Riprendiamo larghi
estratti dell'intervento di Fabrizio Burattini da cui emerge come
gran parte della sinistra italiana si dimostri da quasi un anno
totalmente incapace di assumere una posizione chiara sulla guerra in
Ucraina, o nascondendosi dietro slogan vuoti di contenuti concreti o
simpatizzando apertamente per Putin e rendendosi in tal modo complice
dei suoi crimini.
L'Ucraina e la crisi
della sinistra italiana
di Fabrizio Burattini
L’invasione e la
distruzione dell’Ucraina da parte degli eserciti della Federazione
russa continua da quasi un anno.
Certo, com’è noto, di
guerre, devastazioni, efferatezze, stragi è punteggiata tutta la
storia del capitalismo. La “pace mondiale” stipulata subito dopo
la sconfitta del nazifascismo non si è certo trasformata in quella
pace predicata nella “carta delle Nazioni unite”, che si
impegnavano a “mantenere la pace e la sicurezza internazionale,
prendendo efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le
minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre
violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici la
composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni
internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace”
(dall’art. 1 della Carta delle Nazioni Unite del 1945).
Inoltre, lo sappiamo,
oggi, in questa fase, il mondo è investito da una raffica di crisi,
da quella economica a quella ambientale, da quella alimentare a
quella delle migrazioni… Dunque, laddove ci si volti, i motivi per
la mobilitazione delle/degli anticapitaliste/i si moltiplicano,
mentre le forze da impegnare in quelle mobilitazioni si fanno sempre
più scarse. Ma queste constatazioni, direi ovvie, non tolgono nulla
alla natura sconvolgente di quella guerra. Invece, buona parte della
sinistra italiana ha sostanzialmente banalizzato quella guerra, come
a dire che, essendo una delle tante, sarebbe inutile prenderla di
petto e si è concentrata non tanto sulle sofferenze delle
popolazioni direttamente coinvolte, ma piuttosto sulle conseguenze
che la guerra comporterebbe sulle classi popolari italiane.
La sinistra italiana
(seppure con diverse sfumature, ma sostanzialmente con un
comportamento largamente convergente) ha scelto, al contrario, di
ignorare l’occasione cruciale di intervento e di iniziativa
antiguerra che la vicenda ucraina costituiva, ha scelto di non
mettersi in sintonia con l’ondata emotiva che la criminale
iniziativa di Putin ha innescato nelle opinioni pubbliche dei paesi
dell’Europa occidentale, e in particolare in quella italiana,
altrimenti colpevolmente sorda anche alle più indicibili sofferenze
umane quando queste si verificano lontano dalla sua comfort zone.
Anzi, ha scelto di contrapporsi a quell’ondata emotiva, indicandola
come frutto subalterno della propaganda dell’imperialismo
occidentale. E ha scelto di privilegiare la ricerca di una ipotetica
sintonia con il “pacifismo dei bottegai”, di quelli che guardano
con ostilità alla resistenza ucraina, avversano le sanzioni, tifano
sordamente (a volte perfino esplicitamente) per la “vittoria del
più forte”, perché tutto ciò che comportano la resistenza e le
sanzioni mette in discussione i loro miserevoli affari.
Nel corteggiare questa
presunta “maggioranza pacifista degli italiani”, non a caso, la
sinistra si è trovata in una non onorevole e non pagante concorrenza
diretta con Berlusconi e con Salvini.
Un atteggiamento
radicalmente diverso poteva diventare uno strumento per far
riflettere le persone sul proprio egoismo, per sollecitare un moto di
sdegno verso Putin e di solidarietà verso le ucraine e gli ucraini,
e contemporaneamente per indicare quelle sofferenze come un esempio
dello strazio di tutti gli altri popoli che soffrono in situazioni di
guerra o di oppressione da parte di potenze straniere.
Da grandissima parte di
quella che, chissà perché, continua ad essere considerata la
“sinistra radicale” italiana, la guerra di invasione della Russia
in Ucraina è stata colta come occasione per parlare d’altro,
evitando accuratamente ogni cenno significativo a quello che in
Ucraina accadeva e accade.
