sabato 11 settembre 2010

Da ri/leggere: Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue



Ci sono libri che si deve assolutamente leggere, soprattutto se si vive nella Liguria di Ponente. L'angelo di Avrigue, romanzo di esordio di Francesco Biamonti, è uno di questi. Lo proponiamo pubblicando la ormai celebre presentazione di Italo Calvino e le pagine iniziali.


Italo Calvino

Ci sono romanzi paesaggio...


Ci sono romanzi-paesaggio così come ci sono romanzi-ritratto. Questo vive, pagina per pagina, ora per ora, della luce del paesaggio aspro e scosceso dell'entroterra ligure, nell'estremo suo lembo di Ponente, al confine con la Francia.
La voce narrante è quella di un marinaio che non prova nessuna impazienza d'un nuovo imbarco (patisce il “male del ferro”, l'angoscia che la lamiera del cargo trasmette durante le lunghe traversate) ma anche se ama la sua terra più del mare, la gioia che ne trae gli sa sempre d'amaro. E' una voce grave e pausata, con una naturale propensione per i toni lirici e sospesi; ma il suo vocabolario è ricco di parole vere e insolite e precise, che vengono dal linguaggio parlato a ridosso delle Alpi Marittime. (L'apparizione d'un pastore che parla provenzale ci ricorda che anche linguisticamente questa è una zona di frontiera).
Tra i casolari di pietre e i villaggi di bungalow, i due aspetti della Riviera sono qui presenti insieme: un'agricoltura faticosa e solitaria e il mondo facile del turismo, a cui s'aggiunge la nuova dimensione internazionale del vagabondaggio giovanile che segue il miraggio della droga. E poi il pathos della frontiera,con la sua drammaticità depositata in tante storie di guerra, di contrabbando, d'espatri clandestini.
Come seguendo una tacita morale libertaria, il protagonista si rifiuta di giudicare il modo in cui ogni individuo spende la propria vita; ma vorrebbe comprendere cos'è quella spinta di autodistruzione che si sente nell'aria; e i suoi andirivieni lo portano a indagare sulla morte misteriosa d'un giovane. Quattro personaggi di donne, ognuna con una sua ossessione, incrociano i suoi passi; ma le solitudini sommandosi non s'annullano.

(Dalla quarta di copertina della prima edizione de L'angelo di Avrigue, 1983)



