sabato 22 maggio 2010

Marino Magliani, Il controllo delle piante


Morlotti, Paesaggio (1964)

Un omaggio all'estremo Ponente ligure: l'inizio del racconto "Il controllo delle piante" tratto dalla raccolta "a quattro mani" di Marino Magliani e Vincenzo Pardini "Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo" edita da Transeuropa, 2010. Grazie ancora all'amico Marino per il consenso a pubblicare su Vento largo i suoi testi.

Marino Magliani

Il controllo delle piante

Il fuoristrada stava scivolando in una vallata di uliveti abbandonati, inaccessibili, postacci nella penombra che conoscevano solo gli elicotteristi e i piloti dei canadair quando toccava spegnere un incendio, o durante la stagione delle piogge, come ora, che si sbricciolava un costone.
Il tergicristalli sembrava impazzire e l’acqua piovana s’incanalava a fatica nelle sprèscie.
Gregorio sapeva che ogni anno l’acqua si portava via intere terrazze, blocchi di roccia franavano con la facilità con cui si staccano i denti rimasti senza gengive. Era il suo lavoro saperlo.
Era sabato e sarebbe rimasto volentieri a letto a farsi cercare coi piedi da Lory. Ma oggi avevano mandato lui. I soliti controlli alle campagne che svolgeva per conto dell’ufficio della Provincia.
Un paio di cantonieri temporeggiavano piazzando sulla strada i cartelli del pericolo.
Passando davanti al cimitero notò che la popolazione aveva ripreso a gettare calcinacci e rottami ferrosi nella discarica illegale. Ogni tanto le istituzioni davano un giro di corda, qualche multa, poi la gente tornava a gettare ferrame dove poteva.
Lasciatasi dietro la riga di case di ogni colore che incassavano la strada, la macchina si fermò davanti all’edificio con la pubblicità del caffè. Non distante dal torrente.
Gregorio spense e guardò l’ora. Era presto. Rimase seduto alla guida.
Aprì la cartella e lesse i dati sulle visure catastali di Robavilla.
Dino Timonti, Foglio 12, numero di mappale 275, comune censuario di Sorba.
Era un ulivicoltore e proprietario di verde, che possedeva terreni nel comune di Sorba e in quello di Luvaira. In settimana si erano sentiti per telefono.
Era stato Gregorio a proporgli un appuntamento al bar del paese. Poi sarebbero andati assieme a fare il sopralluogo, nelle terre di Robavilla.
Rimise i fogli nella cartella e rovesciò la testa indietro, strinse gli occhi.
Il torrente faceva un rumore di crolli, alzava vapori, ma un un corso era ben più tremendo e assassino quando si asciugava. Questa cosa Gregorio l’aveva imparata da bambino, seguendo suo padre.
I giorni in cui i torrenti seccavano erano i giorni buoni per stendere i trappini e catturare gli uccelli. Decine e decine di volatili che sbattevano le ali, spaventati, intrappolati nel vischio. E bisognava ucciderli in fretta schiacciando loro il petto. Un giorno Gregorio, siccome l’uccellino non moriva l’aveva gettato con forza sulla ghiaia, e il padre l’aveva rimproverato. Non era il modo migliore per uccidere, l’uccello moriva senza soffrire ma le ossa si rompevano contro le pietre e poi la carne diventava immangiabile. Ed era per questo che uccidevano le bestie, gli aveva spiegato il padre, per mangiarle. Anni in cui erano terre magre, ricordava.
Il padre era un piccolo proprietario. Durante le vacanze Gregorio lo aiutava e bisognava partire presto, per mulattiere appese, che scavalcavano i costoni scomparendo in boschi di ulivi sempre più lontani.
Gregorio non ricordava l’odore della terra se ripensava a quelle salite pietrose, ma un odore di bestia: era come se l’avesse ancora nel respiro. Era l’odore della pelle di Fernanda.
Il padre glielo proibiva perché una mula può scalciare per un nulla, ma Gregorio si attaccava lo stesso alla coda di Fernanda e si faceva trascinare su, ed era come se una fune aiutasse i suoi passi e l’odore di quella pelle rossa entrasse nella sua di pelle.
Fernanda andava in campagna vuota e tornava coi due sacchi di olive o il fascio di legna.
In campagna il padre le toglieva il basto e la legava a un ulivo, sempre a uno diverso, e le dava dieci metri di corda, così quando tornavano a casa, la fascia era pulita come se ci fosse stato falciato.
Fernanda lavora anche da riposata, diceva ogni volta il padre. Era un uomo buono, uno di quei contadini che ripetono sempre le stesse cose, consolati dal ripetersi delle stagioni, forse. Uomo che non aveva mai alzato una mano sul figlio né sulla moglie, giusto qualche volta il bastone su Fernanda. E uccideva i capineri solo per farne il sugo, e annegava i gattini giusto se la moglie non riusciva a regalarli. Aspettava a lungo, e poi, prima che i gattini aprissero gli occhi, un mattino presto di modo che Gregorio non se ne accorgesse, li andava a cercare dove li teneva la gatta, li infilava in un sacchetto con una pietra e li gettava dal ponte.
La distanza esistente tra la Liguria dell’infanzia di Gregorio e l’attuale la misurava una specie di scavo.



Marino Magliani (Dolcedo, Imperia, 1960), scrittore e traduttore, ha soggiornato a lungo in Spagna e in America Latina prima di stabilirsi in Olanda, dove attualmente vive e lavora. Ha pubblicato: L'estate dopo Marengo (Philobiblon 2003), Quattro giorni per non morire (Sironi 2006), Il collezionista di tempo (Sironi 2007), Quella notte a Dolcedo (Longanesi 2008), La tana degli alberibelli (Longanesi 2009) e, con Vincenzo Pardini, Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa 2010). Con La tana degli alberibelli ha vinto la prima edizione del Premio Frontiere-Biamonti "Pagine di Liguria".

venerdì 21 maggio 2010

Emozioni 6



E' da pochi giorni disponibile il n.6 della nuova serie di Emozioni, Foglio interno di Poesia & Varia Tematica, curato dal poeta imperiese (e caro amico di Vento largo) Gianni Donaudi di cui riprendiamo tre lavori.


Umori


Mansarda intellettuale
tra una Metafisica
e una Magia Sexualis
tra opere del Ramacharka
di Osho e del Saj Baba,
tra curiosi oggetti e mascherine,
tappeti amuleti,
emergono profumi di incensi
mescolati e superati
con-da acuti odori
di pratiche purificatorie
della neo-sacerdotessa del 2000.


Il veliero

Micronave a vela
arrugginita e scricchiolante
forse acquistata per poche lire
a un'asta sabazia.
Pronta a salpare
verso un mare tempestoso
No! Non parto con voi...
Altro veliero
forse restaurato
Acque pacifiche e lisce
Io e le due sorelle
Brillante e piacevole conversazione
Ma la seconda rimproverami
sensibilità poetica...


La tua voce

La tua voce delicata
i tuoi innumerevoli impegni
causanti stress
e malanni forse psicosomatici
le tue cure naturali idroterapiche
le tue costanti curiosità artistiche,
le ormai tue inutili
passioni ideali...
il tuo amore per i miagolii
la tua molteplicità di ruoli
la moglie/la mamma
l'impiegata/la (ex?) militante
l'artista... (nè! che altro ancora?),
non possono lasciarmi indifferente
al solo ascoltare
la tua voce
i miei chakra palpitano...


Per informazioni e richieste di copie scrivere a G.Donaudi, via A. Doria 5, 18100 Imperia On./ Email: gdonaudi@yahoo.it





Gianni Donaudi (Imperia 1946), poeta e scrittore. Ha collaborato a molte testate, tra cui “Il Manifesto”, “Tracce di Piombino”, “Essere secondo natura”, “Nuove Angolazioni” di Napoli, “Punto di Vista”, il quotidiano “L’Umanità” di Roma. Da quindici anni cura la fanzine Emozioni dove inserisce racconti, poesie, articoli e vario materiale anche di altri autori, sia italiani che stranieri. È anche mail-artista e suoi lavori sono stati esposti in varie parti del mondo.

giovedì 20 maggio 2010

Un cosmopolita appartato. Il pittore di affetti soavi Giuseppe Frascheri.



Si è da poco conclusa la mostra dedicata a Giuseppe Frascheri di cui Vento largo ha già dato notizia con un articolo di Sergio Giuliani. Pubblichiamo oggi questo saggio esaustivo di Gabriella Freccero che delinea con grande finezza ambiti e forme della pittura del grande artista savonese.



Gabriella Freccero

Un cosmopolita appartato. Il pittore di affetti soavi Giuseppe Frascheri.

“Savona, che addita i nomi e le opere dei fratelli Picconi, di Alberto Cavalli, Leonardo e Gianantonio Sormano , Bottalla, Guidobono, Bicchio, Ratti, e di tanti altri valenti, ha pure il vanto di annoverare trai i suoi concittadini il celebre autore della Francesca da Rimini e della Pia de' Tolomei”. La lettera che ammetteva Giuseppe Frascheri tra i protagonisti del gotha artistico savonese fu vergata dal notabile savonese Agostino Bruno nel marzo del 1884, nella sua funzione di segretario della Giunta comunale che ebbe il compito di ratificare ed accettare la donazione del ritratto dell'attore drammatico Tommaso Salvini da parte dello stesso autore ormai settantacinquenne alla sua città. Ed aggiungeva: “la Giunta, gradendo volontieri il dono, manda porgere vive azioni di grazia al Com. Frascheri il quale viene nuovamente a dimostrare ch'egli non dimentica la sua città natale verso la quale ebbe sempre affetto di figlio”.A rinforzare tanta dimostrazione di gratitudine fu dedicata a Frascheri quattro anni dopo nel 1888 una statua in malta cementizia ad opera del Brilla, che adornava la facciata della casa del medesimo scultore tra via Caboto e via Scarzeria nei pressi del Duomo, insieme a quelle di altri eminenti artisti savonesi. La distruzione della casa del Brilla a seguito delle demolizioni degli anni '30 confino' la statua del Frascheri negli anonimi giardini di piazza del Popolo, dove sembra ora guardare con triste sussiego il trascorre delle epoche e il distendersi di una cappa sempre più spessa d'oblio sulle glorie passate. La recente mostra (1) allestita presso la pinacoteca civica di Savona in occasione del bicentenario della sua nascita e' l'occasione per restituire al nome del nostro più noto pittore romantico un degno revival della sua opera .


