Dire che la scuola italiana sia in sofferenza è ormai quasi una banalità. Crediamo sia importante non fermarsi alla constatazione di un fenomeno sotto gli occhi di tutti, ma cercare di capirne il perchè. La pacata ma ferma riflessione di Luigi Vassallo, uomo di scuola e per molti anni preside innovatore, è un buon modo di iniziare questa discussione.
Luigi Vassallo
CHE STA SUCCEDENDO ALLA SCUOLA ITALIANA?
Alle notizie che si rincorrono sui giornali o nei notiziari televisivi le famiglie (in particolare quelle che si apprestano a iscrivere per la prima volta i figli a scuola o a iscriverli in una scuola superiore) restano frastornate e confuse, mentre chi lavora nella scuola è tentato sempre di più di gettare la spugna (andandosene se ha i requisiti per la pensione) o tirando a campare (cercando di resistere al sussulto della propria coscienza che lo esorta all’ennesimo sacrificio dalla parte degli studenti).
Si va dalla riduzione delle ore di lezione e dalla scomparsa di materie o parti di materie nella cosiddetta riforma delle scuole superiori alla impossibilità di assumere supplenti in caso di assenza dei titolari perché le scuole non hanno soldi e hanno saputo che i crediti che vantano nei riguardi del Ministero dell’Istruzione (per aver pagato le supplenze negli anni scorsi anticipando soldi che avevano in cassa per altre esigenze) molto probabilmente non saranno saldati, a una circolare della direzione scolastica regionale (tardiva perché arriva in corso d’opera e dopo che per anni si è lasciato credere che le scuole avessero il diritto, peraltro condiviso dagli studenti se non dalle famiglie, di aggiungere altri giorni di vacanza a quelli definiti nel calendario scolastico) che richiama le scuole alla necessità di offrire agli allievi comunque attività formative alternative in caso di decisione di interruzione delle lezioni normali (cosiddetto stop didattico).
Di fronte a questo scenario, che fa pensare a uno stato di fallimento strisciante dell’ “azienda scuola”, è necessario – se ancora si crede alla funzione formativa della scuola pubblica – favorire la sinergia tra tutte le persone e gli organismi che nella scuola vogliono continuare a credere. A cominciare da una riflessione non umorale su quello che sta accadendo. A questo tende il contributo che qui si propone.
Dello tsunami che a partire dallo scorso anno scolastico si abbatte sulla scuola italiana si possono dare due letture. Anzitutto una lettura in chiave economica (o economicistica):
a) Chi promuove o sostiene i provvedimenti di riduzione della nostra scuola legittima gli interventi nel nome della assoluta necessità di ridurre e contenere la spesa pubblica, manifestando una concezione aziendalistica per la quale il rapporto costo-benefici è una delle due variabili (insieme con l’entità del profitto) da prendere in considerazione per decidere l’ampliamento o la riduzione della produzione o del servizio con il conseguente aumento o taglio dei posti di lavoro. D’altra parte a queste stesse persone non sfugge il dramma dei precari della scuola condannati a perdere ogni possibilità di lavoro o quello dei giovani che stanno oggi studiando per diventare insegnanti, ai quali si chiudono in buona parte gli spiragli sul futuro. Ma di questo dramma non possono farsene carico perché – proclamano – la scuola non è un ente di beneficenza né un ammortizzatore sociale e dietro questo loro apparente buonsenso celano una concezione malthusiana della società, per la quale è bene che lo Stato non intervenga a sostenere i poveri, perché così questi saranno spazzati via dal mercato e dalla società e la popolazione attiva (cioè con un lavoro) potrà vivere meglio e spartirsi la ricchezza sociale: concezione questa che da duecento anni viene continuamente sbugiardata dal fatto evidente che i poveri (proprio in assenza di radicali interventi degli Stati contro la povertà) continuano ad aumentare e ad inghiottire nella loro voragine ceti medi progressivamente declassati, mentre la ricchezza continua ad essere spartita da una minoranza sempre più ristretta.
b) Chi si oppone ai suddetti provvedimenti protesta che, anziché tagliare i posti di lavoro, bisogna aumentare l’occupazione per non far crollare i consumi e che bisogna contenere e ridurre la disoccupazione per non accrescere i costi sociali che la stessa comporta: questa protesta, legittima sicuramente, rivela però anch’essa una concezione economicistica e l’assunzione del Prodotto Interno Lordo come misura indiscutibile della crescita sociale, laddove nel PIL figurano grandezze quantitative (come la produzione, gli scambi commerciali e i consumi), ma non figurano gli aspetti qualitativi della vita, quelli che fanno la differenza tra una concezione della vita aziendalistica – autoritaria e una concezione partecipativa – democratica.
