TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 23 aprile 2024

Sulla tradizione

 


Sulla tradizione


"In questi ultimi tempi, la destra sta puntando su due suoi valori secondari: la repressione e la censura. E ci distrae dai veri pilastri del pensiero reazionario: il culto della morte, la difesa della terra, il mito del sangue e l’ossessione per l’origine. Ma soprattutto la fissa per le tradizioni. Le tradizioni, per la destra, sono nate nella notte dei tempi. Sono date agli uomini quasi per grazia divina. E si mantengono uguali nello spazio e nel tempo. Ma se presentano variazioni, occorre considerare migliore la versione più antica. Nulla di più falso".

Così scrive un carissimo amico (di cui non cito il nome perché si firma con uno pseudonimo) nell'incipit di un suo post molto intrigante sulla tradizione musicale irlandese. Riflessione interessante che mi porta a mettere giù un paio di considerazioni sul tema.

Il tema della tradizione è in effetti centrale nel pensiero di destra, tanto centrale da rappresentare il principale discrimine fra destra e sinistra.

Mi spiego meglio. Per chi voglia, come scrive Dante, vivere seguendo virtute e conoscenza, è fondamentale collocare il proprio agire materiale e intellettuale a partire da un punto di riferimento ideale. È proprio questo modello ideale che determina il carattere virtuoso e razionale del proprio agire nel mondo. Una sorta di Stella polare, insomma, che permetta nei momenti critici di fare il punto e tracciare con sicurezza la rotta.

E questo vale a maggior ragione per il pensiero politico, sia di destra che di sinistra.

Destra e sinistra da non confondersi con le evanescenti rappresentazioni attuali fondate su prospettive di cortissimo respiro calcolate in base alle proizioni statistiche, all'audit televisvivo o al numero di followers in rete.

Questo punto di riferimento, questa Stella polare, è identificato in una società ideale armonica che superi le contraddizioni dello stato di cose presente. Aspirazione profondamente umana, esistenziale prima che politica, ben esemplificata da Francesco Biamonti con il suo "è destino dell'uomo vivere un mondo ma sognarne un altro". Forma laica, comunque, di una visione religiosa della vita tipica del mondo premoderno. Visione che, a differenza della sua versione laica riusciva a fondere armonicamente passato e futuro. Ce lo insegna in modo magistrale Agostino quando riflette su come l'uomo viva nel presente con il ricordo del passato (l'annunciazione) e l'attesa del futuro (l'avvento).

I laici questa sintesi non l'hanno saputa fare e di conseguenza, tanto per metterla giù semplice, si sono divisi fra chi vive nel presente guardando al passato (la destra) e chi al futuro (la sinistra).

Proprio in questa radicale divergenza sta la differenza fra le due correnti di pensiero, o meglio tra i due modi di stare nel mondo. Uno stare nel mondo che, come dice Paolo, cercando così di mettersi al riparo dalle contraddizioni del tempo vissuto che sono comunque sempre anche contraddizioni dell'Io, che doveva però essere vissuto come un "non essere del mondo".

L'età dell'oro, il mondo dell'armonia, dove le infinite separazioni e contraddizioni che segnano il mondo reale siano finalmente superate, la destra la colloca nel passato come un qualcosa di perso, ma che può essere individualmente recuperato a partire da uno stile di vita coerente con questa visione. Non a caso Guénon e Evola parlano dell'epoca presente come età del ferro (Kali Yuga) segnata dalla materialità e dalla perdita di ogni valore ideale. La sinistra proietta invece questa età dell'oro nel futuro e dunque lo stare nel presente come costruttori di progresso. La storia vera dell'uomo, dice Marx, inizierà solo con il comunismo. Da qui il dibattito, oggi stantio ma in passato vivissimo, sul partito come prefigurazione nei rapporti fra i militanti della società che si vuole costruire.

Naturalmente questo duplice riferimento è sempre più radicale, tanto più estrema è la visione politica, fino a diventare totalizzante in realtà come, tanto per citare due esempi, Ordine Nuovo (quello rautiano ovviamente) da un lato e le chiesuole bordighiste dall'altro. E chiesuola non è termine messo lì a caso.

Detto tutto questo, è evidente come l'ottimismo (l'ottimismo della volontà di Gramsci) sia tipico della sinistra come consolazione dei mali di un presente fosco ma aperto a un futuro che si pensa radioso. Forma laica, qualcuno potrebbe non a torto dire, della tradizione messianica giudaico-cristiana. Anche in questo contesto, tuttavia, la deificazione della Tradizione fa capolino. Penso a Bordiga per il quale il marxismo nasce già integrale e "invariante" tanto che ogni sviluppo o mutamento anche di una minima parte significa tradirne l'essenza profonda.

Collocare l'età dell'oro in un passato lontanissimo significa invece non avere più alcuna illusione sulla possibile evoluzione in positivo del presente, e dunque, come scrive Evola, restare in piedi fra le rovine, coltivando il ricordo, perso dalle masse, di quel periodo aureo in cui gli uomini erano veramente uomini integrali. Da qui il vedersi come parte di una aristocrazia dello spirito (sempre per citare Evola) fondata sulla Tradizione, ma anche il culto della morte. La via del guerriero ,insomma, sia quella individuale del ronin (il samurai senza signore) o quella collettiva del templare (il membro di una comunità che prega e combatte). Da qui la "fedeltà" come valore assoluto fondante l''onore, l'identificazione con chi sta dalla parte perdente della storia (i sudisti, i repubblichini, i parà francesi) e pur sapendolo accetta il combattimento, "a cercare la bella morte" come forma estrema di coerenza.

E' evidente l'importanza in questa visione del rispetto integrale dei singoli elementi della Tradizione. E dunque – come per Bordiga sull'altro versante – innovare è sempre tradire. Mishima si uccise ritualmente per ricordarlo ad un Giappone che lo aveva dimenticato.

Altra cosa sarebbe poi ragionare su come si colloca in questo contesto la Massoneria che raccoglie e cerca di sintetizzare entrambi gli elementi, quello delle origini (la parola perduta) e quello del futuro (una società veramente umana fondata sul trinomio libertà-eguaglianza-fratellanza).Una ambiguità che ha fatto si che la Massoneria possa, a buon titolo, essere vista sia come fenomeno di destra che di sinistra.