Frascheri (10-12-1809/ 2-7-1886) fu un romantico a pieno titolo: per formazione (studiò in Toscana presso il maestro del romanticismo storico Giuseppe Bezzuoli, e successivamente a Roma, grazie a una borsa di studio ricevuta dal Comune di Savona), per gusto, per profonda convinzione personale. Politicamente orientato negli anni giovanili in senso democratico e repubblicano, in quell'aria fervente di cambiamento che si respirava nei circoli artistici fiorentini e romani tra il '20 e il '30 , si attesto' su posizioni più moderate, o si fece soltanto più accorto, una volta assunto l'incarico di direttore della scuola di pittura all'Accademia ligustica di Belle Arti di Genova (“in luogo del Fontana infermiccio e svogliato”, secondo l'Alizeri) nel 1942 ed ottenute importanti committenze dai Savoia Carlo Alberto e Maria Cristina vedova di Carlo Felice per palazzo reale a Torino, per il castello di Agliè, e per il palazzo Reale di via Balbi a Genova; qui il pittore si distinse per una pittura di affetti soavi mettendo il scena alcuni degli episodi più ricchi di pathos dell'Iliade che dovette rimanere una sua cifra personale. Per il resto rimase un autore di ritratti, scelta che gli consentiva una fedeltà alla consegna di rappresentare quel bello emendato secondo l'ideale del purismo romantico. “Somma verità di tinte”, “castigatezza del disegno” “gusto del comporre” si fondevano per il critico Alizeri, che lo seguì sempre da vicino, a quel “sentir dell'anima” proprio del poeta, intimo e personale; quest'indole artistica,che si univa ad un carattere appartato e ritroso ad apparire, gli schivò spesso la committenza ufficiale del clero e dei nobili, come quando gli venne preferito per la decorazione del Duomo di Savona il più monumentale e architettonicamente efficace Coghetti (“la parte più interessante sono gli affreschi e a questo proposito abbiamo accertato che il migliore dei pittori d'Italia sarebbe certo Coghetti Francesco professore e consigliere dell'insigne Accademia di San Luca in Roma “ scrivono i Massari del Duomo nel 1845 meditando a chi affidare la commessa ). In Savona furono famosi, finchè si poterono vedere, i più modesti suoi restauri, realizzati insieme al coetaneo Giuseppe Isola, degli affreschi delle cappellette sulla via per il Santuario realizzati nel 1837, tra cui l'ancora oggi decifrabile L'entrata dei poveri infermi al Santuario.

Quel dialogo fra arti sorelle che improntò così profondamente l'arte romantica trovò in Frascheri un interprete naturalmente sensibile e predisposto ; dall'Inferno di Dante arrivano direttamente sulla tela frascheriana due delle più grandi eroine del poema oltremondano, Francesca da Rimini e Pia de' Tolomei.



Il dipinto Paolo e Francesca scoperti da Gianciotto esposto alla mostra dell'Accademia Ligustica di Genova nel 1837 consacra definitivamente Frascheri e gli causa entusiastiche recensioni. L'insieme plastico delle due figure di amanti, pudicamente seduta lei, recante in grembo il fatale libro che fra poco più non leggeranno innanzi, vestitissima di un vestito serico nelle tonalità di un grigio perla cangiante, ma dalle sfaccettature plumbee come di un cielo che vada rannuvolandosi in mezzo ancora a sprazzi di sole, già infuocato d'amore lui, vestito di rosso, in piedi nell'atto di cingerle le spalle e catturarle la mano sinistra e , in un tutt'uno assalto, tentare di baciare il volto dell'amata che ancora per poco distoglie lo sguardo in senso opposto, mentre l'ombra di Gianciotto appare quasi invisibile nella penombra sullo sfondo, asseconda in apparenza il gusto trobadorico nella messa in scena dell'amor cortese, in realtà irrobustisce la materia figurativa di un pathos più da palcoscenico che da pittura di genere, riuscendo più incisivo e più “sulla scena “ dello stesso Ingres che si cimentò sullo stesso tema con un risultato maggiormente manierato. Gli echi della tragedia Francesca da Rimini di Silvio Pellico messa in scena nel 1815 non dovevano suonare estranei all'opera, come in generale il revival dantesco e medievaleggiante in chiave sanguigna e patriottica.
Nudi invece, e precipitati nella turbinosa caligine infernale appaiono i due amanti nel successivoDante e Virgilio incontrano Paolo e Francesca esposto ancora alla Ligustica nel 1846. La tela visto il successo venne replicata più volte e la pinacoteca di Savona ne conserva una copia donata dal pittore. Dante e Virgilio, i piedi ben piantati in terra , più evanescente e sullo sfondo il mantovano, avvolto in una seducente cappa rossa riccamente drappeggiata il fiorentino, alzano gli occhi al cielo dove volteggiano i corpi appena velati dei due cognati; Francesca fluttua quasi orizzontalmente e si direbbe senza peso, lo sguardo perduto nella tenebra e semisocchiuso, trascinata dalla vigorosa presa sottobraccio di un Paolo Malatesta sopraffatto dalla tragedia, dal braccio sinistro alzato a coprirsi il volto in un gesto disperato. Per essere anime,i due risultano piuttosto carnali, i corpi ricchi di volume ancora avvolti in un erotismo puro ma relistico, come fu già notato all'epoca; due begli studi di nudo usciti dalle stanze dell'accademia, ciò che piacque al gusto non troppo esangue dei critici d'arte contemporanei.
L'altra sfortunata eroina dantesca, Pia de'Tolomei, ispira Frascheri a più riprese. In La partenza di Pia de' Tolomei dalla casa paterna Frascheri sembra attingere più alla sua immaginazione che a scene altrimenti note, non essendo l'episodio attestato altrove. Risulta invece una quasi traslitterazione pittorica dell'opera lirica musicata da Donizetti nel1837 su libretto di Salvatore Cammarano la tela Pia de' Tolomei è scacciata dal marito Nello. Qui l'eroina, sul viso un colorito talmente mortale che vira tra il bianco e il verde, viene meno al centro della scena, accasciandosi fra le braccia della fantesca Bice mentre un tremendo marito in piedi sulla destra decreta la sua cacciata con un implacabile braccio teso, esprimendo con un'aria di furore baritonale che sembra quasi di intendere la sentenza incombente. Esule, a un passo dal fatale epilogo appare Pia nella successiva tela Pia de'Tolomei a colloquio con il frate nel Castello di Maremma , già inferma, tra sdraiata e seduta su un seggiolone imbottito di cuscini , alla fine dei suoi giorni, mentre sussurra “di me che son la Pia ti risovvenga/nelle quotidiane orazioni/e quando fia che accolta in cielo io venga/pregherò Dio che mai non ti abbandoni/...”

Donne quindi fatali, quelle frascheriane, coinvolte in impossibili amori, torbidi equivoci, sussulti e palpiti tanto teatrali da traboccare dalla letteratura alla scena teatrale, e di qui come fiume in piena, in pittura. Il teatro dovette essere una reale passione per Frascheri , se è vero che il suo esordio artistico avvenne nel 1835 con la realizzazione del sipario per il teatro di Acqui con scene tratte dal Marco Visconti di Tommaso Grossi; al drammaturgo genovese Paolo Giacometti dedicò un disegno,ma è soprattutto con il ritratto del famoso attore drammatico Tommaso Salvini che il tributo di Frascheri al palcoscenico raggiunge l'apice ed egli era consapevole di aver infuso nel quadro tutta la forza espressiva dell'uomo che incantava le platee internazionali, un misto di orgoglio, passione, magnetismo personale.


Ma altre presenze femminili circondano la vita del pittore ; il Ritratto della moglie Annette Bracken ci apre uno spiraglio poco noto sulla vita del pittore savonese . L'ambiente genovese stava diventando tra la fine degli anni cinquanta e sessanta del secolo nient'affatto facile per la pittura.Scarsa la committenza privata, in crisi il rapporto coi Savoia, in una lettera all'amico scultore Santo Varni Frascheri amaramente riassumeva:”come già supponevo in questo paese mi sarà difficile lavorare”. All'unisono commentava l'anonimo giornalista sul Corriere Mercantile del gennaio 1963: ” Il tempo dei Mecenati è finito ed è cominciato quello dei giocatori di borsa; oggi gli abbienti si scusano col pretesto delle tasse! Alla scultura rimane ancora la risorsa dei Campi Santi, ma la Pittura può cercare in questi una fossa da adagiarvisi, ché i suoi cultori, generalmente parlando, trovansi ormai ridotti alle condizioni degli operai del Lancashire” . L'avvento delle Società promotrici delle Belle Arti da un lato tentava di ovviare a questa crisi, ma d'altra parte risultava di incentivo ad un'arte più facilmente commerciabile, di paesaggio e di genere, a prezzi molto più contenuti, mentre l'opera di Frascheri continuava ad essere curatissima e costosa ben oltre la capacità di spesa della classe mercantile locale.

