martedì 30 novembre 2010

Morire all'occidentale. La Bella, la Bestia e l'Umano



Ad assimilare specismo, sessismo e razzismo è l'attribuzione agli «altri», alle donne, ai non umani di una natura diversa, inferiore o mostruosamente superiore, da controllare e soggiogare. Questa la tesi di fondo di un libro, non facile, ma di grande interesse e attualità.

Gianluca Paciucci

Morire all'occidentale


Se, come afferma Norberto Bobbio, la tendenza verso l'uguaglianza caratterizza tutte le sinistre politiche del Novecento (anche se sulle sinistre vili d'oggi ho più di un dubbio...), mentre la gerarchia è l'elemento distintivo delle destre, è certo che non ci siamo mai trovati in una fase più a destra di quella odierna. La gerarchia non è accettata più solo in ambito burocratico (“trasmettere la documentazione per via gerarchica”) o militare, ma si è estesa a tutti i campi dell'esistere sociale, in misura variabile riportati al dato biologico. Sessismo, razzismo e specismo ovvero, rispettivamente, superiorità del maschio sulla donna e sugli altri sessi; superiorità dell'uomo bianco e cristiano su tutte le altre razze; superiorità della specie umana su tutte le altre, animali o vegetali che siano. All'interno di questi tre universi, si intrecciano diverse possibilità di gestire la propria inferiorità a danno di chi sta più in basso (penso a quella superba descrizione della violenza gerarchica che è la novella Rosso Malpelo di Giovanni Verga, fortissima perché non populista); e tutti e tre fanno i conti con le differenze di classe. Di tutto questo, e in modo assai dettagliato e profondo, si occupa l'ultimo volume di Annamaria Rivera, La bella, la Bestia e l'Umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo (Roma, Ediesse, 2010, pp. 193). L'autrice ha la peculiarità di unire rigore scientifico - che non vuol dire indiscutibile possesso della verità, ma proprio l'inverso e cioè la discutibilità attenta e radicale delle opinioni avanzate -, passione militante e soggettività di chi pensa, vive, gioisce e soffre. Il libro è dedicato alla sorella Paola, “animalista e femminista critica della prima ora (...). Avevo scommesso con me stessa e col destino che sarebbe riuscita a vederlo, ma ho perso la scommessa: Paola è morta alcuni giorni prima che il libro fosse stampato, distrutta da una malattia che fino all'ultimo ha fronteggiato con forza, coraggio, dignità...” (1).
È la fase storica che ci fa avvicinare a questo volume come a una risorsa preziosa. Quel backlash (contraccolpo, rivincita maschile) che “già nel 1992 Susan Faludi denunciava” (p. 37) rispetto al femminismo, sembra si sia esteso a tutti gli altri campi fino a farsi mentalità dominante: se “per le donne, il neoliberismo, la crisi del welfare state, l'esaltazione del modello del libero mercato e la mortificazione del ruolo dello Stato hanno significato (...) arretramento in tutti i campi” (p. 37), tutti gli altri soggetti deboli ne hanno subito le conseguenze e sembra di essere tornati alla sbrigatività sociale ottocentesca-primonovecentesca, di puro capitalismo, che vedeva nell'inferiore un intralcio allo scorrere del progresso, un ostacolo da eliminare o da isolare, con più o meno compassione. Apartheid totale e usa-e-getta: carceri, manicomi, fabbriche prefordiste, istituzioni totali e separate, ma anche scuole classiste, campi di prigionia per asociali, ed eugenetica.

FURIE OCCIDENTALI-ORIENTALI

È in Occidente che il contraccolpo è più evidente (essendo stata più radicale la critica) in relazione a un Oriente che, imitandoci, ci minaccia, e a un Sud del mondo alla deriva, terra di rapina e luogo di scontro per i due “primi mondi”. È in Occidente che le pratiche di assoggettamento e i tentativi di liberazione possono essere visti come esemplari, anche se non esclusivi. La grande lotta in corso vede alcuni princípi cardine scontrarsi con forza: l'Universalismo, insieme all'Eurocentrismo, contro il Relativismo. È questa la lotta principale che sta avvenendo sotto i nostri occhi e che, anzi, ci vede protagonisti. Annamaria Rivera sottopone a severo esame l'Universalismo-Eurocentrismo occidentale la cui “polemica antirelativista tende a insinuare che chiunque dubiti che il sistema sociale e culturale dominante possa essere assunto a metro di misura universale intenda disconoscere le conquiste della razionalità occidentale, rifiutare ogni principio universale, assumere un atteggiamento scettico o addirittura nichilista in campo morale” (p. 144). Da qui deriverebbe la consapevolezza della superiorità del nostro sistema e anche l'obbligo a esportare i nostri valori perché i soli veramente estendibili. Corollario: questi valori possono, o addirittura devono, essere imposti con la forza. E sappiamo dove ci ha condotto questa ideologia, di cui si è fatta portavoce anche una pseudosinistra ex sessantottina, soprattutto dopo l'11 settembre. Di un ben strano universalismo, si tratta, che in realtà ignora la complessità del mondo e si basa sulla figura retorica della sineddoche, in una delle sue forme, la “parte per il tutto”: la nostra parte di mondo si erge a globalità e riduce il resto a inferiorità irredimibile, al massimo da stipare nello scaffale del folklore (pensiamo alla fortuna dell'aggettivo “etnico”: cucina, artigianato, musica ecc.) e dell'umanitario. L'autrice invita a superare questa chiusura che si spaccia per apertura, sottolineando che “preliminare a ogni possibilità di comprensione, di confronto, di dialogo, sono il rifiuto della concezione che intende le culture come universi autonomi (...) e il riconoscimento che, viceversa, anche i mondi sociali e culturali altrui sono attraversati dal mutamento, da differenze e disuguaglianze di potere, di classe, di genere, da divergenze di interessi e di valori, quindi da conflitti, anche riguardanti le relazioni di genere” (pp. 144-5). È l'essenzialismo l'arma di ogni “universalismo escludente”, ovvero quella sensibilità che pensa unica e incontaminata ogni cultura, e in qualche modo immutabile (tranne, ovviamente, la nostra, che è oltre, che supera e comprende tutte le altre...), mentre sappiamo che l'ibridismo è stato da sempre la modalità di relazionarsi tra individui, gruppi, genti, popoli. L'inferiorità dell'altro/a è nella sua resistenza al cambiamento: noi siamo superiori perché mutanti. Quale contraddizione maggiore di questa pretesa superiorità basata sulla continua metamorfosi? Il vento e il leone, titolo di un film di John Milius (1975): il vento è l'Occidente, che viaggia, soffia, muta e prende diversi nomi; il leone è l'Oriente, inchiodato a un luogo, nobile d'antichi miti, ma ora scoronato, in riserve o zoo. Ma quando l'Oriente viaggia, ovvero accetta i dettami dell'Occidente, esso è “migrante”o “nomade”, e punibile solo per questo.
Come uscire da questa impasse? Annamaria Rivera propone una “postura critica e relativista”, la sola che “insieme con la tensione verso il superamento delle asimmetrie di status e delle diseguaglianze sociali e di genere, può permettere il superamento dell'etnocentrismo e al tempo stesso la costruzione di un progetto transculturale di liberazione del genere femminile” (p. 145). L'autrice ridimensiona il relativismo ad aggettivo di un sostantivo (postura): pur nella sua complicatezza, non mi sembra una brutta soluzione, dato anche il fallimento dei due termini avversi, universalismo e relativismo. Questa postura, sulla scorta di Fanon (che parla, meno astrattamente, di “universalità” e “relatività” - p. 175), non è altro che “un modello di universalità concreto, situato, sessuato, il quale non può che nascere dalla pluralità dei 'particolari', anche se deve trascenderli” (p. 176). È così che si possono affrontare temi estremi e quotidiani, come quello delle “mutilazioni genitali femminili” e del velo che hanno spaccato, e spaccano, il pensiero - anche delle donne, anche del femminismo - in schieramenti opposti. Non so se le soluzioni proposte da Annamaria Rivera a questi due ultimi temi siano le più efficaci, perché in entrambi i casi il potere del maschio e degli apparati politico-religiosi sulla donna è talmente forte che parlare di “libera scelta” o di “protagonismo femminile”, sia nel caso di donne migranti sia nei paesi d'origine, è assai difficile; mi convince invece il metodo, e quel verbo, “situare”, che permette di affrontare (e magari di risolvere) le “situazioni”, appunto, caso per caso, senza fanatismi laici né violenze. Peraltro è sul concetto stesso di “libera scelta” che occorrerebbe ragionare: se ne sono serviti islamisti e cattolicisti reazionari, come uomini e donne “progressisti” oppure esponenti della Lega Nord (in quest'ultimo caso la “libera scelta” delle prostitute serve alla campagna per la riapertura delle case chiuse). Penso che sia importante unire queste riflessioni all'esame critico dei regimi e dei codici della famiglia, nonché allo studio antropologico delle società d'origine e delle società “migranti”, per trovare soluzioni che eliminino la più grande quantità di sofferenza possibile, ma sempre e solo con il contributo attivo delle donne e degli uomini direttamente interessati, che altrimenti resterebbero solo inanimati oggetti di salvazione.

