TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 26 luglio 2018

Mandali su da me alla prima notte di luna




Mandali su da me alla prima notte di luna

Passeggiata al chiaro di luna e per osservare l'eclissi lungo i sentieri, reali e letterari, di Francesco Biamonti all'interno del Parco Biamonti. Ritrovo alle 21,00 del 27 luglio davanti al Comune di San Biagio della Cima. Chi vuole può venire direttamente alla chiesetta dell'Annunziata alle 21,30


Associazione Amici di Francesco Biamonti

domenica 22 luglio 2018

Raffaele K. Salinari, Walter Benjamin e le pietre dell’apocatastasi



La salvezza di tutti gli esseri attraverso il ritorno allo stato originario. Schema alchemico del V.I.T.R.I.O.L.


Raffaele K. Salinari

Walter Benjamin e le pietre dell’apocatastasi


Ad un certo punto del folgorante saggio sull’opera di Nikolaj Leskov, Walter Benjamin ci introduce alla sua originalissima idea di apocatastasi: la salvezza universale attraverso il ritorno di tutti gli esseri alla pienezza originaria. Il sentiero che invita a percorrere da quel momento è, come spesso nel suo stile, notturno e sotterraneo: pieno di oscure analogie minerali e necriche metafore che però, alla fine, seguendo la mappa tracciata dal suo immaginario messianico, ci porteranno alla luce di una splendente verità.

Come guida naturale del tortuoso cammino, Benjamin staglia dai racconti di Leskov quella particolarissima figura che egli chiama «il giusto». Incarnazione complessa perché estremamente sfaccettata, maschera di volta in volta diversa – il buffone, lo scemo del villaggio, il viaggiatore, l’artigiano, il briccone – il giusto ha, però, un’essenza costante che si trasmette di personaggio in personaggio come in quelle Pathosformel che Warburg cercò di incasellare nel suo favoloso atlante Mnemosyne.

    Warburg, Atlante Mnemosyne

Il giusto

Per distillare questa essenza Benjamin parte da Bloch – che come lui aveva difficili rapporti con i francofortesi – citandone l’interpretazione del mito di Filemone e Bauci, nel quale si descrive la figura del giusto come colui, o colei, che portando con sé un tocco gentile, lo fa amico di tutte le cose. La madre di Leskov stesso ad esempio «che non poteva infliggere una sofferenza a nessuno, neppure agli animali. Non mangiava carne né pesce, tanta era la sua compassione per le creature viventi». Il giusto, conclude Benjamin, è allora il portavoce delle creature ed insieme la sua più alta incarnazione. E così vediamo che la sua essenza immutabile è quella di un essere «favolosamente scampato alla follia del mondo» e che, proprio mercé questa sua caratteristica, è in grado, attraverso i suoi racconti, di portare un annuncio di salvezza, di apocatastasi.

«Apocatastasi» è un termine dalle molteplici accezioni a seconda degli ambiti in cui viene usato. Letteralmente significa «ritorno allo stato originario», oppure «reintegrazione». Nella filosofia stoica, ad esempio, si collega alla «dottrina dell’eterno ritorno»: quando gli astri assumeranno la stessa posizione che avevano all’inizio dell’universo. Per il neoplatonismo, invece, l’apocatastasi è qualcosa di più spirituale, cioè il ritorno dei singoli enti all’unità originaria, all’Uno indifferenziato da cui l’intero insieme delle cose manifestate proviene; è ciò che gli gnostici chiamerebbero il Pleroma.

   
La caduta

Questa idea si inserisce appieno all’interno del tema, prettamente religioso, della Caduta: l’allontanamento dell’uomo dalla sua originaria comunione con l’Assoluto, col Divino, ma anche di un suo possibile ritorno alla pienezza edenica originaria. Nella teologia dei primi Padri della Chiesa il suo teorico è Origene.

Dice allora Benjamin: «Una parte importante, in questa dogmatica [della chiesa greco-ortodossa], è svolta, com’è noto, dalle teorie di Origene, respinte dalla chiesa romana, sull’apocatastasi: l’ingresso di tutte le anime in paradiso. Leskov era molto influenzato da Origene. Egli si proponeva di tradurre la sua opera Sulle cause prime. In armonia con la fede popolare russa, egli interpretava la resurrezione più che come una trasfigurazione, come la liberazione da un incantesimo, in senso affine a quello della favola».