Il nostro si diede quindi ad una vita più errabonda fra Liguria e Toscana , dove venne in contatto con la numerosa colonia inglese che affollava le colline fiorentine, dove senza dubbio conobbe la ragazza effigiata nel ritratto e sua futura moglie,Annette Bracken. Bruna come tutte le sue eroine,e come non poteva che essere l'eroina romantica, Annette guarda dal ritratto con l'aria di chi stava pensando ad altro e risponde ad improvviso richiamo, la bocca semi socchiusa quasi colta in una conversazione sospesa, seria nel vestito azzurro , già coniugata come mostra la fede d'oro all'anulare sinistro, mentre con la stessa mano stringe in pugno qualcosa che pende dalla catenella che porta al collo, qualcosa di invisibile ma prezioso, forse le chiavi della nuova casa, forse... il cuore del suo stesso attempato marito. Un altro personaggio alle prese con un misterioso contenitore è la Figura distesa tracciata a matita esposto in mostra,a testimonianza dell'interesse del pittore per il tema dell'oggetto nascosto o non visibile.



Sulla biografia di Annette Bracken (2) abbiamo informazioni nientemeno che dallo scrittore inglese Nathaniel Hawtorne, il quale ricorda nel suo diario di viaggio in data 27 giugno 1858 che la sua ospite fiorentina, la scrittrice inglese Isabella Blagden, condivideva la residenza di Villa Brichieri Colombi sulla collina fiorentina di Bellosguardo appunto con la signorina Bracken. Una lettera alla cognata composta dalla poetessa Elizabeth Barret Browning , altra anglo-fiorentina di rango amica della Blagden, entra nel dettaglio specificando che la Blagden condivise la dimora con Annette dal 1857 al 1958 , e che la giovane aveva all'epoca 24 anni. Si trattava di un ménage al femminile non infrequente , replicato dalla Blagden sia prima che dopo la permanenza di Annette con altre giovani ospiti, che offriva una suddivisione delle spese di alloggio più sopportabile e una accompagnatrice fissa nelle molteplici attività di ricevimento e scambi di visite che costituiva la principale attività del gruppo degli intellettuali d'oltremanica sulle colline di Firenze. Era anche un modo anticonvenzionale per le donne di sperimentare fuori dai confini patrii un modo di vivere più libero e aperto, fuori dalle convenzioni borghesi del matrimonio e della famiglia, frequentando spiriti liberi fuori dal comune, uomini e donne dediti all'arte in ogni sua espressione. Annette disponeva di una camera propria e di un salotto nella villa , oltre ad usufruire degli spazi comuni quali la sempre affollata terrazza nei mesi caldi, e pagava una quota per la carrozza. Durante le vacanze estive accompagnava Isabella, come fece nel 1957 quando entrambe si recarono a Bagni di Lucca e si intrattennero piacevolmente tra gli altri con i coniugi Browning e lo scrittore Robert Lytton, futuro vicerè delle Indie; in questa vacanza Annette passò lunghe ore in compagnia di Robert Browning a cavallo sulle colline, come testimonia la moglie Elizabeth Barrett . A unire le due donne sembra esserci anche una affinità con l'esotico, solo supposto per la Blagden ed accertato invece per Annette, il legame con l'India. Le origini di Isabella Blagden non erano note neppure ai suoi intimi amici,tuttavia si sussurrava che nelle sue vene scorresse sangue indiano. La descrizione fisica che ne abbiamo da Henry James la descrive come una donna minuta, di piccola statura, la carnagione olivastra, dai capelli neri come i suoi occhi. Annette è figlia di un diplomatico inglese di stanza a Calcutta, e diversi suoi fratelli risultano nati in India, come è probabile anche per lei stessa. L'abitudine a viaggiare e ed ambientarsi in luoghi diversi, un certo cosmopolitismo, la passione per Firenze e per Roma, erano tutti tratti comuni alla colonia di intellettuali inglesi con cui Frascheri evidentemente venne in contatto alla fine degli anni cinquanta, a Bellosguardo stesso oppure a Roma, altra sede privilegiata dagli artisti inglesi. La stessa protagonista del primo romanzo della Blagden , Agnes Tremorne, è una pittrice inglese residente a Roma. Due grandi amiche della Blagden, Harriet Hosmer e Emma Stebbins sono scultrici ed abitano a Roma; la protagonista de Il fauno di marmo di Hawthorne è una pittrice. L'ambiente era dunque ricco di fermenti favorevoli a quella sorellanza delle arti che aveva già attirato Frascheri e lo coinvolse in uno stile di vita nomade tra Italia e Inghilterra, dopo il matrimonio con la Bracken del 1964. Neanche l'Inghilterra sembra tuttavia avergli tributato la fama in cui sperava. I giornali inglesi riportano che tiene studio a Londra ,ma non riesce ad esporre alla Royal Academy le sue opere, tra cui il ritratto di Tommaso Salvini in cui riponeva molte speranze di affermazione. Si è conservata una lettera in cui un amico di Robert Browning, Charles Skirrow, raccomanda proprio al grande letterato inglese il comune amico Giuseppe Frascheri come meritevole di esporre alla Royal Academy di Londra, ma evidentemente la raccomandazione non fu bastevole e il ritratto dell'attore non venne esposto. Una lettera da Genova del 9 ottobre 1880 testimonia nuovamente la residenza di Frascheri in Liguria. Produce ancora copie delle sue opere più famose, ancora molto richieste ,ma l'ispirazione sembra oramai appannata. Rimane quel tocco felice nella composizione di piccole opere da collezione realizzate per pochi estimatori con perizia calligrafica e lungamente curate ed amate che gli valse una volta di più il giudizio encomiastico dell'Alizeri :”Ond'è che in Genova o fuori, de' quadretti ch'egli compose e per sua delizia careggiò lungamente, può tenersi felice chi n'abbia pur uno dacchè le doti suddette si stimano più volentieri nelle picciole cose ove l'occhio dello spettatore conviene che si aguzzi, e in quei soggetti (v'aggiungerò) che van dritti al cuore. E sono di tal fatta quanti ne mise in tela il Frascheri, contento d'angusta cerchia, né temerario a mentir natura”.


Note:
  1. Romantici languori.La pittura di Giuseppe Frascheri tra poesia e melodramma, Savona, Pinacoteca civica , 27-2-2010/26-4-2010, catalogo De Ferrari.
  2. Corinna Gestri, Una tomba dal nome svanito: Isa Blagden in La città e il libro III.Eloquenza silensiosa: voci del ricordo incise nel cimitero “degli inglesi”. Convegno internazionale 3-5 giugno 2004, Gabinetto G.P.Vieusseeux, Palazzo Strozzi , Firenze


Gabriella Freccero, laureata in Storia ad indirizzo antico, da sempre attivamente impegnata nel movimento femminista, vive e lavora a Savona. Collabora con numerose riviste fra cui Donne e conoscenza storica, Senecio, Dominae, Leggere donna, La Civetta.


mercoledì 19 maggio 2010

Incontro con Edoardo Sanguineti





E' mancato oggi il poeta Edoardo Sanguineti. Armida Lavagna lo ricorda così:

Armida Lavagna

Incontro con Edoardo Sanguineti


"ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario: potranno / raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti / gli uomini sono straordinari: / e che di un uomo sopravvivono, non so, ma dieci frasi, forse (mettendo tutto insieme:i tic, / i detti memorabili, i lapsus): / e questi sono i casi fortunati"

Non solo questo rimane forse di un uomo, non solo questo sicuramente rimane di un poeta.

Non è un “lascito magro” quello che rimediamo questa sera, anche se magro è “l’uomo che lo ha rilasciato” e che prende “congedo, più morto che vivo” dal suo pubblico. Il lascito di qest’uomo morto che è però anche un poeta vivo sta nei suoi versi a volte barocchi e attorcigliati, a volte danteschi e limpidi, a volte dimessi e piani, spesso questi i più ineludibili:

“...penso semplicemente, oggi, con tanto sobrio realismo, che sopravvivere
in comune, con casa, cibo, abito, scuola, lavoro, pensione, ecc., qui, ormai,
sarà un’impresa disperata, per gente civile”

Ma incontrare un poeta è qualcosa di più che leggerlo. Il mio è stato un incontro tardivo e fugace, recentissimo, di alcuni attimi rubati in una libreria, tra un’intervista e un autografo. Aveva gli occhi acquosi dei vecchi, eppure lo sguardo intenso, di comunicazione non superficiale, nemmeno per quell’attimo gentilmente concesso ad una sconosciuta. Gli chiesi la dedica su una poesia per mio figlio, e parlammo dei nomi dei nostri figli, sorteggiati i miei e i suoi tra diverse civiltà antiche; essendo i miei solo due, gli feci notare che la mia cultura era più limitata della sua, e compostamente ne rise.
Durante la conferenza iniziata poco dopo, da lontano, nella vasta sala, al tavolo, mi sembrò meno corroso nel corpo dalla vecchiaia di quanto mi era parso poco prima, e altrettanto piacevole da ascoltare, nonostante la mente errabonda (ma mai distratta). Ho visto un uomo dotto e lieve, piacevolmente autoironico, con il sorriso un po' velato dall'amarezza; seguirne il vagare e il divagare per sentieri di parole ("da dov'ero partito?") è stato un piacevole viaggio senza meta ma ricco di significato.