Ma accanto o oltre la lettura economicistica si può tentare e rivendicare una lettura politica, se non altro alla luce della catastrofe finanziaria dello scorso anno che, partendo dagli USA, ha contagiato il mondo intero e che (in un’ironica eterogenesi dei fini) ci ha fatto già assistere alla “conversione” della passata amministrazione Bush che, dopo essersi schierata a difesa del più sfrenato liberismo, si è dovuta mettere in ginocchio davanti al Congresso per ottenere un intervento politico (definito dagli stessi sostenitori di Bush “di stampo socialista”) nel disperato tentativo di porre rimedio ai disastri provocati da un’economia lasciata senza guida politica e autorizzata ad autogovernarsi con le sue leggi (profitto, costi – benefici ecc.).
Ebbene, non si tratta di invocare interventi eccezionali della politica quando le cose dell’economia vanno male. Si tratta, piuttosto, di tornare alla chiara consapevolezza di Platone che le tecniche (come l’economia) sanno sempre come procedere ma non sanno se è bene o male procedere: questo può provare a dirlo solo la politica.
E allora la domanda, in termini politici, non è se la scuola costa troppo ma se la scuola serve e a che cosa serve.
La risposta su cui gli opposti schieramenti dell’Italia di oggi sembrano essere d’accordo è che la scuola serve a garantire il “diritto di cittadinanza”. Sì, ma quale cittadinanza? Quella della Constitutio Antoniniana con la quale nel 212 Caracalla riconobbe cives tutti i sudditi dell’impero romano, parificandoli sul piano giuridico, senza, però, intaccarne le differenze economiche, sociali, culturali? O quella prefigurata dall’art. 3 della nostra Costituzione che, alla proclamazione della pari dignità di tutti i cittadini, accompagna l’impegno per le istituzioni della Repubblica (e, quindi, anche per la scuola) a rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva parità?
Un progetto di cittadinanza che non mi piace. Non mi piace il progetto di cittadinanza che sta dietro la scuola che si sta delineando in Italia dalla fine del 2008: meno tempo scuola, meno cose da studiare, meno insegnanti e meno ATA al lavoro, meno classi di scolari e studenti, meno plessi (cioè luoghi fisici dove fare scuola), meno soldi per funzionare; progetti di integrazione (per la convivenza tra le diverse abilità o tra le diverse culture; per la lotta al bullismo e alle altre forme di disagio giovanile) messi a rischio o cancellati o messi alla berlina come spese inutili e peregrine rispetto al compito della scuola che, nelle intenzioni degli attuali sedicenti “riformatori”, dovrebbe essere – come nella mia infanzia – insegnare a leggere, scrivere e far di conto … e basta; il problema della devianza giovanile e quello dello scarso rendimento affrontati solo in termini di repressione (voto di condotta e bocciatura) senza che questi strumenti (che pure a volte sono necessari) possano essere inseriti in azioni coordinate e significative di recupero (impossibili in classi sempre più numerose e con risorse professionali e finanziarie continuamente ridotte). Non mi piace una scuola ridotta ai servizi essenziali, perché questi sono sufficienti solo per una cittadinanza buona per le esigenze del consumismo e non per la partecipazione consapevole e critica al complicato mondo nel quale ci tocca vivere oggi. Non mi piace, insomma, la disarticolazione dello Stato che procede con la de pauperizzazione dei servizi pubblici che, privati di risorse professionali e finanziarie, inevitabilmente funzionano come possono, cosa che rende credibile agli utenti la favola che se i servizi fossero privatizzati funzionerebbero meglio.