In realtà si tratta di una ambiguità solo apparente, ma cercare di spiegare il perché porterebbe molto lontano e richiederebbe molto più spazio e quindi rimandiamo il discorso ad un'altra occasione.

Giorgio Amico

sabato 20 aprile 2024

Balma Boves, vecchie pietre calde d'amore


 
Balma Boves, vecchie pietre calde d'amore.


Balma Boves, un luogo magico se guardato con gli occhi del turista, ma anche testimonianza muta di una vita incomprensibile oggi, fatta di fatica e miseria, dove anche il poco era un piccolo segno di distinzione.

Ci si arriva con un sentiero prima largo, con mucche pigre che ci guardano passare con l'espressione di chi non si stupisce di nulla perché è in sintonia profonda con ciò che lo circonda: il pascolo, il cielo, la valle e i monti tutto intorno. 















Le mucche suscitano ogni volta in noi sensazioni strane, da quando, sempre in montagna, io e Vilma vedemmo caricare a forza un vitello su un furgone mentre altre mucche attorno muggivano disperate, circondavano quegli uomini, cercavano di spingerli via con il muso, consapevoli che quello sarebbe stato un viaggio senza ritorno. Restammo lì, muti e tristi, finché il furgone non fu partito con le mucche che continuavano a muggire. Un coro straziante, quasi umano o meglio totalmente umano. Da allora abbiamo guardato le mucche con occhi diversi, occhi di chi ha scoperto all'improvviso che la sofferenza è una condanna universale che non risparmia nessuno.

Il sentiero termina con una grande cascina, ora abbandonata, per trasformarsi in una stretta mulattiera fatta di pietre secolari che costeggia la roccia, passa sotto una cascata e sbocca in uno spiazzo in salita sotto un'enorme volta di pietra.












Balma Boves, tre case, una sorgente, una cantina, un forno. Case primordiali, fatte di pietra e fango, finestre senza vetri, piccolissime stanze con poca luce e pochi mobili e oggetti. Giusto il necessario per la sopravvivenza.

Non ci sono letti, si dormiva nella stalla scaldati dal fiato degli animali. E neanche tavoli. Gran parte dello spazio è dedicato agli animali o a far seccare le castagne, alimento fondamentale per quella gente.

Una vita durissima, impensabile oggi.

Eppure per secoli lì uomini e donne hanno vissuto, si sono amati, hanno fatto crescere figli. Un po' di quell'amore si coglie ancora, guardando la più grande di quelle case: due piani con un ballatoio che guarda la valle, bellissima e verde, che si apre sotto.

La guida ci racconta che quel secondo piano, fatto di due stanze più grandi e luminose, è stato costruito per ultimo in epoca abbastanza recente (la Balma è stata abitata fino agli inizi degli anni '70), da uno dei figli per viverci con la giovane sposa che aveva trovato in vallata.



Ora ospitano un piccolo museo della vita contadina che ha l'aria malinconica delle foglie appassite, ma mantiene ancora le vibrazioni forti dell'amore che aveva portato quella giovane donna, di cui non sappiamo nulla, ma che ci piace pensare bella e ridente, ad abbandonare la vita più facile dei paesi della valle per condividere con il suo compagno la durezza di un'esistenza fatta di fatica e sacrifici. Un po' di quell'amore è rimasto a scaldare le pareti, le uniche intonacate di tutto il piccolo villaggio, sufficiente a dare speranza a chi sa cogliere che anche in quel luogo, di una bellezza estrema ma terribile, c'è stata gioia e corpi intrecciati nell'atto d'amore e risate di bimbi.

Andare a Balma Boves è un ritorno alle origini, al senso autentico della vita, alla sua sacralità. Se ne ritorna un poco rigenerati nel mondo comodo ma avaro d'amore delle nostre città. Più fiduciosi nella forza misteriosa della vita che lega tutto ciò che esiste, dentro e fuori di noi.

Ancora una volta il cammino si è rivelato esperienza intima, prova iniziatica, viaggio alla ricerca di ciò che ci rende ciò che siamo.


venerdì 12 aprile 2024

Quando in Unione Sovietica scomparve lo Stato

 


Nel gennaio 1960 l'Unità con un articolo in prima pagina annunciava  con toni trionfalistici che in Unione Sovietica si era ormai giunti alla piena realizzazione del comunismo e all'estinzione dello Stato a partire proprio dal Ministero dell'Interno e dell'apparato repressivo. Per il PCI un'ulteriore conferma che l'URSS era il paese più libero e democratico del mondo.

Il Quaderno, che comprende, oltre a una nostra introduzione, la riproduzione della prima pagina de l'Unità del 14 gennaio 1960 e l'articolo integrale di Giuseppe Boffa, può essere scaricato dal sito www.academia.edu..

domenica 7 aprile 2024

ULRICH ELSENER alla Galleria Entr'acte

 


Sandro Ricaldone (curatore della mostra)
  

ULRICH ELSENER
einfarbig aber nicht eintöning
(monocromo, non monotono)
a cura di Sandro Ricaldone
Entr’acte
via sant’Agnese 19r – Genova
10 aprile – 3 maggio 2024
orario: mercoledì- venerdì 16-19
inaugurazione:
mercoledì 10 aprile, ore 17


Ulrich Elsener (Biel 1943) è conosciuto a Genova, dove vive e lavora da decenni, in alternanza con Zurigo, per le mostre tenute in gallerie (Studio Leonardi, Spazio Della Volta, Artré, Entr’acte) e in spazi pubblici (Galata Museo del Mare, Palazzo Ducale), imperniate su fasi diverse del suo percorso creativo: le “immagini d’ombra”, le “maschere”, i “volti-paesaggi”.