ARMI DELLA CRITICA

Molti sono i momenti forti di questo libro, che ci permette di ricordare ciò che è appena passato e di cui siamo prodotto diretto. Colpisce la rievocazione di alcuni fatti. Innanzitutto “la lunga teoria di morti violente e oscure (108 quelle accertate fino al momento in cui scrivo) fu inaugurata dalla morte di Amin Saber, nel Cpt di Agrigento. Accadde nell'estate del 1998, poco dopo l'approvazione della legge 40, detta Turco-Napolitano, che istituiva per la prima volta in Italia la detenzione extrapenale, riservata agli ‘extracomunitari’ trovati in condizione di irregolarità sul territorio italiano” (p. 97): questo fatto introdusse un'anomalia pericolosa nello Stato di diritto, ovvero la sanzione della “normalità dello stato di eccezione”, per cui è possibile internare uomini e donne che non hanno commesso alcun delitto e solo per la loro provenienza (il “reato di clandestinità”, introdotto dai successivi governi di destra, non è che un corollario a questo primo arbitrio). Morti “naturali” e suicidi, nei Cpt/CIE, come nelle prigioni italiane (centinaia, negli ultimi anni), su cui cala un vile silenzio, sono uno scandalo degno di un paese totalitario.
E il secondo: l'omicidio di Giovanna Reggiani del 30 ottobre 2007. Questo “femminicidio, attribuito a un rom di nazionalità rumena, fu oggetto di una campagna politica e mediatica forsennata che vide, fra le iniziative istituzionali (si era al tempo del secondo governo Prodi), la distruzione spettacolare dell'accampamento in cui viveva il presunto omicida e la convocazione urgente e straordinaria di un Consiglio dei ministri: una sorta di consiglio di guerra (...). Nello stesso periodo altre persone di sesso femminile, bambine comprese, venivano stuprate, brutalizzate e/o uccise da uomini. Gli episodi per i quali non fu possibile additare come colpevoli degli alieni furono quasi ignorati dai media; comunque questi casi non meritarono convocazioni urgenti del Consiglio dei ministri.” (p.138). Ricordare ricordare ricordare, piuttosto che il mediocre e compiaciuto resistere...: ricordare il ruolo che il centrosinistra ebbe in quello scatenamento di follia collettiva, che nulla aveva a che vedere con il rispetto della vittima e con la ricerca della giustizia (2); per poi andare avanti e ricordare che il ministro delle pari opportunità Mara Carfagna ha detto di volersi costituire parte civile nel processo per l'uccisione, il 4 ottobre nel modenese, della pakistana Shanhaz Begum per mano del marito, ma non per l'omicidio (con risvolti atroci, di familismo amorale e ferocissimo) di Sarah Scazzi e di tante altre donne ammazzate da familiari e da conoscenti, né per quello recentissimo, ma già dimenticato dai media, di Maricica Hahaianu. Ricordare tutte, e quest'ultima: “Maricica, 32 anni, ora è morta. Per una lite banale e un pugno ricevuto in piena faccia. Alessio, 20 anni, ora si dice 'pentito amaramente' e si definisce 'sfortunato' perché non voleva uccidere. Fine della storia avvenuta alla stazione Anagnina di Roma. Derubricata a qualche titolo in cronaca. Ci chiediamo cosa accadrebbe oggi se le parti fossero invertite. Se a colpire fosse stato un ragazzo rumeno e a morire una donna romana. I titoli sarebbero in politica e non in cronaca, si urlerebbe all'invasore violento, si darebbe la caccia all'untore...” (3). Qui non è più Annamaria Rivera a scrivere, ma un giornalista del quotidiano della Confindustria, in un attacco d'umanità. Così per finire torniamo alla forte riflessione dell'autrice e alla nostra domanda: cosa vuol dire “vivere all'occidentale” se si producono mostri concettuali e politici come questi sopra riportati? O piuttosto, cosa vuol dire “morire all'occidentale”? È il caso di cominciare a ribaltare il pensiero dominante, con armi forti, di cui ci rifornisce il libro appena recensito.

NOTE

1) Annamaria Rivera, A mia sorella Paola, Carta, n° 36, 22-28 ottobre 2010.
2) “...Più rapidamente che in altre occasioni, i politici e i media hanno fatto a gara per passare da un singolo caso alle responsabilità collettive degli immigrati...”, e poi, in nota: “...Il legame tra criminalità e immigrati è stato apertamente sostenuto, per esempio, da Walter Veltroni in alcune dichiarazioni alla tv romena, rilanciate dal Tg1 e riportate sulla stampa il 2 e 3 novembre ('C'è una prevalenza assoluta di reati compiuti da cittadini romeni' …)...” (in Roberto Biorcio, La rivincita del Nord, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 177).
3) “Se a morire è una rumena”, “Il Sole 24 ore”, 17-10-2010.

Annamaria Rivera
La Bella, la Bestia e l'Umano
Ediesse, 2010
12 euro

Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’ “Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico “Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la "Casa della Poesia".

giovedì 25 novembre 2010

Contro la violenza sulle donne. Apprendere l'alfabeto dei sentimenti e delle emozioni



Oggi è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Vento largo aderisce con questo bell'intervento di Vilma Filisetti


Vilma Filisetti

Apprendere l'alfabeto dei sentimenti e delle emozioni



Non amo le ricorrenze: ce n'è una per ogni evenienza, vuoti e inutili rituali a cui spesso volgiamo uno sguardo superficiale o al massimo dedichiamo un clic su facebook per condividere un video, una poesia, un pensiero che ci piace, per poi passare oltre attratti da sempre nuove e diverse sirene mediatiche.

Quella del 25 novembre contro la violenza alle donne non fa eccezione e ben presto dimenticheremo che in Italia fra il 1996 e il 2004 gli stupri sono aumentati del 36% e che 6 milioni e mezzo di donne hanno subito almeno una volta nella vita una forma di violenza fisica o sessuale. Dimenticheremo anche che l'80% delle donne sono aggredite da persone che conoscono: mariti, ex fidanzati, amici, vicini di casa, familiari.

L'uomo violento non è un pazzo, un mostro, un malato. Non appartiene necessariamente ad un ambiente socialmente e culturalmente degradato, ma attraversa trasversalmente la nostra società, anzi ne è il frutto avvelenato che paradossalmente va di pari passo con l'emancipazione della donna e il "declino dell'impero patriarcale".

Quanto più la donna cerca di affermarsi con uguale dignità, valore e diritti, tanto più l'uomo reagisce con violenza. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende aggressivo, brutale, volgare.

Si tratta di uomini che non accettano l'autonomia femminile e che spesso per debolezza vogliono controllare la donna e sottometterla al loro volere. La violenza, esercitata attraverso le parole, in maniera fisica o sessuale, viene percepita come "normale" espressione di virilità, stereotipo di cui molti sono ancora vittime inconsapevoli. Spesso si tratta di uomini insicuri e con scarsa fiducia in se stessi che non accettano il modello femminile con una vita autonoma, anzi considerano la donna responsabile dei loro fallimenti.

Succede poi che alcune donne si lascino attrarre e si convincano di poter operare un cambiamento nel partner violento, trasformando la loro vita in un incubo. Spesso sono indotte a perdere il lavoro e, se hanno figli, si legano a doppio filo trattenute dal ricatto economico e affettivo, instaurando una spirale di degrado fisico e psicologico sempre maggiore.

Può accadere che ci siano momenti di remissione, quando nell'uomo prende il sopravvento il senso di colpa. Allora la donna sembra dimenticare e rinuncia a denunciare la violenza e a troncare il rapporto. Forte è però la spinta dell'uomo a ripetere gli atteggiamenti di sopraffazione e, quando la donna decide e ha il coraggio di dire basta, può esplodere la "follia" che porta ad uccidere la partner, a volte i figli, e anche se stesso.

Più importante delle leggi e delle pene, che pure ci vogliono, sarebbe sensibilizzare i giovani, donne e uomini, al rispetto reciproco, a conoscere ed apprendere l'alfabeto delle emozioni e dei sentimenti per divenire persone critiche, mature, capaci di decodificare i messaggi veicolati da una TV spazzatura sempre più offensiva del corpo della donna, oggetto senz'anima da manipolare e possedere a piacimento.




Vilma Filisetti vive a Savona, ex insegnante, fin dagli anni '70 è attivamente impegnata in campo politico e sindacale e nel movimento delle donne.

mercoledì 24 novembre 2010

Cultura Occitana: Vertigo




Giunge al termine con l’appuntamento di Martedì 30 novembre il programma della Provincia di Cuneo Cultura Occitana, volto a promuovere e valorizzare la minoranza linguistica occitana radicata nel territorio cuneese. La conclusione è affidata ai cuneesi A FIL DE CIEL con lo spettacolo Vertigo.

Il gruppo, nato nel 2000 come formazione acustica con l’intento di riportare in vita melodie della tradizione medioevale dell’area occitana, ha negli anni arricchito il proprio repertorio di brani inediti, aggiungendo alla formazione originaria suoni viola, contrabbasso e una vasta sezione ritmica. Nel 2004 ha pubblicato il primo cd con la partecipazione straordinaria di Riccardo Tesi, e nel 2010 il secondo, Vertigo, che raccoglie brani sacri e profani a partire dal XIV secolo. Accanto all’attenzione per gli arrangiamenti e per le potenzialità espressive della voce, il gruppo ha iniziato ad esplorare la tradizione musicale di altre minoranze e popoli europei, proponendo brani in ebraico sefardita, francese, spagnolo. “Gli A Fil De Ciel sono riusciti a far emergere sonorità dimenticate, rivestendole di caratteri moderni senza snaturarne il contenuto più profondo, facendo emergere tutta la potenza espressiva dei testi tradizionali, lasciando intatta tutta la loro autenticità". (Salvatore Esposito, Blogfoolk)


Con Gabriella Brun, ghironda, semiton, flauti; Silvio Ceirano, percussioni, chitarra; Roberto Fresia, tastiere; Marco Lovera, cornamusa, trombone, galobet e tamborin ; Helga Niederwald, violino, viola; Rosella Pellerino, voce; Michele Piantà, contrabbasso, basso elettrico.