Benjamin, dunque, è qui teso a mettere in rilievo, anzi diremmo a dispiegare pienamente, non tanto il senso teologico, escatologico, del termine, quanto il suo potenziale immaginale, evocativo, metaforico, grazie al quale egli può farci vedere, nei personaggi della narrativa leskoviana, «l’apogeo della creatura» ed allo stesso tempo «un ponte fra il mondo terreno e ultraterreno», costruito attraverso l’atto creativo, poietico, del racconto.

Ma, per la nota verità metafisica secondo cui «ciò che è in alto è come ciò che è in basso», «il giusto» collega sia le vette, gettando un ponte tra il modo terreno e quello ultraterreno, sia le voragini nascoste nelle viscere della terra con ciò che avviene in superficie. «La gerarchia creaturale, che ha nel giusto la sua cima più alta, sprofonda in gradini successivi nell’abisso dell’inanimato. Dove bisogna tener presente un fatto particolare. Tutto questo mondo creaturale non si esprime tanto, per Leskov, nella voce umana, ma in quella che si potrebbe chiamare, col titolo di uno dei suoi racconti, la voce della natura». E dunque eccolo presentarci una di quelle intuizioni che collegheranno la figura del giusto, inteso come interprete della «voce della natura» e della salvezza, alle sue rappresentanze più elementari e sotterranee. «Quanto più Leskov discende lungo la scala della creature, tanto più chiaramente la sua concezione si avvicina a quella dei mistici». Ed a questo punto, con uno dei suoi scarti spettacolari, Benjamin passa a parlare del racconto di una pietra che racchiuderebbe una profezia: l’Alessandrite.


L’Alessandrite e la pulce di acciaio

Il racconto di Leskov citato da Benjamin, si intitola come la pietra che ne è protagonista. Narra di un tagliatore di pietre di nome Wenzel che ha raggiunto nel suo lavoro vette eccelse, paragonabili a quelle degli argentieri di Tule che ferrarono la famosa «pulce di acciaio» capitata nelle mani dello zar Nicola I. Qui una breve digressione è d’obbligo poiché questa pulce, questa «ninfosoria» come viene definita nel racconto, caricabile a molla e di grandezza naturale, pare esista davvero e sarebbe ammirabile nel Museo delle armi in città. Uno scrittore italiano contemporaneo dice di averla vista. Chi ama Tolstoj conosce Tule, dato che la sua famosa residenza, Jasnaja Poljana e la sua tomba, si trovano da quelle parti.

La storia è semplice ma suggestiva: il fratello della zar Nicola I, Aleksàndr Pàvlovic, riceve in dono dagli «inghilesi» questo manufatto, una «ninfosoria» appunto, fatta di acciaio brunito che, mercé una piccola chiavetta inserita nella pancia, può essere caricata e dunque muoversi come una vera. Alla morte del fratello la pulce meccanica passa all’Imperatrice vedova Elisavéta Alekséevna che però, stretta nel suo lutto inconsolabile, decide di inoltrarla al nuovo sovrano. Il novello zar Nicolàj Pàvlovic in un primo tempo la trascura, per impellenti questioni di stato, poi si impunta e cerca di trovare il modo di eguagliare, o meglio, superare la bravura degli odiati «inghilesi». E dunque ordina ad un suo uomo di fiducia di raggiungere i famosi argentieri di Tule, rinomati per la loro maestria, e vedere cosa potessero fare per surclassare l’arte britannica. Dopo qualche tempo la ninfosoria di acciaio brunito torna a palazzo. In apparenza è immutata e lo zar si adira ma, ad una più attenta osservazione microscopica, ecco apparire il prodigio tecnologico: su ogni zampetta della pulce di acciaio è stato addirittura apposto come un ferro di cavallo e, su ognuno, è inciso il nome del mastro argentiere che l’ha forgiato!. L’orgoglio russo è salvo.

Alla stessa dinastia zarista è invece legata la vicenda, anche questa in bilico tra storia e leggenda, dell’Alessandrite. Qui si tratta della scoperta di una pietra singolare che prende il nome dal futuro zar Alessandro II, figlio di Nicola I. La pietra venne, infatti, cavata per la prima volta il giorno della sua nascita, nel 1818. Questo è lo zar dell’epoca in cui si svolge il romanzo Anna Karenina di Tolstoj, un periodo burrascoso e denso di avvenimenti storici rilevanti. Ecco che allora la caratteristica peculiare di questa pietra diviene una sorta di profezia sulla vita e la morte dell’omonimo sovrano. Essa, infatti, è verde alla luce del sole e rossa a quella artificiale. Il fenomeno è dovuto alle inclusioni di cromo, presenti anche nel corindone e nello smeraldo.