L'artista, tuttavia, ai suoi esordi, sul finire degli anni Sessanta e lungo il decennio successivo, si era brillantemente affermato coltivando i modi della pittura concreta, dominante in Svizzera nel secondo dopoguerra. A quel tempo si riporta appunto la mostra ora allestita da Entr’acte attraverso un “oggetto” (acrilico su pannello) e quattro serigrafie, oltre a una copiosa raccolta fotografica e documentale.
Si tratta di lavori che in occasione di una personale tenuta alla Galerie Impact nell’aprile 1972 venivano così appropriatamente descritti in un articolo (siglato J.D.R) comparso sulla Gazette de Lausanne:
“La gradazione dei toni nelle composizioni si basa su una curva logaritmica, che permette di calcolare le intensità dei colori. Gradazioni così sottili potrebbero essere ottenute con una stima ottica, ma Elsener preferisce una risoluzione matematica all'empirismo dell'occhio. L'originalità della ricerca di questo artista, fortemente influenzato dalla Minimal Art, risiede più nell'integrazione dell'oggetto nell'ambiente che nel fenomeno ottico derivante dalla successione di bande monocromatiche, vere e proprie gamme di grigi o di blu. L'oggetto conquista lo spazio e la gradazione serve a favorire l'esplosione o l'implosione visiva della proposta. Una ricerca di questo tipo, basata sul carattere poliforme e sulla variazione progressiva o decrescente del contrasto, sembra aprire nuove prospettive nell'integrazione dell'arte con l'architettura”. 

Antifascisti savonesi nella guerra di Spagna


 Scaricabile dal sito www.academia.edu

Malcom X, gli afroamericani e le lotte dei popoli di colore

 



Nel 2012 la Federazione del Partito della Rifondazione Comunista di Savona tenne una Scuola di politica sul tema dell'Africa. Il corso si tenne nella Sala conferenze del Comune di Savona,  la Sala Rossa, con una buona partecipazione di pubblico Fra i relatori spiccava il Professor Raffaele Salinari, medico, docente universitario e esperto, grazie ad una lunga esperienza di volontariato in Africa, di cooperazione internazionale. 

Il mio contributo fu una lezione incentrata sulla realtà della minoranza afro negli Stati Uniti e sulla figura di Malcom X, uno dei temi centrali della mia tesi di laurea discussa nell'ormai lontano 1975.

Ne derivò una dispensa che riprendeva sintetizzandolo il contenuto della relazione e che da oggi è disponibile sul sito www.academia.edu nella pagina che raccoglie i miei lavori. 

G.A.


mercoledì 3 aprile 2024

I trotskisti italiani e il Maggio francese

 



L'ondata di occupazioni che tra la fine del 1967 e la primavera del 1968 travolgono l'intero sistema universitario italiano sembrano offrire ai trotskisti, raccolti nei Gruppi comunisti Rivoluzionari (GCR) e ancora operanti in modo semiclandestino all'interno del PCI, nuove confortanti prospettive di sviluppo. I GCR tentarono di affrontare la nuova situazione in un convegno del marzo ’68, destinato a stabilire se la tattica "entrista", praticata fin dalla fondazione dell'organizzazione, avesse ancora senso. Insomma, per dirla gramscianamente, se dalla guerra di posizione si dovesse passare alla guerra di movimento.

La conferenza portò alla luce le profonde divergenze esistenti all'interno della sezione italiana della Quarta Internazionale e anche i contrasti, non solo politici ma anche personali, che laceravano il suo gruppo dirigente dove una generazione di giovani quadri sempre più insoddisfatti del tatticismo esasperato di Livio Maitan stava emergendo a Roma e Milano. Una insofferenza acuita due mesi più tardi dai fatti francesi.

Il Maggio, di cui i gruppi trotskisti erano stati la forza trainante, mostrava che la stagione dell'entrismo era finita e che la lotta aperta contro partiti comunisti ancora profondamente stalinisti pagava.

Livio Maitan, fondatore e leader storico dei GCR, ritenne che i fatti francesi potessero da soli risolvere la situazione. Le risorse finanziarie, sempre piuttosto scarse, dei GCR furono impegnate nel fornire una informazione di prima mano mettendo in risalto il ruolo importante svolto dai trotskisti e la necessità, contro ogni tentazione spontaneistica, di una organizzazione ancorata ai tradizionali principi leninisti. Da qui il numero speciale della rivista teorica "Quarta Internazionale", interamente dedicato al Maggio. Seguirono poi alcuni opuscoli pubblicati dalla nuova casa editrice Samonà e Savelli, di fatto un'emanazione dei GCR di cui i due editori erano militanti.

Iniziativa sicuramente meritevole che permise di far conoscere meglio ciò che stava accadendo in Francia a una generazione di giovani che stava passando da una fase puramente rivendicativa, quasi di sindacalismo studentesco, ad un più complessivo impegno politico fortemente declinato in chiave rivoluzionaria.

Del tutto insufficiente invece a far superare la crisi che travagliava l'organizzazione trotskista, tanto che immediatamente dopo l'estate i GCR implosero dando vita a una miriade di nuove organizzazioni, da Servire il Popolo a Avanguardia Operaia, caratterizzate da un passaggio repentino dal trotskismo al maoismo.

Dei vecchi GCR restarono attivi solo dei piccoli nuclei in una decina di città. La grande ondata di lotte operaie dell'anno successivo permetterà un rilancio dell'attività con risultati non disprezzabili soprattutto a Torino, ma insufficiente a far uscire l'organizzazione dalla condizione di marginalità in cui si la crisi del '68 l'aveva precipitata.

Altri erano ormai i punti di riferimento di un movimento che pareva inarrestabile. Il Movimento studentesco della Statale e i nuovi partitini - dal Manifesto, a Potere Operaio, da Lotta Continua ad Avanguardia Operaia fino all'ultrastalinista e caricaturale Servire il Popolo – avrebbero monopolizzato almeno fino alla metà degli anni Settanta l'ambito della sinistra rivoluzionaria.

A differenza dei loro compagni francesi, i trotskisti italiani avevano perso l'occasione per diventare una reale alternativa al Partito comunista. Un fallimento di cui Livio Maitan , dal 1949 leader incontrastato della sezione italiana della Quarta, portava non poche responsabilità. Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia.



G.A.


il quaderno è liberamente scaricabile dal sito www.academia.edu

venerdì 29 marzo 2024

Avanguardia Operaia. Reprint del primo numero (Dicembre 1968)




Avanguardia Operaia, o meglio l'Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia (sigla OCAO), nasce a Milano nel 1968 nel quadro della disintegrazione avvenuta in quell'anno dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari (GCR), la sezione italiana della Quarta Internazionale.

