giovedì 14 ottobre 2010

Quando muoiono gli olmi


Scoprire che i figli sono diversi da come li immaginiamo e che un "estraneo", diversissimo da noi, può esserci invece tanto vicino da aiutarci a reggere il peso e le ferite della vita: questo il senso di un piccolo/grande film che merita di essere visto.

Armida Lavagna

London River


Un africano con l’argento fra le trecce rasta lotta contro la morte degli olmi francesi. E’ musulmano, si inginocchia a pregare in direzione de La Mecca.
Una donna forte e sola, in Inghilterra, si prende cura dei suoi asini e dei suoi ortaggi. E’ protestante, canta alle funzioni religiose.
Nulla li accomuna, tutto li divide. Finché entrambi si ritrovano a Londra, lei alla ricerca della figlia, lui alla ricerca del figlio; dai due giovani arriva alle famiglie lontane solo silenzio dal giorno dei sanguinosi attentati del 2005 al cuore della capitale inglese, ancora impegnata, all’arrivo dei protagonisti, nel doloroso riconoscimento delle proprie vittime.
I due si ritrovano scomodamente accomunati da qualcosa che lei soprattutto fatica a capire e ad accettare, pur di fronte ad un crogiuolo di colori, di etnie, di cibi e costumi la cui evidenza è incontestabile e incontrastabile.
Alla stazione di polizia, alla domanda se sia musulmano, l’africano risponde “lo siamo”.
Alla scuola di arabo, la donna costernata domanda all’insegnante chi mai parli l’arabo a Londra, e di fronte all’imbarazzata risposta “Un po’ tutti...” reagisce con uno stizzito “non io”, per poi rivelare terrorizzata al fratello che in quella città così irreparabilmente lontana dal fieno della sua fattoria e dal suo mare “sono tutti musulmani”.



Eppure i due hanno molto di più in comune, qualcosa di raro e prezioso: gli anticorpi all’indifferenza e alla diffidenza. Lo rivela lei quando posa le dita intimidite sulle corde di quello strumento musicale di cui nemmeno sospettava l’esistenza, maneggiandolo con una delicatezza che tradisce rispetto. Lo rivela lui quando, giunto a Londra con andatura claudicante e solenne, annusa il profumo dei fiori di un albero, compiendo il gesto con una sacralità che supera il contingente e travalica differenze di paesaggi, culture, preghiere, richiamandosi ad una natura che in ogni luogo si può riconoscere e nella quale dovunque si può riconoscere chi ha mantenuto durante la vita contatto con essa.
Sono gli anticorpi che vaccinano lei dalla paura oscura viscerale del “diverso” che i suoi correligionari spesso dimenticano essere quello che chiamano “prossimo”, lui dalla collera che alcuni suoi fratelli hanno nel cuore, conficcata tanto in profondità da condurli ad uccidere in nome di un dio, collera che egli non esclude possa aver animato il proprio figlio, a lui tanto estraneo.
Anticorpi che bisognerebbe fossero contagiosi, e forse un poco lo sono, se quando vediamo lei percuotere irata la terra, lui arrendersi alla morte di un albero, ci scopriamo a sperarli insieme dove sopravvivono gli ultimi olmi, a dispetto di tutto ciò che li divide. Non importa se non sarà quello il finale, importa che lo abbiamo considerato possibile e desiderabile. Nessuna prova più evidente di quanto sia poco scontato alla prova dei fatti quello che unisce o divide le persone fra loro: un figlio può essere un universo amato ma sconosciuto, un estraneo può aver vissuto una vita uguale o complementare alla nostra abbastanza da permetterci di rispecchiarci in lui e da ringraziarlo con un abbraccio per ciò che intimamente ha condiviso con noi.





Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.