Ora, nel racconto di Leskov, la casuale scoperta della pietra nel giorno natale del futuro zar, e le sue caratteristiche cromatiche, fanno intessere al narratore la profezia che la vuole metafora della vita di Alessandro II. Verde alla luce del mattino, dunque nella giovinezza e nella maturità dell’imperatore di tutte le Russie, essa diviene color sangue al calar delle tenebre, simboleggiando così la tragica fine che, effettivamente, subì il sovrano.

Il secondo attentato

Il 13 marzo del 1881, infatti, lo Zar si disse disposto a prendere in considerazione le modalità dell’abolizione della servitù della gleba. Ma era già troppo tardi. Lo stesso giorno alcuni cospiratori guidati da Sofja Perovskaja misero in atto un astuto piano per eliminarlo. Alessandro II era già sfuggito più volte alla morte per attentato, ma quella volta il disegno riuscì. Mentre faceva ritorno al Palazzo d’Inverno, la sua carrozza fu colpita da una bomba lanciata da Nikolaj Rysakov, ma egli rimase illeso. Sceso per accertarsi dei danni fu investito dall’esplosione di una seconda bomba. Lo scoppio lo colpì ferendolo mortalmente. La profezia dell’Alessandrite si era avverata.


V.I.T.R.I.O.L.

Ma la poetica di questi elementi naturali, secondo la visione di Benjamin, emana ancor più potentemente da ciò che rimane nella profondità della terra, dando loro addirittura il potere di ricombinare il destino dei vivi con quello dei morti, di salvare eternamente e al tempo stesso gli uni e gli altri. E d’altronde il pensiero dell’eternità non ha sempre avuto la sua fonte principale nella morte? Per attivare questa operazione favolosa egli utilizza allora come Prima Materia del suo athanor immaginale uno degli autori preferiti l’«indimenticabile Johann Peter Hebel». «La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare» afferma icasticamente e aggiunge, «dalla morte egli attinge la sua autorità. O, in altre parole, è la storia naturale in cui si situano le sue storie».

La morte dunque è l’origine del racconto, la matrice della sua eternità. Come non vedere in questa affermazione la sanzione dell’opera al nero, primo gradino del processo alchemico?
Per Benjamin allora la pietra filosofale, cioè l’incanto salvifico della narrazione, la sua funzione come strumento di una vera e propria apocatastasi, nasce nel crogiolo della storia naturale formandosi da un compost affatto speciale. Ecco l’atmosfera nella quale ci vengono presentati i due grandi protagonisti del racconto di Hebel Insperato incontro: il tempo che dissolve i corpi, ed il suo comprimario che qui, paradossalmente, li coagula, il vetriolo.

La parola vetriolo, dal latino vetriolum, compare per la prima volta intorno al VII-VIII secolo d.C., e deriva dal classico vitreolus. Con questa radice etimologica possiamo pensare che il nome trovi origine dall’aspetto vetroso assunto dai solfati di rame e di ferro cristallizzati. Per quelli di rame è di colore azzurro intenso (per questo detto anche vetriolo azzurro o di Cipro o di Venere, la dea portata verso l’isola dalle azzurre onde del mare, ma anche il pianeta di riferimento del rame) mentre nel solfato di ferro è di colore verde azzurro (vetriolo verde o marziale, perché Marte è il pianeta di riferimento del ferro). Sarà quest’ultimo, lo vedremo tra poco, il vetriolo protagonista del racconto.

Solvente universale

Sia il vetriolo di rame che il vetriolo di ferro erano conosciuti ed utilizzati dagli Egizi e dai Greci, anche se non sotto questo nome. Forse il famoso natron, che serviva ad imbalsamare i corpi, ne conteneva una certa quantità. L’immancabile Plinio il Vecchio, nella sua Historia Naturalis, menziona una sostanza che chiama «vetriolo« e ne descrive l’estrazione «dalle acque ramifere».