Considero questa
innegabile realtà uno dei principali indicatori della crisi
terminale di quella che fu la “sinistra italiana”, un segnale di
perdita di ogni vero orientamento internazionalista e, in fin dei
conti, di gravissimo appannamento della sua capacità di comprendere
il mondo.
La prima qualità che
dovrebbe differenziare una donna o un uomo di sinistra da donne e
uomini di destra è la capacità di empatia con il resto delle classi
popolari, qualunque sia il colore della loro pelle, la loro
religione, il loro luogo di vita. L’ “empatia”, termine che si
è diffuso nella cultura verso la fine del Novecento, viene così
definita dal dizionario: “capacità di comprendere lo stato d’animo
e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato,
prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Più in
particolare, il termine indica quei fenomeni di partecipazione intima
e di immedesimazione”. In parole povere, la capacità di “mettersi
nei panni dell’altro”. Senza scomodare il vocabolario e con la
forza comunicativa che il personaggio aveva, il Che Guevara, in una
nota lettera ai figli, scrisse: “Siate sempre capaci di sentire nel
più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in
qualsiasi parte del mondo. È la qualità più bella di un buon
rivoluzionario”.
Occorre riconoscere che
le ingiustizie commesse contro il popolo ucraino in questo anno di
guerra non sono state “sentite nel profondo” dalla sinistra
italiana, anzi non sono state sentite neanche superficialmente, una
sinistra che ha preferito privilegiare e “sentire” le
“sofferenze” dell’oligarchia russa, descritta più o meno a
ragione come gravemente minacciata dall’imperialismo statunitense
(e dai suoi alleati europei), in qualche misura giustificandone la
reazione sulla pelle del popolo ucraino.
La “sinistra” ha
osato sfilare nelle, ahimè, pochissime occasioni di mobilitazione
sulla questione, centrando le proprie parole d’ordine sul disarmo
della resistenza ucraina e sulla fine delle sanzioni alla Russia.
Dunque una sinistra italiana che è stata giustamente percepita dal
popolo ucraino come supporter dell’aggressione russa, dei suoi
bombardamenti, dei suoi massacri, dell’attuale ricatto del freddo
(attraverso il bombardamento sistematico delle centrali elettriche),
ecc.
Una “sinistra” che si
è distinta per aver avallato, accettato e fatte proprie le
motivazioni (peraltro cangianti a seconda delle differenti
convenienze militari e politiche) strumentalmente accampate dalla
leadership della Federazione russa.
(...)
Molti a “sinistra”
hanno accolto con soddisfazione la sequela delle menzogne russe,
comprese quelle più cinicamente aberranti, come l’insinuazione che
i morti di Bucha fossero figuranti stipendiati dalla propaganda
ucraina.
Gli “argomenti” di
Putin, la loro assurdità e il loro carattere volgarmente strumentale
non meriterebbero di essere puntualmente smascherati nell’ambito di
una sinistra che pretendendosi “antimperialista” dovrebbe
diffidare per principio di quel che viene dal governo di una potenza
imperialista, come diffidiamo per principio di quel che viene dalle
centrali imperialiste nostrane.
La poca serietà e la
incapacità di analisi di questa sinistra peraltro si dimostrano con
il fatto che questa stessa, fino agli anni 80 del secolo scorso,
definiva l’Unione sovietica, al tempo di Kruscev e di Breznev, come
potenza “socialimperialista”, mentre oggi, dopo tutto quel che è
successo, considera la Russia un attore positivo a difesa del
“carattere multipolare” del pianeta.
E’ utile ricordare a
questo proposito che il caos geopolitico che ha caratterizzato il
pianeta dopo la sconfitta degli USA nel Vietnam, dopo quella
dell’Iraq e, infine, dopo quella dell’agosto 2021
dell’Afghanistan, quel caos che aveva condotto perfino il
presidente francese Macron a definire la NATO in “stato di morte
cerebrale”, è in via di ricomposizione proprio grazie
all’aggressione russa all’Ucraina. In questi ultimi 10 mesi, la
centralità dell’imperialismo statunitense si sta decisamente
ricostituendo, la NATO si è abilmente potuta ricostruire una
“funzione” che aveva perso con la fine della Guerra fredda, e la
sua popolarità sta purtroppo crescendo in modo esponenziale (vedi le
nuove adesioni e il consenso che essa riscuote in ampie parti del
mondo, non solo tra i governi ma anche nelle opinioni pubbliche).