Un progetto di cittadinanza che mi piace. Nella nostra giovinezza abbiamo subito il fascino di teorie antiautoritarie che parlavano di descolarizzazione della società, ma, ora che gli entusiasmi giovanili per rivoluzioni fatte più di slogan che di sostanza sono svaporati, abbiamo chiaro (quelli della mia generazione) che, se il patrimonio genetico (quello che garantisce la nostra identità biologica) si trasmette con un atto di cui sono capaci anche gli animali, il patrimonio culturale (quello che garantisce l’identità di una società e, dentro di essa, l’identità dei cives) si trasmette solo per via culturale, con un atto intenzionale che richiede la consapevolezza di chi lo compie e di chi lo riceve, oltre ovviamente un luogo e un tempo istituzionali in cui quest’atto possa compiersi. Questo luogo e questo tempo istituzionali sono quello che chiamiamo “scuola”. Ed è nella scuola che si trasmette il patrimonio culturale identitario della società e cioè l’insieme di saperi, abilità, nuclei valoriali e, con essi, il ripensamento critico e consapevole degli stessi di fronte alle esigenze del proprio tempo: solo questo patrimonio garantisce il diritto di cittadinanza nella sostanza, al di là delle parità formali. La scuola che serve, allora, è quella che si radica nell’art. 3 della Costituzione, quella che assume come orizzonte di cittadinanza la convivenza di sessi diversi, di lingue diverse, di religioni diverse (diversità che, quando entrò in vigore la nostra Costituzione, erano solo di principio, mentre oggi esplodono nelle nostre strade nella loro corposa consistenza) e riconosce come propria ragion d’essere l’impegno a rimuovere gli ostacoli alla realizzazione matura e consapevole di tale convivenza. In una scuola del genere possono incontrarsi le esigenze di chi oggi vi lavora o rischia di non lavorarvi più e le esigenze di chi, per se stesso o per i propri figli o comunque per gli altri, rivendica il diritto a un percorso di crescita personale e sociale. Questa scuola è un valore per tutti, perché fonde valore di scambio (cioè le esigenze economiche di chi vede minacciate le proprie possibilità di lavorare) e valore d’uso (cioè l’esigenza di chi frequenta la scuola di diventare cittadino a pieno titolo per non soccombere come suddito del consumismo e burattino nelle mani di un demagogo di turno).
Serve un forte consenso sociale. Quaranta anni fa la Federazione Lavoratori Metalmeccanici comprese che non bastava più battersi per migliorare la condizione dei lavoratori nelle fabbriche senza intaccare la condizione di quegli stessi lavoratori fuori delle fabbriche, in particolare quando usufruivano della scuola per i loro figli o dei servizi sanitari per se stessi e le loro famiglie. E così fu grazie alla minaccia di sciopero dei metalmeccanici al fianco dei lavoratori della scuola che ottenemmo nel 1974 i “decreti delegati”, che oggi ci possono sembrare poca cosa ma che all’epoca furono fortemente innovativi. Io credo che sia necessario ricostruire un nuovo analogo consenso sociale sulla scuola e che a questa ricostruzione debbano contribuire le organizzazioni politiche, sindacali e sociali, nonché i cittadini senza appartenenza, che al progetto di destrutturazione della scuola italiana intendono opporre un forte progetto di ricostruzione come pilastro, nella sua autonomia, di una rinnovata società democratica.
Luigi Vassallo
CHE STA SUCCEDENDO ALLA SCUOLA ITALIANA?
Alle notizie che si rincorrono sui giornali o nei notiziari televisivi le famiglie (in particolare quelle che si apprestano a iscrivere per la prima volta i figli a scuola o a iscriverli in una scuola superiore) restano frastornate e confuse, mentre chi lavora nella scuola è tentato sempre di più di gettare la spugna (andandosene se ha i requisiti per la pensione) o tirando a campare (cercando di resistere al sussulto della propria coscienza che lo esorta all’ennesimo sacrificio dalla parte degli studenti).
Si va dalla riduzione delle ore di lezione e dalla scomparsa di materie o parti di materie nella cosiddetta riforma delle scuole superiori alla impossibilità di assumere supplenti in caso di assenza dei titolari perché le scuole non hanno soldi e hanno saputo che i crediti che vantano nei riguardi del Ministero dell’Istruzione (per aver pagato le supplenze negli anni scorsi anticipando soldi che avevano in cassa per altre esigenze) molto probabilmente non saranno saldati, a una circolare della direzione scolastica regionale (tardiva perché arriva in corso d’opera e dopo che per anni si è lasciato credere che le scuole avessero il diritto, peraltro condiviso dagli studenti se non dalle famiglie, di aggiungere altri giorni di vacanza a quelli definiti nel calendario scolastico) che richiama le scuole alla necessità di offrire agli allievi comunque attività formative alternative in caso di decisione di interruzione delle lezioni normali (cosiddetto stop didattico).
Di fronte a questo scenario, che fa pensare a uno stato di fallimento strisciante dell’ “azienda scuola”, è necessario – se ancora si crede alla funzione formativa della scuola pubblica – favorire la sinergia tra tutte le persone e gli organismi che nella scuola vogliono continuare a credere. A cominciare da una riflessione non umorale su quello che sta accadendo. A questo tende il contributo che qui si propone.