Pur nel ribadire l’evidente assurdità dell’ingiustizia in cui siamo immersi, teneva un tono per così dire di distacco, quel tono di chi sa di avere più poco tempo da vivere e che proprio per questo si concede il lusso di impiegarlo scherzosamente, si concede le pause, i fili del discorso perduti e ritrovati, gli aneddoti di gioventù inanellati e intrecciati ai commenti insieme caustici e sorridenti sul presente affannoso e precario in cui ci tocca vivere e per il quale mostrava lo stesso dignitoso sdegno - stemperato dagli anni, ammorbidito in una risata appena accennata – che emerge dalle sue poesie:

“...principi, presidenti, eminenti militesenti potenti,
erigenti esigenti monumenti indecenti,
guerra alle guerre è una guerra da andare,
lotta di classe è la guerra da fare:”
(Ballata della guerra, da Ballate, 1982-1989)

Gli chiesi come si fa a riconoscere un vero poeta, ma come c’era da aspettarsi non mi diede una ricetta un metro una vera risposta.
In lui di poeti ne abbiamo più d’uno, da cercare da frugare nei versi innumerevoli. Su tutti, quello della poesia civile, di nitore quasi solenne:

“...con le due mani nati a lavorare,
nati con i due piedi a camminare,
con tutto il corpo nati qui a sudare,
e ancora nati a ruscare e a sgobbare,
e nati a faticare e a travagliare,
per questa scala ci impari a lottare,
e fare fine a tutto il dominare,
e, te con gli altri, tutti liberare:”

Ma anche quello di un amore coniugato in mille forme e stili e registri, persino mescolato all’inchiostro della penna:

“ti esploro, mia carne, mio oro, corpo mio, che ti spio, mia cruda carta nuda,
che ti segno, che ti sogno, con i miei seri, severi semi neri, con i mei teoremi,
i miei emblemi, che ti batto e ti sbatto, e ti ribatto, denso e duro, tra le tue fratte,
con il mio oscuro, puro latte (...)
... io la piuma, io l’osso, che ti scrivo: io che ti vivo:”


Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.

lunedì 17 maggio 2010

"Gli amori folli", l'ultimo grande film di Alain Resnais

Non fatevi fuorviare dalla grossolana traduzione del titolo, si tratta di un grande film. Un vero e proprio testamento artistico dell'ultimo dei grandi maestri del cinema francese.

Armida Lavagna

"Gli amori folli", l'ultimo grande film di Alain Resnais


Alle soglie dei novant’anni, Resnais ci mette di fronte un film anomalo, quasi disturbante mentre lo si guarda. Il titolo, nell’ingannevole traduzione italiana, spinge lo spettatore ad aspettarsi la storia romantica di un amore travolgente, l’ennesima.
Ci si trova invece di fronte ad uno spettacolo surreale, a una commedia nera, o a un noir comico, dove diversi stili narrativi sembrano prendersi gioco l’uno dell’altro. Un film che è innanzitutto una sconfitta.
Protagonista della prima sequenza è un paio di scarpe, in mezzo ad altri innumerevoli simili dissimili scarpe, in ripetizione ossessiva, come saranno dopo gli orologi e il loro ticchettio. Entriamo in un negozio cercando calzature di un certo colore, di un certo modello, e che siano comode. Ma perché tutto combaci è necessario scendere a compromessi. Scendiamo a compromessi, e per lo più acquistiamo le scarpe comode. Usando la ragione, che ci dissuade dall’acquistare la scarpa che tanto ci ha colpito ma che misurata troviamo scomoda, così come ci dissuade dall’osare, ci dissuade dal gridare “affogo”. Due compiti ha la ragione: dissuaderci dal commettere azioni giudicabili come insensate quando agiamo, e spingerci a operare collegamenti logici quando guardiamo un film, leggiamo un libro, seguiamo una storia.
Questo film è dunque una sconfitta per la ragione. Dei personaggi e degli spettatori.



Questo film è dunque una sconfitta per la ragione. Dei personaggi e degli spettatori.
Una sconfitta della ragione per gli spettatori, che si trovano in mano tracce per decifrare un comportamento, per comprendere una scelta, per motivare uno stato d’animo, e poi se le vedono sottratte, scartate dal burattinaio che si diverte a farci balenare davanti agli occhi la possibilità di spiegare la follia, per poi negarcela, per impedirci di eliminarla, per lasciare tale l’aporia. Ci impedisce di strappare le erbacce.
Una sconfitta della ragione per i personaggi, che ad essa abdicano per amore o per forza, per l’arcana necessità di seguire la danza bizzarra che ha assegnato loro la sorte, prima spaventati dal doverlo fare, poi irresistibilmente attratti da essa, tanto che l’incontro o l’oggetto che sentono epifania di quel destino si fa pensiero fisso, appuntamento irrinunciabile, scelta ineludibile.
“Quando sarò un gatto, mangerò croccantini?”
Solo ai bambini è concesso spingere l’immaginazione fino all’impossibile senza percepirlo come tale, senza domandarsi se sono folli, senza essere giudicati folli. A quella domanda innocente, ridiamo, tutti, provando tenerezza per quella inconsapevole e incolpevole fantasia.
Tra gli adulti, è concesso solo ai folli, o folli sono considerati coloro che osano farlo.
“Dunque mi ami?” sulle labbra di George non è domanda tanto dissimile dalla precedente, non fosse che è posta da un adulto. Tutto può accadere fuori da un cinema, tutto può accadere dopo l’immersione in un volo della fantasia, anche di dimenticarsi il confine tra essa e la realtà, perdendolo irrimediabilmente.
I piccoli semi di follia caduti nelle minuscole crepe di un asfalto trascurato sono diventati fili d’erba sottili ma tenaci, capaci di fendere una strada, di aprire squarci immedicabili, di regalare tanto improvvise gioie che riempono la vita, quanto tragedie assurde che la concludono.




Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.

venerdì 14 maggio 2010

lunedì 10 maggio 2010

Jack Hirschman a Imperia


domenica 9 maggio 2010

Fontana e Lam all'Antica Fornace Alba Docilia di Albisola Marina





Presso l'Antica Fornace Alba Docilia in via Stefano Grosso sede del "Presidio Alessandro Passarè" del MAP (Museo di Arti Primarie) si inaugura oggi 9 maggio alle ore 12.00 l'esposizione permanente di opere di Lucio Fontana e Wifredo Lam. Pubblichiamo i testi di presentazione dell'iniziativa.



Giuliano Arnaldi


Lucio Fontana: il potere e la bellezza del gesto


Realizzare negli spazi di questa antica fornace una sala dedicata a Lucio Fontana - a pochi passi dalle "nature" in bronzo presenti sulla Passeggiata degli Artisti e dallo Studio storico del grande artista argentino in Pozzo Garitta - non è solo il riconoscimento di un legame profondo. E' la testimonianza di come nascano misteriose e inscindibili relazioni tra la terra e gli uomini che la abitano, anche se essi a volte arrivano da altri luoghi lontani.

La terra natale di Giuliano della Rovere, il Papa del Rinascimento e di Tullio Mazzotti, grande Sciamano del Novecento artistico, ri/diventa liquido amniotico ogni volta che un artista ha bisogno di "tirare il fiato", di fermarsi e lasciare una traccia. E' accaduto per Lam, Jorn e tanti altri, ma il gesto nobile, forte e bello di Lucio Fontana - materico e carnale nelle sculture "barocche", ieratico ma altrettanto fisico nelle opere "spaziali"- è davvero pieno della austera, difficile e misteriosa bellezza della terra ligure.

Forza, bellezza, mistero parlano all'uomo in ogni tempo e in ogni i luogo: in ciò vediamo la connessione più significativa con la natura del MAP, Museo di Arti Primarie che qui prende il nome di Alessandro Passarè e della sua collezione, la cui forza tellurica rende evidente la dimensione archetipica dei linguaggi dell'arte.

E' grazie alla Fondazione che porta il suo nome - che ha reso disponibili le opere qui esposte- e la Amministrazione Comunale di Albissola Marina che ha messo a disposizione i locali e le opere di Fontana di sua proprietà che questa dimensione si rinnova.



Giorgio Amico

Per un neolitico futuro

Wifredo Lam non guarda, sente.
Egli si nutre dello spirito del mare, del sole, della pioggia,
di lune meravigliose e sinistre.
E' l'uomo che ricorda al mondo moderno
il terrore e il fervore primigenio.

(Aimée Césaire)


Iniziato ai misteri della Santeria, Wifredo Lam sa che la vita di un uomo è un continuo errare fra gli elementi del cosmo: l'aria, l'acqua, la terra, il fuoco.

Partito da Cuba, passato attraverso le porte dell'aria e dell'acqua, vigilate da Changò il dio della folgore e Yemayà la dea del mare, Wifredo Lam approda ad Albisola alla ricerca degli altri due elementi, la terra e il fuoco. Il fuoco delle fornaci e la terra degli impasti, elementi primordiali, carichi di forza generatrice, il principio maschile e quello femminile che si congiungono e danno forma compiuta alla materia archetipale dell'inconscio.

Rivoluzione del neolitico, nascita della ceramica. Vasi di terracotta, ricoperti di segni, gli stessi delle incisioni rupestri, a segnare una mappa universale che trascende i luoghi e le culture, che riprende il linguaggio segreto degli uccelli, che esprime il senso profondo del cosmo.

E' nelle fornaci di Albisola che Wifredo Lam trova se stesso, che riesce finalmente a ricomporre il suo io diviso, il suo essere meticcio.

Ospitate in questa fornace, luogo magico dove si compie la trasmutazione della materia, le opere di Lam riacquistano significato, disvelano il mondo segreto degli archetipi, aprono porte di luce sul mistero del cosmo.

giovedì 6 maggio 2010

Votz de Vermenanha e Ges a Vernante






VOTZ DE VERMENANHA E GES A VERNANTE

Programma Incontri: Votz de Vermenanha e Ges. Voci delle Valli Vermenagna e Gesso e delle Valli Occitane in film, poesia, racconti, storie di vita, concerti e balli sino al 22 maggio 2010.


