TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 27 marzo 2020

Lo stalinismo nella sinistra italiana. 1944-47, il PCI forza di governo




Lo stalinismo nella sinistra italiana

Seconda e ultima parte di un articolo apparso nel 1988 su Bandiera rossa, organo della sezione italiana della Quarta Internazionale.

Giorgio Amico

Togliatti, Stalin e la politica italiana (1944-1947)
Seconda parte

La politica di unità nazionale e la lotta partigiana

La scelta di collaborare con la monarchia comporta anche il drastico rigetto della necessaria epurazione dei fascisti presenti in forza nell'amministrazione dello Stato e nelle Forze armate.

"Noi abbiamo bisogno - dichiara Togliatti - di generali (...) e di ammiragli (...), noi chiediamo ai generali e agli ammiragli di essere patriottici, di mostrare uno spirito democratico e di evitare l'intrigo". (17).

La sacrosanta opera di pulizia, che perfino un a parte dell'antifascismo borghese esige, viene così al pari della questione istituzionale rimandata al termine delle ostilità. Funzionari, poliziotti, generali che, a partire dal Maresciallo Badoglio, si sono macchiati di crimini efferati in Etiopia in Libia, in Albania, in Jugoslavia, rimangono indisturbati ai loro posti, anzi si tenterà di subordinare ad essi la direzione militare della guerra partigiana nel Nord. D'altronde si tratta di un passo praticamente obbligato: la scelta istituzionale conduce inevitabilmente a porre la sordina alla lotta partigiana, troppo carica di potenzialità eversive. Togliatti, tutto intento a costruire le basi del compromesso con monarchici e cattolici, attribuisce una scarsa importanza alla lotta armata contro i nazifascisti.

"Credo - nota amaramente Luigi Longo - abbia capito l'importanza del movimento partigiano quando seppe che avevamo fucilato Mussolini a Dongo. Era tutto preso dagli affari di governo, mi scriveva delle lunghe lettere per spiegarmi cosa aveva fatto o detto con De Gasperi o con Bonomi. Probabilmente credeva che i nostri bollettini militari fossero propaganda". (18)

Tale atteggiamento è anche il frutto di un pessimismo, disincantato e cinico, nei confronti dell'azione autonoma delle masse che verrà alla luce in ogni momento cruciale e che contagerà buona parte dei quadri dirigenti del partito. Scrive a questo proposito Pajetta:

"Visti da Roma, i partigiani anche a un comunista intelligente come Negarville, a Spano (...) a Eugenio Reale (...) appaiono un po' come ragazzi che giochino alla guerra. I compagni del Nord, a cominciare da Longo e Secchia, non staranno per caso ancora sviluppando tendenze di 'sinistra' di non lontana origine? E magari c'è chi, più scettico, pensa già che la guerra, quella vera, non solo non la vinceremo noi, ma in un certo modo non l'avremo neppure combattuta. È un sospetto che cerco di scacciare". (19)

Per tutta la durata della lotta armata la stampa comunista nell'Italia liberata batterà soprattutto sui tasti patriottici dell'unità nazionale. Manca completamente un'informazione organica sull'andamento della guerra partigiana, sulle forme di auto-organizzazione di un potere proletario che in molte realtà si vanno sperimentando e che, come nelle formazioni GL, si pongono tuttavia in aperta contraddizione con ogni ipotesi continuista nei confronti del vecchio Stato prefascista. Lo stesso Centro comunista nell'Italia occupata, pur accettando la svolta di Salerno, insiste perché il partito accentui in senso classista la propria linea politica. Sentiamo Pajetta:

"Noi non ci sognavamo certo di imitare gli jugoslavi e non volevamo finire come i greci; questo però non significava né che avessimo rinunciato a una democrazia nuova e alla partecipazione popolare, per esempio nella gestione delle fabbriche, né che intendessimo fare tante concessioni alla 'democrazia borghese', quante se ne erano fatte nell'Italia già liberata". (20)

