Il 6 ottobre a Magré
di Schio (VI), dove nacque nel 1893, si terrà un convegno sulla
figura e l'opera di Pietro Tresso “Blasco”, fondatore e dirigente
del Partito Comunista d'Italia, militante trotskista, assassinato
dagli stalinisti nella Francia del 1943. Pubblichiamo l'intervento di
Roberto Massari, editore, storico del movimento operaio e comunista,
animatore del collettivo internazionale Utopia Rossa.
Roberto Massari
Pietro Tresso è
sempre «Blasco»
A 120 anni dalla nascita
e 70 dalla morte
(intervento al convegno
di Schio, 5 ottobre 2013)
L’avvertimento secondo
cui il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo
dev’essere riflessa l’essenza del fine, proviene da molto
lontano: la lontananza, tuttavia, non ha impedito che questa
fondamentale indicazione etica s’incarnasse in alcune figure
gloriose del movimento rivoluzionario. Pietro Tresso, nome di
battaglia «Blasco», è stato certamente una di queste figure, e
anche una delle più gloriose. Ascoltiamolo mentre, a novembre del
1942, dal carcere militare di Lodève, scrive alla cognata Gabriella
Maier (sorella della sua compagna Barbara Seidenfeld e prima compagna
di Silone):
«Perché?
Perché siamo rimasti giovani. E per questo sempre insoddisfatti
dell’esistente e desiderosi sempre di qualcosa di meglio. Quelli
che non sono rimasti giovani, sono, in realtà, diventati dei cinici.
Per essi gli uomini e tutta l’umanità non sono che degli
strumenti, dei mezzi che devono servire per i loro fini particolari,
anche se questi fini sono mascherati con frasi di ordine generale;
per noi gli uomini e l’umanità sono le sole vere realtà
esistenti. Naturalmente tutto ciò è molto generico. Bisognerebbe
ancora stabilire il legame necessario tra le forze morali che sono in
noi e la realtà quotidiana. È qui che sorgono le vere difficoltà.
Ma una cosa mi pare certa: è impossibile sopportare in silenzio ciò
che urta con i più profondi sentimenti dell’uomo. Non possiamo
ammettere come giusti gli atti che sentiamo e sappiamo ingiusti; non
possiamo dire che è falso ciò che è vero e che è vero ciò che è
falso con il pretesto che ciò serve a questa o quella delle forze
presenti. In definitiva, ciò ricadrebbe sull’umanità intera e,
dunque, su noi stessi; ciò distruggerebbe la ragione stessa dei
nostri sforzi...»
È un
brano celebre di Pietro Tresso che mi accompagna da decenni e che
ormai mi sembra di conoscere quasi a memoria. In questi giorni, però,
frugando tra i materiali del mio archivio dedicato a Tresso, è
ricomparso fisicamente, stampato dalla mia antica e gloriosa Olivetti
L32 in inchiostro rosso, su un foglio di carta rôso dal tempo e dai
tarli, con sottolineatura d’epoca nelle due linee di imperativo
categorico qui messe in corsivo. Devo averlo tradotto dal francese ed
essermelo appuntato nel 1976, quando lavoravo alla riedizione del
Bollettino della Noi o ad aprile del 1977, quando pubblicai un
ricordo di Tresso nel n. 5/6 de La Classe. Cioè 36/37 anni fa
(che cominciano ad essere tanti...). Ma erano solo 8/9 anni dopo il
‘68 (che all’epoca sembravano pochi e dirò avanti il perché).
Sono quindi felice di
essermi ritrovato fra le mani quel pezzo di carta nel momento in cui
mi accingevo a scrivere queste noterelle da inviare come contributo
al vostro incontro su Tresso - che certamente sarà interessante e
che comunque merita un plauso per il solo fatto di svolgersi, e di
svolgersi in questa Italia, in questo ottobre del 2013, in questo
momento di crisi storica, morale e politica del poco che resta della
sinistra detta un tempo «rivoluzionaria». È un incontro al quale
sono stato invitato e avrei voluto partecipare se non mi fossi dovuto
trovare, in queste stesse ore, in terra siciliota, a Selinunte, per
ricordare un altro rivoluzionario del Novecento, uno dei pochi di cui
si possa in qualche modo andare ancora fieri. Ma Ernesto Guevara -
che la sostanza di quelle parole di Tresso inconsapevolmente le ha
fatte sempre sue, le ha messe per iscritto e ha tentato di tradurle
in pratica anche armi alla mano - non poteva certo sapere chi fosse
stato il combattente rivoluzionario Blasco. Vista l’ignoranza che
circonda questo grande personaggio nella ex sinistra ed ex estrema
sinistra italiana, non ci si può stupire se anche all’estero il
nome di Tresso sia noto in genere solo agli addetti ai lavori (e non
sempre tra i giovani).