A Vernante sabato 08 maggio 2010 alle ore 21 presso il Teatro Comunale: presentazione del Dizionario occitano (il Vernantese) di Adorino Giordano. Segue anteprima del nuovo concerto "A la Meira", canti melodici dedicati alle Valli Occitane dal gruppo Aire de Prima. A Roaschia sabato 15 maggio alle ore 21 presso la Bocciofila, La vera storia di Joanin Pet Pet Cigala: storie di aviatori, montanari e sognatori. Spettacolo musicale. La serata prosegue con correntas e balets e balli delle valli occitane.

A Roccavione venerdì 21 maggio alle ore 21 in piazza o in teatro in caso di cattivo tempo, Contar en òc: "Ou sarpënt d'la bandìa" con Germana Avena. Poesie e Counta ët Mario Fantino (Grièt) con Gianni Girando. "Ëstoria ët la casina" con Macario Eliano. Segue Concerto e ballo con il gruppo occitano Lhi Jarris.

Ad Entracque sabato 22 maggio alle ore 21 presso il Salone Parrocchiale: Vòutz en viatge - Film documentario di Elisa Nicoli (dur. 52" prod. Chambra d'òc): il racconto del viaggio "Las Valadas Occitanas a pè" da Olivetta San Michele ad Exilles. Incontri con la gente di montagna, storie di vita. Segue la proiezione di estratti filmati, dal video di Paolo Ansaldi "Profili valligiani", dedicati a personaggi delle Valli Gesso e Vermenagna.

La strategia del riccio



Da un romanzo di successo, un film forse un pò sottovalutato dalla critica. Armida Lavagna ci parla de "Il riccio"


Armida Lavagna

La strategia del riccio

Non finirò in una boccia di vetro per i pesci.
Ci dice questo la dodicenne protagonista del film nelle sue prime sequenze, nonostante in realtà trascorra la sua vita dietro un vetro, quello della videocamera. Un vetro particolare però, che consente di guardare senza essere visti, di deformare a proprio piacimento l'oggetto inquadrato mettendolo a fuoco attraverso un bicchiere, di smettere di guardare, di mutare direzione e fuggire, sottrarsi.
La boccia per i pesci è invece sotto gli occhi di tutti, anche se chi la abita è altro, è irrimediabilmente lontano, è inesorabilmente separato e irraggiungibile, non conosce lacrime abbracci sorrisi, in una sorta di autismo del cuore scelto al principio dell'adolescenza o vagheggiato in una matura solitudine.
E allora non resta che travestirsi o nascondersi, recitare un ruolo un personaggio un mestiere fino a rischiare di annullarsi in esso; oppure considerare la vita uno spettacolo da cui non farsi coinvolgere, ma semplicemente da osservare, commentare, filmare fino alla parola fine, fino ad una morte recitata in tutte le possibili varianti, pensando a COME si muore.
Tra la ragazzina dagli occhi che frugano addosso e tutto nascondono e la portiera che tiene la televisione accesa mentre legge per non rischiare di non risultare conforme all'archetipo della portiera, salgono e scendono le scale del ricco palazzo persone che si guardano senza vedersi, si parlano senza ascoltarsi, si sfiorano senza toccarsi, rinchiuse in nevrosi, in ossessioni, intente a nuotare nella loro boccia dalla quale lo sguardo sull'altro da sé non può che essere obliquo e annebbiato.



Finché arriva qualcuno che ha la voglia e il coraggio di guardarti negli occhi con naturalezza, curiosità, simpatia sorridente. E' questo il piccolo miracolo che compie sulle due donne tanto diverse il distinto giapponese dai modi garbati che semplicemente le vede e prova piacere nel farlo. Tanto basta per ritrovare interesse alla vita, per arrivare a posare la telecamera, tanto basta per rischiare di innamorarsi, e di lasciare il buon nascondiglio, perché nessun nascondiglio in realtà è buono, nemmeno quello dei libri che diventano porta per il sogno, nemmeno quello delle delicatissime immagini disegnate dalla mano bambina che insegue geometrie, spirali, ordine, figure in successione che danno l'illusione del movimento, arte che dà l'illusione della vita.
Il riccio esce dal suo nascondiglio, anche se i suoi aculei non possono proteggerlo da un destino implacabile e beffardo.
Il pesce non finisce nella boccia, e smette di essere pesce, e l'occhio asciutto, lucido indagatore impara a piangere le lacrime anziché disegnarle.


Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.



mercoledì 5 maggio 2010

Da leggere: Guy Debord, La società dello spettacolo




"Da leggere" ripropone opere che non possono essere dimenticate. Dopo "Socialismo e Totalitarismo" di Victor Serge, ora è la volta de "La società dello spettacolo" di Guy Debord di cui riproponiamo l'introduzione di Pasquale Stanziale.

Pasquale Stanziale

Introduzione a "La società dello spettacolo"



LA SOCIETA' DELLO SPETTACOLO OVVERO CRISI DELLA MODERNITA' E SCONFITTA DELLA POLITICA


E' stato così che ci siamo definitivamente arruolati nel partito del diavolo, vale a dire di quel male storico che porta alla distruzione delle condizioni esistenti, di quella "parte sbagliata" che fa la storia rovinando ogni soddisfazione prestabilita. [1]
(Guy Debord)


1. I CATTIVI MAESTRI RITORNANO SEMPRE

Nella seconda metà del XX secolo una visione prese forma di narrazione e fu tutto più chiaro. Intuizione decisiva, a compimento di un pensiero snodatosi da lontano e polarizzato sulla constatazione di un dato di fatto: l'intero sistema economico, sociale e politico del moderno capitalismo stava dando mano, fra altre strategie ad ampio raggio, a una trasformazione dell'individuo di epocale e devastante portata.
Oggi constatiamo che la trasformazione si è attuata, le profezie del situazionista Debord si sono realizzate e, dopo molte lotte, illusioni e speranze tradite, ci troviamo immersi in una spettacolarità generalizzata, da intendersi come elemento unificante e rappresentativo di un teatro di guerra permanente, frutto maturo della globalizzazione capitalistica in cui centrale e predominante è l'epica delle merci e delle loro passioni [2]. Come scrive Debord,

lo spettacolare diffuso accompagna l'abbondanza delle merci, lo sviluppo non perturbato del capitalismo moderno... è in questa cieca lotta che ogni merce, seguendo la sua passione, nell'incoscienza generalizzata realizza, in effetti, qualcosa di più elevato: il divenire mondo della merce, che è altrettanto divenire merce del mondo.

Malgrado ciò, Debord ha ancora vinto perdendo [3], se è vero che del suo patrimonio teorico si parla sempre più spesso: per esempio in occasione di una retrospettiva dei suoi film a un festival di Venezia, o nei servizi che gli hanno recentemente dedicato Il Manifesto e il Magazine Littéraire. Il lavoro di Debord è ormai fra i testi base della cultura no-global, come è vero che "non si può capire il maggio, e nemmeno la guerra a questo G8, senza aver un po' fantasticato sull'Internazionale Situazionista [4]".
Il fatto è che al di là della mole di riferimenti teorici dedicati alla Società dello spettacolo, al di là di usi, abusi e richiami patinati, nella filosofia del '900 questo lavoro fornisce un ambito critico incancellabile:

il momento bellissimo in cui si dà il via a un assalto contro l'ordine del mondo. [5]

Vale a dire, il momento in cui si definisce il contesto al cui interno la spettacolarità giunge a rappresentare la strategia del capitalismo della globalizzazione, con i suoi assetti relativi alla fine della modernità, alla sconfitta della politica, alla crisi finale della democrazia (intesa come sintesi di rappresentanza, libertà e governo).
Al di là di prospettive semplificatrici e al di là di disinvolte e superficiali citazioni o strumentalizzazioni decorative (vedi alcune recenti Introduzioni all'opera di Debord), la Società dello spettacolo continua a dimostrare, in ambito filosofico, che

le avanguardie hanno un unico tempo e la fortuna più grande che possono avere è, nel senso pieno del termine, quella di fare il loro tempo. [6]

Orbene, il fatto è che il tempo dell'avanguardia situazionista debordiana è il tempo del capitalismo nel suo sviluppo storico ben profetizzato da Debord [7]. Ed è questa ragione per cui il cattivo maestro ritorna continuamente con le sue narrazioni [8] e con le sue profezie.

2. METAFISICA DEL MARKETING

La società dello spettacolo si presenta dunque ancora e sempre come l'ideologia unificatrice caratteristica del capitalismo del terzo millennio, nel contesto di una crisi della politica sempre più marcata.
La spettacolarità può assumere varie forme: si va dalla strategia del "terrorismo-spettacolo" [9] - che consente alle classi di potere, nei vari paesi dell'imperialismo, di ridisegnare l'ordine mondiale in funzione dell'interesse delle multinazionali - sino a un "voyeurismo televisivo" generalizzato, in cui la fiction si installa sempre più nella realtà, sotto l'occhio onnipresente delle telecamere, confermando ulteriormente che "il vero è un momento del falso". [Tesi 9]
Nello scenario del mercato mondiale, il primato dell'economia capitalistica sulla politica, oltre ad avere una serie di pesanti conseguenze (dalla crisi dello stato-nazione allo stato di guerra permanente [10]), costituisce anche un quadro nuovo dei rapporti sociali di produzione in cui al disprezzo della produzione e al rinnegamento della fabbrica corrisponde un'ideologia "spettacolare" centrata sul marchio: entità in grado di trasmettere una serie di valori che la società dello spettacolo è chiamata a riconoscere e condividere nel consumo [11].
E' una vera e propria precarizzazione del processo produttivo, con una crescente limitazione degli investimenti ad esso dedicati, a vantaggio di investimenti massicci nel marketing divenuto un settore sempre più autonomo e decisivo. Sono questi gli elementi della nuova frontiera della società dello spettacolo, che lega economia e spettacolo, ben messi in evidenza dalla Klein, che a sua volta si richiama a Debord quando parla di "interferenza culturale", come riferimento al détournement [Tesi 208] che costituisce uno dei punti fondamentali della strategia situazionista: strategia che in tempi relativamente recenti è stata attuata in Italia dal gruppo Luther Blisset [12].