L’appuntamento, ad ingresso gratuito, è alle ore 21 presso la Sala B, Centro incontri della Provincia di Cuneo in Corso Dante 41 a Cuneo. L’iniziativa della Provincia di Cuneo è finanziata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per il programma degli interventi previsti dalla Legge
82/99 coordinato dalla Regione Piemonte. L’organizzazione è curata da Espaci Occitan: per informazioni Tel. 0171.904075; segreteria@espaci-occitan.org.

lunedì 22 novembre 2010

Lettura poetica di Paul Polansky a Finale




LIBRERIA CENTO FIORI
Via Ghiglieri 1 – Finale Ligure (SV)
019 – 692319 / info@libreriacentofiori.it
presenta


CentoFioriCentoLibri
Incontri in Libreria

Sabato 27 novembre 2010 alle ore 17.30,
PAUL POLANSKY

Il poeta statunitense
presenterà la sua opera e leggerà suoi versi tratti dalla raccolta
UNDEFEATED
POEMS 1991-2008
(IMBATTUTO Poesie 1991-2008)
Multimedia Edizioni - Casa della poesia
(Baronissi - Salerno)

Condurrà l'incontro e leggerà le poesie in italiano Gianluca Paciucci
La traduzione da/all'inglese sarà a cura di Marina Fasce

INGRESSO LIBERO





Paul Polansky

E' nato a Mason City, Iowa, nel 1942. La sua decisione di frequentare il college alla Madrid University diventò l’inizio di una lunga odissea attraverso l’Europa, che lo ha portato a diventare uno degli scrittori più impegnati nella lotta per i diritti umani nell’Europa dell’est.
Poeta, fotografo, operatore culturale e sociale, è diventato negli anni un personaggio mitico per il suo impegno a favore delle popolazioni Rom.
Le sue raccolte di poesie "Living Through It Twice", "The River Killed My Brother", e "Not a refugee" descrivono le atrocità commesse da cechi, slovacchi, albanesi ed altri contro quelle popolazioni.
Ha anche svolto studi accurati sui campi di concentramento nazisti nei quali venivano trucidate, insieme a quelle ebraiche, intere comunità Rom. Attualmente dirige alcuni progetti di aiuto e salvaguardia di queste popolazioni nel Kosovo e in Serbia.
Nonostante egli debba la sua fama mondiale alle sue battaglie a tutela dei Rom kosovari, Polansky è anche un prolifico ed apprezzato romanziere e poeta, che riesce a fondere, nei suoi scritti, l’esperienza di sessantotto anni vissuti intensamente e l’impegno a salvaguardia di una cultura gitana che lo ha toccato nel profondo e che la civiltà occidentale tende a sopprimere.
Nel 2004 Polansky è stato insignito del prestigioso Human Rights Award della città di Weimar, in Germania.

Ha pubblicato numerose raccolte di poesie e, nel 2009 in Italia, una grande antologia bilingue dal titolo Undefeated/Imbattuto - Poems 1991-2008 (Multimedia Edizioni / Casa della poesia).

Ha partecipato nel 2002 a SIDAJA Incontri internazionali di poesia a Trieste e nel 2003 a Il cammino delle comete a Pistoia, nel 2005 e nel 2009 agli Incontri internazionali di poesia di Sarajevo. Nel 2008 è stato tra i poeti partecipanti alla festa per i 75 anni di Jack Hirschman e a luglio 2009 ha preso parte a Napolipoesia nel Parco.

sabato 20 novembre 2010

Rolando Mignani tra segno e simbolo





ROLANDO MIGNANI

tra segno e simbolo

a cura di Sandro Ricaldone
in collaborazione con Giorgia Barzetti


Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce
1 dicembre 2010 - 23 gennaio 2011


inaugurazione 30 novembre 2010, h. 17,30

ROLANDO MIGNANI (Genova, 1937-2006) è figura di spicco nel campo delle sperimentazioni verbovisuali che a partire dagli anni '60 hanno rivestito un ruolo vitale nella scena artistica contemporanea, trovando in Genova uno dei principali centri di elaborazione, attraverso le esperienze promosse da Martino e Anna Oberto attorno ad "Ana eccetera" (con il coinvolgimento di autori come Corrado D'Ottavi, Giampaolo Barosso, Felice e Vincenzo Accame) e dal Gruppo di Studio, animato da Guido Ziveri e Luigi Tola.

Di estrazione operaia (ha lavorato a lungo in fonderia), Mignani esordisce prendendo parte all'avventura di Tool, la rivista creata da Ugo Carrega nel 1965 attorno alla proposta di una "poesia simbiotica", volta a far interagire nella pagina poetica, su un piede di parità, gli aspetti visivi (lettering, forma, segno, colore) con gli elementi verbali (suono, significato) tradizionalmente dominanti.

Nell'ambito del gruppo di Tool (che ha visto impegnati, fra gli altri, Lino Matti, Rodolfo Vitone, Lea Landi e Vincenzo Accame), Mignani ha sviluppato - come Carrega osservava in uno scritto del 1971 - "una ricerca ossessiva e continua sul proprio mondo erigendo a segni (in una lettura negativa) il brandello di carta di giornale, la carta da macellaio, le stagnole delle scatole, la carta igienica, il cartone da pasticcere ... e la verbalitá contraddittoria del mondo della grande società al quale contrappone la sua lacerata verbalità individuale".

Pur nella prolungata militanza nel versante simbiotico della poesia l'approccio di Mignani si distingue per la complessa stratificazione simbolica messa in atto mediante una calcolata "scrittura" di segni pittografici, di rapporti spaziali e di risonanze materiche.

All'intensa attività espositiva - nel cui ambito, oltre alle numerose personali in Italia e all'estero, assumono particolare rilievo le presenze a rassegne di grande spessore storico-critico come "Italian Visual Poetry 1912-1972", allestita da Luigi Ballerini al Finch College Museum di New York e quindi alla GAM di Torino nel 1973, e "Fra significante e significato", Collegio Cairoli, Pavia 1975, introdotta da Renato Barilli - attorno alla metà degli anni '70 si affianca la produzione di libri d'artista (da "La rimozione dell'orecchio nell'elargizione dell'occhio", Sileno, Genova 1975, a "Quaderno di appunti per la rimozione delle nome e dei cosi", La Nuovo Foglio, Macerata 1976).

Sul finire di quel decennio nel lavoro di Mignani si viene poi accentuando una suggestiva propensione oggettuale che sfocia nella realizzazione di costruzioni tridimensionali e, in prosieguo, si espande ulteriormente, sino ad attingere, seppure episodicamente, la misura dell'installazione.
Significativo risulta anche l'impegno di animazione culturale esercitato sia nella relazione dialogica con giovani artisti e performers genovesi (Galletta, Bignone, Bucci) sia attraverso la partecipazione a riviste ("Atelier Bizzarro", 1973; "Stato inferto", 1981) e - soprattutto - con la redazione di "Ghen Liguria" (1981-1985), per la quale ottiene i contributi teorici di protagonisti della scena filosofica ed estetologica, da Jean-Luc Nancy a Mario Perniola; da Gianni Carchia a Franco Rella.

Nel tracciare un bilancio della propria vicenda, nell'agosto 2005, pochi mesi prima della scomparsa, Mignani scriveva, parlando di sé in terza persona: "Sua è la sfida a una lettura globale di segni visibili intesa come transcodificazione continua dall’ottico al tattile, dal percettivo al concettuale. Tutta la tradizione del lettrismo, del collage e del decollage, del materismo e del ready made, del simbolismo e dell’operazionismo è stata fusa da Mignani in un 'furor segnico' dove il variare dei valori informativi dipende dal variare delle attese, passando da un fondale ligneo a una improbabile equazione zampa-puntina da disegno, da una sagoma di mano a un ancor meno probabile tracciato di valenze, dal fondale di masonite negli incubi del massello a una criptica “dis-Sertazione per un res-Tauros”. Tra le pieghe di questo labirinto segnico Mignani nasconde la sua, in definitiva semplicissima, “dichiarazione di poetica”: DA MATERIA A MATERIA FORMA-COLORE INSIEME INVENTANO".

La mostra allestita al Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce ripercorre l'intera vicenda creativa dell'autore, dai primi lavori, dove ancora affiorano tracce di poesia lineare, sino alle prove estreme dedicate ai tragici attentati alle Twin Towers, passando per gli assemblaggi tridimensionali e talune installazioni degli anni '80 e '90. Numerosi sono gli inediti, provenienti dalle raccolte dell'erede e di collezionisti privati.

In un'apposita sezione viene ricostruita, pressoché integralmente, l'ultima personale di Mignani, tenuta nel 2001 presso la Galleria Leonardi / V-idea: un progetto satirico, svolto con la collaborazione grafica di Paolo Argeri, che costituisce l'ultima manifestazione del profondo interesse tributato all'opera del poeta Edward Estlin Cummings, documentato altresì da una serie di pannelli in cui vengono analiticamente investigate talune liriche di questo autore.
Ricca di materiali la sezione documentaria, costituita da progetti, lettere, fotografie, multipli, libri, riviste, manifesti, cataloghi, inviti, rinvenuti nell'archivio personale dell'artista di cui l'ADAC, Archivio d'Arte Contemporanea dell'Università di Genova, per iniziativa del Prof. Franco Sborgi ha intrapreso la catalogazione, in vista della successiva acquisizione.

Accompagna la mostra un catalogo di 152 pagine dell'Editore De Ferrari, con interventi dell'Assessore ai Progetti Culturali del Comune di Genova, Andrea Ranieri, e di Franco Sborgi, Direttore del Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Arti e Spettacolo (DIRAS) dell'Università di Genova, e con testi di Giorgia Barzetti, Viana Conti, Sandro Ricaldone, Carlo Romano, Sandra Solimano, Giorgio Zanchetti e Giuseppe Zuccarino.

Nel catalogo, oltre alla riproduzione di buona parte delle opere in mostra, sono riportati i principali scritti dell'artista e una corposa antologia critica.

giovedì 18 novembre 2010

Piazza della Loggia, per non dimenticare. Un filo nero lungo quarant'anni



Dunque, come già accadde per Piazza Fontana, anche per la strage di Piazza della Loggia non c'è nessun colpevole. Ma se non esiste (e probabilmente non esisterà mai) una verità processuale, la verità politica è ormai a distanza di tanti anni diventata verità storica. Come ebbe a scrivere proprio nel 1974 Pier Paolo Pasolini, da sempre conosciamo mandanti ed esecutori delle stragi. Sappiamo perchè queste avvennero e chi le volle. L'inchiesta, di cui pubblichiamo oggi ampi stralci, uscita nel 1987 su una rivista di quella che allora chiamavamo "Nuova Sinistra", dimostra come, già anni prima che venisse rivelata l'esistenza di “Gladio”, le cose fossero chiare per chi volesse senza condizionamenti e ipocrisie istituzionali ricercare la verità sullo stragismo nero.