Abbandonato il campo trotskista in favore di un maoismo moderato, ben lontano dalle pagliacciate dei gruppi m-l, come "Servire il Popolo" di Aldo Brandirali paradossalmente proveniente dallo stesso ambito trotskista milanese, AO prende presto carattere nazionale unificandosi via via con gruppi e collettivi di Torino, Venezia, Perugia, Roma, Napoli e aprendo sedi in città importanti come Genova.

Già dal dicembre 1968 editerà una rivista teorica dallo stesso nome, di cui in previsione di un quaderno interamente dedicato a ricostruire storia e posizioni dell'organizzazione, presentiamo in questo quaderno il primo numero.

Della rivista usciranno 27 numeri per essere poi sostituita nel febbraio-marzo 1973 da una nuova rivista: "Politica comunista". Nel frattempo, a partire dal 1971 al mensile si affiancherà un foglio di agitazione dal titolo simile, "Avanguardia Operaia, giornale di agitazione comunista", con cadenza prima quindicinale e poi settimanale, a sua volta sostituito a partire dal 1974 dal giornale "Quotidiano dei lavoratori" che cesserà le pubblicazioni nel 1979.

Quanto all'Organizzazione politica, dopo un lacerante e confuso dibattito interno, di cui il pamphlet polemico "I senza Mao" di Silverio Corvisieri resta efficace testimonianza, Avanguardia Operaia si scioglierà nel 1977 per confluire nel processo di formazione di Democrazia Proletaria.


Il quaderno è liberamente consultabile e scaricabile dal sito www.academia.edu


domenica 17 marzo 2024

La sinistra italiana e Stalin

 


Simul stabunt vel simul cadent.

La sinistra italiana e Stalin





In questo quaderno pubblichiamo, riprendendolo dagli atti parlamentari, il resoconto delle sedute che il 6 marzo 1953 Senato e Camera dei deputati della Repubblica dedicarono alla commemorazione di Stalin. Una documentazione importante non solo per comprendere meglio il clima di quel particolare momento della storia politica italiana, ma anche per approfondire la conoscenza di alcuni degli esponenti principali di una sinistra quasi interamente asservita allo stalinismo e alla propaganda sovietica.

L'intervento di Scoccimarro in rappresentanza del Partito comunista ne è forse l'esempio più chiaro e, nella sua brutale ottusità ideologica, segna una delle pagine più buie della storia del Senato. Il discorso dell'esponente comunista, che riprende senza batter ciglio una ad una le peggiori menzogne della propaganda staliniana, al punto di esaltare come una conquista della civiltà quella collettivizzazione forzata delle campagne costata la vista a milioni di piccoli contadini, è paragonabile per il disprezzo della verità e dell'autorità morale del Parlamento solo ai discorsi tenuti nella stessa aula da Benito Mussolini negli anni infausti della dittatura. E non cambia ovviamente nulla che l'esponente comunista fosse fanaticamente convinto delle sue idee. Anche Mussolini era convinto di ciò che sosteneva e di essere la guida di una rivoluzione di tipo nuovo che avrebbe trasformato in meglio l'Italia. Insomma, anche se espresse in buona fede, le menzogne restano comunque menzogne.

Che dire poi della celebrazione apologetica di Pertini, che interviene per il Partito socialista ? Frase dopo frase vediamo crollare il mito costruito su di lui durante e dopo gli anni della Presidenza della Repubblica, portando alla luce il cinismo di quello che fu in realtà un politico mediocre, prima autonomista, poi stalinista, poi di nuovo autonomista. A differenza di Nenni, personaggio altrettanto contraddittorio ma che ragionava secondo una visione politica di prospettiva, Pertini si dedicò soprattutto a difendere la rendita di posizione derivante dal suo comunque importante passato antifascista, appoggiando di volta di volta chi gli pareva potesse garantirgli meglio gli spazi di potere, peraltro esigui, detenuti all'interno del gruppo dirigente socialista. Un cinico, lo definirà Panzieri e anche in questa occasione Pertini si mostrerà attento a non eccedere nei toni, allineandosi allo stalinismo imperante nella sinistra ma con moderazione. Limitandosi, insomma, a fare della mera retorica da comizio.

Più calibrato l'intervento di Togliatti alla Camera, ulteriore prova, se ce ne fosse bisogno delle capacità dialettiche dell'uomo, ma anche del suo insopportabile vezzo a posare da professorino. La sua citazione manzoniana, che di fatto assimila Stalin a Napoleone, è un pezzo da antologia.

Quanto a Nenni, non può non colpire, nonostante dall'inizio degli anni Trenta a decine si contassero le testimonianze sui metodi usati nella gestione del potere dall'autocrate del Cremlino, la asserita, ma chissà quanto sincera, convinzione che parlare per la Russia di dittatura fosse una mera calunnia a fini propagandistici di un Occidente guerrafondaio e bellicista che in Stalin combatteva soprattutto l'eterno anelito dell'umanità alla pace.

La storia, si sa, è impietosa e non fa sconti. Tre anni dopo, proprio uno dei principali complici di Stalin, quel Chruščëv responsabile dello sterminio per fame dei contadini ucraini insofferenti del potere sovietico, rivelerà al mondo gli orrori della dittatura staliniana. Era la conferma di ciò che Souvarine, Serge, Silone – giusto per citare alcuni dei testimoni più noti di quegli orrori – avevano coraggiosamente sostenuto già dalla fine degli anni Venti. Ma non servirà a molto. La verità rende libero solo chi vuole essere libero. Lo dimostrerà sempre in quel 1956 la difesa ostinata dell'URSS in occasione della rivoluzione ungherese fatta da Togliatti e da un Ingrao chissà perché ancora oggi da qualcuno visto come un “eretico” del comunismo.

Abbiamo, per completezza di documentazione, aggiunto poi in appendice l'articolo che Enrico Berlinguer, allora segretario dei giovani comunisti, scrisse in quei giorni sulla rivista “Pattuglia”. Colpisce in quell'ossessivo invito all'impegno, ripetuto come una formula religiosa o un giuramento solenne, già un accenno di quel moralismo curiale, spacciato per etica, che caratterizzerà gli interventi del futuro segretario comunista negli anni del compromesso storico. A dimostrazione di una continuità di pensiero e di un Partito incapace di affrontare realmente le contraddizioni della propria storia e di fare una volta per tutte i conti con lo stalinismo.

