Ad assimilare specismo, sessismo e razzismo è l'attribuzione agli «altri», alle donne, ai non umani di una natura diversa, inferiore o mostruosamente superiore, da controllare e soggiogare. Questa la tesi di fondo di un libro, non facile, ma di grande interesse e attualità.
Morire all'occidentale
È la fase storica che ci fa avvicinare a questo volume come a una risorsa preziosa. Quel backlash (contraccolpo, rivincita maschile) che “già nel 1992 Susan Faludi denunciava” (p. 37) rispetto al femminismo, sembra si sia esteso a tutti gli altri campi fino a farsi mentalità dominante: se “per le donne, il neoliberismo, la crisi del welfare state, l'esaltazione del modello del libero mercato e la mortificazione del ruolo dello Stato hanno significato (...) arretramento in tutti i campi” (p. 37), tutti gli altri soggetti deboli ne hanno subito le conseguenze e sembra di essere tornati alla sbrigatività sociale ottocentesca-primonovecentesca, di puro capitalismo, che vedeva nell'inferiore un intralcio allo scorrere del progresso, un ostacolo da eliminare o da isolare, con più o meno compassione. Apartheid totale e usa-e-getta: carceri, manicomi, fabbriche prefordiste, istituzioni totali e separate, ma anche scuole classiste, campi di prigionia per asociali, ed eugenetica.
FURIE OCCIDENTALI-ORIENTALI
È in Occidente che il contraccolpo è più evidente (essendo stata più radicale la critica) in relazione a un Oriente che, imitandoci, ci minaccia, e a un Sud del mondo alla deriva, terra di rapina e luogo di scontro per i due “primi mondi”. È in Occidente che le pratiche di assoggettamento e i tentativi di liberazione possono essere visti come esemplari, anche se non esclusivi. La grande lotta in corso vede alcuni princípi cardine scontrarsi con forza: l'Universalismo, insieme all'Eurocentrismo, contro il Relativismo. È questa la lotta principale che sta avvenendo sotto i nostri occhi e che, anzi, ci vede protagonisti. Annamaria Rivera sottopone a severo esame l'Universalismo-Eurocentrismo occidentale la cui “polemica antirelativista tende a insinuare che chiunque dubiti che il sistema sociale e culturale dominante possa essere assunto a metro di misura universale intenda disconoscere le conquiste della razionalità occidentale, rifiutare ogni principio universale, assumere un atteggiamento scettico o addirittura nichilista in campo morale” (p. 144). Da qui deriverebbe la consapevolezza della superiorità del nostro sistema e anche l'obbligo a esportare i nostri valori perché i soli veramente estendibili. Corollario: questi valori possono, o addirittura devono, essere imposti con la forza. E sappiamo dove ci ha condotto questa ideologia, di cui si è fatta portavoce anche una pseudosinistra ex sessantottina, soprattutto dopo l'11 settembre. Di un ben strano universalismo, si tratta, che in realtà ignora la complessità del mondo e si basa sulla figura retorica della sineddoche, in una delle sue forme, la “parte per il tutto”: la nostra parte di mondo si erge a globalità e riduce il resto a inferiorità irredimibile, al massimo da stipare nello scaffale del folklore (pensiamo alla fortuna dell'aggettivo “etnico”: cucina, artigianato, musica ecc.) e dell'umanitario. L'autrice invita a superare questa chiusura che si spaccia per apertura, sottolineando che “preliminare a ogni possibilità di comprensione, di confronto, di dialogo, sono il rifiuto della concezione che intende le culture come universi autonomi (...) e il riconoscimento che, viceversa, anche i mondi sociali e culturali altrui sono attraversati dal mutamento, da differenze e disuguaglianze di potere, di classe, di genere, da divergenze di interessi e di valori, quindi da conflitti, anche riguardanti le relazioni di genere” (pp. 144-5). È l'essenzialismo l'arma di ogni “universalismo escludente”, ovvero quella sensibilità che pensa unica e incontaminata ogni cultura, e in qualche modo immutabile (tranne, ovviamente, la nostra, che è oltre, che supera e comprende tutte le altre...), mentre sappiamo che l'ibridismo è stato da sempre la modalità di relazionarsi tra individui, gruppi, genti, popoli. L'inferiorità dell'altro/a è nella sua resistenza al cambiamento: noi siamo superiori perché mutanti. Quale contraddizione maggiore di questa pretesa superiorità basata sulla continua metamorfosi? Il vento e il leone, titolo di un film di John Milius (1975): il vento è l'Occidente, che viaggia, soffia, muta e prende diversi nomi; il leone è l'Oriente, inchiodato a un luogo, nobile d'antichi miti, ma ora scoronato, in riserve o zoo. Ma quando l'Oriente viaggia, ovvero accetta i dettami dell'Occidente, esso è “migrante”o “nomade”, e punibile solo per questo.