Del resto, troppe altre
cose avrebbe dovuto sapere Guevara - e dovrebbero sapere le nuove
leve di aspiranti rivoluzionari - prima di arrivare a capire
l’autentica grandezza di questo proletario italiano di Schio, di
questo socialista antinterventista, organizzatore sindacalista,
cofondatore del Partito comunista, antistalinista della prima ora,
trotskista fino alla morte, internazionalista profondo - insomma,
questa perfetta sintesi storicamente determinata di cosa poteva
significare essere un rivoluzionario nel periodo tra le due guerre.
Non penso di esagerare a
definirlo la più bella figura del movimento operaio italiano del
Novecento, non paragonabile a nessun altro in Italia per grandezza
morale, lucidità di analisi politica, coerenza tra pensiero e
azione, determinazione rivoluzionaria... Non sono mancate figure più
celebri, alcune certamente più formate di lui in campo teorico, o
più operative in campo pratico; ma di nessuna di loro di può dire
che abbia avuto continuativamente ragione nelle scelte compiute per
l’intero arco di una vita, come invece si è verificato con lui; o
di aver sempre dimostrato coerenza nella traduzione in pratica di
idee politiche che a posteriori possiamo e dobbiamo giudicare
sostanzialmente giuste, forse giustissime.
Devo però chiarire che
tale giudizio non vale in assoluto e quindi in astratto, ma solo
relativamente agli anni in cui Tresso agì e nel confronto con le
posizioni politiche che erano concretamente in circolazione: una
precauzione metodologica che ho sempre considerato fondamentale e che
invece i «da soli ideologici» non capiranno mai. Tale precauzione
(relativizzatrice) a maggior ragione deve valere per un
rivoluzionario immerso attivamente in quella buia notte epocale
schiacciata fra due orrendi totalitarismi, quella che Victor Serge ha
definito con stupenda immagine letteraria come «mezzanotte nel
secolo». Chissà cosa avremmo dovuto dire di successive scelte di
Tresso, se fosse sopravvissuto e si fosse trovato davanti alle nuove
problematiche del dopoguerra? Se è vero che non si ha alcun diritto
di rispondere a questa domanda, è anche vero che non è proibito
porsela, visto l’itinerario tragico che il nuovo movimento
trotskista ufficiale ha percorso a partire dalla sua prima
riapparizione pubblica - II congresso della Quarta, a Parigi, aprile
1948 - fino alla sua decomposizione nel corso degli anni ‘70.
Impossibile stabilire come si sarebbe orientato Tresso.
Il fatto, però, che il
giovane sarto di Magrè di Schio abbia pagato sempre di persona -
dall’espulsione dal Pcd’I e dal suo l’ufficio politico
all’esilio in Francia, dalla condanna al carcere petainista
all’esecuzione stalinista - avvolge simbolicamente nell’aura del
martirio questa sua irripetibile esperienza personale, facendone un
simbolo, una bandiera anche se troppo pochi ne avvertono ancor lo
sventolìo.
Va detto anche che la
crescita intellettuale del giovane cresciuto in famiglia proletaria
andò di pari passo con le sue esperienze politiche, liberandolo dal
suo originario bordighismo e portandolo a produrre saggi di un certo
spessore, come quelli sul fascismo pubblicati in La Lutte de Classe
(1930) o in Quatrième Internationale (1938). Ricordiamo, inoltre,
che nel commemorare la morte di Gramsci a maggio del 1937, Tresso fu
il primo a sollevare il problema che ormai è dato per acquisito e
cioè che il Pci, nella persona di Ercoli (Togliatti) ruppe col
rivoluzionario sardo nel periodo del suo arresto e nulla fece per
farlo uscire «vivo» dal carcere. E anche questo suo contributo nel
denunciare pubblicamente l’abbandono di Gramsci da parte del Pci
gli sarà stato certamente messo in conto nel momento in cui a Mosca
si decise di uccidere Tresso e - per non lasciare tracce - gli altri
3 trotskisti che erano con lui, che altrimenti avrebbero potuto anche
salvare la vita.