La risposta del partito è netta: viene mandato Amendola a normalizzare la situazione, onde impedire ogni forma di autonoma azione di classe da parte delle masse proletarie in armi. Le direttive sono quelle stesse che alla vigilia dell'insurrezione Togliatti invia a Bologna:

"Il compito principale che oggi sta davanti a voi sapete qual'è (...). Liberata la vostra città il vostro compito sarà quello di dare vita, in accordo con le autorità alleate, che all'inizio ne avranno il controllo, a un'amministrazione democratica che si appoggi sulle masse popolari, sui partiti che ne sono l'espressione e sull'unità di questi partiti (...). Dovrete in pari tempo assicurare che la maggior parte dei combattenti partigiani continui a combattere per la libertà del paese (...) e ciò dovrà ottenersi col passaggio di questi combattenti all'esercito italiano, di cui debbono entrare a far parte (...). Il Nord deve dare a tutta l'Italia l'esempio di una marcia verso la distruzione del fascismo e verso un regime democratico che sia irresistibile per la sua stessa disciplina e per la capacità, energia e saggezza politica dei gruppi sociali, dei partiti e degli uomini che lo dirigono. Siamo certi che voi saprete essere all'altezza dei nostri compiti". (21)

Disarmo dei partigiani, ritorno al lavoro, rifiuto di ogni rivendicazione autonoma di classe: queste le direttive togliattiane, ribadite al termine delle ostilità in occasione del primo comizio nel Nord, tenuto a Sesto San Giovanni il 20 maggio del 1945:

"Il Partito comunista non avanza rivendicazioni di classe, ma vuole che la classe lavoratrice tenda la mano a tutti quelli che vorranno collaborare nella ricostruzione dell'Italia. Bisogna lavorare molto nelle fabbriche, nelle campagne". (22)

Ciò permetterà il ritorno nelle fabbriche, sotto l'effimera supervisione dei comitati di gestione, di uomini come Valletta, già condannati a morte dai partigiani per collaborazionismo, mentre vengono rapidamente smantellate le forme di controllo operaio imposte dai lavoratori alla vigilia dell'insurrezione.

Il partito nuovo e la democrazia progressiva

I nuovi compiti imposti dalla politica di collaborazione con la borghesia, richiedono per Togliatti la definizione di uno strumento che non può più essere il tradizionale partito internazionalista. nasce il "partito nuovo", "partito della classe operaia e del popolo, il quale non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda, ma interviene nella vita del paese con un'attività positiva e costruttiva (...). La classe operaia, abbandonata la posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente (...). partito nuovo è il partito che è capace di tradurre in atto questa nuova posizione della classe operaia, di tradurla in atto attraverso la sua politica, attraverso la sua attività e quindi anche trasformando a questo scopo la sua organizzazione. In pari tempo il partito che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano". (23)

