martedì 16 febbraio 2010

Il ciliegio fiorirà ancora, storie di donne nella rivoluzione


Eleonora Fonseca Pimentel

Vento largo è un piccolo blog, nato da poco. Parliamo di cose che forse interessano a pochi e ogni tanto ci viene da chiederci se non stiamo diventando come gli "uomini-libro" del film di Truffaut. Poi ci arrivano pagine come quelle di Armida Lavagna e il vento largo, il vent-di-damo (come lo chiamano gli Occitani), riprende a soffiare leggero.
Armida Lavagna

Il ciliegio fiorirà ancora, storie di donne nella rivoluzione


Un saggio talvolta tentato dalla narrativa, breve per necessità: anche in quella pagina di storia, infatti, come in tutte le altre, le donne godono di poco spazio e poca attenzione. Sono inquadrate di sfuggita, compaiono per sottolineare con maggior enfasi azioni di uomini; qui, talvolta, compaiono per lo stupore di un uomo che le ha viste comportarsi come uomini. Più spesso, compaiono come vittime di uomini.

L’autore spesso arricchisce lo scarso materiale a disposizione amplificando, dilatando le poche notizie storiche in quadri. In immagini nitide, dai colori forti, violenti come le scene rappresentate. Al centro, sempre, le donne: una o tante, coro anonimo o individui. Caratterizzate anzitutto “in negativo” da una nota esistenziale ovvia: non sono uomini. Eppure il motivo per ritrarle è questo, in ultima analisi; del resto, la storia dell’emancipazione femminile passa attraverso la tensione fra due opposte rivendicazioni: le donne sono uguali agli uomini (quanto a diritti), le donne sono diverse dagli uomini (quanto a identità). Così, in questi quadri accade di trovare donne (tra)vestite da uomini, con i capelli corti, nell’atto di svolgere il compito il mestiere che più di ogni altro è sempre stato maschile: combattere (in una guerra diversa da quelle cui erano abituate: quelle affrontate quotidianamente per non soccombere alla violenza, ai parti, alla fame propria e dei figli...). E l’immagine con la quale l’opera si apre e si chiude è infatti quella delle tre ragazze morte nel fortino di Vigliena, confuse tra gli uomini. Indossavano l’uniforme civica. Indossavano l’uniformità dei soldati, per definizione maschile, e che avrebbe dovuto garantire loro la stessa sorte dei loro compagni, i quali hanno subito “solo” l’oltraggio della morte. Ma “essendosi conosciute spogliandole (...) di esse si fece strazio dai soldati”: private di quell’uniforme, sono restituite alla loro identità sessuale, alla sventurata anomalia di essere donne, e per questo catalizzatrici della violenza di chi le riconosce senza conoscerle, o di chi pensa di conoscerle e non le riconosce, come a tante altre donne capitò in altri contesti, a donne streghe, sante, suffragette.

In questi “quadri” la natura non trova posto, neppure nelle campagne, evocate senza essere descritte; talvolta, il mare fa da opaco sfondo alle azioni, un mare presente non come elemento del paesaggio ma come via di comunicazione: solcato da navi amiche ed ostili, attraversato da esuli che partono e tornano a volte senza ritrovarsi, a volte senza più conciliarsi con quei luoghi dove hanno subìto violenze, dove hanno visto delusioni sostituirsi ad aneliti; a volte trovando una riconciliazione che simbolicamente passa attraverso il matrimonio di ex-detenuti politici con le donne che li hanno aiutati.

L’unico elemento naturale – trasfigurato e assurto a simbolo – è l’albero della libertà. Il ciliegio fiorito, ma anche il fusto bruciato destinato a rinascere e fiorire nuovamente nelle speranze di chi si ostina a credere che un altro modello di società sia possibile. Emblema della rivoluzione, assiste ai suoi successi e ai suoi eccessi, ai suoi entusiasmi e alle sue ingenuità; percepisce il fremito di chi la libertà non l’aveva mai neppure annusata e per un giorno o un mese se ne ubriaca, l’entusiasmo delle coppie che si sposano improvvise girando allacciate intorno ad esso come in un antico rito pagano che sostituisca la pianificata compravendita in cui spesso consisteva il matrimonio tradizionale. Poi, come ad un cambio di stagione, privato di linfa, quell’albero diventa muto testimone di stupri ed esecuzioni, di violenza e ludibrio, di falò che bruciano speranze corpi spasimi ed infine vittima esso stesso del fuoco.