Ciò che resta del
movimento operaio italiano, i giovani che oggi lottano per un mondo
migliore, i cristiani o i cattolici che cominciano a riscoprire il
significato eversivo dell’originario messaggio evangelico, le nuove
generazioni che sentono la necessità di recuperare ciò che di
positivo ha prodotto il passato per raccordarlo ai compiti del futuro
- dovrebbero studiare la vicenda di Tresso e aiutarci a farla
conoscere. Se credessi alla procedura istituzionale d’intestare le
strade a personalità celebri, direi che ogni paesino o città
italiana dovrebbe avere una via «Pietro Tresso (Blasco)». Ma poiché
in alcune località ciò potrebbe far capitare il suo nome a fianco
di strade intestate al mandante della sua esecuzione - cioè Palmiro
Togliatti - direi che la scelta dell’omaggio toponomastico presenti
dei possibili inconvenienti.
E che il mandante
dell’assassinio di Tresso sia stato Togliatti è un fatto ormai
dimostrato sul piano logico-storico e su cui personalmente non ho più
dubbi. (Che in questo non me ne abbia dall’aldilà il caro Alfonso
Leonetti che nelle sue ricerche sull’assassinio del suo amico e
compagno degli anni ‘30, ha sempre cercato di escludere il
«Migliore» dal novero dei sospetti).
In realtà Togliatti è
sempre riuscito a cavarsi d’impiccio in questa tragica vicenda,
facendosi schermo con la non-certezza del delitto: il corpo mai
ritrovato, le notizie confuse su quella postazione del maquis, la
dispersione ordinata dall’alto e quasi immediata dei tre
responsabili diretti dell’esecuzione, i successivi depistaggi come
quello organizzato nel 1964 da Stefano Schiapparelli segretario del
Pc vicentino, il manto calato su questo e tanti altri crimini
commessi sotto l’ombrello della Resistenza - sui quali, per la
caparbia idea che il fine giustifichi i mezzi, si continua a tacere o
a mentire.
A tutto ciò si
aggiungano il pretestuoso rinvio da parte di Togliatti alle
responsabilità dei comunisti francesi per le indagini (mai svolte)
in loco (trafiletto su Rinascita del 22 febbraio 1964) e anche, con
nostra amara sorpresa, le esitazioni del movimento trotskista
ufficiale che non avviò una propria indagine e non creò una propria
commissione d’inchiesta fin dal primo momento in cui Tresso e gli
altri 3 trotskisti evasi da Le Puy e prigionieri dei partigiani del
Ftp-Pcf scomparvero (cioè alla fine di ottobre del 1943). La
successiva scelta internazionale a favore dell’entrismo nei partiti
staliniani da parte del movimento trotskista ufficiale - con tutta la
mole di compromessi e sotterfugi diplomatici che essa comportò,
soprattutto nei confronti dei principali partiti europei, il Pci e il
Pcf - spiega perché quell’indagine non sia mai stata condotta e,
di fatto, nemmeno iniziata. Di ciò fu sempre consapevole Barbara
Seidenfled, la compagna ungherese di Tresso, che non volle più avere
rapporti con la Quarta ufficiale, pur svolgendo le proprie indagini
insieme all’altra «vedova», Gaby, la compagna del trotskista
Pierre Salini.
Tutto ciò per decenni ha
tenuto il nome di Togliatti al riparo dell’attribuzione di un
crimine che fu tra i più gravi - in senso qualitativo - dei tanti di
cui fu responsabile diretto o indiretto. In questo caso responsabile
diretto e vediamo perché.
Da quando esiste il libro
Assassini nel maquis di Pierre Broué e Raymond Vacheron (metà degli
anni ‘90, tra l’edizione francese di Grasset e quella italiana di
Prospettiva edizioni) non esiste più il dubbio che i 4 siano stati
assassinati: dubbio che in precedenza poteva avere un fondamento più
o meno attendibile. Grazie soprattutto all’opera di Vacheron,
finalmente dei testimoni diretti o molto vicini ai fatti hanno avuto
il coraggio di dichiarare apertamente cosa accadde in quelle ore
tragiche del 26/27 ottobre 1943 o cosa avevano saputo. I due autori
francesi coprono le identità di alcuni di questi testimoni all’epoca
ancora vivi, dando solo le iniziali dei nomi, ma dichiarano di
disporre delle registrazioni complete: Dominique Martinez riporta la
testimonianza del fratello Jean, decedeuto; P.E., ricco di dettagli;
P.P, era nei pressi; M.B., vide gli assassini che venivano a
prelevare i quattro; L.N., informato di seconda mano; Alain Joubert,
anch’egli di seconda mano, ma accenna al «ruolo importante di un
piccolo italiano» (Giovanni Sosso, «Jean Auber», agente stalinista
che svolse il ruolo di commissario politico e gestì l’intera
operazione, sollecitando e ricevendo istruzioni da Mosca). Gli autori
dichiarano di conoscere anche i nomi dei tre che commisero il
delitto, ma di non volerli e non poterli rendere pubblici (a parte
quello di Sosso, indicato da tutti come il capo dell’esecuzione).