Il PCI non è più una piccola organizzazione clandestina, è diventato un grande partito di massa che al momento della Liberazione conta novantamila iscritti al Nord e oltre trecentomila nel Centro-Sud, che diverranno addirittura 1.700.000 nell'aprile del 1946, con un afflusso, nota il compagno Moscato in apertura di un suo scritto dedicato a queste tematiche - di giovani entusiasti ma totalmente scollegati da ogni tradizione del movimento operaio., come conseguenza di vent'anni di fascismo". (24) Il PCI nel 1945 è dunque una realtà complessa e contraddittoria, sintesi di un vasto e confuso movimento di massa a carattere rivoluzionario che occorre riportare alla normalità. Rapidamente viene edificata una struttura burocratica molto articolata e retta da rigidi criteri gerarchici, in modo da poter tenere sotto controllo la massa poco politicizzata degli iscritti. Il quadro intermedio è formato da militanti nuovi, formatisi nella lotta partigiana, di limitata preparazione politica ma dotati di grandi capacità organizzative. Il tutto in un clima di entusiasmo, proprio di una situazione sentita dalle masse come eccezionalmente favorevole.
Un entusiasmo difficile da tenere a freno, che ostenta ancora troppo la propria carica rivoluzionaria. Così, durante la prima campagna elettorale la Direzione è costretta a stigmatizzare "la tendenza assai diffusa a disturbare comizi di altri partiti (...) l'abuso di altoparlanti che assordano la popolazione per intere giornate (...) l'impiego in massa di autotrasporti e il loro superfluo scorrazzare sovraccarichi di compagni e di bandiere rosse (...) certe espressioni di volgarità anticlericali (...)segni evidenti e deplorevoli di deviazione dalla linea politica del Partito (...) certi canti con parole di cattivo gusto ed esprimenti una posizione politica diversa da quella del partito". (25)
Nella stessa linea verranno criticati come titolo da non dare ai giornali delle federazioni locali nomi tradizionali come "Il Proletario", "La Comune", "La Scintilla", ecc. Il movimento giovanile comunista viene sciolto il primo luglio 1945 al fine di "promuovere la costituzione di una vasta associazione apartitica, unitaria e di massa" comprendente anche i giovani cattolici.
Tuttavia, nonostante il perbenismo ufficiale del partito, la base operaia e partigiana si caratterizza fortemente in senso senso rivoluzionario, e ciò rappresenta obiettivamente un ostacolo per la politica di unità nazionale che il partito porta avanti. Così nelle circolari che la Direzione invia alle federazioni locali si attaccano duramente le posizioni classiste che, nonostante tutto, fanno capolino qua e là e che vengono sprezzantemente definite "declamazioni, vanterie e minacce che respingono da noi le masse meno avanzate e creano in quelle più avanzate un pericoloso stato di eccitazione e di isolamento. Questo estremismo si traduce alla fine in una passività reale, che viene mascherata dalla ostentazione di metodi sorpassati, residui del periodo della guerra civile (...). Così succede che il partito tenda qua e là ad assumere il carattere di organizzazione solo degli strati più poveri ed esasperati della popolazione, perdendo la capacità di penetrare tra gli operai di mentalità meno accesa, tra i ceti medi, tra gli intellettuali, tra le donne". (26
Come si vede, e gli esempi potrebbero continuare numerosissimi, la costruzione del partito nuovo interclassista e nazionale non è priva di difficoltà. È sempre più difficile convincere la base operaia dell'utilità di perseguire nella politica di unità con la borghesia, sacrificando ogni legittima rivendicazione di classe a un'opera di ricostruzione economica che, nonostante le assicurazioni in senso contrario dei vertici del partito, è sempre più apertamente finalizzata al rafforzamento del capitalismo italiano uscito stremato dalla guerra e del suo apparato repressivo in fabbrica e nella società. Togliatti risponderà elaborando un'ideologia - da intendersi nel senso marxiano di falsa coscienza - fondata su di un richiamo formale al leninismo, sull'aperta falsificazione del pensiero di Gramsci e soprattutto su di una identificazione quasi religiosa con il mito dell'Unione Sovietica e di Stalin.
Tra il 1946 e il 1947 appaiono le prime edizioni dei Quaderni e delle Lettere dal carcere. I testi sono pesantemente manomessi onde far scomparire tutto ciò che in qualche modo contrasta con la vulgata staliniana: sparisce ogni accenno a Bordiga e a Trotsky, naturalmente, ma anche a Rosa Luxemburg.