Questo nome comprende, e confonde, in realtà, una vera e propria famiglia di composti. Ecco allora che bisogna chiamare in causa anche l’alchimia poiché esso, chiamato vetriolo filosofico, indica nulla di meno che il Solvente Universale, e cioè tutti quei composti chimici che consentono di avviare la procedura condensata nella nota formula «solve et coagula».

Per questo le sue origini si perdono nella notte dei tempi, essendo indicato come tale, ma anche con tantissimi altri nomi, in tutti i trattati di Arte Regia. La prima sintesi del vetriolo come Solvente Universale, cioè come acido solforico, la si deve all’alchimista islamico Ibn Zakariya al-Razi che lo ottenne per distillazione a secco di minerali contenenti ferro e rame.

Per completezza simbolica bisogna citare anche l’acronimo, V.I.T.R.I.O.L., che compare nell’opera Azoth del 1613 dell’alchimista Basilio Valentino. Il suo svolgimento è: «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», cioè «Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta». La frase simboleggia la discesa all’interno dell’essere per operare con rettitudine alla ricerca del proprio gioiello interiore.

Intatto

E allora concludiamo la parabola dell’apocatastasi benjaminiana, con il bel racconto di Hebel di cui il vetriolo marziale è protagonista. Siamo a Falun, in Svezia, presso le miniere di ferro. Due giovani sono innamorati e presto si sposeranno. Lui però è un minatore ed un giorno non torna più: la miniera è crollata. Passano gli anni e la fidanzata gli rimane fedele. Dopo decenni, in cui il tempo lavora sulla materia vivente, ecco che dalla vecchia miniera riemerge il corpo del minatore: è intatto poiché il vetriolo lo ha imbalsamato nel momento della giovinezza. Mentre lo seppellisce esclama: «Dormi in pace adesso, un giorno ancora o forse dieci, in questo fresco letto nuziale, e non ti sembri lungo il tempo. Mi restano soltanto poche cose da fare, e presto verrò, presto sarà di nuovo giorno. Ciò che la terra ha già una volta reso, una seconda non lo tratterrà». Tutto è giusto e perfetto.

il manifesto/Alias – 21 luglio 2018

martedì 17 luglio 2018

Raffaele K. Salinari, Erotismo e xenofobia



La paura dello straniero come paura della vita. Una riflessione sulle pulsioni di morte che agitano nel profondo la nostra società e di cui l'odio straripante dalle pagine di Facebook è una delle manifestazioni più chiare.

Raffaele K. Salinari

Erotismo e xenofobia

Erotismo e xenofobia, due sentimenti a volte totalizzanti, che mai comunque lasciano indifferenti. La loro relazione è profonda poiché sono l’uno il risvolto dell’altro. Se l’erotismo è, secondo la celebre definizione di Bataille «portare la vita sin dentro la morte»la xenofobia, al contrario, può essere considerata un «portare la morte sin dentro la vita». Quando, infatti, analizziamo l’essenza dell’uno e dell’altra, ci accorgiamo che hanno la stessa matrice. L’erotismo è una forza creatrice, poietica, potentissima, messa dalla Vita, dalla Zoé senza caratterizzazioni, a disposizione della nostra specifica e caratterizzata Bios umana,affinché la sua continua ricombinazione la faccia prosperare.

Per questo Eros è una divinità antica, nata quando tutto al mondo aveva una forma ed un nome, una ipostasi che ricadeva nell’immenso e pauroso dominio del sacro e del numinoso. Nelle civiltà arcaiche ogni Potenza, sentimento o fenomeno della natura fisica o metafisica che fosse, era allora un dio o una dea, una ninfa o un daimon, a significare così la possibilità stessa della relazione tra l’umanità e queste forze.

Dalla loro conoscenza e riconoscimento nasceva, in primis, il rispetto che gli si doveva, pena la punizione per averle offese. In questo senso, il massima peccato nel mondo classico, l’unico in comune anche con la morale giudaico cristiana, è appunto quello di hybris: la presunzione umana di oltrepassare i limiti imposti dall’ordina cosmico, immutabile, delle cose. Gli dei punivano gli uomini per causa della loro tracotanza, sempre, mentre altri peccati, o almeno considerati tali dal cristianesimo, potevano venir giudicati altrimenti. Dante mette Ulisse nella bolgia dei fraudolenti, non certo tale lo consideravano Omero e gli dei a lui favorevoli. Ma anche Dante punisce la tracotanza, come gli antichi.