Ebbene, ora che non vi
sono più dubbi d’ordine giuridico sull’assassinio di Tresso e
gli altri tre (Abraham Sadek, Maurice Sieglmann [«Pierre Salini»] e
Jean Reboul, mentre Albert Demazière era riuscito fortunosamente ad
allontanarsi alcuni giorni prima, ) possiamo tirare la seguente
ferrea conclusione: nel servizio segreto operante all’estero per
conto del Nkvd sovietico, per il quale l’eliminazione dei
dissidenti era moneta corrente, nessuno, ma veramente nessuno si
sarebbe mai assunto - senza il consenso formale (e probabilmente
scritto) di Togliatti - la responsabilitàdi far uccidere un ex
dirigente comunista italiano, che era stato confondatore del Partito,
presente e attivo in Urss come delegato dell’Internazionale
sindacale rossa (Profintern), membro dell’Ufficio politico
italiano, impegnato nella Resistenza contro il nazismo e il fascismo,
e per giunta personaggio di primo piano nella tanto temuta (benché
ormai inesistente) Quarta Internazionale.
Bisogna ignorare tutto
della psicologia dei burocrati staliniani e dei loro agenti assassini
per immaginare che qualcuno di loro abbia corso il rischio di
compiere per decisione propria un atto che gli sarebbe potuto costare
la vita: il sicario professionale del Comintern sapeva che, senza il
pezzo di carta liberatorio, nel futuro gli avrebbero potuto
rinfacciare di aver ucciso Tresso, ma anche di non averlo ucciso.
Solo un ordine dall’alto avrebbe potuto garantirgli una relativa
sicurezza. Questi assassini sapevano di avere le proprie vite appese
a un filo (non potevano ignorare cos’era accaduto a tutti i
precedenti capi dei servizi segreti sovietici - a funzionari molto
più potenti di loro e apparentemente intoccabili, fino al giorno
della caduta in disgrazia).
Per questo era
indispensabile l’autorizzazione della massima autorità, che nel
caso di un ex dirigente comunista italiano non poteva essere altro
che Togliatti. Si calcolino i giorni passati dalla mezzanotte tra l’1
e il 2 ottobre (evasione dal carcere di Le Puy) all’esecuzione
nella base partigiana di Raffy - circa 25 giorni - e si avrà la
misura del tempo necessario per ricevere le istruzioni, e la
dimostrazione che Sosso e i suoi accoliti dovettero attendere le
istruzioni da Mosca (quindi da Togliatti) prima di uccidere Tresso e
gli altri tre trotskisti. La loro identità politica era nota già da
tempo, tanto è vero che li avevano esclusi da due precedenti
tentativi di evasione proprio perché trotskisti: ma questa volta,
purtroppo, non lo avevano potuto fare visto che l’evasione era
organizzata col concorso del Soe (il britannico Special operations
executive) e anche per questo andò a buon fine interamente, a
differenza dei mezzi fallimenti precedenti. Se non avessero richiesto
l’autorizzazione a Mosca, avrebbero potuto uccidere subito fuori
del carcere tutti e 5 i trotskisti, discretamente e senza dare
nell’occhio (come fecero per un altro dissidente, Paul Maraval,
ferroviere e spirito troppo indipendente, ucciso nel maquis del
Puy-de-Dôme, non lontano da Raffy).
Dalle testimonianze
raccolte (che appaiono in disaccordo solo su dettagli minori,
spiegabili anche con i quasi cinquant’anni trascorsi) possiamo
concludere che Tresso e gli altri tre furono uccisi nel bosco o sul
limitare del bosco di Raffy; che l’esecuzione fu compiuta da un
terzetto di stalinisti dirigenti del gruppo partigiano Ftp e membri
del Pcf, guidati da Giovanni Sosso; che questi fu autorizzato a farlo
oltre che dalla direzione del Pcf, anche da quella del Pci residente
a Mosca, cioè da Palmiro Togliatti in persona.
Il seguito è storia di
depistaggi, manovre per distogliere l’attenzione dal caso, omertà
varie e variamente motivate. La nebulosa ha avvolto la vicenda per
circa mezzo secolo, ma una parte di verità alla fine si è fatta
strada. Resta il compito di farla conoscere.