Ritratti di donne e inevitabilmente di uomini che con loro s’incontrano e si scontrano, dunque. Ma con le donne in primo piano. Eleonora anzitutto, come nel quadro – reale, questo - scelto per la copertina. Impressionante. Al centro esatto della composizione, il suo sguardo severo, il suo profilo deciso; sotto, una scollatura prepotentemente femminile ma disadorna, e poi mani grandi, non adatte alle “opre femminili”, ma alle carte che maneggia o protegge, fiera. Intorno, uomini che le parlano, che la guardano, che s’inchinano; ma che lei non vede neppure. Lo sguardo è altrove, il pensiero è altrove. Politica, letteratura, lotta, articoli da scrivere, denunce da fare, posizioni da sostenere. Una vita sociale intensa, eppure il prezzo pagato è la solitudine. Una solitudine voluta e necessaria, in un contesto in cui l’essere donna – anche tra i rivoluzionari - significava comunque essere in relazione all’ uomo, essere funzionale all’uomo (molle che richiamano gli uomini alla virtù, calamite che fanno “operar de’prodigi” agli uomini): legittimate a ispirare l’azione, non ad agire. Donne pericolose, tuttavia, già solo per questo, dunque necessitanti – sono le parole di un giacobino... - di un’educazione che diriga “verso il retto scopo gli sforzi delle loro passioni”. Termine fuorviante. Più che e-ducere, in-ducere. Ma Eleonora non si fa educare, indurre, sedurre. Si rende inaccessibile, pur in mezzo a salotti, a eventi mondani, a uomini. Gli unici uomini ai quali la vediamo rivolgere uno sguardo sono i rivoluzionari uccisi ai piedi del patibolo sul quale sale a sua volta. Uno sguardo che si immagina di com-passione, di rispetto, di fratellanza. Nella morte, in quella morte, Eleonora probabilmente sente davvero raggiunta l’égalité con quegli uomini, mentre altri uomini cercano di umiliarla come donna, mentre altre donne la deridono o ne provano pena, o magari, in fondo in fondo, la invidiano.

Eleonora e le altre. Le altre non sapremo mai se avevano personalità altrettanto forti, le altre non sono entrate nella Storia da protagoniste ma da comparse, non hanno avuto il riflettore puntato addosso così a lungo e con luce così chiara; di molte il ritratto non ci mostra neppure il viso, ma solo un gesto, un atto che spesso è l’ultimo compiuto, come nel caso della quattordicenne improbabile eroina che cerca scampo invano sotto al letto dai suoi carnefici, come una bambina terrorizzata da un incubo. Eppure alcune non possiamo che immaginarle simili ad Eleonora, pur se non hanno la sua consapevolezza, la sua cultura, il suo coraggio. Ci piace immaginarle simili a lei nello slancio radicale – meditato o impulsivo - dell’adesione ad un progetto o ad un sogno, simili a lei per il loro coraggio nel perseguirlo, simili infine per la sorte che le attende, che non è la stessa per tutte, ma è comunque, nella maggior parte dei casi, la condanna al silenzio: con la morte, con la violenza, con la reclusione in un convento, con umiliazioni e sofferenze tali da portare persino alla pazzia o al suicidio.

In fondo, Eleonora e le altre sono tutte accomunate dall’essere donne. Dal non essere uomini. Dal sentirselo ricordare sempre dagli uomini, tranne in qualche momento di euforica libertà ai piedi di quell’albero. Donne che cuciono da panni logori e vecchi cappotti bandiere di speranza. Una speranza tradita, una libertà che per loro, soprattutto per loro, era ancora lontana (e che ancora adesso lo è, in modi diversi, a diverse latitudini...). A ricordare quanto lo fosse, i reazionari – uomini - innalzano un’altra “bandiera”, orripilante e degradante, intrisa del loro sangue: il marchio della disuguaglianza e dell’ipocrisia, il lenzuolo macchiato esposto in trionfo dopo la notte nuziale, la “prova” esibita a mo’ di certificato di garanzia, di Denominazione d’Origine Controllata. In mancanza della quale, si reclama la sostituzione del “prodotto”. Una bandiera esibita ancora a lungo, più a lungo di tante altre. Qui esposta non solo come dovuto tributo alla consuetudine – percepita ed accettata come tale da innumerevoli donne, ancora un secolo dopo – ma come schiaffo crudele al tentativo compiuto da alcune di loro di farsi padrone del proprio corpo e del proprio destino, in nome della libertà e dell’uguaglianza.



Pietro Gargano
“Eleonora e le altre. Le donne della rivoluzione napoletana”
Magmata, Napoli, 1999