3. ULTIME FRONTIERE DELLO SPETTACOLO: L'IMPERIALE E IL VIRTUALE OVVERO NON C'E' PIU' UN FUORI, SIAMO TUTTI DENTRO

Nell'artificio generalizzato del nuovo ordine civile [13] si inscrive la fine della modernità (intesa come trionfo del simulacro e conseguente indebolimento della storicità [14]). A questo artificio totalizzante corrisponde l'affermarsi dello "spettacolo imperiale", chiuso ad ogni dimensione o riferimento altro da sé. E' l'ultima frontiera dello spettacolare, nel contesto storico di un dominio imperiale [15] che si attua sia come "spettacolo globale" - inteso a recuperare un'unità fittizia del mondo [Tesi 29] - sia come "virtualità". Mentre da una parte, dunque, si realizza la spettacolarità diffusa descritta da Debord (concentrata e integrata, che nel globale trova infine il suo compimento), dall'altra si apre una dimensione simulativa, il virtuale, contrassegnato da un dileguarsi della realtà. E' il feticismo della merce informatica, dello spettacolare simulativo che sul piano ideologico tende a stabilizzare la presa sull'economia dell'immaginario. [16]
A questo proposito, Hardt e Negri affermano che l'analisi di Debord "risulta sempre più pertinente e urgente" [17], in relazione alla spettacolarità imperiale che si presenta come distruzione di ogni forma di socialità di massa e con l'isolamento degli attori sociali. Tale spettacolarità imperiale, nel momento in cui crea forme di desiderio e di piacere strettamente legate alla paura, finisce essa stessa col comunicare paura [18].
Hardt e Negri ritengono che Debord appartenga di diritto a quella storia del pensiero critico che ha riconosciuto il destino trionfante del capitalismo, da Lenin a Horkheimer e Adorno. Questi ultimi scrivevano nel 1947:

Le automobili, le bombe e il cinema tengono insieme il tutto finché la loro tendenza livellatrice finirà per ripercuotersi sull'ingiustizia stessa a cui serviva. [19]

Mentre Marcuse affermava nel 1964 che

al progresso tecnologico si accompagna una razionalizzazione progressiva ed anzi la realizzazione dell'immaginario... l'Immaginazione non è rimasta immune dal processo di reificazione. [20]

Nel 1967 Debord [Tesi 21] ci parla di come nella "moderna società incatenata" il sogno divenga sonno e di come lo spettacolo sia il guardiano di questo sonno.

4. LO SPETTACOLO DELL'IMPRESA E' L'IMPRESA DELLO SPETTACOLO OVVERO IL PADRONE PLUS-GODE COME UN PAZZO

Il momento infine in cui la crisi della modernità si iscrive nella globalizzazione dell'economia con connesso plus-godimento [21] (Lacan direbbe: il trionfo del "discorso del Padrone") è quello in cui l'impresa si afferma come modello organizzativo [22] basato su un ordine sociale e su una logica produttivistica e di mercato. Ma mentre prima ciò avveniva in un ambito di scambio, col riconoscimento all'individuo di alcuni diritti, oggi, attraverso una diffusa retorica spettacolare, attraverso l'affermazione del "falso indiscutibile" [23], la cultura economica prevalente, è divenuta "destino" per gran parte degli individui che passivamente la accettano nonostante le vistose conseguenze negative [24].
Si tratta del dominio generalizzato dell'impresa che, subordinando anche gli Stati-nazione - con la conseguente crisi della politica - si propone come spettacolo globale di un ordine e di una logica che gli individui si trovano a condividere come attori dello spettacolo vincente.
L'impresa, come struttura costitutiva del potere imperiale, è fondamentalmente comunicazione di massa della società dello spettacolo. Tra le mote cose, ciò significa in primo luogo che la medialità spettacolare costituisce un ambito proprio della "società del controllo" (come la intende Foucault [25]) ovvero di una società in cui s'instaura un nuovo paradigma di potere basato sulle

macchine che colonizzano direttamente i cervelli (nei sistemi della comunicazione, nelle reti informatiche ecc.) e i corpi (nei sistemi di Welfare, del monitoraggio delle attività ecc.), verso uno stato sempre più grave di alienazione dal senso della vita e dal desiderio di creatività. [26]

Le medialità spettacolare, come esercizio del potere imperiale, opera quindi attraverso la merce che tende a occupare il desiderio, attraverso la biopolitica [27], attraverso le tecnologie della comunicazione che veicolano saperi atti a fondare soggettività fittizie, ad alimentare bisogni e consensi verso la merce e l'impresa: uno spazio in cui la verità non ha più alcuna attrattiva.
Queste nuove servitù [28] - per cui più i servi si sentono padroni più affermano la loro condizione servile [29] - trovano la propria spiegazione nella strategia del "grande Altro" lacaniano: figurazione che ben richiama al dominante ordine simbolico spettacolarizzato dell'impresa che tende a determinare e saturare sempre di più, in un ambito globale, le dinamiche soggettive del desiderio.



LA SOCIETA' DELLO SPETTACOLO: PROPOSTA PER UN DETOURNEMENT

La saggezza non arriverà mai.
(Guy Debord)

La Società dello spettacolo rappresenta uno dei testi fondamentali per la lettura e la critica del capitalismo novecentesco nel suo sviluppo. Il lavoro di Debord rappresenta un punto di non ritorno nell'ambito di questa critica, nel senso che sarà sempre della Società dello spettacolo che occorrerà tener conto per comprendere in pieno le strategie di autoriproduzione ed accumulazione capitalistiche. Proposte di analisi come quelle contenute nei concetti di accesso rifkiniano, di new economy generalizzata o di alienazione biotecnologica, viste in una loro collocazione critica, non possono non essere ricondotte alle concezioni di fondo della Società dello spettacolo, unitamente alle analisi di R. Vaneigem e soci.
La Società dello spettacolo corrisponde, pertanto, a una fase storica di ristrutturazione del capitale - nella seconda metà del '900 - che consolida talune strategie di dominio nell'ambito produttivo e dà origine a nuove direttrici di consumo relative al passaggio all'avere e al baudrillardiano simulare. La Società dello spettacolo riflette tutto ciò con una consapevolezza critica innegabile.
La lettura che è possibile proporre oggi della Società dello spettacolo non può non avvalersi della tecnica del détournement ovvero:
partire dalle analisi critiche legate al dibattito teorico proprio del movimento operaio alla fine degli anni '60;
prendere atto di un processo critico che abbraccia temi quali il tempo, il territorio e la cultura;
approdare quindi all'ambito profetico della fenomenologia della società dello spettacolo, aspetto fondamentale e costitutivo della critica del capitalismo colto nel suo sviluppo storico.
Avendo premesso che il lavoro di Debord va inserito in un contesto di elaborazione teorica proprio dell'ambito situazionistico, ci si potrà accingere alla sua lettura, percorrendone la sua caratteristica articolata in 221 tesi, a loro volta raccolte in nove capitoli.
La definizione di una base storico-filosofica da cui partire è fornita certamente dal lungo capitolo 4. Esso inizia individuando l'orizzonte storico come spazio proprio per la costruzione di una prospettiva di analisi e di azione politica, e termina affermando la consapevolezza che ogni teoria rivoluzionaria è nemica di ogni ideologia rivoluzionaria. Muovendo da Hegel e Marx, Debord mostra le carenze proprie dei socialismi e dell'anarchismo. Egli fornisce una critica del burocratismo staliniano, ma anche delle illusioni neoleniniste del Trotsky ispiratore della Quarta internazionale [Tesi 113], affermando invece la validità dei Consigli operai come la realtà più alta del movimento operaio [Tesi 118]. Il percorso debordiano risente delle analisi del primo Lukàcs, di Korsch e di Gramsci, ma anche di una certa tradizione francese rappresentata dai gruppi e correnti che facevano capo a Socialisme ou Barbarie e Arguments.
Nei capitoli 5 e 6 il rapporto fra tempo e storia viene da Debord esaminato nel suo sviluppo, procedente da un tempo ciclico senza conflitti a un tempo irreversibile proprio del medioevo. Con l'ascesa della borghesia si afferma il tempo storico, anch'esso irreversibile, ma il cui uso è vietato alla società dalla borghesia padrona stessa [Tesi 144]. A tale tempo irreversibile corrisponde il tempo-merce della produzione corrispondente, a sua volta, al tempo pseudociclico del consumo. Si tratta del tempo spettacolare proprio di un'epoca senza festa [Tesi 154], una dimensione in cui lo spettacolo viene a porsi come falsa coscienza del tempo [Tesi 158].
Nel capitolo 7 Debord mostra come lo spazio divenga lo scenario del capitalismo e come la strutturazione del territorio, alterando in modo strumentale il rapporto tra città e campagna, miri a realizzare un maggior controllo delle persone e quindi il loro isolamento. Una rivoluzione che tenderebbe ad affermarsi nell'ambito dell'urbanismo viene individuata da Debord in un ritorno ai bisogni e alle condizioni dei lavoratori fatte proprie dai Consigli.
Nel capitolo 8 il consumo spettacolare viene da Debord denunciato come consumo della cultura-merce anche nei suoi correlati sociologici di comodo. La cultura che viene ad affermarsi va negata unitamente al linguaggio che la veicola, mentre il plagio necessario e il détournement (rovesciamento e riappropriazione) vengono a costituire prospettive di recupero creativo del senso.
L'ultimo breve capitolo tratta in nove tesi del trionfo dell'ideologia (qui, come in tutta la Società dello spettacolo, il termine "ideologia" va inteso in senso strettamente marxiano) nella sua materializzazione che è lo spettacolo. La falsa coscienza, in tal modo, celebra il proprio trionfo che è il trionfo di una base materiale relativa ad una verità capovolta. La lotta è dunque per un'effettiva verità e per l'emancipazione da questa base materiale.
Il tragitto del détorunement si conclude aprendosi ai primi tre capitoli che disegnano tesi il cui valore è continuamente avvalorato dal riscontro periodico con la realtà del capitalismo contemporaneo.
Le 72 tesi dei tre capitoli tracciano un percorso organico, partendo dal concetto di separazione - che riprende in una prospettiva innovativa sia il concetto di alienazione (sulla linea Hegel, Feuerbach, Marx) che il concetto di scissione (del Lukàcs della Teoria del romanzo, 1920) - per giungere al concetto di falsa unità che informa di sé tutta la realtà spettacolare. La separazione che si compie per Debord (con riferimento anche all'eccesso di metafisica lukacsiano) sembra portare a compimento quel processo di scissione tra il soggetto e se stesso originato dalla rottura dell'unità presente nel mondo greco e ormai in via di compimento nel capitalismo. La separazione è dunque tra il vissuto e la sua rappresentazione, ovvero la rappresentazione tende ad accumularsi e a predominare sul vissuto che nella società capitalistica viene sempre di più a marginalizzarsi e a diventare, nella sua verità, solo il momento di una rappresentazione totalizzante che sappiamo falsa.
Si tratta del dominio proprio di una società che è dello spettacolo, in cui più tende ad affermarsi l'apparire, più l'uomo è separato dalla vita. Lo spettacolo quindi si fa rapporto sociale e visualizza in modo totalizzante e pervasivo il suo essere capitale.
Sono presenti in questi assunti del primo capitolo rielaborazioni tratte dal giovane Marx, quando scrive dell'alienazione nella società borghese, mentre il secondo capitolo riprende il concetto di feticismo della merce sulla linea Marx-Lukàcs. Debord afferma che il predominio dello spettacolo si attua attraverso l'occupazione della vita sociale da parte della merce. A ciò corrisponde la vittoria del valore di scambio sul valore d'uso in una società che sancisce la vittoria dell'economia autonoma.
Ma è nel rapporto tra economia e società che Debord individua una possibile forma di riscatto là dove, infine, l'economia finisce con dipendere pur sempre dalla società e dalla lotta di classe. Parafrasando Freud, Debord scrive che là dove c'era l'es economico deve venire l'io e afferma che il desiderio della coscienza e la coscienza del desiderio costituiscono un unico progetto mirante all'abolizione delle classi.
Questo passaggio, in genere abbastanza ignorato, rappresenta invece un punto importante dato che, malgrado l'avversione di Debord per le scienze umane in generale, esso rispecchia un nucleo importante della psicoanalisi di J. Lacan. Questi, mostrando come in effetti la spaltung, la scissione, sia costitutiva dell'essere umano e rappresenti il prezzo che questi deve pagare per accedere - ed essere riconosciuto - all/dall'ordine simbolico (Stadio dello specchio), indica come la colonizzazione del desiderio rappresenti la strategia principale del capitalismo nel suo stadio attuale.
Il terzo capitolo probabilmente è il più "francofortese". Nella sua unità fittizia, lo spettacolo maschera le contraddizione e le lacerazioni della società e dei poteri che la dominano. La banalizzazione, la vedette specializzata nel vissuto apparente, le finte lotte spettacolari: tutto ciò rappresenta un "artificiale" che traduce nello spettacolare la falsificazione della vita sociale. Uno spettacolare che si presenta sullo scenario globale come concentrato o diffuso a seconda della miseria che smentisce o mantiene.