Essendo stato un grande
amico e collaboratore di Leonetti (insieme ad Antonella Marazzi che
all’argomento ha dedicato il libro Alfonso Leonetti. Storia di
un’amicizia, Massari ed. 2004), vorrei spendere due parole anche
sul suo ruolo in questa vicenda, vista la sequela di diffamazioni di
cui è stato costantemente oggetto. Nel libro dedicato a Tresso nel
1985 da Paolo Casciola e Giorgio Sermasi (Vita di Blasco, in cui
inspiegabilmente è sbagliata la data della morte di Tresso fin dal
sottotitolo in copertina, dove è scritto «1944?»), il primo dei
due autori presenta (alle pp. 187-8 in particolare) un immagine di
Leonetti veramente diabolica, quasi corrispondente al più noto dei
suoi pseudonimi: «Feroci».
Vi si afferma che questi,
trovandosi impegnato nella Resistenza della stessa zona, non poteva
non sapere della prigionia di Tresso e poi della sua morte; che
avendo rotto col movimento trotskista, non poteva non collaborare con
gli stalinisti; che nel 1944 entrò nel Pcf (ma non si dice che ne fu
subito riallontanato appena Togliatti lo venne a sapere); che non
sarebbe potuto rientrare nel Pci (come avverrà ufficialmente nel
1962) se non dando garanzie a Togliatti che mai avrebbe detto la
verità sulla vicenda; che nell’arco degli anni avrebbe sempre
taciuto al riguardo; che forse avrebbe anche dato un suo contributo
per aggravare i depistaggi.
E il fatto che Barbara
abbia sempre avuto un’analoga diffidenza, se non una vera e propria
ostilità nei confronti di Leonetti, ha contribuito nel tempo ad
accreditare un’immagine riprovevole del povero Alfonso, ai limiti
del grottesco per chi lo ha conosciuto da vicino. (Va detto, per
inciso, che Leonetti invece ricambiò Barbara sempre con stima e
rispetto, nel quadro di un disaccordo di idee, come dimostrano gli
appunti che a novembre del 1978 dettò ad Antonella Marazzi, perché
ne ricavasse l’articolo di necrologio positivo che apparve su La
Classe n. 20, intitolato «Per la morte di Barbara detta “Ghita”».)
Chi condivide questo
punto di vista difficilmente citerà tutto ciò che Leonetti ha fatto
per riaprire la ricerca sulla vicenda dei «Tre», per combattere le
falsificazioni su Gramsci. Si veda, per es., il carteggio con
Deutscher, o l’articolo da lui firmato con 3 asterischi che
comparve su La Sinistra (rivista ufficiosa dei Gcr, sez. ital. del
Segretariato unificato della Quarta) a febbraio del 1967 o la
collaborazione con la nostra casa editrice (Controcorrente), col
nostro giornale (La Classe), organo della sezione italiana della
Frazione marxista rivoluzionaria internazionale. Si veda anche il suo
testamento finale con l’appello a lottare per la Quarta. E si
vedano i tanti altri materiali che corredano il libro di Antonella
Marazzi già citato.
Ebbene, rispetto al suo
interessamento per scoprire la verità riguardo al caso Tresso, nel
libro di Broué-Vacheron emerge tutta un’altra realtà (già nota
del resto a chi come me e altri studiosi frequentava regolarmente la
sua casa): per anni Leonetti aveva raccolto materiali su quella
vicenda; conservava un compromettente biglietto di Togliatti a lui
personalmente indirizzato in cui lo si invitava a tacere; parlava con
chiunque della vicenda Tresso e degli scarsi progressi che venivano
compiuti; un paio di giorni prima della morte (all’ospedale Gemelli
di Roma) resistette alle pressioni di due inviati di Botteghe Oscure
che volevano portar via dalla sua casa il biglietto di Togliatti e i
dossier, e Leonetti li trattò come «corvi»; affidò la
salvaguardia del tutto a Gianfranco Berardi, giornalista dell’Unità,
che frequentava assiduamente la sua casa (dove lo conobbi anch’io);
gli disse di essere arrivato a delle conclusioni riguardo a un membro
della direzione del Pci, ma gli chiese anche di non rivelare nulla
prima di un decennio.
Se colpa vi fu, quindi,
da parte di Leonetti, fu di non aver rivelato in vita ciò che
riteneva di aver scoperto negli ultimi tempi, ma anche di non aver
tutelato a sufficienza i materiali raccolti, visto che di questi non
si è poi trovata traccia. Del resto dal 1984 - anno simbolico della
sua morte (Orwell) - di decenni ne sono passati quasi due. Se quei
materiali li avesse affidati a me, ciò non sarebbe accaduto; ma
forse Leonetti temeva che non avrei atteso dieci anni (e aveva
probabilmente ragione), oppure che me ne sarei servito per lanciare
una campagna politica (e forse anche in questo aveva ragione). Il
racconto di Berardi è comunque ricco di dettagli sulla sua ultima
visita a Leonetti in ospedale e lo si può leggere nel libro di
Broué-Vacheron..