"Verso le undici Gregorio andò ad Avrigue. Il pomeriggio lo avrebbe passato al bar dell'olandese dove di solito lo aspettava Jean-Pierre. Era un bel posto su uno sperone quasi sempre dorato e ventoso.
Per scendere sulla piazza prese un carruggio a svolte in cui il vento non entrava d'infilata. Si ricordava che portava a una piazzola detta la «porta della madonna» (una statua era murata sotto il cornicione della chiesetta) e dalla piazzola si scendeva per una scalinata alla piazza grande. Il carruggio era ormai disabitato: porte sbarrate, porte aperte sul vuoto, finestre semidivelte... nulla di male: nidi di miseria spariti! Nidi di silenzio, ora, e di topi. Avrigue era decisamente in decadenza: vi regnava la fame di sempre che ora pareva insormontabile, e i giovani se ne andavano.
I vecchi, ancora numerosi, erano tutti radunati sotto un portico. La piazza era vuota.
Un ragazzo l’attraversava, undici o dodicenne e con gli occhi già rassegnati. Portava un sacco di pigne, che le sue mani alzate dietro il capo curvo trattenevano a stento. Un altro sacco, vuoto, gli serviva da cappuccio e gli scendeva per la schiena, meno logoro della giacca sdrucita.
Veniva da lontano, dalle alture di scisti e sabbie con rosmarini odorosi e casoni fessurati.
Il mare di lassù è di un azzurro immobile e smorzato.
Gregorio conosceva ancora bene la vita del paese, vita e miracoli. L’immobilità delle cose garantisce dal trascorrere del tempo e dai mutamenti. Tutto è eguale, da sempre e per sempre: le feste, le esequie, le esistenze imprigionate, gli spersonalizzati destini personali, la miseria che viene dai secoli.
Erano stati tenaci lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla «buona morte». San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci inventati per consolare ed unire all’idea di questa fatica, da sola insostenibile. E morte sparsa come una promessa sulla sofferenza ineluttabile.
Chi nel passato aveva creduto in una qualsiasi forma di felicità terrena, al di fuori del possedere una casa in paese e una campagna rocciosa, si era perduto.
La vita era stata uniforme.
Ciascuno conosceva il suono delle campane, la loro eco nei vicoli, l’inclinazione del sole sulle case, la linea d’ombra sui due versanti della valle in qualsiasi ora e mese di qualsiasi anno.
I fatti acquistavano la forza del mito e si radicavano nella memoria dei padri dei figli e dei nipoti: un triennio di Siccità, un intero anno di Piogge, il Maestrale, la Spagnola, il Tifo, la Fillossera, la Prima Guerra Mondiale.
Più solenni le funzioni religiose se una morte accidentale, la pazzia, un suicidio venivano a rompere il senso del limite, a infrangere l’ordine.I vecchi sotto il portico, che dava sulla piazza vuota, facevano un po’ di cronaca (come furono loro stessi a dire) parlando di rapine sequestri omiicidi e altre cose «all’ordine del giorno».
La pensione di cui vivevano, chiamata «la minima», era pari e forse più alta del reddito ricavato in passato da fasce e petraie. Ciò li disorientava e li rendeva persino allegri.
- Sono passato nel «carrugio vecchio», - disse Gregorio, - non c’è più nessuno.
- Se ne sono andati tutti in giù.
- In giù dove?
- In giù sulla costa e più giù ancora.
- Con un landò di lusso, andata sola.
Avevano un piede nella tomba e ancora voglia di scherzare, gli immutabili vegliardi, tranquilli e beati con la loro pensione. Si tolse nel salutarli il suo berretto da marinaio.
Andò in bottega a prendere il pane (forno e bottega erano in un vicolo) e nel riattraversare la piazza vide il prete in compagnia.
Teneva circolo come alla domenica; un uomo dall'aria timida, dolorosa. Non assomigliava ai preti di un tempo eccessivi nel bene e nel male, sepolti in sacrestia, ancora alonati di reverente paura.
- Hai sentito? Un giovane è caduto dalle rocche di Crairora.
Disgrazia? suicidio? si chiedeva qualcuno.
- Disgrazia comunque, - disse il buon prete.
Voleva premunirsi contro il divieto di funerali religiosi. Sovente il prete è più illuminato dei fedeli. La sua pietà varca la sua fede.
- L'hanno già visto in tanti, - disse un contadino, - ma nessuno lo conosce.
- Io vado, - disse il prete. - Chi viene con me?
- Andiamo immediatamente, - disse Gregorio.
- Senza paramenti, senza aspersorio? - chiese una voce.
- Vado così.
Salirono per i vicoli tra case che si spalleggiavano. poi presero un carruggio lungo, aperto all'azzurro. Si immisero sullo stradone di Crairora.
La tunica ingombrava il prete, che arrancava male in salita e ogni tanto si fermava per tergersi la fronte dal sudore. Sembrava molto impressionato. Doveva essere un buon prete, non uno di quei tipi sbrigativi e vaghi davanti alla morte.
E andava piano. Un'ora per arrivare al passo dell'Annunciata.
Lassù il vento scuote ulivi e pini.
Il prete riposò; Gregorio appese la sporta del pane alla finestra della chiesetta, all'inferriata nascosta da un cespo di rosa canina.
- Ora non saliamo più, prendiamo un sentiero che aggira il picco.
- Andiamo piano, - disse il prete, - tanto non c'è rimedio.
- Per un triste spettacolo non c'è da aver fretta. "

Francesco Biamonti
L'angelo di Avrigue
Einaudi 1983/2008
€ 12.00