Giorgio Amico

Un filo nero lungo quarant'anni

L'arresto di Stefano Delle Chiaie alla fine del mese di marzo [1987] e la sua estradizione in Italia hanno contribuito a ridestare l'attenzione dei mass media sulle stragi nere che hanno insanguinato il nostro paese negli ultimi vent'anni. Dalle sue deposizioni al processo per la strage di Bologna, in corso in queste settimane, o in altra sede, qualcuno si attende clamorose rivelazioni che contribuiscano a far luce su questi orrendi crimini, sui loro esecutori e mandanti politici (…).
Ma, ammesso che Delle Chiaie collabori coi giudici, è poi lecito aspettarsi rivelazioni clamorose? Da ciò che l'esponente neofascista ha già dichiarato (…) sembrerebbe proprio di no.

In particolare l'ex capo di Avanguardia Nazionale ha fatto cenno all'esistenza di una struttura di sicurezza, nata dopo la seconda guerra mondiale e utilizzata anche per fini di politica interna. Questa struttura occulta avrebbe materialmente organizzato gli attentati, infiltrando e utilizzando le organizzazioni di destra, per poi depistare le indagini.

Tutto ciò è altamente verosimile e concorda con quanto, ed è molto, già si conosceva sulla strategia del terrore. Ma non rappresenta certo una novità. Il fatto è che, già a partire dal libro-inchiesta “La strage di Stato” del 1970, il quadro in cui si attua la strategia terroristica neofascista è sostanzialmente delineato, così come i mandanti, i finanziatori, gli esecutori. Non a caso nel libro in questione ricorrono nomi, come quelli di Sindona e Marcinkus, destinati a diventare tristemente noti negli anni successivi. Per cui, come Bandiera Rossa sosteneva all'indomani della strage di Natale del 23 dicembre 1984, “il problema non è tanto quello di compiere vere e proprie indagini, quanto di mettere i tasselli di un mosaico il cui disegno è ormai chiaro, di unificare fatti e indizi, di leggerli con una logica politica diversa da quella dell'ideologia di regime”.

Prima di tutto, occorre dunque sgomberare il terreno dall'ostacolo rappresentato dalla cosiddetta tesi dei servizi segreti “deviati”. (…)

In realtà di tutto si può parlare meno che di deviazionismo dei servizi segreti, il cui compito principale, ed è l'intera storia della Repubblica a confermarlo, è proprio consistito nel porre sotto tutela, prima per conto direttamente degli americani e poi della NATO, l'evoluzione del quadro politico italiano.

E' una trama che parte da lontano, prima ancora della nascita dello Stato repubblicano...

Il referendum istituzionale del 1946
Intorno alla questione dell'assetto istituzionale dello Stato si combatte nei primi mesi del 1946 la prima grande battaglia democratica dell'Italia del dopoguerra. Nel timore che la caduta della monarchia agevoli l'andata al potere della sinistra ed in particolare del PCI, l'intero schieramento borghese, da l'Uomo Qualunque ad ampi settori della gerarchia cattolica e della DC, fa blocco attorno ad Umberto di Savoia.

I fautori della monarchia non si limitano alle manovre elettorali, ma si preparano anche sul piano militare. Si stringono contatti con i movimenti clandestini fascisti sorti già all'indomani della Liberazione con la connivenza delle autorità militari anglo-americane, si apprestano piani operativi che prevedono l'effettuazione di una campagna di provocazione e di attentati da attribuire alle sinistre e poi l'intervento di unità militari fedeli, essenzialmente dell'arma dei carabinieri.

Grazie all'aperto appoggio di larga parte dell'apparato statale, non epurato e ancora monarchico, nascono così i Reparti antitotalitari antimarxisti monarchici (RAAM), vere e proprie formazioni paramilitari di cui fanno parte nostalgici del ventennio e della monarchia.

Ai RAAM appartengono molti alti ufficiali dei carabinieri e i più elevati dirigenti della polizia, sotto la supervisione di ciò che resta dei servizi segreti (SIM) e con stretti addentellati con organizzazioni criminali come la mafia siciliana. 

E' in questa occasione che per la prima volta si tenta di coalizzare insieme in funzione anticomunista gruppi paramilitari fascisti ed elementi anche di spicco del movimento partigiano. Cardine di questo intreccio è Edgardo Sogno, monarchico-liberale, durante la Resistenza a capo di una formazione – l'Organizzazione Franchi – alle dirette dipendenze dell'OSS, il servizio segreto americano. Altro elemento di rilievo è il maggiore Enrico Martini “Mauri”, già capo delle formazioni badogliane in Piemonte e acceso anticomunista.

Sono fascisti, partigiani bianchi, alti gradi delle forze armate e della polizia, servizi segreti ed organizzazioni criminali a formare già in questi primi mesi del 1946 un amalgama golpista che riapparirà puntualmente ad ogni snodo cruciale della storia della repubblica come strumento di condizionamento occulto dell'evoluzione politica del paese.



Le elezioni politiche del 1948
La vittoria della repubblica il 2 giugno 1946 non segna di certo la fine delle trame golpiste. Avviene tuttavia un cambiamento non di scarso rilievo: alla destra monarchica si sostituisce nel ruolo di sfruttamento e protezione politica dell'eversione la Democrazia cristiana, ormai a tutti gli effetti espressione delle più importanti frazioni della borghesia italiana.

Queste manovre si intensificano con l'estromissione dal governo dei ministri socialisti e comunisti nella primavera del 1947. Come testimonia un'anonima informativa da Torino all'Ufficio “I” dell'Arma dei carabinieri, nel mese di novembre l'apparato clandestino costituitosi alla vigilia del referendum istituzionale rimane in piena attività in vista di un possibile confronto armato con il movimento operaio e le sue organizzazioni. Dopo aver evocato lo spettro di un'imminente insurrezione comunista nel triangolo industriale, il documento passa in rassegna lo stato delle forze filogovernative e conclude, “... a capo di queste forze dell'ordine [sono] noti e stimati comandanti di formazioni partigiane democristiane e monarchiche come il maggiore effettivo dell'esercito Martini “Mauri”...questi capi si incontrano, si scambiano informazioni, per tenersi pronti a predisporre dei piani di controinsurrezione. Ci stiamo ritrovando e riorganizzando, essi dicono, quindi per i comunisti le cose non andranno troppo lisce”.

I servizi speciali americani non sono estranei a queste iniziative. E' un momento di profondi cambiamenti a Washington causati dalla guerra fredda (…). Nel settembre del 1947 la CIA sostituisce il vecchio e ormai inadeguato OSS da cui durante la guerra dipendevano uomini come Sogno, Martini “Mauri” e un certo Fumagalli che negli anni della strategia della tensione troveremo a capo di un fantomatico Movimento di Azione Rivoluzionaria (MAR).

Il 10 ottobre 1947 l'ambasciatore americano a Roma, James Dunn, in un telegramma al Segretario di Stato Marshall, auspica la necessità di “formulare piani, compresi quelli per un'assistenza militare attiva,per il caso che se ne manifesti la necessità nel prossimo inverno o nella prossima primavera”. Va comunque evitato un coinvolgimento diretto di truppe americane; per questo, in vista di uno scontro con le sinistre vengono approntate – in accordo con le autorità italiane – strutture “parallele” in grado di affrontare ogni tipo di emergenza al di là di ogni possibile controllo parlamentare.

“Già nei primi mesi del 1948 – dichiarerà trent'anni più tardi l'ex ministro dell'Interno Mario Scelba, - era stata messa a punto un'infrastruttura capace di fare fronte a un tentativo insurrezionale comunista. L'intero paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale... un uomo di sicura energia e di assoluta fiducia. L'entrata in vigore di queste prefettute allargate [segrete e non contemplate da alcuna norma di legge]sarebbe stata automatica al momento (…) di una sollevazione: allora i superprefetti da me designati avrebbero assunto gli interi poteri dello Stato sapendo esattamente, in base a un piano preordinato, che cosa fare”. 

L'8 marzo del 1948, alla vigilia delle elezioni, il National Security Council americano discute la situazione esistente in Italia. Dato per scontato che “una maggioranza per il Blocco del popolo non è improbabile” e che ciò minaccerebbe seriamente “gli interessi di sicurezza degli Stati Uniti nel Mediterraneo”, il NSC sostiene tra l'altro la necessità di “ fornire ai gruppi clandestini anticomunisti [cioè ai neofascisti] assistenza finanziaria e militare”. La proposta è personalmente approvata dal presidente Truman e diventa immediatamente operativa.

L'adesione dell'Italia alla NATO

Come sappiamo, nonostante i timori dell'amministrazione Truman, il Fronte Popolare non vinse le elezioni; ciò non valse tuttavia a modificare in nulla la politica americana di appoggio ai gruppi armati neofascisti.

All'inizio del 1950 giungono in Italia Carmel Offie, supervisore sei servizi segreti italiani per conto della CIA, e James Angleton, ex dirigente dell'OSS. I due contattano ex ufficiali repubblichini ed ex dirigenti fascisti in vista della costituzione di un “fronte nazionale” anticomunista sotto la guida dell'ec capo della X MAS, Valerio Borghese. Il progetto viene poi provvisoriamente accantonato per essere ripreso con la stessa sigla e con gli stessi uomini vent'anni più tardi, alla vigilia della strategia del terrore.

Il 23 settembre 1950 il consiglio dei ministri approva la legge per la difesa civile proposta dal ministro dell'Interno Scelba. Formalmente il costituendo servizio di difesa civile dovrebbe fiancheggiare carabinieri e polizia in caso di gravi calamità naturali. In realtà sotto la supervisione del generale dei carabinieri Pieche, ex ufficiale del SIM (…), viene costituito un vero e proprio corpo separato composto da “volontari” reclutati fra gli avanzi delle Brigate nere.