L’hybris, dunque, è questo non riconoscimento del limite e, per analogia, delle forze naturali che governano ed ordinano la vita degli uomini. Massima saggezza, allora, deriva dal riconoscimento dell’ordine delle cose, mentre massima pena è comminata per il suo superamento, dovuto ad ignoranza o presunzione. Eros, dunque, non a caso, in alcune cosmogonie è posto come figura protogena, come vero e proprio Demiurgo della creazione.

Poi, con la trasformazione del divino in qualcosa di sempre più lontano, col crescente protagonismo dell’umanità che si allontana dalla Natura per sottometterla, illudendosi così di uscire così dal suo ciclo vitale, in una parola: il passaggio dalla Grande Dea al Pantheon greco, ecco Eros degradato a semplice strumento di Afrodite, Dea comunque dell’Amore e della Bellezza, anch’essa in debole continuità cosmologica con la Grande Dea ricreatrice, il cui epigono cristiano è la Madre di Dio.

E allora, se Eros era, ed è, tutto questo, la sua funzione è chiaramente ricombinatoria e dunque, per definizione, xenofila. Èdalla diversità che la Vita trae la sua forza, è dalla sintesi tra opposti che trae alimento; per questo le sue Bios sono miliardi, e tutte leggermente diverse l’una dalle altre. Sul piano umano esisterebbe l’attrazione tra genti diverse se tutto questo non servisse alla Vita? A cosa serve la differenza culturale se non a dare alla nostra specie una chance in più? Ecco che tutto quello che attrae fa anche paura, come pure quello che fa paura attrae, poiché è tra queste polarità che scorre il novumdella vita.

Questo rappresenta lo Straniero, la Straniera, anche se il suo incontro significa a volte tradire, cioè portare altrove, la propria appartenenza. Lo Straniero è l’agente per antonomasia del sovvertimento, a volte violento, degli equilibri stantii ma che, inevitabilmente, porta ad altri equilibri, che a loro volta dovranno essere rotti. Ciò che cambia permane, ciò che si fissa decade, ci ricorda Lao Tzu.

Per questo sono tragiche le figure delle eroine e degli eroi nella mitologia classica; compiono scelte di rottura,  gesti emblematici del sovvertimento: non hanno forse tradito i loro popoli affinché la storia potesse ripartire? Elena ha creato i presupposti di Roma, come pure Latino nel dare Lavinia in sposa ad Enea il profugo troiano. Medea ha aperto all’Occidente le porte dell’Oriente attraverso l’amore criminale con Giasone, mentre Arianna decreta nella relazione con Teseo la fine di Creta e l’affermazione del dominio Greco nel Mediterraneo.

Tanto più lontane le culture che si incontrano, che si mischiano, tanto più ampio l’orizzonte della Vita. Ecco perché, al contrario, la xenofobia è una pulsione prepolitica, scaturita, se non dalla morte dell’Eros, certo dalla sua mortificazione. Da cosa nasce, infatti? Dall’ansia di non poter essere sempre uguali a se stessi, dallo sgretolamento della falsa rassicurazione insita nella ripetizione. Lo straniero rimette continuamente in discussione non tanto lo statusidentitario quanto il suo stallo.

Ma senza cambiamento non si vive, al massimo si tira a campare. E senza alterità chi ci dirà chi veramente siamo? Senza questo non potremo mai incontrare eroticamente l’altro. E dunque, se lo straniero tocca in superficie la nostra realtà materiale e la sua espressione culturale, nel profondo fa emergere la frustrazione erotica, il fatto che la soddisfazione che si cerca nel consumo e nella ripetizione di sé non genera più nessuna potenza libidica profonda, appagante, anzi, nutre e si nutre del suo contrario nevrotizzato.

La xenofobia è allora una nevrosi fobica da fissazione necrica che bisogna rivoltare rivoltandosi ad essa. Lo straniero, il suo corpo, la sua aura, svelano con la loro presenza, con la loro capacità di attrazione-repulsione, che il nostro erotismo è congelato come quello dei nostri avatar-manichini, pietrificato dagli occhi di Medusa delle vetrine nei centri commerciali.