Note:
1. G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, A. Mondadori, Milano 1998, p. 50
2. M. Löwy, La stella del mattino, Massari Editore, Bolsena 2000, p. 82
3. P. Stanziale, "Introduzione" a Guy Debord, Raoul Vaneigem e altri, Situazionismo, Materiali per un'economia politica dell'immaginario, Massari Editore, Bolsena 1998, p. 15
4. R. Silvestri, "Geronimo ciberpunk", in il Manifesto/Alias, 25 agosto 2001. Ma anche Black Book. Cosa pensano le tute nere, Stampa Alternativa, Viterbo 2001.
5. G. Debord, In girum..., cit. p. 57
6. Ibid, p. 60
7. G. Agamben: "Il fatto più importante dei libri di Debord è la puntualità con cui la storia sembra essersi impegnata a verificare le analisi...". "Glosse in margine" ai Commentari alla Società dello spettacolo, Sugarco, Milano 1988
8. P. Stanziale, "Introduzione" a Situazionismo, cit., ma anche F. D'Agostini, "Situazionismo, l'eroismo difettoso dell'ultima parola", in La Stampa del 29 aprile 1999, e Id., Breve storia della filosofia del '900, Einaudi, Torino 1999, p. 234
9. Ne parla R. Massari, con esplicito riferimento a Debord, nella nuova edizione de Il terrorismo. Storia, concetti, metodi, Bolsena 2002, pp. 425 e 437-8.
10. S. Amin, Il capitalismo del nuovo millennio, Ed. Punto rosso, Roma 2001 e N. Hertz, La conquista silenziosa, Carocci, Torino 2001
11. N. Klein, No Logo, Baldini & Castoldi, Milano 2001, pp. 171 sgg.
12. P. Stanziale, Introduzione a Situazionismo, cit. pp. 45-6
13. M. Hardt - A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2002, p. 179
14. F. Jameson, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano 1989, pp. 7 sgg.
15. M. Hardt - A. Negri, op. cit., p. 180
16. P. Stanziale, Mappe dell'alienazione, Erre emme, Roma 1995, p. 166 e Introduzione cit., p.47
17. M. Hardt - A. Negri, op. cit., p. 179
18. Ibid., p. 302
19. M. Horkheimer - T. W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 127
20. H. Marcuse, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, pp. 257 sgg.
21. J. Lacan, Radiofonia, Televisione, Einaudi, Torino 1982, p.53
22. L. Savelli, Globalizzazione e crisi della modernità, Massari Editore, Bolsena 2001, p. 144
23. G. Debord, "Commentari sulla società dello spettacolo", in appendice a La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 197
24. L. Savelli, op. cit.
25. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 119 sgg.
26. M. Hardt - A. Negri, op. cit., p. 39
27. M. Foucault, "La nascita della medicina sociale", in Archivio Foucault 2, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 221 sgg.
28. A. Burgio, "Il signore, il servo e la plebe", in Aa. Vv., Nuove servitù, Manifestolibri, Roma 1994, p. 17
29. P. Stanziale, Introduzione a Situazionismo, cit., p. 47


Pasquale Stanziale è nato a Cascano di Sessa Aurunca in provincia di Caserta, laureato in Filosofia, docente di Storia e Filosofia nei Licei, collabora con Università ed Agenzie di Formazione. Ha al suo attivo un’ampia pubblicistica nel campo delle Scienze Umane. Collabora con la rivista Civiltà aurunca per la parte socioantropologica. Tra le sue pubblicazioni Omologazioni e anomalie (Caserta 1999), ricerca divenuta un classico degli studi locali, Mappe dell’alienazione (Roma 1995), saggio di Filosofia politica, la traduzione del best-seller la Società dello spettacolo di G. Debord (Viterbo 2002). Ha curato anche Il Manuale di saper vivere ad uso delle giovani generazioni di R. Vaneigem (Viterbo 2004) ed una antologia di autori situazionisti (Viterbo 1998). Tra le pubblicazioni più recenti Cultura e società nel Mezzogiorno (Caserta 2007).


Guy Debord
La società dello spettacolo
Massari Editore, 2002
8 euro

lunedì 3 maggio 2010

Ipazia di Alessandria o della cancellazione della libertà di parola femminile




Continua la discussione aperta dal film Agorà. Gabriella Freccero si confronta con la figura di Ipazia dal punto di vista del pensiero della differenza di genere.




Gabriella Freccero

Ipazia di Alessandria o della cancellazione della libertà di parola femminile




Il rinnovato interesse per la figura di Ipazia di Alessandria mostra la vicinanza tra la sua epoca e la nostra, entrambe caratterizzate da un profondo riassetto del potere, tra quarto e quinto secolo la definitiva sostituzione dei vescovi cristiani ai legati imperiali nel dominio del territorio dell'ormai disfatto impero romano; oggi gli immani spostamenti di popoli prodotti dalla globalizzazione sotto la guida di un impero mondiale delle holdings economiche che ha intrapreso la strada della
liquidazione degli stati nazionali sulle scelte fondamentali della produzione e distribuzione delle risorse, lasciando poi beninteso a loro la gestione degli effetti della collisione di culture e di mondi che questo spostamento provoca.

I tempi attuali sono maturi per un più vasto dibattito , ma il pensiero femminista italiano si è molto interessato ad Ipazia già da tempo, producendo elementi di riflessione che tornano oggi utili per la discussione. Il testo guida per la riflessione rimane l'insuperato Ipazia di Alessandria pubblicato nel 1993 dalla
filosofa Gemma Beretta ,sua tesi di laurea poi ampiamente rielaborata e prodotta nel solco del pensiero filosofico e politico della differenza sessuale. L'idea fondamentale è che Ipazia si trovò al centro di un conflitto di autorità che era sì quello tra il mondo pagano e quello cristiano, ormai irriducibili ad una visione del mondo condivisa, ma anche di un conflitto tra autorità femminile e maschile, che dovette risolversi con la tragica cancellazione della libertà di parola femminile su cui il potere politico ed ecclesiastico trovarono da lì in poi una alleanza ferrea che ha effetti ancora oggi , se pensiamo alla difficoltà delle donne di giocare
liberamente nel mondo un ruolo di potere che non sia la pura imitazione delle modalità maschili.Parresìa veniva chiamata nel mondo greco la capacità e possibilità di esprimersi pubblicamente senza censure, e dopo di lei la Chiesa applicherà con più attenzione la prescrizione di Paolo diTarso che le donne tacciano in assemblea e che non esercitino un pubblico insegnamento. Tanto zelantemente fu applicato il principio che ancora nella dichiarazione dei diritti universali delle donne proclamata nella prima assemblea femminista internazionale di Seneca Falls del 1848 le donne inserirono il diritto di insegnamento pubblico e di libera parola nelle assemblee.