Come uscire da questa impasse? Annamaria Rivera propone una “postura critica e relativista”, la sola che “insieme con la tensione verso il superamento delle asimmetrie di status e delle diseguaglianze sociali e di genere, può permettere il superamento dell'etnocentrismo e al tempo stesso la costruzione di un progetto transculturale di liberazione del genere femminile” (p. 145). L'autrice ridimensiona il relativismo ad aggettivo di un sostantivo (postura): pur nella sua complicatezza, non mi sembra una brutta soluzione, dato anche il fallimento dei due termini avversi, universalismo e relativismo. Questa postura, sulla scorta di Fanon (che parla, meno astrattamente, di “universalità” e “relatività” - p. 175), non è altro che “un modello di universalità concreto, situato, sessuato, il quale non può che nascere dalla pluralità dei 'particolari', anche se deve trascenderli” (p. 176). È così che si possono affrontare temi estremi e quotidiani, come quello delle “mutilazioni genitali femminili” e del velo che hanno spaccato, e spaccano, il pensiero - anche delle donne, anche del femminismo - in schieramenti opposti. Non so se le soluzioni proposte da Annamaria Rivera a questi due ultimi temi siano le più efficaci, perché in entrambi i casi il potere del maschio e degli apparati politico-religiosi sulla donna è talmente forte che parlare di “libera scelta” o di “protagonismo femminile”, sia nel caso di donne migranti sia nei paesi d'origine, è assai difficile; mi convince invece il metodo, e quel verbo, “situare”, che permette di affrontare (e magari di risolvere) le “situazioni”, appunto, caso per caso, senza fanatismi laici né violenze. Peraltro è sul concetto stesso di “libera scelta” che occorrerebbe ragionare: se ne sono serviti islamisti e cattolicisti reazionari, come uomini e donne “progressisti” oppure esponenti della Lega Nord (in quest'ultimo caso la “libera scelta” delle prostitute serve alla campagna per la riapertura delle case chiuse). Penso che sia importante unire queste riflessioni all'esame critico dei regimi e dei codici della famiglia, nonché allo studio antropologico delle società d'origine e delle società “migranti”, per trovare soluzioni che eliminino la più grande quantità di sofferenza possibile, ma sempre e solo con il contributo attivo delle donne e degli uomini direttamente interessati, che altrimenti resterebbero solo inanimati oggetti di salvazione.
ARMI DELLA CRITICA
Molti sono i momenti forti di questo libro, che ci permette di ricordare ciò che è appena passato e di cui siamo prodotto diretto. Colpisce la rievocazione di alcuni fatti. Innanzitutto “la lunga teoria di morti violente e oscure (108 quelle accertate fino al momento in cui scrivo) fu inaugurata dalla morte di Amin Saber, nel Cpt di Agrigento. Accadde nell'estate del 1998, poco dopo l'approvazione della legge 40, detta Turco-Napolitano, che istituiva per la prima volta in Italia la detenzione extrapenale, riservata agli ‘extracomunitari’ trovati in condizione di irregolarità sul territorio italiano” (p. 97): questo fatto introdusse un'anomalia pericolosa nello Stato di diritto, ovvero la sanzione della “normalità dello stato di eccezione”, per cui è possibile internare uomini e donne che non hanno commesso alcun delitto e solo per la loro provenienza (il “reato di clandestinità”, introdotto dai successivi governi di destra, non è che un corollario a questo primo arbitrio). Morti “naturali” e suicidi, nei Cpt/CIE, come nelle prigioni italiane (centinaia, negli ultimi anni), su cui cala un vile silenzio, sono uno scandalo degno di un paese totalitario.