Sarà solo nel dicembre 1981 che Berlinguer parlerà di “fine della spinta propulsiva” del comunismo sovietico. Una affermazione a cui non seguirà però alcuna riflessione autocritica né alcun atto concreto. Una semplice presa d'atto da spendersi nel teatrino angusto della politica italiana. Come se sessant'anni prima, nel marzo 1921, non ci fosse stata la Comune di Kronstadt, e poi la collettivizzazione forzata delle campagne, lo sterminio per fame dei contadini ucraini, l'industrializzazione fondata sul lavoro schiavo fornito dai Gulag, le grandi purghe di fine anni Trenta, il patto Ribentropp-Molotov e l'alleanza di fatto con il nazismo che aprì le porte alla guerra, il XX Congresso, l'asservimento dei popoli di mezza Europa e la repressione sanguinosa della rivoluzione ungherese, l'URSS era restata fino ad allora il faro del socialismo che segnava con la sua luce la rotta dell'umanità verso un avvenire radioso di civiltà e di pace. Solo nel 1981, lo ripetiamo, ci si accorgerà che quel faro non faceva più luce. Una presa d'atto tardiva e neppure condivisa da tutti, come dimostrerà l'opposizione prima della componente cossuttiana e poi la storia fallimentare del Partito della Rifondazione comunista.

Simul stabunt vel simul cadent, verrebbe da dire. PCI e stalinismo erano dal 1926 indissolubilmente legati. Lo dimostrerà nel 1991, a 38 anni dalla morte di Stalin, il crollo parallelo dell'impero sovietico e del Partito comunista italiano.


Giorgio Amico


Il quaderno è liberamente scaricabile dal sito www.academia.edu

giovedì 14 marzo 2024

Gramsci In America Latina



Come negli Stati Uniti così in America Latina assistiamo da anni ad un fiorire di studi sul pensiero di Gramsci che non ha eguali in Europa e ancora meno in Italia dove la ricerca si è sempre più ristretta all'ambito accademico senza agganci con la realtà politica, riducendosi spesso a rimasticature filologiche valide solo a far curriculo.

Una ricerca di cui cercheremo di dare conto in futuro. Per ora proponiamo questi due volumi, entrambi di grande interesse, reperibili sulla pagina web "Archivio obrero".





martedì 12 marzo 2024

Sull'odierno antisemitismo

 

L’articolo di Ginzburg sull’antisemitismo è interessante, ma ha un grosso difetto.

Il suo sbaglio, secondo me, consiste nel  trattare la questione senza mettere in primo piano un elemento fondamentale: la Shoah, lo sterminio degli Ebrei voluto e tentato, e in grande misura anche attuato, da Hitler e dal nazismo tedesco, è uno spartiacque decisivo nella storia dell’antisemitismo. 

Perché è così?

Non perché prima non ci siano stati massacri di villaggi e nuclei ebrei, dall’antica Giudea (coi Persiani e coi Romani), e poi via via in giro per il Medio Oriente e per l’Europa. Non perché non sia esistita prima una sistematica discriminazione e persecuzione degli Ebrei in varie forme.   

Ma perché l’opera dei boia nazisti ha mostrato al mondo intero in che modo l’odio per gli Ebrei e le sue manifestazioni più o meno banali e quasi “innocue” siano propedeutici e ausiliari rispetto a un disegno mostruoso che intende realizzare un genocidio totale impiegando le tecnologie più moderne disponibili.

Dopo la Shoah chiunque si dichiari esplicitamente antisemita si sta schierando con Hitler e coi suoi progetti osceni e demenziali. Ovviamente molti al giorno d’oggi si risentono se le loro posizioni vengono descritte usando questa terminologia.

Non è un caso se in Urss, fin dai tempi di Stalin nei primi anni '50, si è insistito sulla presunta distinzione tra “antisionismo” e antisemitismo.  

Il secondo è Hitler,mentre il primo sarebbe la “legittima opposizione ai progetti razzisti del sionismo”, e dunque il tentativo di delegittimare lo Stato di Israele e propugnarne, in modi più o meno espliciti e più o meno radicali, la scomparsa dalla faccia della Terra.

Ma “antisionismo” e antisemitismo sono soltanto due modi diversi di dire la stessa cosa, e sottendono una stessa nozione di fondo: “gli Ebrei non sono un popolo come tutti gli altri popoli”, “gli Ebrei non hanno diritto ad avere un proprio Stato (e tantomeno nelle loro terre ancestrali)”, “il mondo sarebbe migliore se gli Ebrei non esistessero”.   

Una distinzione logica molto valida e necessaria è quella fra il dire “Il Tale è un antisemita” e il dire “Il Tal'altro ha una posizione antisemita” ovvero “ha detto qualcosa che è antisemita”.

Criticare Israele non è di per sé una manifestazione di antisemitismo. Alcune “critiche” sono però espressioni di antisemitismo, ovvero esprimono in forma blanda una posizione che è in sé antisemita senza per questo invocare apertamente la distruzione dello Stato di Israele e lo sterminio degli Ebrei. 

Definire antisemite tali posizioni è possibile, anzi è necessario, proprio perché rientrano in quella “sottovalutazione dell’antisemitismo” operata da alcuni personaggi, come Marx e Kautsky, di cui parla proprio Ginzburg.

Ma fra loro (o anche Liebknechkt e Rosa Luxemburg sul processo Dreyfus) e gli odierni “sottovalutatori” dell’antisemitismo, se vogliamo chiamare così tutti coloro che Ginzburg cerca di difendere in qualche modo, c’è di mezzo la Shoah. E questo cambia tutto.

Nel 1848 o nel 1903 si poteva fare una distinzione, giusta e sensata, fra i pogromisti di Kišinev [1903, in Moldavia] o le Centurie nere in Russia, da una parte, e coloro che criticavano i sionisti e il Bund anche in termini molto duri, dall'altra.

Nel 2024, dopo i massacri, gli stupri e gli ostaggi del 7 ottobre 2023, chiunque gridi “Dal fiume al mare la Palestina sarà libera” può anche essere un ignorante che non conosce il nome del fiume e del mare di cui blatera, ma quella è una posizione antisemita. 

Ed essa si colloca su un continuum che inizia con gli idioti che negli stadi gridano “Ebrei” ai tifosi della squadra avversaria ma finisce con l’apologia della Shoah.