Antonella ed io lo
andammo a trovare al Gemelli il pomeriggio della vigilia di natale,
ma viste le sue condizioni non accennammo a nulla che potesse
turbarlo. Ricordiamo ancora con commozione che Leonetti non riuscendo
quasi a parlare, si aiutava con i gesti. Vedendo la pancia di
Antonella a un certo punto fece il segno del 4 con le dita, che non
voleva dire Quarta internazionale, ma dimostrava di ricordarsi che
Antonella era al quarto mese di gravidanza del nostro futuro figlio
Liben. Mi rimane quindi qualche dubbio riguardo a tutto ciò che è
stato raccontato da varie fonti e che sarebbe accaduto in quegli
ultimi giorni in ospedale; mentre non ho difficoltà a credere che
Berardi sia stato molto al corrente delle questioni riguardanti
l’archivio di Leonetti.
Il problema dell’archivio
era stata una preoccupazione costante di Alfonso, della quale aveva
parlato spesso con me. Ma avendo io dimostrato una dura disistima per
Fausto Bucci, all’epoca responsabile dell’Archivio di Follonica,
e avendo attaccato pubblicamente - per una sua grave scorrettezza -
Giuseppe Del Bo, direttore dell’Archivio Feltrinelli a Milano, non
ero certamente la persona più indicata per occuparmi del suo
lascito. Questo, per lo meno, pensò erroneamente Leonetti. Da
posteri siamo in grado di verificarlo.
La testimonianza di
Gianfranco Berardi è diventata molto importante, anche perché
vagliata da uno storico di grande autorità come Pierre Broué.
Berardi ha collaborato con lui; ha scambiato corrispondenza con lui;
ha pubblicato sull’Unità del 3 gennaio 1993 un suo dignitoso
articolo su Tresso; ha redatto una relazione sul ruolo di Leonetti
nella vicenda e la relazione (in versione originaria e versione
ampliata) è stata pubblicata col suo consenso nel libro di
Broué-Vacheron. Basta andare a leggere entrambe le versioni per
sdrammatizzare (depenalizzare?) il ruolo che può avere avuto
Leonetti nelle ricerche compiute nell’ultima fase della propria
vita e che non condusse (alla pari di tanti altri, trotskisti
francesi e italiani inclusi) all’indomani della morte di Tresso.
Il dossier di Berardi
(«Appunti per un racconto», li chiama) nella prima redazione
accenna anche alla mia persona nel passo seguente (p. 102, corsivo
mio):
«Come
so che Leonetti possedeva una documentazione sulla morte di “Blasco”?
Per il semplice fatto che lo stesso Leonetti me ne ha parlato per tre
volte in occasioni diverse e che, della stessa cosa, almeno una
volta, ne ha parlato ad un’altra persona che, come me frequentava,
spesso la sua casa romana alla Camilluccia».
Mi è
difficile immaginare altra persona, oltre a me, che corrisponda così
esattamente alla descrizione. Berardi sapeva molto probabilmente sul
mio conto molto più di quanto io sapessi di lui. E Leonetti potrebbe
avergli accennato alle conversazioni tra noi avute riguardo
alla questione Tresso. Solo per questo accenno di Berardi alla mia
persona, mi permetto quindi di soffermarmi brevemente sulla cosa.
Innanzitutto mi sembra
utile riportare un brano delle annotazioni che scrissi subito dopo la
mia prima visita alla casa di Leonetti (15 maggio 1973) e che è
riportato per intero nel libro di Antonella (p. 12). Scritte «a
caldo» e mai ritoccate, hanno per me il valore di una fotografia:
«Mentre
si intrattiene con Rèpaci, mi dà da leggere un dossier da lui
raccolto sul caso Tresso. Oltre a ritagli di giornali (tra cui un
significativo corsivo di Rinascita, da lui attribuito a Togliatti), e
alla bibliografia delle opere di Tresso, vi è la corrispondenza
scambiata da Leonetti con uno storico francese e altri sulla morte di
Blasco. Leonetti non esclude che questi possa essere stato ammazzato
dagli stalinisti, ma non esclude nemmeno che possano essere stati i
tedeschi. La presenza di uno spagnolo di nome Blasco in un gruppo di
tre uccisi dalla polizia rende perlomeno dubbia l’ipotesi che
questi non fosse Blasco».