Ipazia giocò il suo ruolo in Alessandria come maestra riconosciuta e punto di riferimento per i pagani, ma come libero punto di ascolto anche per i cristiani e per tutti coloro che avessero voluto sentirla spiegare Platone o Aristotele o qualunque altro filosofo, come raccontano le fonti.L'eterogeneità della provenienza dei suoi allievi, messa anche in luce dal film di Amenabar, che comunque non vi comprende donne, cosa che invece dovette essere possibile se non frequente, se
pensiamo alla notevole quantità di donne e maestre nelle scuole neoplatoniche dell'epoca, era la testimonianza di un atteggiamento suo non semplicemente o non solo illuminato, ma frutto di una deliberata interpretazione della dottrina neoplatonica che essa coltivava a fianco ed a completamento esistenziale della sua attività di astronoma: la convinzione che il nutrimento della filosofia dovesse essere portato al di fuori delle scuole nelle piazze e fra la gente (si gettava quindi il mantello dei filosofi sulle spalle e faceva le sue uscite per la città, ricordano gli storici), riconoscendo quindi un ruolo essoterico e politico della filosofia di contro alla scelta esoterica e magica propria del neoplatonismo orientaleggiante, cui pare anche il padre Teone fosse più incline,che portava la dottrina ad essere produzione e fruizione di una ristretta cerchia di iniziati.
Il neoplatonismo alessandrino, che aveva in Plotino un maestro indiscusso, tramite lei assunse quella peculiare equidistanza sia dal magismo ed irrazionalismo propria della scuola ateniese che dal violento anticristianesimo, conservò l'attitudine alla via maestra del ragionamento per gradi, da una affermazione ritenuta vera al passo successivo, che era poi la tecnica maieutica di Socrate, passo per passo partire da opinioni spesso erronee ed arrivare a verità quasi solo intravvedute, alla cui piena comprensione avrebbe portato solo un perfezionamento individuale lungo e rigoroso, una strada di iniziazione a misteri sempre più profondi che nell'idea di Ipazia avrebbero dovuto aprire la comprensione alla perfetta corrispondenza delle leggi fisiche e cosmiche con quelle metafisiche e spirituali.


Berger, il trionfo di Astrea (1851)

Maestra nei gesti carichi di potenza simbolica, quando mostrò i panni del mestruo all'allievo per distoglierlo dall'infatuazione verso di lei, non intese tuttavia denigrare il corpo femminile o svilirlo; rimise al suo posto il dato corporeo, che così come viene al mondo in forma maschile o femminile non significa di per sé nulla in particolare ma è solo puro fatto, nulla di per sé legato a bellezza o bruttezza o qualsiasi significato, che viene solo dopo. Fermarsi alla bellezza di un corpo significa precludersi, come esponeva già Socrate nel Simposio platonico, il passaggio ad apprezzare tutti i corpi belli e dai corpi belli passare al bello nelle istituzioni, alle scienze,alla scienza del bello in sé.Ipazia venne ad incarnare l'ideale della Vergine Astrea , ripreso nell'epigramma di Pallada

« Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue
parole,
vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto
Ipazia sacra, bellezza delle parole,
astro incontaminato della sapiente cultura. »

quella vergine portatrice di giustizia pace e abbondanza sulla terra di cui già Virgilio vagheggiava il ritorno nella quarta egloga delle Bucoliche assieme alla mitica età dell'oro di Saturno, a sua volta attingendone la storia mitica da Le opere e i giorni di Esiodo; nel fare questo ridava vigore al complesso simbolismo delle dee mediterranee ed egizie, da Maat che impersonava l'ordine stesso del cosmo e che in Grecia portava il nome di Themis, a Iside celeste , a Nut signora della volta stellata, alla fenicia Astarte signora dei luoghi alti, con un complesso coinvolgimento nel mito che sarà eguagliato solo da un'altra eccezionale interprete di Astrea, Elisabetta I di Inghilterra, la regina Vergine. In ambito cristiano lo stile di vita della verginità aprì alle donne per un breve periodo una forma di realizzazione diversa dagli obblighi riproduttivi familiari e ne fece le interlocutrici privilegiate dei padri fondatori del Cristianesimo.Socrate Scolastico la riconosce quale vera erede della tradizione filosofica che da Platone passava per Plotino; genealogia non condivisa già in antico quando Ierocle non la nomina nemmeno riconoscendo una tradizione che da Ammonio Sacca passa a Plotino poi a Porfirio e Giamblico e a Plutarco di Atene. Questa via intermedia al neoplatonismo fu dunque opera sua ,in cui il tentativo di praticare una via dall'universo sensibile a quello metafisico può avvenire tramite l'opera faticosa ma insostituibile della dialettica, l'arte di accedere per gradi alla verità senza miracoli e senza sofismi, alla ricerca di quel dritto canone di verità cui dedicò la vita.




Gabriella Freccero, laureata in Storia ad indirizzo antico, da sempre attivamente impegnata nel movimento femminista, vive e lavora a Savona. Collabora con numerose riviste fra cui Donne e conoscenza storica, Senecio, Dominae, Leggere donna, La Civetta.

sabato 1 maggio 2010

A Mario Farisano, privato del lavoro, assassinato da un sistema ingiusto




E' stata la paura di non riuscire più ad arrivare a fine mese a spingere Mario Farisano, 44 anni, a farla finita. Da un anno era in cassa integrazione, come tutti i suoi colleghi della Nuova Renopress di Budrio, e il futuro lo spaventava. Due figlie da mantenere, una moglie anche lei disoccupata, Mario si arrangiava cantando la sera per i locali attorno a Molinella, ma la prospettiva di un altro anno senza un vero lavoro è a poco a poco diventata insopportabile. Così, il 16 aprile, dopo aver accompagnato la sua bambina più piccola all' asilo, è sceso in garage, ha preso la corda per saltare della figlia e si è impiccato. Ultima vittima di un sistema ingiusto.
Oggi, Primo Maggio, Vento largo lo ricorda riproponendo alcune pagine di Guido Seborga che meglio di mille discorsi testimoniano di come togliere ad un uomo il lavoro significhi privarlo della sua identità, ucciderlo nell'animo.

Guido Seborga

Storia di un operaio


Milano se ne stava per ore seduto immobile con gli occhi sbarrati, e con la mente pensava sempre alla "sua" fabbrica e a compiere il "suo" dovere; le sue orecchie accoglievano stranamente quei rumori esterni che c'erano intorno, e che non conosceva, perchè in quelle ore egli aveva sempre udito i suoni della fabbrica. Non osava uscire. Gli pareva impossibile farsi vedere per istrada in pieno giorno. Uscire diventava il gioco di un fannullone, di un buono a nulla. Non poteva andarsene sotto i portici, sedersi ad un caffè, oppure prendere una delle piccole e tortuose stradette che partono da Corso Italia, e dove ci sono tante osterie, parlare ad alta voce, discutere di "lascia o raddoppia", fare dello spirito sulle varie Lollò, queste scemenze nazionali o internazionali, messe in primo piano dai giornali, giocare alle carte o al bigliardo.
Queste erano cose che un operaio non poteva fare, che un padre di famiglia non poteva accettare, questo era un degradarsi. Meglio era stare chiuso in casa, non farsi vedere da nessuno, farsi dimenticare. "Disoccupato!" Era una condanna. Per ora aveva ancora qualche lira della liquidazione, ma dopo?
Caterina girava per casa in faccende e faceva uno sforzo grande per mantenersi calma, aveva preso la decisione di svolgere la sua attività come se nulla fosse, ma ella sapeva quanti soldi aveva in tasca, quali erano le spese assolutamente necessarie, e sapeva che non c'era da scherzare e soprattutto da perdere tempo; come scuotere il marito, come consigliarlo, cosa dirgli? Perchè Caterina vedendo il marito così abbattuto, capiva che doveva tirarlo su, aiutarlo ad uscire da se stesso, doveva rimontarsi.
"Vuoi un caffè?"
"Va bene, dammelo!" E lo beveva adagio, ma come non sapesse più gustare la bevanda. Dentro di sé pensava: "Ecco il caffè, potrebbe essere buono, ma se non lavoro, come faccio a guadagnarmelo..." La casa era vuota i ragazzi essendo a scuola; l'ambiente risultava tristissimo; ma quando i ragazzi tornavano a casa e la loro spontanea allegria scoppiava in futili scherzi, in parole senza senso e a volte anche in piccoli litigi, allora tutto suonava più falso ancora nelle sue orecchie, perchè tutte quelle cose per avere un significato reale (egli lo sentiva), dovevano essere appoggiate su di lui, sulla sua forza virile, sul suo lavoro, ma non c'era più vera vita in loro e nelle cose che avevano. Ma come erano lunghe le ore e i giorni da far passare! Mai s'era reso conto che le ore della giornata e della notte potessero essere così numerose e implacabilmente lente; man mano che i giorni passavano in quel tedio chiuso, egli perdeva vitalità, si richiudeva in se stesso, certo la sua vita diventava una specie di morte anticipata.


(Da: Guido Seborga, Gli innocenti, Marco Sabatelli Editore, Savona 2006, pp. 116-118)