Sono anni di repressione sistematica contro lavoratori e forze di sinistra. In tre anni a partire dal 1948, 62 sono gli assassinati, 3.126 i feriti, 92.162 gli arrestati di cui 19.306 condannati a ben 8.441 anni di carcere complessivo. Nemmeno il triennio iniziale del fascismo aveva saputo fare di meglio. (…) Intanto nell'agosto del 1949 l'Italia è entrata a far parte della NATO. Tra i vari obblighi che tale adesione comporta, alcuni riguardano direttamente i servizi segreti che vengono completamente riorganizzati sotto la supervisione della CIA e utilizzati secondo appositi protocolli, ancora oggi segreti, in funzione “antisovversiva”, cioè antioperaia e antidemocratica.

L'appoggio ai neofascisti diventa aperto. (…) Il comando dello stato maggiore delle forze armate americane [indirizza] al servizio segreto italiano un memorandum (…), chiamato in codice “Demagnetize”.

Nel documento si legge fra l'altro: “L'obiettivo ultimo del piano è quello di ridurre le forze dei partiti comunisti, le loro risorse materiali, la loro influenza nei governi italiano e francese e in particolare nei sindacati, in modo da ridurre al massimo il pericolo che il comunismo possa trapiantarsi in Italia e in Francia, danneggiando gli interessi degli Stati Uniti nei due paesi... La limitazione del potere dei comunisti in Italia e in Francia è un obiettivo prioritario: esso deve essere raggiunto con qualsiasi mezzo”.



Il centrosinistra e il Piano “Solo”
Nel 1962 nasce sotto la guida di Amintore Fanfani il primo governo di centrosinistra, un tripartito DC-PSDI-PRI con l'appoggio esterno dei socialisti. Pochi giorni prima, il 22 novembre 1961, il segretario democristiano Aldo Moro aveva dichiarato in televisione ormai inevitabile e necessaria l'apertura al PSI. (…) Nei giorni immediatamente successivi all'ambasciata usa di roma si tiene una riunione segreta dei massimi dirigenti militari e della CIA in Europa. (…) Gli uomini della CIA concertano assieme ai responsabili dei servizi italiani (SIFAR) un'azione di disturbo al tentativo di Moro. (…) A tal fine vengono utilizzati gli archivi della stazione CIA di Roma. (…) Gruppi di “volontari” si formano in molte città italiane tra cui Milano, Torino, Genova. “sono gruppi -dichiarerà il sen. Ferruccio Parri alla commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti dell'estate '64 – di civili, di ex militari, di ex carabinieri... Questi gruppi avrebbero dovuto assecondare il colpo che il generale De Lorenzo aveva preparato, anche con funzione di agenti provocatori, con funzione di squadre di appoggio dei reparti dei carabinieri...”.

E' il famoso piano “Solo” che prevede l'intervento dei reparti corazzati dell'Arma dei carabinieri, l'arresto e la deportazione in appositi campi già predisposti in Sardegna di migliaia di militanti di sinistra, secondo liste scrupolosamente aggiornate che risalgono almeno ai primi anni Cinquanta. Il piano, del tutto simile data la comune matrice NATO al golpe dei colonnelli greci dell'aprile '67, non verrà mai attuato ma otterrà comunque lo scopo di condizionare pesantemente l'andamento della vita politica italiana.

L'autunno caldo e la strategia della tensione
(…) [Alla metà degli anni '60] profonde contraddizioni sociali (…) spingono alla lotta la classe operaia, mentre una nuova generazione di studenti si radicalizza in risposta all'esaltante esempio che viene da Cuba e dal Vietnam. Le lotte si allargano, si generalizzano, riescono in alcuni casi a sfuggire al controllo sindacale. (...) L'ondata della contestazione investe l'università, mentre cresce la mobilitazione antimperialista. Crollano i vecchi steccati risalenti agli anni della guerra fredda e si fa sempre più forte l'esigenza dell'unità sindacale.

DC, americani, Confindustria, Vaticano ritengono che occorra riportare all'ordine l'Italia. Nasce la strategia della tensione. Vengono recuperati Sogno, i partigiani bianchi e il Fronte Nazionale di Valerio Borghese. I burattinai sono sempre gli stessi: la CIA e i suoi “uffici speciali” targati NATO.
Dal 3 al 5 maggio 1965 si era intanto svolto, con il patrocinio neppure troppo occulto dei vertici militari, all'Hotel Parco dei Principi di Roma il famoso convegno sulla “guerra rivoluzionaria” in cui relazionano personaggi come Guido Giannettini e Pino Rauti. E' l'atto di nascita ideologico e forse anche organizzativo della strategia della tensione.

Sul piano operativo vengono discusse diverse linee strategiche; al centro di tutte si collocano le forze armate, considerate l'unico baluardo nei confronti del comunismo. Esse tuttavia non debbono agire da sole, ma operare con l'appoggio di gruppi irregolari di civili.

(…) Come scrive il De Lutiis nella sua illuminante Storia dei servizi segreti: “i servizi paralleli, che fino ad allora avevano addestrato civili da utilizzare in appoggio a eventuali colpi di stato militari, ora cominciavano a esercitarli alla tecnica dell'attentato”.

Nel 1968 viene ricostituito il Fronte Nazionale di Valerio Borghese, nello stesso anno la “scuola guastatori” del SID di Capo Marrargiu viene riorganizzata sotto la guida di “tecnici” americani. Nella base vengono addestrati alla controguerriglia e al sabotaggio giovani neofascisti che, una volta tornati alle loro zone di origine, restano a disposizione dei servizi segreti, collegati in gruppi ristretti e forniti di armi ed esplosivi, diretti da ufficiali della struttura “I” dell'esercito.

Sempre nel 1968 avvengono i primi attentati ai treni e alla Fiera di Milano, attribuiti dalla polizia e dalla stampa agli anarchici. Il 12 dicembre 1969 è la volta della strage di Piazza Fontana a Milano. (…) Il 1970 è l'anno del golpe Borghese e dell'occupazione fantasma del Viminale (…) mentre il MAR di Carlo Fumagalli sigla una serie di attentati (…).




La Rosa dei Venti e i protocolli segreti della NATO
(…) Nel 1973 scoppia il caso dell'organizzazione eversiva denominata “Rosa dei Venti” che vede implicati una serie di alti ufficiali, tutti in stretti rapporti con l'Ufficio guerra psicologica del comando NATO di Verona (…).

Si scopre così che l'Ufficio di guerra psicologica è una struttura di rilevante importanza strategica, legata strettamente alla CIA, incaricata tra l'altro di studiare le varie strategie psicologiche da usare in caso di colpi di stato, guerre civili, sommosse, controguerriglie. In quel periodo l'Ufficio avrebbe dedicato particolare attenzione allo studio “scientifico” degli effetti destabilizzanti della strategia della tensione.

Uno dei principali imputati, il colonnello Amos Spiazzi, riconosce durante gli interrogatori a cui viene sottoposto dai magistrati l'esistenza di una “organizzazione di sicurezza delle forze armate, che non ha finalità eversive ma si propone di proteggere le istituzioni contro il marxismo”. Di questa organizzazione clandestina non fanno parte solo militari, ma anche “civili, industriali e politici” a ulteriore conferma dell'esistenza di quegli “stati maggiori misti” di cui si Era discusso al convegno dell'Hotel Parco dei Principi.

Il colonnello Spiazzi (…) rivela che l'organizzazione eversiva di cui è accusato di far parte, è una struttura ufficiale anche se segretissima della NATO, con carattere sovranazionale, sorta allo scopo di impedire la conquista [anche democratica] delle leve dello stato da parte dei comunisti e più in generale delle sinistre.

Come non pensare immediatamente al piano “Demagnetize” e ai piani operativi del National security Council americano della fine degli anni '40? A conferma di quanto ammesso dallo Spiazzi, il capo del SID, generale Vito Miceli, riconosce nel corso della stessa inchiesta l'esistenza da sempre all'interno dei servizi segreti di “una particolare organizzazione segretissima, che è a conoscenza delle massime autorità dello Stato... Un organismo inserito nell'ambito del SID, che assolve compiti pienamente istituzionali, anche se si tratta di attività ben lontane dalla ricerca informativa...”.

Questi accordi. a cui ha fatto direttamente riferimento l'esponente socialista Rino Formica all'indomani della strage del 23 dicembre 1984, “prevedono l'istituzione di un'organizzazione non ufficiale, anzi giuridicamente inesistente, preposta a garantire con ogni mezzo la collocazione internazionale dell'Italia all'interno dello schieramento atlantico, anche nel caso che l'elettorato si mostri orientato in maniera difforme”.
(...)

(Da: Bandiera Rossa, giornale della LCR, agosto/settembre1987)

lunedì 15 novembre 2010

In memoria di Elio Lanteri



E' morto Elio Lanteri, autore del bel romanzo "La ballata della piccola piazza", pubblicato nel 2009 quando l'autore aveva ottant'anni. Originario di Dolceacqua, era stato amico di Francesco Biamonti. Lo si incontrava spesso a passeggiare sulla banchina del porto di Oneglia. Lo ricordiamo con le parole di Marino Magliani che per primo seppe riconoscerne la grandezza.