Dello tsunami che a partire dallo scorso anno scolastico si abbatte sulla scuola italiana si possono dare due letture. Anzitutto una lettura in chiave economica (o economicistica):
a) Chi promuove o sostiene i provvedimenti di riduzione della nostra scuola legittima gli interventi nel nome della assoluta necessità di ridurre e contenere la spesa pubblica, manifestando una concezione aziendalistica per la quale il rapporto costo-benefici è una delle due variabili (insieme con l’entità del profitto) da prendere in considerazione per decidere l’ampliamento o la riduzione della produzione o del servizio con il conseguente aumento o taglio dei posti di lavoro. D’altra parte a queste stesse persone non sfugge il dramma dei precari della scuola condannati a perdere ogni possibilità di lavoro o quello dei giovani che stanno oggi studiando per diventare insegnanti, ai quali si chiudono in buona parte gli spiragli sul futuro. Ma di questo dramma non possono farsene carico perché – proclamano – la scuola non è un ente di beneficenza né un ammortizzatore sociale e dietro questo loro apparente buonsenso celano una concezione malthusiana della società, per la quale è bene che lo Stato non intervenga a sostenere i poveri, perché così questi saranno spazzati via dal mercato e dalla società e la popolazione attiva (cioè con un lavoro) potrà vivere meglio e spartirsi la ricchezza sociale: concezione questa che da duecento anni viene continuamente sbugiardata dal fatto evidente che i poveri (proprio in assenza di radicali interventi degli Stati contro la povertà) continuano ad aumentare e ad inghiottire nella loro voragine ceti medi progressivamente declassati, mentre la ricchezza continua ad essere spartita da una minoranza sempre più ristretta.
b) Chi si oppone ai suddetti provvedimenti protesta che, anziché tagliare i posti di lavoro, bisogna aumentare l’occupazione per non far crollare i consumi e che bisogna contenere e ridurre la disoccupazione per non accrescere i costi sociali che la stessa comporta: questa protesta, legittima sicuramente, rivela però anch’essa una concezione economicistica e l’assunzione del Prodotto Interno Lordo come misura indiscutibile della crescita sociale, laddove nel PIL figurano grandezze quantitative (come la produzione, gli scambi commerciali e i consumi), ma non figurano gli aspetti qualitativi della vita, quelli che fanno la differenza tra una concezione della vita aziendalistica – autoritaria e una concezione partecipativa – democratica.
Ma accanto o oltre la lettura economicistica si può tentare e rivendicare una lettura politica, se non altro alla luce della catastrofe finanziaria dello scorso anno che, partendo dagli USA, ha contagiato il mondo intero e che (in un’ironica eterogenesi dei fini) ci ha fatto già assistere alla “conversione” della passata amministrazione Bush che, dopo essersi schierata a difesa del più sfrenato liberismo, si è dovuta mettere in ginocchio davanti al Congresso per ottenere un intervento politico (definito dagli stessi sostenitori di Bush “di stampo socialista”) nel disperato tentativo di porre rimedio ai disastri provocati da un’economia lasciata senza guida politica e autorizzata ad autogovernarsi con le sue leggi (profitto, costi – benefici ecc.).
Ebbene, non si tratta di invocare interventi eccezionali della politica quando le cose dell’economia vanno male. Si tratta, piuttosto, di tornare alla chiara consapevolezza di Platone che le tecniche (come l’economia) sanno sempre come procedere ma non sanno se è bene o male procedere: questo può provare a dirlo solo la politica.
E allora la domanda, in termini politici, non è se la scuola costa troppo ma se la scuola serve e a che cosa serve.
La risposta su cui gli opposti schieramenti dell’Italia di oggi sembrano essere d’accordo è che la scuola serve a garantire il “diritto di cittadinanza”. Sì, ma quale cittadinanza? Quella della Constitutio Antoniniana con la quale nel 212 Caracalla riconobbe cives tutti i sudditi dell’impero romano, parificandoli sul piano giuridico, senza, però, intaccarne le differenze economiche, sociali, culturali? O quella prefigurata dall’art. 3 della nostra Costituzione che, alla proclamazione della pari dignità di tutti i cittadini, accompagna l’impegno per le istituzioni della Repubblica (e, quindi, anche per la scuola) a rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva parità?