"Le forbici - nota Salvatore Sechi che nel 1967 pubblica uno dei primi studi sull'argomento - hanno lavorato in due direzioni, colpendo da una parte l'amicizia e il consenso di Gramsci ad alcune istanza avanzate da Trotskij e dall'Opposizione di sinistra del partito bolscevico, l'affettuosa dimestichezza con Amadeo Bordiga, la moralità civile antiborghese; e dall'altra la sua indifferenza per Stalin, i cui scritti non vengono mai richiesti, come dimostra l'elenco dei volumi letti nel periodo carcerario". (27)
Tagli rivendicati ancora nel 1967 dal "liberal" Amendola "con il proposito di togliere a Bordiga, quando ancora non si conoscevano i suoi progetti e si pensava che volesse tentare un ritorno nella vita politica, la possibilità di giovarsi dell'autorità morale di Gramsci". (28) Tagli richiesti esplicitamente dallo stesso Togliatti che nel 1951, in occasione della pubblicazione del quaderno speciale di Rinascita sui primi trent'anni del PCI, esortava i redattori in questo modo:

"Guardarsi, naturalmente, dall'esporre obiettivamente le famigerate dottrine bordighiane. Farlo esclusivamente in modo critico e distruttivo". (29)

La politica di collaborazione di classe avviata da Togliatti con la svolta di salerno trova la sua più compiuta sistemazione teorica nel concetto di "democrazia progressiva". Per Togliatti ciò che sta accadendo in Italia è quella rivoluzione democratica che, iniziatasi con le lotte risorgimentali, non è stata condotta a fondo né sviluppata dalla borghesia. tocca ora al proletariato, trasformatosi in classe dirigente nazionale grazie alla lotta contro il fascismo prima e alla guerra di liberazione poi, farsene carico assieme a tutte le forze democratiche e progressive nell'interesse supremo della nazione.
La prima considerazione da fare riguarda l'uso strumentale e mistificante che viene fatto del pensiero di Gramsci. Per Gramsci, infatti, l'arretratezza relativa del capitalismo italiano non comportava assolutamente la necessità di "completare" la rivoluzione democratico-borghese, ma al contrario favoriva la rivoluzione proletaria:

"Si ha in Italia conferma - affermava nelle tesi redatte per il congresso di Lione - della tesi che le più favorevoli condizioni per la rivoluzione proletaria non si hanno necessariamente sempre nei pesi dove il capitalismo e l'industrialismo sono giunti al più alto grado del loro sviluppo ma si possono invece avere là dove il tessuto del sistema capitalistico offre minori resistenze, per le sue debolezze di struttura, a un attacco della classe rivoluzionaria e dei suoi alleati". E conclude con determinazione: "Il capitalismo è l'elemento predominante nella società italiana e la forza che prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista". (30)
Le tesi di Lione sono del 1926. a prendere per buona la concezione togliattiana di "democrazia progressiva" dovremmo ricavarne la conclusione che vent'anni più tardi il livello delle forze produttive e la natura dei rapporti sociali in Italia fossero drammaticamente regrediti. In realtà, "l'alternativa che si poneva nel 1944-45 era la seguente: o uscire dal quadro del regime capitalista, ponendo la prospettiva del potere operaio, o rassegnarsi alla prospettiva di un ritorno alla democrazia borghese di vecchio tipo che, nella misura in cui si fosse consolidata, lo avrebbe fatto a spese del proletariato e con un arroccamento su posizioni sempre più conservatrici". (31) E i fatti stessi si incaricheranno in breve di dimostrarlo.

Il PCI forza di governo

La collaborazione del PCI a livello governativo continua e si intensifica dopo la Liberazione, prima con il governo Parri e poi con i due primi governi De Gasperi. Abbiamo visto come già nel 1944 Togliatti cercasse a ogni costo l'incontro con i cattolici e ciò spiega l'inerzia del segretario comunista di fronte alla caduta del governo Parri e il favore con cui viene salutata la candidatura di De Gasperi alla presidenza del Consiglio, considerata la fine di una storica politica di esclusione dei cattolici dalla scena pubblica nazionale. Togliatti è sinceramente convinto della volontà di collaborazione di De Gasperi e lo sottolinea in moltissime occasioni ai compagni che esprimono perplessità. Così a Basso, che lo critica per il voto favorevole all'articolo 7 della Costituzione che di fatto rende il Concordato del '29 fra Stato fascista e Chiesa cattolica legge fondante della Repubblica, risponde convinto: "Questo voto ci assicura un posto al governo per i prossimi vent'anni". (32)
Dal giugno 1945 al giugno 1946 Palmiro Togliatti è ministro di Grazia e Giustizia. Il suo atteggiamento sarà sempre improntato al più rigoroso rispetto non solo della legalità borghese, ma anche della continuità dell'apparato repressivo dello Stato passato immune attraverso la farsa dell'epurazione. Uno dei suoi primi atti, in un momento di forti tensioni sociali scatenate dalla miseria dilagante nei primi mesi del dopoguerra, è l'invio ai procuratori della repubblica delle varie province di severe disposizioni perché facciano rispettare la legge e difendano la proprietà:

"Non sarà sfuggito - si legge in una di tali circolari - All'attenzione delle SS.LL. Ill.me che, specie in questi ultimi tempi, si sono verificate in molte province (...) manifestazioni di protesta da parte di disoccupati culminanti in gravissimi episodi di devastazione e di saccheggio a danno di uffici pubblici nonché di violenze contro i funzionari. pertanto questo ministero, pienamente convinto dell'assoluta necessità che l'energica azione intrapresa dalla polizia per il mantenimento dell'ordine pubblico debba essere validamente affiancata e appoggiata dall'autorità giudiziaria, si rivolge alle SS.LL., invitandole a voler impartire ai dipendenti uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le istruttorie e i relativi giudizi dovranno essere espletati con assoluta urgenza onde assicurare una pronta ed esemplare repressione (...). Si raccomanda infine di procedere, in tutti i casi in cui la legge lo consenta, con istruzione sommaria o a giudizio per direttissima e di trasmettere gli atti all'autorità giudiziaria militare qualora ricorrano le condizioni previste". (33)

La fiducia in una magistratura non epurata, formatasi negli anni del fascismo e violentemente antioperaia, è totale. Emerge ancora una volta l'immagine di un uomo che diffida delle masse che sostanzialmente disprezza, mentre pare trovarsi a suo agio solo all'interno di un apparato burocratico, sia esso il Comintern staliniano o il governo repubblicano spagnolo, o i generali di Badoglio, o l'apparato dello Stato restaurato dopo una ridicola parvenza di epurazione.
Nei confronti della base degli iscritti si sosterrà in seguito, dopo la cacciata dal governo nel 1947, che la politica sostanzialmente negativa perseguita dal 1944 era stata determinata dai condizionamenti posti dalla situazione internazionale e dai ricatti della DC e degli alleati. In realtà le cose stanno ben diversamente. Il fatto è che il PCI, che non vuole essere forza rivoluzionaria, non può essere neppure forza riformista ché troppi sarebbero stati gli interessi che si sarebbero comunque dovuti in qualche modo intaccare. Il risultato è l'immobilismo. Scrive a questo proposito Danilo Montaldi:
"Il PCI tende a trasfondere nell'azione ministeriale dal '44 al '47, con ruolo di mediazione, quanto emerge dalla lotta tra le classi nel paese; ma non può 'fare politica' come è nelle sue ambizioni, non può diventare autentico 'partito di governo' se non alla condizione di servire un solo 'blocco' - e nello stesso tempo lo Stato - perché su quel terreno possibilità di politica unitaria a lungo termine non ne esistono. Donde il suo verificato immobilismo anche sul piano ministeriale e parlamentare. È la tendenza a permanere in funzione di qualche 'dopo' che non coincide mai con la prospettiva del proletariato". (34)

Una realtà, questa, che l'esperienza berlingueriana dell'unità nazionale e del compromesso storico ha riproposto in tutta la sua evidenza.