Dalla Prefazione di Marino Magliani a "La ballata della piccola piazza"


Ho conosciuto Elio Lanteri una decina di anni fa, durante un mio soggiorno invernale in Liguria. Elio frequentava, e credo lo faccia ancora adesso, un caffè sul porto di Oneglia. Lo incontravo il mattino e dopo la colazione uscivamo sul porto a passeggiare. Se il tempo era brutto stavamo a ridosso, sotto i portici, altrimenti camminavamo al sole lungo i binari di Calata Cuneo. Elio mi parlava dei miei racconti, di ciò che aveva letto di mio, cose che erano uscite per una piccola casa editrice di Imperia.
E di Biamonti, della loro amicizia, dei loro viaggi in Provenza, ma anche di Seborga, di René Char, di Juan Rulfo, di Garcia Lorca. Mi parlava di mille autori, ogni volta uscendo con cose che non conoscevo. Succedeva che io gli menzionavo un francese o uno spagnolo e lui allora si fermava un istante lungo i vecchi binari del porto e cominciava a citare. Entrambi con le fronti vaste usavamo buoni berretti di lana e forse la gente un po’ ci notava, un giovane e un signore anziano che passeggiano a scatti e si fermano, ripartono e tornano a fermarsi. Perché questo era l’avanzare di Elio su quel porto – e lo è tutt’ora – per gradi e citazioni. Fin quando un giorno non gli chiesi se non gli era mai venuto in mente di scrivere qualcosa.
Elio disse serio perbacco, certo che l’aveva fatto, ma non era importante, aggiunse subito.
Gli chiesi di farmi leggere il suo lavoro, non voleva, non perdere tempo mi diceva, pensiamo alle tue di trame, piuttosto, il mio, disse, resta un esercizio.
Dovetti insistere, e alla fine ci riuscii: un giorno arrivò sul porto col manoscritto. In quei tempi era ancora viva mia madre e tornavo in Liguria anche tre o quattro volte l’anno, poi alla fine dell’estate ripartivo per l’Olanda.
Quell’anno portai con me il suo manoscritto. Miracolosamente in Olanda faceva ancora caldo e andavo ogni giorno alla spiaggia. Passavo i pomeriggi a leggere e a rileggere le pagine di Elio Lanteri, a segnare sui fogli delle cose a matita. Me ne innamorai subito, per dirla com’è, della Ballata della piccola piazza, perché mi sembrò fin da subito una storia nuova, una Liguria mai raccontata, una regione finalmente non olearia.
Da sempre chi ha narrato la Liguria si è confrontato con la neccessità di guardare agli ulivi e al suo mare. Nell’unico romanzo che ci ha lasciato Boine (Il peccato, 1914), raramente si trovano gli ulivi, ma questo perché raramente l’io narrante lascia la costa. Nei saggi sulla crisi degli ulivi e altrove, invece, Boine costruisce passo a passo la sua cattedrale degli ulivi.
Anche Calvino ci ha mostrato una zona ulivata, indicandoci addirittura la linea che divide la Liguria e separa la severità della campagna dalla mondanità della riviera.
Biamonti ci fa intuire il mare nella luce e ci regala la mineralità degli ulivi. E un po’ tutti, prima e dopo e attraverso questi nomi, ci hanno regalato ulivi e mare.
Nella Ballata gli ulivi non appaiono. Eppure le famiglie che popolano questo romanzo vivono soprattutto di ulivicoltura. Ci sono le giare piene d’olio e la capra le prende a cornate. Perché dunque nelle pagine di Lanteri che leggeremo non ci sono ulivi? Perché la Liguria che ci consegna Lanteri è fatta di soli sogni, assomiglia piuttosto a quel terreno fantastico su cui riesce a muoversi Juan Rulfo, è una Liguria che sale nei vapori dei torrenti e resta nell’aria.
Io su quella spiaggia del Nord non sapevo mica cosa stavo leggendo. Era un po’ come quando ci svegliamo e non sappiamo più cosa abbiamo sognato. Sappiamo che abbiamo fatto un bel sogno, o brutto, e sappiamo che non basta. Dov’eravamo, cosa abbiamo sentito, quanto siamo stati bene o male?
E così, rileggendo la Ballata – ché i sogni non si riescono a risognare, ma i libri sì – ho capito che davanti a me avevo davvero la Liguria che avevo cercato nei libri, e nelle passeggiate buie dei fondovalle, nei dormiveglia, nelle notti che mi trovano ancora da qualche parte, in Liguria e altrove. Era la terra che non ero mai più riuscito a rivedere, allora ci misi le mani e la odorai. Erano le pagine visionarie che non avevano bisogno di mare né di ulivi o di luce, per essere il sogno, ma solo di parole e musica.
Mi chiedo da sempre se esiste la musica nei sogni. Ecco cos’è per me la Ballata. Una favola come solo un bambino riesce a raccontare ed ascoltare, favola dura, di vita e di morte di una generazione di bambini che hanno giocato durante una guerra. Favola piena di frutta d’estate e di paure, e di venti che d’inverno entrano nei giacconi. (...)

domenica 14 novembre 2010

Vento largo compie un anno



Vento largo compie un anno


Domani, 15 novembre, Vento largo compie un anno. Il bilancio è molto positivo sia per numero di post pubblicati (480) che per visitatori (31mila). 31mila ingressi provenienti un pò da tutta Italia e per circa un 20% da 85 paesi di tutti i continenti.

Un risultato lusinghiero che è il frutto dell'impegno di tutti coloro che hanno partecipato a questa avventura.

Ringraziamo tutti quelli che ci hanno visitato, sono ritornati, ci hanno scritto.

Un grazie particolare e un abbraccio a Adriana Romano, Angelica Lubrano, Antonio Spagnuolo, Armida Lavagna, Ben Vautier, Betti Briano, Bruno Marengo, Fondazione Mario Novaro, Franco Astengo, Gabriella Freccero, Gian Genta, Gianluca Paciucci, Gianni Donaudi, Gianni Gigliotti, Giuliano Arnaldi, Giuliano Falco, Giuseppe Carli, Guido Araldo, Hiram Bourdier, Keshet, Laura Hess Seborga, Laurent Vogel, Lo lugarn, Luigi Lirosi, Luigi Vassallo, Marco Gobetti, Marino Magliani, Pasquale Indulgenza, Pino Bertelli, Pino Mario De Stefano, Roberta Melandri, Roberto Massari, Rodolfo Badarello, Sandro Lorenzini, Sandro Ricaldone, Sergio Giuliani, Vilma Filisetti.

Senza di loro Vento largo non esisterebbe

venerdì 12 novembre 2010

Diego Fusaro, Essere senza tempo

Sabato 13 novembre alle ore 18.00

Libreria UBIK Savona
Incontro con lo scrittore


DIEGO FUSARO

e presentazione del libro

“Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita”

Introduce l’incontro PIERGIORGIO BIANCHI





Essere senza tempo

Mi affretto dunque sono. Sembra questo il nostro destino. Vi siete mai chiesti perché ogni vostra giornata è all'insegna della fretta e dell'"essere-senza-tempo"? Perché non abbiamo mai abbastanza tempo per fare ciò che vorremmo o dovremmo fare? Qual è il senso di questa accelerazione di ogni settore della nostra esistenza? Sorge il sospetto - già messo a fuoco da Heidegger - che questa velocizzazione elettrificante sia autoreferenziale, svuotata di ogni significato e volta a riprodurre a ritmi sempre più intensi la realtà così com'è, il "capitalismo assoluto-totalitario". Ci affrettiamo senza sosta e, al tempo stesso, non sappiamo dove stiamo andando. La dimensione del futuro si è eclissata e viviamo in un eterno presente, in cui l'orizzonte è sempre, immancabilmente, il presente stesso: l'eternizzazione del presente si accompagna alla desertificazione dell'avvenire, in un mondo disincantato che ha smesso di credere a Dio ma non al mercato. Se la modernità aveva perseguito futuri migliori, in nome dei quali accelerare la marcia, il nostro tempo vive del e nel presente, in una programmatica rinuncia all'avvenire e alle promesse inevase del moderno. E non di meno sopravvive, e si fa anzi sempre più intensa, l'accelerazione dei nostri ritmi esistenziali. Il nesso tra capitalismo e nichilismo dell'accelerazione risulta qui lampante, soprattutto se si esamina un fenomeno del paesaggio postmoderno: il cosiddetto "consumismo". L'ideologia che serpeggia tra le pieghe della società consumistica è quella dell'emergenzialità assoluta e del tempo cairologico: per poter essere sempre al passo coi tempi e con la moda, bisogna affrettarsi nell'acquistare le nuove merci (emergenzialità) e saper cogliere il momento opportuno (il tempo cairologico) per arrivare primi, bruciando sul tempo gli altri consumatori, secondo una versione postmoderna del carpe diem. Non stupisce, in quest'ottica, che le mode cambino sempre più in fretta, al punto da diventare "stagionali". Anche in questo risiede, d'altro canto, la contraddittorietà della religione consumistica, che proclama a gran voce l'imperativo della soddisfazione dei clienti e che in segreto coltiva l'obiettivo opposto, ossia la loro costante insoddisfazione, unica garanzia affinché essi non restino indifferenti alle nuove merci che ogni giorno vengono al mondo. La soddisfazione dei desideri tramite le merci è sempre parziale, lascia ogni volta molto a desiderare, è suscettibile di miglioramento e - questa la conseguenza - è sempre rinviata a un domani che, costantemente differito, non arriverà mai: l'esistenza del consumatore non risiede nel godimento delle merci possedute, ma in una perenne quanto snervante condizione di fretta e di dinamismo scaturente dal rincorrere le nuove merci che quotidianamente vedono la luce. Dopo un attimo, arriverà puntualmente un altro attimo, denso di nuove promesse di soddisfazione e, dunque, tale da indurre a una corsa forsennata da una merce che non ha soddisfatto appieno i nostri desideri a una nuova merce, non ancora collaudata ma analoga - nella sua struttura - a quella precedente; proprio come, del resto, nella società consumistica, l'attimo successivo è sempre qualitativamente analogo a quello precedente. Il futuro ha cessato di essere pensabile, secondo il pathos dell'escatologia benjaminiana, come "la piccola porta da cui poteva entrare il Messia" per trasformarsi in una porta infernale da cui sempre rientra lo stesso presente, in una "danse macabre" di istanti che muoiono per poi rinascere tali e quali.

Viviamo nell'epoca della fretta, un "tempo senza tempo" in cui tutto corre scompostamente, impedendoci non soltanto di vivere pienamente gli istanti presenti, ma anche di riflettere serenamente su quanto accade intorno a noi. L'endiadi di essere e tempo a cui Martin Heidegger aveva consacrato il suo capolavoro del '27 sembra oggi riconfigurarsi nell'inquietante forma di un perenne essere senza tempo. Figlio legittimo dell'accelerazione della storia inaugurala dalla Rivoluzione industriale e da quella francese, il fenomeno della fretta fu promosso dalla passione illuministica per il futuro come luogo di realizzazione di progetti di emancipazione e di perfezionamento, la nostra epoca "postmoderna", che pure ha smesso di credere nell'avvenire, non ha per questo cessato di affrettarsi, dando vita a una versione del tutto autoreferenziale della fretta: una versione nichilistica, perché svuotata dai progetti di emancipazione universale e dalle promesse di colonizzazione del futuro. Nella cornice dell'eternizzazione dell'oggi resa possibile dalla glaciale desertificazione dell'avvenire determinata dal capitalismo globale, il motto dell'uomo contemporaneo - mi affretto, dunque sono - sembra accompagnarsi a una assoluta mancanza di consapevolezza dei fini e delle destinazioni verso cui accelerare il processo di trascendimento del presente.