Oggi essere un “sottovalutatore” non è più una giustificazione valida per nessuno.

Perché vuol dire contribuire ad alimentare l’antisemitismo genocida, quali che siano le intenzioni più o meno “buone” o “ignoranti” di chi sottovaluta i pericoli dell’antisemitismo.

Luciano Dondero

Lettera inviata al Foglio


lunedì 11 marzo 2024

Genova nei ricordi di un giovane viaggiatore argentino (1843)

 



Italia, nelle tue città è la tua poesia, non nei tuoi poeti, tu non scrivi; fai poesia.

J.B Alberdi


Juan Bautista Alberdi (Tucumán, 1810-Parigi, 1884) nacque a Tucuman in Argentina. Era figlio di un mercante spagnolo e di una signora, della buona borghesia di Tucumán. Convinto democratico e sostenitore della rivoluzione repubblicana, ebbe una gioventù scapigliata. Abbandonò gli studi universitari nel 1824 per dedicarsi alla musica. Infine studiò legge e nel 1840 si laureò in giurisprudenza a Montevideo. Filosoficamente era autodidatta, ma aveva una buona conoscenza del pensiero liberale. In particolare fu influenzato dalle opere di Rousseau, Bacon, Buffon, Montesquieu, Kant, Adam Smith, Hamilton e Donoso Cortés.

Nel 1843 andò in Europa per conoscere da vicino gli usi e i costumi delle principali nazioni. Tornato in America si stabilì a Valparaíso (Cile) dove esercitò la professione forense. Massone, fu l'ispiratore della Costituzione argentina del 1853.

Entrato nel corpo diplomatico, dopo il 1859 compì alcuni viaggi in Europa per ottenere il riconoscimento della repubblica argentina da parte delle principali potenze europee. Nel corso di queste missioni incontrò l'imperatore Napoleone III, il papa Pio IX e la regina Vittoria di Inghilterra. Svolse attività diplomatica per quattordici anni e nel 1878 fu nominato deputato al Parlamento nazionale. Morì a Parigi nel 1884.

Autore molto prolifico di studi giuridici e di politica internazionale, scrisse anche note di viaggio dove minuziosamente annotò impressioni e ricordi. Un libro, pubblicato a Barcellona nel 2021, ne raccoglie alcune fra le più interessanti.

Un capitolo riguarda Genova dove soggiornò quasi un mese durante il suo primo viaggio in Europa. Un viaggio di formazione compiuto nel 1843 a poco più di trent'anni. Ne riprendiamo la parte più interessante, relativa al viaggio e alle impressioni che la città gli suscitò. Impressioni, come si vedrà, controverse. Lo colpì la maestosità delle vie principali, ma anche la dimensione ridotta dei vicoli. Gli piacquero i caffè che trovò eleganti e colti, vere e proprie sale di lettura. Molto meno lo colpirono le donne che trovò poco eleganti. Da buon americano, democratico e repubblicano, fu stupito dallo sfarzo dei nobili e dall'onnipresenza della Chiesa.


Giorgio Amico

giovedì 7 marzo 2024

domenica 18 febbraio 2024

Guido Seborga, Liguria

 











Guido Seborga

Liguria


Tu vai più lontano di me
Coi tuoi marittimi dei porti
Coi tuoi braccianti della costa
Sei disperata e felice
Antica come il maestrale
Liguria hai messo nel mio corpo
L'animo arso e secco del canto
Non avrei mai vissuto senza di te
Nella tempesta mi calmo
L'ansia s'allenta nella burrasca
Nella bonaccia mi scaravento
Salto come delfino che gioca
E in fondo in grazie a te
Sono felice d'essere nato
E so quanto tu sia viva


(da: Liguria - Se avessi una canzone, Dell'albero 1964)

giovedì 15 febbraio 2024

Perché non svanisca la memoria. Ricordo di Guido Seborga (seconda parte)

 


Guido Seborga (1909-1990), Vita di un ribelle


Guido Seborga, giornalista, letterato, poeta pittore, é nato a Torino nel 1909 da famiglia in cui lui amava individuare sangue ligure, egiziano, ebreo. Il suo vero cognome era Hess. la scelta dello pseudonimo Seborga, piccolo paese ligure dell'entroterra di ponente, è legata all'amore per il mare e a quella che considerava la sua vera città d'origine e non soltanto d'elezione, Bordighera, costante punto di riferimento nei suoi diversi vagabondaggi e viaggi all'estero. Bordighera e il suo entroterra sono lo sfondo dell'attività di letterato, il fascino della Valle delle Meraviglie e del mare del ponente ligure sono preciso riferimento al segno ideografico della sua pittura.

Studiò nella Torino antifascista di Augusto Monti (di cui era stato allievo) e Felice Casorati, di Gobetti e poi di Mila e di Bobbio, ma la sua insofferenza all'ordine lo spinse a nuovi ambienti, conoscenze ed esperienze a Berlino, poco prima dell'avvento del nazismo, poi a Parigi, luogo amatissimo in cui tornò con frequenza lungo tutta la sua vita.

A Torino conobbe e strinse amicizia con Umberto Mastroianni arrivato nel '28 da Roma, con Luigi Spazzapan, Mattia Moreno. Oscar Navarro, Raf Vallone, Vincenzo Ciaffi, Albino Galvano, Piero Bargis con cui si trovava a passeggiare per via Po, corso Vittorio e via Pietro Micca discutendo di tutto in totale libertà, protetti dall'oscuramento bellico.

La matrice antifascista torinese lo indusse all'azione, alla diserzione dalle guerre fasciste e alla partecipazione alla guerra partigiana, prima col Partito d'azione con Agosti, Galante Garrone, Ada Gobetti, Ciaffi, Navarro, Silvia Pons, Anna Salvatorelli, Raf Vallone, Giorgio Diena poi partigiano nelle brigate socialiste "Matteotti".

Dall'azione diretta passò nel primo dopoguerra all' attività politica nel Partito Socialista di cui aveva tentato la ricostruzione in Liguria ancora prima della guerra. A Roma con Basso diresse la rivista "Socialismo" ed entrò nelle vicende della direzione del partito occupandosi anche della propaganda del Fronte Popolare.