1947: il benservito della borghesia

L'avvio della guerra fredda nel 1947 coglie di sorpresa il PCI che almeno dal 1943 puntato tutte le sue carte sull'alleanza, ritenuta indistruttibile, fra l'Unione Sovietica e le grandi potenze imperialistiche occidentali. Ora che la situazione interna è normalizzata, che iniziano ad affluire capitali americani, che la prima fase, quella più dura, della ricostruzione è compiuta, alla borghesia i comunisti non servono più: gli si può dare il benservito. Gli stretti legami con l'URSS, vantaggiosi fino a che questa era alleata degli USA, diventano di lì in poi la prova della doppiezza comunista, dell'inaffidabilità del PCI come forza di governo. L'intero progetto politico togliattiano si trova nel giro di poche settimane posto ai margini del quadro politico, privato di ogni spazio di manovra.
Scriveva Trotsky dal confino di Alma Ata a proposito della maggioranza staliniana dell'Internazionale:

"Il compito di questa scuola strategica consiste nell'ottenere con la manovra tutto quello che la sola forza rivoluzionaria della classe può conquistare (...). Tuttavia, tutti i tentativi di applicare il metodo burocratico degli intrighi alla soluzione di grandi questioni in quanto metodo relativamente più 'economico' di quello della lotta rivoluzionaria, hanno portato inevitabilmente a sconfitte vergognose (...). Bisogna capire una volta per tutte che una manovra non può mai decidere una grande causa (...). La contraddizione che esiste tra il proletariato e la borghesia è una contraddizione fondamentale. Ecco perché tentare di imbrigliare la borghesia, ricorrendo a manovre organizzative o personali, e di obbligarla sottoporsi a piani previsti nelle 'combines' non significa operare una manovra ma ingannare se stessi in modo vergognoso, anche se si tratta di un'ampia operazione. non si possono ingannare le classi. Ciò vale per tutte le classi se si considerano le cose dal punto di vista storico generale; ma vale più particolarmente e direttamente per le classi dominanti, possidenti, sfruttatrici, colte. La loro esperienza del mondo è così grande, i loro istinti di classe così esercitati, i loro organi di spionaggio così vari che, tentando di ingannarle, fingendo di essere quello che non si è, si finisce in realtà con il far cadere nella trappola non i nemici ma gli amici". (35)

17. Secchia-Frassati, Storia della Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1965, p.307.
18. G. Bocca, op. cit., p. 377
19. G. Pajetta, Il ragazzo rosso va alla guerra, Mondadori, Milano 1986, p. 105.
20. Ivi, p. 67.
21. P. Togliatti, Lettera al triumvirato di Bologna, in Rinascita n.4, aprile 1955.
22. L'Unità, 22 maggio 1945.
23. P. Togliatti, che cos'è il partito nuovo?, Rinascita, ottobre-dicembre 1944.
24. A. Moscato, Il PCI al governo nel 1944-47, in Sinistra e potere, Sapere 2000, Roma 1983, p. 11.
25. Migliorare la campagna elettorale, in La politica dei comunisti dal V al VI Congresso, Roma s.d., p. 46.
26. I risultati della consultazione popolare del 2 giugno e i compiti dei comunisti. Risoluzione della direzione del PCI, in La politica dei comunisti, cit., p. 80.
27. S. Sechi, Spunti critici sulle "Lettere dal carcere" di Gramsci, Quaderni piacentini, n.29, gennaio 1967.
28.G. Amendola, prassi rivoluzionaria e storicismo in Gramsci, Critica Marxista, n. 2, 1967, p. 6.
29. L. Cortesi, Introduzione a Tasca, I primi dieci anni del PCI, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 34.
30. Tesi di Lione, Milano 1975, p. 18
31. L. Maitan, Teoria e politica comunista del dopoguerra, Schwarz, Milano 1959, p. 42.
32. G. Bocca, op. cit., p. 450.
33. ivi, p. 453.
34. D. Montaldi, op. cit., p. 265.
35. L. Trotskij, La III Internazionale dopo Lenin, Schwarz, Milano 1957, pp. 155-57.

(Bandiera Rossa, n.6. giugno 1988)