(Da:www.filosofico.net)

Diego Fusaro
Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita
Bompiani, 2010
12 euro

martedì 9 novembre 2010

Alle origini della poesia ligure: canto genovese di crociata



Giorgio Amico

Alle origini della poesia ligure: canto genovese di crociata


Nel 1095 il Concilio di Clermont bandì la prima crociata per liberare la Terrasanta dai Turchi. Ugo di Chateaunef d’Isère, vescovo di Grenoble e Guglielmo I, vescovo d’Orange furono inviati a Genova a chiedere l'invio di viveri e volontari, per l'armata dei crociati.
Il 24 Luglio 1097, la flotta genovese, composta da dodici galee e da una nave da carico, salpò verso la Terra Santa. I partecipanti erano circa quattromila, la nave ammiraglia era la "Grifona", comandata da Guglielmo Embriaco che, grazie alle sue doti diplomatiche e all'aiuto della Chiesa aveva ottenuto che le altre città rivierasche inviassero volontari da usare come vogatori in cambio di future concessioni sulle terre strappate ai musulmani.
Il 15 luglio 1099 la conquista della Città Santa fu realizzata grazie soprattutto all'uso di grandi torri d'assedio costruite col legname ottenuto dallo smantellamento di alcune navi genovesi.
La politica dell'Embriaco, molto vicino a Goffredo di Buglione, comandante della spedizione, permise a Genova di ottenere importanti concessioni in Oriente e di costruire una rete di colonie, diventando così la prima potenza commerciale del Mediterraneo.
La partecipazione alle crociate segnò in profondità la vita della città in tutti i suoi aspetti. Lo dimostra questo canto del 1269 che rappresenta una delle prime manifestazioni della poesia ligure in volgare.





I Xzeneijzi cum Maria
se fan bonna compagnia
pe trovar ne 'l Sepulchro
Jesu Christo forte et pulchro.

Ne ro mar cuncti navili
sun co' signo de la cruxe
benedicta et suave,
cuncti cantan Agnus Ave.

Delectissima Maria
ke sé mostra delecia
lo to fijo k'à perduo
Juda tristo l'à venduo.

Jerusalem se spracia
ti Xzenejzi se desfacia
per redarte in compagnia
Jesus Kriste, Ave Maria.

Benedicimus et gloriamus
Kriste beate et hostia sancta
cum tuo spiritu, Kriste beate
Ave Maria, Kriste beate.

De majo se canta
de junio se danza
per amor
et per possanza
de Kristo et Maria
pin de cortesia.

(I Genovesi con Maria si fanno buona compagnia per ritrovare nel Sepolcro Gesù Cristo forte e bello. Sul mare tutte le navi portano il segno della croce benedetta e soave, tutti cantano Agnus Ave. Dilettissima Maria che sei nostra delizia il figlio che hai perso Giuda malvagio lo ha venduto. Gerusalemme si squarcia i Genovesi si imbaldanziscono per ridarti Gesù Cristo, Ave Maria. Benediciamo e glorifichiamo Cristo beato e l'ostia santa col tuo spirito, Cristo beato Ave Maria, Cristo beato. In maggio si canta in giugno si danza per amore e per potere di Cristo e Maria pieni di cortesia.)

domenica 7 novembre 2010

Silvia Bottaro ad Albenga



Guido Seborga, Attesa


Oltre che romanziere e pittore, Guido Seborga fu poeta raffinato e intenso, capace di esprimere con immediatezza sentimenti profondi, come in questa poesia dedicata alla moglie Alba.


Seborga pittore e poeta


"Guido Seborga, pittore, scultore, ascrittore e poeta, visse a Parigi tra le due guerre, frequentando i surrealisti e gli esponenti dell'avanguardia internazionale. Amico di Eluard, Tzara, Seghers, ha pubblicato romanzi da Mondadori e da Calmann-Levy a Parigi e le raccolte di poesia: "Se avessi una canzone", "Occhio folle, occhio lucido" (Ceschina, 1968), "Vivere disvivere" (Carte Segrete, 1972). Nella poesia di Seborga l'intensità della visione si accompagna all'immediatezza del verso." (a.mi.)



ATTESA (ad Alba)


Come navigare ancora
in una notte
che frantuma l'azzurro
ormai disperso
e non ti vedo più

Nel silenzio dei tuoi occhi vividi
ardeva la vita integra
degradato
da tutti i mali nel mio corpo
mi risollevo ancora nell'estrema
vita inconscia da anni conosco
ogni rivolta
e non muta mai il mio
animo disincantato

Nasce il fluire del vento
che impenna
il mio corpo nel sole e nella luna

Nel silenzio che tu partendo
hai lasciato


(Da: La Stampa del 7 agosto 1991)

sabato 6 novembre 2010

Berlusconi e Sarkozy, tentativi di riflessione


Depurato dagli aspetti più folkloristici, il berlusconismo è un fenomeno solo italiano o trova corrispondenze in altre realtà europee? Pubblichiamo volentieri questo intervento di Gianluca Paciucci, scritto per "Différences", rivista del MRAP (Mouvement contre le Racisme et pout l'Amitié entre les Peuples), che propone una riflessione sulle politiche, per molti versi convergenti, della destra italiana e francese.



Gianluca Paciucci

BERLUSCONI E SARKOZY, TENTATIVI DI RIFLESSIONE

“...omnia certe concacavit.../...ogni cosa di certo smerdò...”,
(Seneca, Apokolokyntosis, IV, 2).


Ha ragione lo storico Antonio Gibelli (1) a dire che Berlusconi riuscirà a intestarsi un'era politica italiana, quella inaugurata nel 1994 con la “discesa in campo” dell'imprenditore lombardo, e non ancora conclusa. Nel pieno dell'implosione dei partiti della prima Repubblica (democristiani e socialisti, sotto la pressione dei magistrati di “mani pulite”) e appena compiuto il suicidio dei comunisti (il PCI si sciolse per decisione di parte del suo gruppo dirigente, poi imposta alla base), Berlusconi fondò Forza Italia e salvò la destra dall'angolo in cui era finita. Il nuovo partito (“di plastica” e “liquido”, ma in realtà saldo nei suoi rapporti con gli interessi e la mentalità di uno smarrito e rancoroso ceto medio) ebbe un immediato successo, come un nuovo prodotto lanciato sul mercato e accolto con favore dai consumatori/clienti obbedienti/elettori. Berlusconi ha da allora segnato le scelte economiche dell'Italia e l'immaginario di parti consistenti della popolazione, penetrando ovunque grazie a un formidabile apparato di propaganda e alla inconsistenza dei suoi presunti rivali, beceramente antiberlusconiani a parole, e invece intrisi di berlusconismo, quasi ammaliati dal conducator. E in ogni caso inerti, incapaci di reazione. A quest'inerzia Berlusconi ha contrapposto un iperattivismo che ha inflitto all'Italia uno stress quotidiano mediante attacchi ripetuti alla Costituzione, ai magistrati, ai lavoratori e ai giornalisti -in quest'ultimo caso simile a un caudillo sudamericano, a un Chavez, sia pure con altri scopi (2)-, mostrandosi capace di rafforzare il proprio campo (fatto anche di vittime sociali delle sue scelte) e di spezzare quello avversario.

Non so, invece, se Sarkozy riuscirà a intestarsi un'era, per due motivi sostanziali: il suo essere un politico classico, nonostante la vantata rupture di cui si voleva alfiere contro la vecchia politica, con amicizie nei media e nell'imprenditoria, ma non imprenditore lui stesso, non arbitro e giocatore al tempo stesso, come invece il suo amico Berlusconi (3); e per l'esistenza visibile di un'opposizione, anche se più sociale che politica – infatti se i partiti della sinistra francese sono zombi complici del sarkozysmo, i sindacati hanno un reale consenso di massa, che si concretizza in manifestazioni e scioperi duri (contro la controriforma delle pensioni, in questo autunno, ad esempio). Ma mentre i sindacati francesi paralizzano il Paese mostrando seria capacità di egemonia -pur con il consueto opportunismo- in Italia l'unico sindacato rappresentativo e combattivo, quello dei metalmeccanici della CGIL (FIOM) è sottoposto a critiche strumentali e addirittura accusato di rapporti con il terrorismo, e vive nei fatti isolato dai partiti del centrosinistra (Partito Democratico, Italia dei Valori, Unione Democratica di Centro). L'auspicabile sconfitta di Sarkozy (come quella di Juppé quindici anni fa) passerebbe attraverso la vittoria nelle strade e nelle piazze di una Francia in mano agli scioperanti; le continue vittorie di Berlusconi passano attraverso la demonizzazione e la sconfitta delle strade e delle piazze italiane. Chi si oppone sul serio e con radicalità è, in Italia, un “nemico del popolo”, e del Popolo della Libertà in particolare, attuale nome del partito berlusconiano.

All'interno dei due Paesi vi sono questioni aperte che danno ulteriori elementi per capire quanto sta accadendo: per brevità parlerò di “questione musulmana” per la Francia e di “questione settentrionale” per l'Italia. Nel primo caso il Presidente francese si trova a gestire la presenza di circa 4 milioni di musulmani, la maggior parte cittadini/e francesi, ma che pure sembrano ancora un mondo a parte nel panorama sociale e politico: un'urbanistica del disprezzo ha creato città separate, cités e banlieues, ovvero luoghi di emarginazione in cui i fantasmi del patriarcato mediterraneo si uniscono alle violenze del capitalismo postfordista, minacciando l'esistenza di donne e uomini. Dalle banlieues ogni 14 luglio e 31 dicembre, o in occasione di una bavure della polizia o di una partita di calcio (la paradigmatica Francia-Algeria “amichevole”, nel 2002...), si alza il grido ribellistico dei giovani di origini maghrebine, a volte incoraggiato da imam ottusi e reso terribilmente roco da una classe politica francese che ha fatto della difesa dei propri privilegi il primo obiettivo. Lo stile di vita di Sarkozy e del suo clan (ma la sinistra “socialista” non si distingue per sobrietà) e le loro scelte economiche sono una lotta continua contro le vite nelle periferie delle grandi città. Al grido sporadico e dolente, i giovani banlieusards fanno seguire un silenzio altrettanto pieno di tensione. In Italia tale questione, rubricata sotto la categoria di “immigrazione”, viene trattata con furbizia macabra dall'attuale governo, e appoggiata da illustri membri dell' “opposizione”: anche qui urbanistica del disprezzo, attacco alla vita dei migranti, ostacoli continui alle possibilità di lavoro e di socialità di chi ha scelto l'Italia come Paese in cui (soprav)vivere.