Già presente dagli anni '30 sui maggiori periodici culturali italiani (Circoli, Campo di Marte, Prospettive, Letteratura, Maestrale), nel dopoguerra contribuì alla riapertura della redazione torinese del " Sempre Avanti" poi ridiventato "Avanti", fu giornalista sui quotidiani e sulle riviste della sinistra italiana e internazionale occupandosi dei temi della cultura e dell'impegno, della critica d'arte e dell'attualità.

Partecipò con Ada Gobetti, Franco Antonicelli, Felice Casorati, Massimo Mila ed altri alla fondazione dell'Unione Culturale di Torino, fu tra gli organizzatori dell'allestimento del Woyzeck di Buchner rappresentato nel ' 46 al teatro Gobetti.

A Parigi, dove fu direttore di "Italia Libera" e collaborò a "Europe" e"Editions des Minuit" scrisse per i giornali italiani di quell'ambiente di intensa attività culturale e artistica dei surrealisti, del Cafè Flore, di Sartre, Vercors, Artaud, Eluard, Tzara, di Severini, Franchina e Magnelli che, lui ben conosceva dall'anteguerra, raccontando di teatro, cinema, musica, letteratura, pittura.

Nel 1948 Mondadori pubblicò nella Medusa degli italiani "L'uomo di Camporosso", nel 1949 "Il figlio di Caino" accolti dalla critica italiana e straniera con interesse e giudizio positivo. Letterato di forte intonazione realista Seborga racconta di un mondo di diseredati che combattono per la sopravvivenza, in una terra ligure aspra e dura, in cui lavoro è fatica e difendere le proprie convinzioni diventa pericoloso in un'epoca di regime.

Seguono altri quattro titoli tradotti in diverse lingue e un diario uscito nel '68.

I personaggi di Seborga fanno parte del dramma del vivere sia nel bene che nel male, per cui non sono possibili evasioni se non a rischio della mistificazione e pertanto della complicità con la società e con se stessi. Per Seborga il pericolo è l'automazione, cioè la violenza sull'uomo da parte dalla società tecnico-industriale a cui egli oppone il rigore di una moralità gobettiana che si richiama all'impegno civile .

Affiancò all'attività di scrittore quella di poeta, presente fin dagli anni giovanili e approdata nel 1965 alla prima di tre raccolte " Se avessi una canzone" in cui dominano il mare, il sole, il vento, le aspre valli di confine di una terra di ulivi e viti, selvaggia come i suoi abitanti. Partecipò all'esperienza politico-musicale del gruppo torinese del Cantacronache, nato per una proposta musicale alternativa alla canzonetta di consumo. E' lo stesso mondo presente nei racconti . Altre poesie furono musicate negli anni seguenti.

Il suo amore per la città di Bordighera si è manifestato negli anni anche con una concreta e attiva partecipazione alla vita culturale del ponente ligure. Seborga ha fatto parte dell'organizzazione e della giuria negli anni '50-'60 del premio di letteratura e pittura "Cinque Bettole" insieme a personaggi di rilievo quali Calvino, Vigorelli, Accrocca,Betocchi, Natta, Balbo. Negli anni '60 ha curato "Incontri con l' uomo" a Sanremo, ciclo di conferenze a cui ha partecipato tra gli altri Quasimodo. Ha anche contribuito negli anni '60 - 70 alla creazione e allo sviluppo dell'Unione Culturale Democratica di Bordighera nei cui locali con il suo contributo furono organizzate mostre, dibattiti, conferenze, opere teatrali.

Se i versi furono il leit-motiv che percorse tutto l'arco della sua vita, fin da bambino fu affascinato dalle incisioni rupestri della Valle delle Meraviglie, che costituiscono il legame ideale fra poesia e pittura: dagli anni '60 riprese a disegnare e dipingere creando nelle "ideografie" una forma di pittura originale che unisce il segno dinamico e le nere silouettes di figure arcaicizzanti alle contrastanti accensioni cromatiche degli sfondi in cui esse si profilano.

Come pittore visse un periodo di grande entusiasmo e di attività molto intensa nel quale restò vicino ai giovani con cui era sempre disposto a mettere in comune le sue numerose conoscenze e a collaborare alle loro iniziative culturali e artistiche.

In seguito si ammalò gravemente e morì nel 1990 dopo una vecchiaia che l'aveva duramente colpito, limitandogli in modo insopportabile quella libertà e quella autonomia alla quale aveva tenuto per tutta la vita


mercoledì 14 febbraio 2024

Perchè non svanisca la memoria. Ricordo di Guido Seborga (prima parte)

 


Ieri, anniversario della morte del padre, Laura Hess Seborga mi ha mandato una serie di materiali molto belli sulla figura e l'opera di Guido Seborga. Negli anni Laura mi ha accompagnato nella scoperta della grandezza dell' uomo e dell' intellettuale e mi ha permesso di conoscerne e apprezzarne la profondità dell'impegno civile e politico.

La lettera era privata, ma con il  permesso di Laura, inizio a riprendere e diffondere questi materiali, convinto che in momenti cupi come quelli che viviamo la riscoperta del lascito artistico e morale di una figura tanto significativa, possa essere di conforto e di stimolo a chi, nonostante tutto, non intende mollare.

G.A.


ll 13 febbraio 1990 moriva mio padre. Il ribelle, il giornalista, il letterato, il poeta, il pittore e lo voglio ricordare insieme a coloro che hanno conosciuto l'uomo e il suo messaggio di impegno e di libertà. 

Perché non svanisca la memoria.

