese o la loro razza.
Giuseppe amò tanto quel sogno da passare clandestinamente le Alpi a piedi e da affrontare giovanissimo pericoli e disagi di ogni tipo pur di poter andare in Russia a studiare, a appropriarsi di quel sapere che il fascismo in Italia gli aveva negato. Una cultura che fosse strumento non di privilegio sociale e di carriera economica, ma di emancipazione personale e di dignità. Una cultura, mai ostentata, ma profonda che ne fece un uomo politico e un amministratore locale attento alle esigenze del momento, ma capace di ragionare in prospettiva.

Il suo fu un sogno tanto forte da reggere alla prova del disincanto, agli anni della denuncia dei crimini di Stalin, degli errori e degli orrori di quel regime. Certo, il socialismo vero era una altra cosa, Giuseppe lo sapeva bene, lo aveva visto con i suoi stessi occhi, ma sapeva altrettanto bene che quell'esperienza aveva rappresentato l'unica speranza per milioni di uomini al momento del dilagare in tutta Europa delle armate hitleriane e poi ai tempi della guerra fredda e della minaccia dello sterminio nucleare, della guerra di Corea e poi della rivoluzione cubana e infine della guerra di liberazione nel Vietnam.

E per questo, nonostante dubbi e forse delusioni, al suo sogno restò fedele e cercò di vivere come pensava che un comunista dovesse fare, affrontando sempre ogni problema a partire dal “noi”, dall'interesse collettivo, e non dall' “io”, dal tornaconto personale. E di questo anche gli avversari politici dovettero sempre dargli atto.



Come Silvio Ricci, nato nel 1940 e dunque della generazione del luglio '60 e dell'autunno caldo. Cresciuto in una Italia diversa, libera dal fascismo, ma dove le contraddizioni restavano profonde e i diritti democratici e civili sanciti dalla Costituzione ancora in larga parte da conquistare. Il suo fu il destino di vivere in un mondo dove, se si era comunisti, si rischiava di perdere il posto di lavoro, dove, come nel luglio '60 a Genova, la polizia interveniva a difendere i fascisti, dove le lotte operaie e contadine finivano spesso con l'uccisione di lavoratori colpevoli solo di voler conquistare un avvenire migliore per sé e per i propri figli. Il suo sogno fu invece , quello di un paese moderno e civile, rispettoso delle differenze e dei diritti, a partire da quelli delle donne, dove la classe operaia non lottasse solo per condizioni salariali più dignitose, ma anche per riforme che trasformassero alle radice la società e la politica, che assicurassero davvero una eguaglianza sostanziale e non solo formale fra i cittadini.

Un sogno nato in fabbrica, dove era entrato giovanissimo e dove aveva fatto un apprendistato che ricordava duro, ma formativo. E la fabbrica, l'Italsider, era stata, lo ripeteva spesso, la sua università, una scuola di solidarietà e di vita i cui insegnamenti non aveva mai dimenticati, soprattutto nella stagione delle bombe e della vigilanza antifascista, quando i lavoratori si erano fatti carico in prima persona di assicurare in città una sicurezza democratica che le autorità non parevano in grado di garantire.

Di nuovo troviamo il sogno di rapporti diversi fra gli uomini, non fondati sull'utile individuale, ma sull'interesse collettivo. Una società che non sia un semplice insieme di persone, un mero dato statistico, ma la prefigurazione di una comunità autentica dove la libertà e dignità di ciascuno è la premessa della dignità e della libertà di tutti. Una società inclusiva, diremmo oggi, capace di riscoprire la gratuità dei gesti. E così Silvio, già Segretario generale della FIOM e poi Confederale, una volta andato in pensione continuò fino alla sua improvvisa scomparsa a impegnarsi come semplice volontario nelle strutture di base dello SPI, il Sindacato pensionati della CGIL, di cui era stato per anni Segretario.



Come Ugo Tombesi, nato nei primi anni del dopoguerra e dunque testimone della transizione dell'Italia da paese agricolo arretrato a paese industriale pienamente conquistato all'ideologia del consumo. Il suo fu il destino di vivere in un mondo “all'americana”, dove il successo individuale era l'obiettivo da raggiungere e la competitività il motore di tutto, già a partire dagli anni della scuola, che era scuola rigidamente classista, pensata per escludere i figli degli operai da studi che non fossero propedeutici all'andare a propria volta a lavorare in fabbrica. Ma non per tutti era così, qualcuno, anche nel mondo cattolico da cui Ugo proveniva, ebbe il coraggio di alzarsi in piedi e denunciare l'ingiustizia profonda di questo mondo che garantiva ormai quasi a tutti la 500 e il frigorifero, ma continuava a negare dignità al lavoro. 

Il sogno di Ugo fu quello di Don Milani e della Scuola di Barbiana: impegnarsi dalla parte degli ultimi, dei senza voce, dei senza volto e senza potere. Da qui la scelta di laurearsi in Sociologia e di lavorare non nelle strutture, remunerative e prestigiose della fabbrica del consenso (giornali, centri studi padronali, università), dove pure avrebbe potuto, ma nelle strutture del movimento operaio. Non senza contraddizioni, ché in nome di una coerenza, che noi amici un po' scherzosamente chiamavano “calvinista”, perse nel 1972 un incarico a tempo determinato per l'Inas-CISL, a cui teneva particolarmente e non solo perché era la sua fonte di sostentamento, per una ricerca sulla salute nelle fabbriche della Val Bormida tanto coraggiosa da disturbare molti anche in ambito sindacale.

Una vita impegnata, schierata, senza tentennamenti e rimpianti, con la convinzione profonda che l'uomo, ogni uomo, può essere migliore e la certezza che un giorno lo diventerà davvero. Un sogno che non lo ha mai abbandonato.