Ma l’empatia non
significa solo considerare con pietà e in maniera solidaristica le
sofferenze del popolo ucraino: in quel modo ci si potrebbe limitare a
sostenere iniziative di solidarietà (come l’invio in Ucraina di
cibo, coperte, generatori elettrici, ecc.), iniziative che comunque
in Italia sono state totalmente ignorate o addirittura guardate con
diffidenza dalla sinistra e lasciate (salvo qualche lodevole
eccezione) alle associazioni religiose e laiche. Per una o un
internazionalista, empatia significa appunto “mettersi nei panni
dell’altro” e dal comodo della nostra comfort zone interrogarsi
su quel che faremmo noi internazionaliste/i se ci trovassimo là.
La sinistra avrebbe
peraltro già dovuto farlo per la Siria, a partire dal 2011 quando
sono scoppiate le prime proteste e le prime rivolte contro il regime
di Bashar al-Assad. L’alternativa era: schierarsi a difesa del
regime, fino a salutare come positivi i criminali bombardamenti russi
e dell’esercito di Assad che hanno raso al suolo la città di
Aleppo e tanti altri centri minori, fino a considerare contro ogni
evidenza come fake news le denunce dell’uso da parte del regime e
dei russi di bombe termobariche o di armi chimiche? Oppure scegliere
di sostenere, ovviamente conservando la propria indipendenza di
analisi e di iniziativa, la ribellione popolare?
E, analogamente, come ci
saremmo comportati se ci fossimo trovati in Ucraina il 24 febbraio?
Noi siamo un po’ troppo affezionati all’affermazione che Carl von
Clausewitz fa nel suo “Della guerra” secondo cui “la guerra è
la continuazione della politica con altri mezzi”.
Quell’affermazione nasconde (soprattutto al lettore disattento) che
una situazione di guerra (a differenza di quando agisce ancora la
“politica”) non consente troppe scelte e non ammette furbeschi
posizionamenti neutralistici. Le scelte a disposizione si riducevano
e si riducono sostanzialmente a tre:
salutare come
liberatoria l’invasione russa, e scegliere in modo vario di
collaborare con essa;
scappare e lasciare
che la difesa di case, di infrastrutture e della vita di chi non può
scappare e della stessa indipendenza politica del paese fosse
compito solo dell’esercito regolare;
oppure in vario modo
partecipare alla resistenza ucraina antirussa, cercando di dare il
proprio contributo, armato o disarmato, appunto alla difesa del
paese.
E’ evidente che
grandissima parte della “sinistra radicale” italiana, se si fosse
trovata al posto della o del “giovane ucraina/o” avrebbe adottato
la prima posizione, o al massimo la seconda, apparentemente quasi
nessuno la terza.
(...)
In ogni caso, anche al di
là delle innegabili responsabilità NATO, è politicamente
sconsiderato mettere le “sofferenze” dei russi e degli ucraini
sullo stesso piano, in una falsa equivalenza. Nel conflitto sono
direttamente coinvolti un paio di centinaia di migliaia di militari
russi (in gran parte coscritti certo, a parte i mercenari, ma
comunque corrispondenti allo 0,1% della popolazione di tutta la
Federazione) mentre dalla parte ucraina sono coinvolti e duramente,
materialmente ed esistenzialmente colpiti, non solo l’esercito ma
tutti i 43 milioni di cittadini e, per certi versi, emotivamente
anche quei 6 o 7 milioni di ucraine e di ucraini che erano emigrati
già prima del 24 febbraio.
Ovviamente dobbiamo
essere anche dalla parte dei ragazzi russi, trascinati a combattere
in una guerra che non è minimamente la loro, e dalla parte delle
loro famiglie, ma non possiamo nasconderci che c’è un gigantesco
divario etico tra chi, come le classi popolari russe che sono
costrette a una vita quotidiana più ardua e a un periodo di maggiori
difficoltà economiche (il tutto sempre per responsabilità intera
della leadership putiniana) e chi, come le classi popolari ucraine
che vivono quotidianamente la realtà di missili che radono al suolo
intere città.