Era il
mio primo incontro con lui, era il 1973 e parlare di Tresso non era
tra le mie intenzioni in quel momento. Me ne parlò lui
spontaneamente, mi fece vedere il dossier (una cartella con dentro
soprattutto articoli di giornale, molto materiale fotocopiato)
ed io lo scorsi giusto il tempo che terminasse la conversazione di
Alfonso con Leonida Rèpaci. Nulla di particolare attirò la mia
attenzione.
Non immaginavo che quel
pomeriggio fosse l’inizio di una grande e bella amicizia. E invece
così fu. Collaborando negli anni con Leonetti, ma soprattutto nel
periodo in cui lavoravamo alla riedizione del Bollettino della Noi,
la conversazione non poteva non cadere a volte anche su Tresso.
Leonetti amava questa figura. Dopo gli anni all’Ordine Nuovo con
Gramsci, accanto a lui aveva trascorso in Francia gli anni
politicamente più belli della sua vita (dall’espulsione nel ‘30
fino al proprio allontanamento dal movimento per la Quarta nel 1936);
lo stimava e lo considerava parte indispensabile della loro battaglia
come Opposizione. Ne parlava sempre con grande affetto e stima. Ma le
poche volte in cui accennavo alla questione della morte/assassinio,
il mite Alfonso si irrigidiva, si poneva sulla difensiva e io stesso,
vedendo che lo mettevo a disagio, lasciavo cadere l’argomento.
Credo che il problema essenziale, tra noi due, fosse Togliatti. Io
ero un antitogliattiano furibondo, Leonetti non lo era più o forse
non lo era mai stato veramente. E sulla questione Tresso non ho dubbi
che Leonetti abbia fatto sempre di tutto per scagionarlo da
responsabilità dirette (e non certo dalla copertura successivamente
data all’assassinio), sinceramente persuaso che non ne avesse
avute. Ne era convinto; forse aveva ricevuto delle confidenze al
riguardo (e sappiamo che sul terreno della doppiezza e del raggiro
Ercoli era un maestro); forse stava veramente arrivando a scoprire
chi avesse dato l’ordine di uccidere Tresso; forse non si perdonava
di essere rientrato nel Pci dopo l’assassinio del compagno;
forse... tanti altri forse che per fortuna ancora agitavano il suo
animo umano.
Io rimango convinto che
l’ordine di uccidere Tresso sia potuto venire solo da Togliatti e
su questo con Leonetti non ci siamo mai intesi.
Broué, tuttavia, lascia
aperta la porta (p. 103) a una seconda possibilità (proposta da
Berardi, p. 105), alla quale vale la pena di accennare. Si tratta di
Giulio Cerreti, un nome abbastanza sconosciuto ai più, ma che
all’epoca aveva un ruolo importante nell’apparato stalinista in
Europa: rifugiatosi in Francia nel 1927, punto di riferimento dei
comunisti italiani a Parigi, membro del Comitato centrale del Pcf dal
1932 al 1945 (notare il periodo...), legatissimo all’apparato
internazionale del Comintern, vissuto in Urss fino al 1945 come
stretto collaboratore di Togliatti, premiato poi con cariche di
deputato, senatore e varie altre prebende in Italia,
stalinista-togliattiano convinto sino alla morte.
Ebbene, anche se
l’ipotesi avanzata da Berardi e vagliata con attenzione da Broué
fosse vera, continuo a ritenere impensabile che Cerreti possa aver
deciso della morte di Tresso da solo, senza consultare Togliatti.
Anche Cerreti era un burocrate stalinista e come tale aveva
assimilato nel più profondo codice genetico il senso della gerarchia
e dell’apparato: un’uccisione di quel genere e di quel livello
non sarebbe spettato a lui deciderla, senza il consenso esplicito, o
al limite la tacita approvazione, del massimo dirigente stalinista
italiano, una sorta di numero 3 nell’apparato internazionale del
Comintern (dopo Stalin e Dimitrov). Come potrebbe essere andato
l’eventuale accordo/discussione tra i due, non potremo mai saperlo,
a meno che non appaiano documenti a tutt’oggi secretati riguardo a
questa e altre uccisioni «celebri» avvenute in epoca staliniana. La
lista d’attesa è ancora molto lunga: da Gorkij a Tresca a Serge a
Durruti a Tina Modotti e via di seguito. Tutti «casi» che non
dovremmo considerare chiusi solo perché non abbiamo le prove di
un’esecuzione diretta da parte di agenti staliniani.
Mi avvio a concludere,
riprendendo due temi iniziali. Se per far rivivere idealmente la
figura di Tresso, va accantonata la soluzione toponomastica e le
altre forme di celebrazione postuma più o meno retoriche (statue,
targhe o giornate della memoria), non restano che gli strumenti
ordinari di perpetuazione del ricordo, come i libri, il Web, i
documenti della ricerca storica, il cinema.