Lo straniero potrebbe distoglierci da questo incantamento, magari chiedendoci qualche soldo, o passandoci accanto con un odore diverso, con parole incomprensibili, con gesti che non capiamo; portarci verso l’orizzonte dell’avventura libidica, dell’oltre, dell’immaginale, di un altro noi stessi. Ma questa vaga consapevolezza viene, ancora una volta, intercettata dalla merce, che ci da la sua eterna e soporifera risposta: consumami e sarai soddisfatto, allontana da te il diverso, a meno che tu non lo possa comprare; respingi, l’idea di una soddisfazione attraverso l’apertura all’altro, non rischiare l’incontro con una libido della trasformazione, dell’ibridazione.

Resta con me, con la tua roba, con l’aria stantia della vecchia casa che nessun condizionatore potrà rinfrescare. La merce cerca di mortificare in questo modo l’erotismo; la xenofobia è il suo dispositivo politico. Dunque, Eros contro Thanatos; e così, ancora una volta, ancora per una ri-volta, egli ci chiama a diventare tutti stranieri a noi stessi perché la Vita che vive nei corpi sarà erotica o non sarà.

http://tysm.org/erotismo-e-xenofobia/


sabato 14 luglio 2018

Chi ha paura dell'arte contemporanea?




CHI HA PAURA DELL’ARTE CONTEMPORANEA?
a cura di Giuliano Galletta e Sandro Ricaldone
Entr'acte via sant'Agnese 19R – Genova
18 luglio – 15 settembre 2018

orario luglio e settembre giovedì-venerdì 16-19
agosto chiuso
inaugurazione: mercoledì 18 luglio, ore 18

L’indicatore del denaro, il più usato e abusato nel nostro tempo, sembrerebbe porre l’arte contemporanea in vetta ai valori della società di oggi. I risultati d’asta dei cosiddetti artistar mostrano come, se non altro a livello speculativo, l’arte odierna raggiunga quotazioni di vertice. Ma, escludendo le elites finanziarie, l’apprezzamento del pubblico risulta decisamente più sfuggente, tanto da far pensare che, in generale, la propensione all’innovazione così diffusa al livello delle nuove apparecchiature tecnologiche (computer, smartphone e simili) non si estenda al settore artistico e che la grande maggioranza delle persone vorrebbe che l’arte fosse sempre la stessa. La contraddizione di un simile atteggiamento è palese: seguendo questo criterio non avremmo né Giotto né Leonardo, Caravaggio o Monet, ci arresteremmo ai primi dipinti rupestri. Gli artisti di ogni epoca hanno esplorato il mondo delle forme (e delle idee) in rispondenza alle peculiarità del loro ambiente e del periodo storico in cui hanno vissuto.

Al presente, mentre talune realtà integrano l’arte contemporanea in un processo dinamico di trasformazione urbana, altre – come la nostra – hanno assunto, nel loro insieme, un atteggiamento di indifferenza, se non di rifiuto, verso la creazione artistica attuale. “Who’s afraid of the big bad wolf?” recitava la canzone di Frank Churchill e Ann Ronell inserita in un celebre cortometraggio disneyano.

Per i genovesi l’arte contemporanea è il lupo cattivo da cui ci si deve proteggere rinchiudendosi fra le pareti inalterabili della pittura del Seicento?

CHI HA PAURA DELL’ARTE CONTEMPORANEA? 
Diciotto artisti hanno contribuito con le immagini di loro opere recenti alla realizzazione di altrettanti manifesti che saranno esposti nello spazio non profit di Entr’acte dal 18 luglio al 15 settembre. 

ROBERTO AGUS – FRANCESCO ARENA – BEPPE DELLEPIANE – GIULIANO GALLETTA & THOMAS GORI – MAURO GHIGLIONE – VINCENZO LAGALLA – GIULIANO MENEGON – CARLO MERELLO – PIETRO MILLEFIORE – MAURO PANICHELLA - LORENZO PENCO – ANGELO PRETOLANI – ROBERTO ROSSINI – ANTONELLA SPALLUTO – CHRISTIAN TRIPODINA – GIULIA VASTA – LUCA VITONE

giovedì 12 luglio 2018

Bizantini sulle Langhe. Santa Maria dell'Acqua Dolce



Echi bizantini nell'Alta Langa. Santa Maria dell'Acqua Dolce

Giorgio Amico

Santa Maria dell'Acqua Dolce


Ci sono luoghi che al visitatore che ci arriva per la prima volta danno immediatamente un senso di pace e di appagamento simile al sentimento che si prova incontrando una persona cara che non si vedeva da tanto tempo. Sono luoghi dell'animo capaci di risvegliare ricordi e suscitare echi profondi.