Lo ripeto,
internazionalismo è in primo luogo porsi la domanda “che cosa
farei io (con il mio bagaglio ideale e politico) se fossi lì”,
altrimenti internazionalismo non è. Un tempo l’essere
internazionalisti portava perfino a partire con le “brigate
internazionali”. Ma almeno non deve portare a subordinare la
propria posizione sull’Ucraina alle convenienze politiche e ai
“posizionamenti” nazionali. Questo non è né potrà mai essere
internazionalismo.
Quello che ho cercato di
dire sulla/sul “giovane ucraina/o” lo si può altrettanto dire
sulla/sul “giovane russa/o”. L’internazionalismo vuol dire
anche chiedersi che posizione deve assumere un internazionalista
russo. L’internazionalista russo non vive la medesima impellenza
dell’ucraino, ma la sua coscienza internazionalista dovrebbe
spingerlo ad assumere una posizione convergente. Ed è quello che
fanno migliaia di giovani oppositori russi e soprattutto russe. Le/i
democratiche/i russe/i dovrebbero dire (seguendo l’esempio di tanta
parte della sinistra italiana) che la responsabilità della
situazione è della NATO? Che l’Ucraina è infestata dai nazisti?
che è antidemocratica perché mette fuorilegge l’opposizione? In
tale modo non sarebbe più all’opposizione di Putin, perché ne
condividerebbe le analisi di fondo.
Al contrario, le
oppositrici e gli oppositori russi adottano in sostanza quella che fu
la linea del movimento americano contro la guerra del Vietnam tra il
1966 e il 1975: “Fuori la Russia dall’Ucraina”, “Riportate a
casa i nostri ragazzi”. E i settori più coscienti, come accadde
per gli USA oltre 50 anni fa, agitano la parola d’ordine
fondamentale: “Per la vittoria dell’Ucraina”.
Già so che i nostri
“sinistri radicali” controbatteranno: “Ma noi siamo qua,
dobbiamo opporci alla NATO”. Giusto. Ma io direi che noi dobbiamo
anche opporci alla NATO, mentre per la sinistra nostrana
l’opposizione e la denuncia delle responsabilità NATO e UE ha
sostituito e ha cancellato ogni traccia di solidarietà con il popolo
ucraino, con la sua resistenza e con la sua sinistra classista e
internazionalista.
Viene giustamente
denunciato il “doppiopesismo” dei mass media filoatlantici che
denunciano le angherie dell’esercito russo ma tacciono o
addirittura giustificano le angherie degli americani nelle loro
numerose guerre imperialiste, quelle dei turchi contro i curdi,
quelle israeliane contro i palestinesi, ecc. Ma a quel
“doppiopesismo” viene contrapposto un doppiopesismo altrettanto
inverecondo che banalizza la sofferenza del popolo ucraino.
Parte di questa sinistra,
per giustificare la propria posizione campista e a volte
esplicitamente “putinista”, ha anche messo in discussione il
concetto stesso di autodeterminazione, ritenendolo un residuo del
Novecento. A questo proposito, rimando a quel che scrissi in un altro
mio articolo di giugno
(...)
Aggiungo infine, a
ulteriore dimostrazione della crisi perfino morale
dell’internazionalismo, che a nessuno nella “sinistra radicale”
italiana è minimamente venuto in mente di organizzare iniziative che
abbiano dato voce ai protagonisti ucraini o russi che siano. Hanno
fatto eccezione solo le estremamente significative occasioni nelle
quali il “Comitato per il no alla guerra in Ucraina” ha ascoltato
la ricercatrice ucraina Daria Saburova, il sociologo russo Alexander
Bikbov e il giornalista italo-russo Jurii Colombo.
Lo stesso comitato che ha
organizzato e realizzato l’unica manifestazione di sinistra nei
pressi dell’ambasciata russa a Roma lo scorso venerdì 7 ottobre.
Fonte:
refrattario.blogspot.com