Per quest’ultimo devo
ammettere che mi stupisce l’assenza di un qualsiasi film sulla vita
di Tresso (se esistano dei documentari lo ignoro, ma non mi sembra
che ve ne siano), che invece fornirebbe un materiale avvincente in
termini cinematografici, sia per il carattere avventuroso (basti
pensare agli ultimi tempi della sua vita, tra Resistenza, carcere ed
evasioni), sia per le grandi potenzialità drammaturgiche legate al
«mistero» della sua morte che una buona sceneggiatura potrebbe
valorizzare. Forse un giorno ciò accadrà; e sia benedetto quel
giorno, anche se il prodotto non dovesse essere filologicamente
accurato: compito del cinema cosiddetto «politico», infatti, non è
di sostituirsi o affiancarsi alla storiografia, ma dare dimensione
fantastica o artistica a esperienze e sentimenti degli esseri umani
che in quelle determinate vicende storiche hanno agito o anche
semplicemente vissuto.
Per i libri - al di là
delle antologie e dei saggi a carattere politico che non sono
purtroppo molti - va segnalato per la narrativa il romanzo di Stefano
Tassinari (Il vento contro, Marco Tropea Editore, 2008) interamente
dedicato a Tresso da un bravo scrittore morto un anno fa. E anche
alcune opere a latere, come Le tre sorelle Seidenfeld, di Sara Galli
(Giunti 2005): una delle tre è ovviamente Barbara. E più
specialistico, L’incudine e il martello. Aspetti pubblici e privati
del trotskismo italiano (1929-1939), di Eros Francescangeli
(Morlacchi 2005).
Poco fa accennavo alla
poca distanza degli anni che dal’68 andarono al ‘77 - quando
pubblicai il Bollettino e una mia presentazione di Tresso su La
Classe - per un inconscio residuo di pensiero che ora desidero
esplicitare, anche se l’ho già fatto altre volte e con riferimenti
storici diversi.
Gli ideali del ‘68 -
antiautoritari, antistalinisti, libertari nel senso più pieno del
termine, etici e giovanili allo stesso tempo - avrebbero dovuto
portare una buona parte del movimento, o perlomeno le sue
avanguardie, o al limite qualche singolo quadro o dirigente, alla
scoperta/riappropriazione di tutte le più belle storie del movimento
rivoluzionario, tragiche o esaltanti che siano. E Tresso avrebbe
dovuto campeggiare in una tale riscoperta. Ma ciò non accadde. Anzi
la cultura di chi passò dal movimento studentesco e dei consigli di
fabbrica agli apparati politici (partiti e partitini ideologizzati)
abbracciò con fanatismo tutto il contrario. Il maoismo in tutta una
prima fase (che di potenziali Tresso ne aveva ammazzati a bizzeffe in
Cina, ma anche in Indocina con Ho Chi minh, e che ha continuato ad
ammazzarne per paura che rinascessero tutti insieme a piazza
Tienanmen): quella follia ideologica, stalinista e reazionaria, calò
come una nube di oscurantismo autoritario e irrazionale sulle nuove
leve della radicalizzazione, distruggendo per sempre la continuità
di pensiero nel marxismo, soprattutto in Italia dove il fenomeno fu
più vistoso che altrove. E poi l’elettoralismo, dapprima camuffato
in forma militante, alla Lotta Continua, poi divenuto il foraggio
permanente del fare politica e della militanza, brodo di coltura
inesauribile di aspiranti Forchettoni rossi.
Dovrei aggiungere
l’irrompere della società dello spettacolo anche nel campo della
ricerca teorica, ma penso che il discorso si allungherebbe e mi
sembra di aver già abusato abbastanza dell’attenzione.
Concludo quindi da
editore, annunciando che vorrei pubblicare due libri, per preservare
la memoria di Tresso e per contribuire alla «destalinizzazione»
culturale delle menti che, a mio avviso, in Italia ancora non c’è
stata. Quindi sarei favorevole a ritradurre e ripubblicare il libro
di Broué-Vacheron, in modo da consentirne una nuova migliore
circolazione nel contesto che gli compete (cioè nella collana
«storia e memoria»). E un’antologia il più completa possibile
degli scritti di Tresso, nella collana «eretici e/o sovversivi». Se
qualcuno tra coloro che ascoltano o leggono queste righe vuole dare
una mano (in tutti i sensi) gli saremo grati fin d’ora. Come al
solito non si esclude la possibilità di una o due coedizioni.