E il secondo: l'omicidio di Giovanna Reggiani del 30 ottobre 2007. Questo “femminicidio, attribuito a un rom di nazionalità rumena, fu oggetto di una campagna politica e mediatica forsennata che vide, fra le iniziative istituzionali (si era al tempo del secondo governo Prodi), la distruzione spettacolare dell'accampamento in cui viveva il presunto omicida e la convocazione urgente e straordinaria di un Consiglio dei ministri: una sorta di consiglio di guerra (...). Nello stesso periodo altre persone di sesso femminile, bambine comprese, venivano stuprate, brutalizzate e/o uccise da uomini. Gli episodi per i quali non fu possibile additare come colpevoli degli alieni furono quasi ignorati dai media; comunque questi casi non meritarono convocazioni urgenti del Consiglio dei ministri.” (p.138). Ricordare ricordare ricordare, piuttosto che il mediocre e compiaciuto resistere...: ricordare il ruolo che il centrosinistra ebbe in quello scatenamento di follia collettiva, che nulla aveva a che vedere con il rispetto della vittima e con la ricerca della giustizia (2); per poi andare avanti e ricordare che il ministro delle pari opportunità Mara Carfagna ha detto di volersi costituire parte civile nel processo per l'uccisione, il 4 ottobre nel modenese, della pakistana Shanhaz Begum per mano del marito, ma non per l'omicidio (con risvolti atroci, di familismo amorale e ferocissimo) di Sarah Scazzi e di tante altre donne ammazzate da familiari e da conoscenti, né per quello recentissimo, ma già dimenticato dai media, di Maricica Hahaianu. Ricordare tutte, e quest'ultima: “Maricica, 32 anni, ora è morta. Per una lite banale e un pugno ricevuto in piena faccia. Alessio, 20 anni, ora si dice 'pentito amaramente' e si definisce 'sfortunato' perché non voleva uccidere. Fine della storia avvenuta alla stazione Anagnina di Roma. Derubricata a qualche titolo in cronaca. Ci chiediamo cosa accadrebbe oggi se le parti fossero invertite. Se a colpire fosse stato un ragazzo rumeno e a morire una donna romana. I titoli sarebbero in politica e non in cronaca, si urlerebbe all'invasore violento, si darebbe la caccia all'untore...” (3). Qui non è più Annamaria Rivera a scrivere, ma un giornalista del quotidiano della Confindustria, in un attacco d'umanità. Così per finire torniamo alla forte riflessione dell'autrice e alla nostra domanda: cosa vuol dire “vivere all'occidentale” se si producono mostri concettuali e politici come questi sopra riportati? O piuttosto, cosa vuol dire “morire all'occidentale”? È il caso di cominciare a ribaltare il pensiero dominante, con armi forti, di cui ci rifornisce il libro appena recensito.
NOTE
2) “...Più rapidamente che in altre occasioni, i politici e i media hanno fatto a gara per passare da un singolo caso alle responsabilità collettive degli immigrati...”, e poi, in nota: “...Il legame tra criminalità e immigrati è stato apertamente sostenuto, per esempio, da Walter Veltroni in alcune dichiarazioni alla tv romena, rilanciate dal Tg1 e riportate sulla stampa il 2 e 3 novembre ('C'è una prevalenza assoluta di reati compiuti da cittadini romeni' …)...” (in Roberto Biorcio, La rivincita del Nord, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 177).
3) “Se a morire è una rumena”, “Il Sole 24 ore”, 17-10-2010.
Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’ “Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico “Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la "Casa della Poesia".