Questi nodi si intrecciano, da noi, con la “questione settentrionale”: Berlusconi, dopo aver sdoganato il partito fascista (ma l' ingrato e ambiguo leader dei postfascisti, Gianfranco Fini, è oggi il nemico n° 1 del Presidente del Consiglio), ha anche aperto la porta al secessionismo padano, guidato da politici scaltri, (4) animato da pulsioni razziste e tendenzialmente totalitario. La Lega governa il nostro Paese con Ministeri-chiave (Interni, Riforme...), e la maggior parte delle Regioni e delle amministrazioni del Nord con lo slogan fondante di “padroni a casa nostra”: da qui una miriade di leggi a difesa di un'inesistente e inventata etnia padana. L'asse Berlusconi-Bossi regge l'attuale maggioranza, e lo stile dei due, fatto di becero machismo (5), minacce agli avversari e provvedimenti di preapartheid, trionfa e raccoglie voti. Il machismo accomuna anche Berlusconi e Sarkozy, e questi due agli uomini d'ogni specie dei due emisferi, mentre il secessionismo è tipico del nostro Paese: il centralismo francese ha vinto sui particolarismi, sopravvissuti solo sotto forma di satrapi locali che dettano legge, ma come longa manus di Parigi.

Berlusconi e Sarkozy sono, sia pure in modi differenti, facce della innominabile “questione occidentale e cristiana”, ovvero di quella parte del mondo che si crede (hegelianamente) il fine e la fine della Storia, e che ne è, invece, il nervoso motore: potente, dal trionfo dell'Illuminismo in poi, e carico di morte per chi, a ragione o a torto, si mette sulla sua strada.


1)Antonio Gibelli, Berlusconi passato alla storia, Roma, Donzelli, 2010, pp. 121.
2)La categoria gramsciana di « cesarismo progressivo » (per Chavez) e di « cesarismo regressivo » (per Berlusconi) potrebbe essere utile. Entrambi risultano democraticamente eletti.
3)Gli « amici » di Berlusconi: a livello internazionale occorre ricordare quegli straordinari esempi di democrazia che sono Putin e Gheddafi, entrambi complici del nostro in spericolate operazioni economiche e, almeno il primo, in squallide esibizioni politico-sessuali; a livello italiano ricordo solo che Forza Italia è stata fondata da figuri come Cesare Previti, condannato per corruzione e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, e Marcello Dell'Utri, condannato in appello per contiguità con la mafia.
4)Le biografie, le dichiarazioni e le opzioni politiche dei maggiori esponenti padani sono inquietanti: esemplari quelle dell'eurodeputato Borghezio, di chiare simpatie fasciste, tradizionalista cattolico e amico di fanatici di mezza Europa. Sulla Lega Nord, il bel volume di Lynda Dematteo, L'idiotie en politique. Subversion et néo-populisme en Italie, Paris, CNRS Editions-Ed. de la Maison des sciences de l'homme, 2007, pp. 255.
5)Gli scandali « sessuali » e le battute da caserma dei due sono infiniti, ma sembrano procurar loro consensi, piuttosto che rigetto in un'opinione pubblica complice. Solo alcuni settori del movimento femminista riescono a reagire e a battersi contro l'attacco portato alle donne, a partire dalle « innocenti » barzellette e dal priapismo del Capo, per arrivare ai femminicidi che insanguinano le amate case degli italiani.


Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’ “Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico “Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la "Casa della Poesia".

venerdì 5 novembre 2010

Festa de Lou Dalfin a Borgo San Dalmazzo



FESTA DE LOU DALFIN A BORGO SAN DALMAZZO


XX Festa de Lou Dalfin: il gruppo festeggia con il proprio pubblico sabato 06 novembre a Borgo San Dalmazzo (Cn). La Festa nasce nel 1991 come momento di incontro tra il gruppo e il suo pubblico, dopo la prima sorprendente stagione estiva che vide affermarsi, proprio grazie all’opera di Lou Dalfin, la musica occitana come fenomeno di costume. Dopo quella prima edizione, poco più di un momento conviviale con la partecipazione di un centinaio di pionieri, anno per anno la Festa si è ingrandita e consolidata, fino a divenire il più importante appuntamento per la musica occitana delle nostre valli. Durante questi due decenni la kermesse ha saputo diventare uno degli incontri musicali più considerati e seguiti di tutta l’area occitana: migliaia sono infatti le presenze, con arrivi da tutta Italia, Francia e Spagna. Numerosissimi gli artisti di fama internazionale che hanno calcato in questi diciannove anni il palco della Festa: da Massimo Bubola ai Massilia Sound System, da Vincenzo Zitello ai Nux Vomica, da La Talvera a Massimo Giuntini, da L’art à Tatouille, La Coixinera a Tapia eta Leturia.

La ventesima edizione rappresenta una ricorrenza importante, un traguardo storico che merita di essere festeggiato con un calendario particolarmente denso e significativo che non deluderà le aspettative dei partecipanti provenienti dai due versanti alpini. Perché la Festa de Lou Dalfin è un importante momento d’incontro tra la gente occitana al di là delle frontiere politiche. La vocazione transfrontaliera si confermerà anche nel 2010 con la forte partecipazione di pubblico dall’Occitania transalpina. Sono stati organizzati numerosi pullman speciali da Nizza, Marsiglia e Tolosa.

La manifestazione si svolgerà sabato 06 novembre 2010 a Borgo San Dalmazzo, e insieme ai protagonisti indiscussi della musica occitana, saliranno sul palco numerosi artisti che presentano le sonorità e la lingua d’OC. Come già per le precedenti edizioni nel pomeriggio, a partire dalle 15,00, sarà possibile visitare l’importante mostra/mercato dedicata alla liuteria e all’artigianato, che ospita ogni anno alcuni tra i più importanti liutai d’Europa. La serata verrà inaugurata dal suono delle Bodettas, le campane che nella tradizione delle valli davano inizio alla festa.

Dopo l’apertura ufficiale dei campanari la festa proseguirà con la consegna della Targa Mestre, riconoscimento dedicato ad una figura che si sia particolarmente distinta nell’attività dedicata alla cultura occitana, quest’anno destinata a Fredo Valla: il regista e sceneggiatore indubbiamente più conosciuto di tutte le valli occitane, ha scritto e co-sceneggiato il pluripremiato Il Vento fa il suo giro ed ha collaborato, tra gli altri, con Pupi Avati e Giorgio Diritti.



Alle 21,00, la musica comincerà a movimentare l’atmosfera con l’ingresso sul palco di Dario e Manuel, che armati rispettivamente di fisarmonica e clarinetto, sfideranno a duello la cornamusa di André Ricros, accompagnato dalla fisarmonica di Lou Dalfin, Dino Tron. Si ricostituisce così la mitica coppia fisa-cabrette che è stata l’origine del bal musette, forma espressiva inventata dagli abitanti d’Auvergne emigrati a Parigi all’inizio del ‘900. Uno dei più grandi eredi di questa tradizione, Ricros si occupa della sua riscoperta e della sua rinascita sin dagli anni ‘70, animatore culturale di grande levatura svolge altresì il ruolo di produttore discografico, cantante e insegnante di canto tradizionale, dirigente dell’AMTA, struttura regionale per le musiche d’Auvergne. La battaglia sonora si concluderà con l’ingresso sul palco dell’Aire D’Ostana, gruppo delle nostre valli composto da sette elementi che interpreta, con strumenti tradizionali, le musiche da ballo con un occhio di riguardo per quelle cisalpine.

A seguire, alle ore 22,30, calcheranno la scena gli Chaman. Il quartetto francese trae ispirazione da differenti ceppi musicali europei, intrecciando flauto, violino, chitarra, ghironda, nyckelharpa, fisarmonica e percussioni, dando vita a un suono dalla ritmica travolgente. Alle 23,00 l’evento accoglierà Lou Dalfin. Il totem della musica occitana non ha bisogno di presentazioni. Il gruppo chiuderà con questa serata il proprio vir (tour, in occitano) per chiudersi in sala di registrazione a preparare il nuovo album, Cavalier Faidit, in uscita nazionale il 18 aprile 2011; nel corso del concerto saranno eseguiti alcuni brani di questo lavoro. A chiudere la manifestazione sarà la Péiro Douso, o “pietra dolce” termine occitano usato per definire il talco, le cui miniere sono state un elemento importante dell’economia storica della Val San Martin, zona da cui proviene il gruppo. La band si pone l’obiettivo di suonare con strumenti contemporanei le musiche tradizionali occitane, coinvolgendo diverse generazioni. La musica non si fermerà nemmeno durante i cambi palco, infatti, Dario e Manuel e suonatori transalpini animeranno le pause tra un gruppo e l’altro, tenendo viva l’attenzione.



L’evento è organizzato dall’Associazione Culturale Lou Dalfin, dall’agenzia Musicalista e dal Comune di Borgo San Dalmazzo, con la collaborazione dell’Ente Fiera Fredda, di Espaci Occitan, dell’Associazione Persone Come Noi Onlus, dell’U.S. Pedona Rugby. Per informazioni contattare: Remo Giordano, tel +39 011 55 33 624 / +39 329 00 97 484, web: www.loudalfin.it - www.myspace.com/loudalfin, mail: info@loudalfin.it