Un progetto di cittadinanza che non mi piace. Non mi piace il progetto di cittadinanza che sta dietro la scuola che si sta delineando in Italia dalla fine del 2008: meno tempo scuola, meno cose da studiare, meno insegnanti e meno ATA al lavoro, meno classi di scolari e studenti, meno plessi (cioè luoghi fisici dove fare scuola), meno soldi per funzionare; progetti di integrazione (per la convivenza tra le diverse abilità o tra le diverse culture; per la lotta al bullismo e alle altre forme di disagio giovanile) messi a rischio o cancellati o messi alla berlina come spese inutili e peregrine rispetto al compito della scuola che, nelle intenzioni degli attuali sedicenti “riformatori”, dovrebbe essere – come nella mia infanzia – insegnare a leggere, scrivere e far di conto … e basta; il problema della devianza giovanile e quello dello scarso rendimento affrontati solo in termini di repressione (voto di condotta e bocciatura) senza che questi strumenti (che pure a volte sono necessari) possano essere inseriti in azioni coordinate e significative di recupero (impossibili in classi sempre più numerose e con risorse professionali e finanziarie continuamente ridotte). Non mi piace una scuola ridotta ai servizi essenziali, perché questi sono sufficienti solo per una cittadinanza buona per le esigenze del consumismo e non per la partecipazione consapevole e critica al complicato mondo nel quale ci tocca vivere oggi. Non mi piace, insomma, la disarticolazione dello Stato che procede con la de pauperizzazione dei servizi pubblici che, privati di risorse professionali e finanziarie, inevitabilmente funzionano come possono, cosa che rende credibile agli utenti la favola che se i servizi fossero privatizzati funzionerebbero meglio.
Un progetto di cittadinanza che mi piace. Nella nostra giovinezza abbiamo subito il fascino di teorie antiautoritarie che parlavano di descolarizzazione della società, ma, ora che gli entusiasmi giovanili per rivoluzioni fatte più di slogan che di sostanza sono svaporati, abbiamo chiaro (quelli della mia generazione) che, se il patrimonio genetico (quello che garantisce la nostra identità biologica) si trasmette con un atto di cui sono capaci anche gli animali, il patrimonio culturale (quello che garantisce l’identità di una società e, dentro di essa, l’identità dei cives) si trasmette solo per via culturale, con un atto intenzionale che richiede la consapevolezza di chi lo compie e di chi lo riceve, oltre ovviamente un luogo e un tempo istituzionali in cui quest’atto possa compiersi. Questo luogo e questo tempo istituzionali sono quello che chiamiamo “scuola”. Ed è nella scuola che si trasmette il patrimonio culturale identitario della società e cioè l’insieme di saperi, abilità, nuclei valoriali e, con essi, il ripensamento critico e consapevole degli stessi di fronte alle esigenze del proprio tempo: solo questo patrimonio garantisce il diritto di cittadinanza nella sostanza, al di là delle parità formali. La scuola che serve, allora, è quella che si radica nell’art. 3 della Costituzione, quella che assume come orizzonte di cittadinanza la convivenza di sessi diversi, di lingue diverse, di religioni diverse (diversità che, quando entrò in vigore la nostra Costituzione, erano solo di principio, mentre oggi esplodono nelle nostre strade nella loro corposa consistenza) e riconosce come propria ragion d’essere l’impegno a rimuovere gli ostacoli alla realizzazione matura e consapevole di tale convivenza. In una scuola del genere possono incontrarsi le esigenze di chi oggi vi lavora o rischia di non lavorarvi più e le esigenze di chi, per se stesso o per i propri figli o comunque per gli altri, rivendica il diritto a un percorso di crescita personale e sociale. Questa scuola è un valore per tutti, perché fonde valore di scambio (cioè le esigenze economiche di chi vede minacciate le proprie possibilità di lavorare) e valore d’uso (cioè l’esigenza di chi frequenta la scuola di diventare cittadino a pieno titolo per non soccombere come suddito del consumismo e burattino nelle mani di un demagogo di turno).
Serve un forte consenso sociale. Quaranta anni fa la Federazione Lavoratori Metalmeccanici comprese che non bastava più battersi per migliorare la condizione dei lavoratori nelle fabbriche senza intaccare la condizione di quegli stessi lavoratori fuori delle fabbriche, in particolare quando usufruivano della scuola per i loro figli o dei servizi sanitari per se stessi e le loro famiglie. E così fu grazie alla minaccia di sciopero dei metalmeccanici al fianco dei lavoratori della scuola che ottenemmo nel 1974 i “decreti delegati”, che oggi ci possono sembrare poca cosa ma che all’epoca furono fortemente innovativi. Io credo che sia necessario ricostruire un nuovo analogo consenso sociale sulla scuola e che a questa ricostruzione debbano contribuire le organizzazioni politiche, sindacali e sociali, nonché i cittadini senza appartenenza, che al progetto di destrutturazione della scuola italiana intendono opporre un forte progetto di ricostruzione come pilastro, nella sua autonomia, di una rinnovata società democratica.
(Da: Ipse dixit)