E' l'impressione che al primo sguardo ci ha fatto Santa Maria dell'Acqua Dolce di Monesiglio, splendida chiesa romanica persa fra campi e boschi, dal x secolo luogo di accoglienza e ristoro di pellegrini e viandanti. Un romanico purissimo ed elegante, ancora ben visibile nella zona absidale.


Un luogo caro agli abitanti che lo custodiscono gelosamente e, splendida sorpresa, lo offrono alla visita di chi, come noi, ci arriva quasi per caso e pensa di trovarlo, come ormai quasi dappertutto accade, chiuso.


E davvero questa attenzione al viandante, retaggio della tradizionale e antica ospitalità della gente di Langa, è una felice sorpresa. Perché questa chiesetta incastonata nel verde conserva un vero tesoro.


Appena entrati, sulla navata destra ci accoglie un affresco del XV secolo di autore ignoto, ma di buona fattura. Una Madonna dolcissima contornata da San Giovanni Battista e Sant'Antonio Abate.


Ma è nell'abside il vero tesoro. Un ciclo di affreschi, fra i più antichi dell'intero Piemonte, coprono il catino absidale e ricordano per la fattura che lungo queste colline correva il limes bizantino che in Mombasiglio trovava un fondamentale asse strategico.



Evidente è l'influsso bizantino nei volti e nel simbolismo.


Straordinaria la figura del Cristo in trono rappresentato nell'atto di offrire le chiavi del potere a Pietro e il libro del sapere a Giovanni. E' la Traditio legis, una rappresentazione dai profondi significati simbolici, tipicamente bizantina e che dunque testimonia dell'antichità del luogo, già citato in un documento del 998 come pieve, chiesa battesimale dell'intero territorio.



mercoledì 11 luglio 2018

Elio Lanteri. Un'occasione persa.




Giorgio Amico

Elio Lanteri. Un'occasione persa.

La Riviera Ligure, rivista della Fondazione Mario Novaro, dedica il suo ultimo numero alla figura e all'opera di Elio Lanteri, scrittore ponentino scomparso nel 2010, ultimo illustre rappresentante di quella “scuola ligure” che ha avuto in Guido Seborga e Francesco Biamonti i suoi principali rappresentanti. 

Una preziosa occasione di ri/scoprire un autore significativo, ma ancora poco conosciuto e non solo dal grande pubblico. Un'occasione in larga parte mancata per il taglio banalmente aneddotico di gran parte degli interventi, fatti salvi un paio di contributi di peso come quello “storico” di Claudio Panella e quello “critico” di Gian Luca Picconi. 

Eppure di cose interessanti da scrivere ce ne sarebbero state. Pensiamo al rapporto fra Lanteri e una realtà non facile come quella ponentina, in particolare quell'Imperia bottegaia e bigotta che ostinatamente e orgogliosamente in ogni occasione (vedi il porto turistico o le elezioni comunali) riesce a dare il peggio di sé . 

Gli interventi si limitano invece alle frequentazioni da parte dello scrittore del Caffè Piccardo e del Bar del Porto. Interessanti, certo, per chi ama il genere” eravamo quattro amici al bar”, ma non certo esaustivi per comprendere la difficoltà (e lo sforzo, intellettuale e etico) di mantenersi liberi e critici in un contesto sociale e culturale non proprio esaltante. 

Neppure un rigo poi su come lo scrittore, militante sindacale e dirigente PSIUP, visse la stagione delle lotte studentesche e operaie di quel lungo '68 che anche nel nostro Ponente ha espresso figure di grande spessore politico e culturale, come (per citarne una) il sanremese Oscar Marchisio. 

Trattandosi della vita non di un letterato disincarnato (ammesso che ne esistano realmente), ma di un militante operaio, per di più sindacalista di professione, forse sarebbe stato logico attendersi qualcosa di meglio. Anche solo per capire davvero l'uomo e il contesto in cui matura piano piano la sua opera che, come sappiamo, fu tardiva. 

Ed invece nulla. Il politicamente corretto regna sovrano per novanta pagine fra banalità e sbadigli in una melassa di ricordi edulcorati da talk show televisivo. Insomma, un'occasione persa.