Laura


Lascio una vita di libertà
La mia carne alle fiamme
Le ceneri al vento
Lascio il malessere e l'ansia
e la gioiosa avventura
dell'amore terrestre e cosmico
parola e quadro
reale-irreale
Ora so che non devo più ricordare...
Nel caldo della notte di luna
dormirò ancora nella caranca
e il sole nascerà sul mare
Mi piace morire all'aurora

Da: Guido Seborga, Ceneri al vento - Sangue e cerebrum, Sugarco 1980


…riposare in pace

Con me stesso e gli uomini
La pace che fu rotta nella nostra adolescenza
Ma il ricordo spezzato è ancora forte nell'animo
E rinasce come il senso violento della morte
Che l'uomo crudele ha inferto all'uomo povero
Ma ora parlo anche dell'altra morte
Ora parlo della nostra morte umana
Parlo amici dell'ultima estrema libertà
Quella che spero non tradirà mai
Quella che adoro nel mio silenzio
Quella che ammiro nell'ultima luce
Quella che indovino nell'ombra spessa
Quella amici che offre all'uomo verità
E finalmente riposare in pace
Trovato il senso della parola umana
Trovata l'estrema ultima libertà

Da: Guido Seborga, Uomo ferito -Se avessi una canzone, Dell'albero 1964

(Nella foto di copertina Guido Seborga con Laura bambina)

 


sabato 10 febbraio 2024

Valdo e i Valdesi tra storia e mito

 


INAUGURAZIONE MOSTRA:
"VALDO E I VALDESI TRA STORIA E MITO"
10 FEBBARIO ORE 16-CASA VALDESE VIA BECKWITH 2-TORRE PELLICE 
ALLESTIMENTO MUSEO VALDESE VIA BECKWITH 3-TORRE PELLICE 


A cura di Marco Fratini e Samuele Tourn Boncoeur


In occasione della ricorrenza degli 850 anni della conversione di Valdo di Lione e dell’origine dei valdesi, si è realizzata un’esposizione che illustra le tappe della costruzione della storia del movimento valdese nel corso di otto secoli, letta attraverso la figura del suo “fondatore”.
La mostra, strutturata in due sezioni, si pone, in quanto momento di rielaborazione critica, in continuità con il lavoro realizzato per il recente riallestimento del Museo valdese.
La prima sezione è organizzata come una narrazione attraverso le testimonianze che di Valdo di Lione diedero i contemporanei a partire dal 1174.

La seconda presenta le testimonianze di oltre duecento interpreti di tutte le lingue e nazioni, dal XIII al XX secolo, del dibattito sulle origini dei valdesi (accompagnate da una selezione di libri a stampa), per mostrare come solo in tempi molto recenti Valdo di Lione sia largamente accettato come fondatore del movimento valdese, mentre per molto tempo sono state accreditate le ipotesi di un’origine nei primi secoli del cristianesimo o di una discendenza dagli apostoli.
La Mostra sarà aperta al Museo valdese fino al 30 settembre 2024


Orari: giovedì- venerdì- sabato- domenica
dalle ore 15 alle ore 18,30


Info e prenotazioni: bookshop@fondazionevaldese.org

martedì 6 febbraio 2024

Giancarlo Consonni. Leggere come un modo di abitare, la lettura nella pittura

 


Giancarlo Consonni
Leggere come un modo di abitare
La lettura nella pittura
Biblioteca Universitaria di Genova
Via Balbi 40
giovedì 8 febbraio 2024, ore 17,00

Cosa passa nella testa e nell’animo di una lettrice o di un lettore? Oltre al corpo di chi legge, la pittura mette in scena anche pensieri, emozioni, sentimenti e molto altro ancora. Ritrarre o raffigurare una persona che legge pone esplicitamente una sfida: come rappresentare l’invisibile? (una sfida, a ben vedere, imprescindibile per una pittura degna di questo nome).

L’atto del leggere è un modo di abitare e di essere al mondo che implica la coniugazione di un qui e di un altrove (un qui concreto e un altrove immaginario).

Alla lettura di un libro corrisponde un desiderio di completamento: di conquista di ciò che manca. Un desiderio che, appagato seppur in parte e momentaneamente, dà all’abitare un senso profondo: quello di sentirsi, sia pure per poco, di casa nel mondo.


Quando vorresti che la fermata
non arrivasse mai
stai leggendo sul tram
e quella è la tua casa.
(G. Consonni, Filovia, Einaudi, Torino 2016)


Giancarlo Consonni (Merate, 1943) è un poeta, artista visivo, urbanista e storico dell'architettura. Professore emerito del Politecnico di Milano, è autore di saggi sull’architettura e di numerosi volumi di poesia (da Viridarium, Scheiwiller 1987, a Pinoli, Einaudi 2021), di cui hanno scritto – fra gli altri – Franco Loi, Cesare Viviani, Antonio Prete, Cesare Segre, Stefano Verdino. Sue opere visive sono state esposte alla Fondazione Corrente nel 2008, presentate da Antonello Negri, e presso la Galleria Consadori di Milano nel 2013.

lunedì 29 gennaio 2024

Fin dove arrivano i nostri ricordi

 


Fin dove arrivano i nostri ricordi?


Fin dove arrivano i nostri ricordi? Parlo ovviamente dei ricordi della gente comune e non di chi appartiene a famiglie che da generazioni si tramandano aziende, palazzi, patrimoni. I miei arrivano al giugno 1883, data annotata dietro questa foto di mio bisnonno Giorgio Carli, allora di 15 anni.

Aveva preso il nome del nonno. Suo padre di chiamava Giuseppe ed era censito al Comune di Piani come "proprietario" detto in termini non burocratici una persona in grado di far vivere la sua famiglia con qualche fascia coltivata a ulivi. Un passo appena sopra la povertà.

Diventato adulto, Giorgio Carli, sposatosi con Francesca (Cecchina) Corradi, sempre di Piani, avrà tre figli, due femmine e un maschio, nato nel 1891, a cui darà il nome di suo padre, Giuseppe, ma per tutti Pippo. In suo ricordo e per continuare una tradizione di famiglia, alla mia nascita nel 1949 mi fu dato il nome Giorgio.

Da giovane guardavo al futuro e di queste cose non mi curavo, Oggi da nonno, so con certezza che la nostra vita inizia molto prima della nascita biologica e continuerà dopo nei figli e nei nipoti che porteranno dentro qualcosa di noi, come io porto dentro qualcosa di Giuseppe, Giorgio, Pippo Carli.


Vento largo, 29 gennaio 2024

domenica 28 gennaio 2024

In ricordo di Bruno Segre, partigiano, pacifista, difensore della libertà, massone.

 









Questa mattina ho trovato nella posta una bella lettera di Roberto Massari sulla figura di Bruno Segre, che si chiudeva con l'invito di dedicargli un articolo su Vento largo. Lo faccio ben volentieri, usando le sue stesse parole. Io non saprei usarne di migliori e più adatte.

Caro Giorgio,

leggo sul Corriere di oggi che è morto Bruno Segre, alla bella età di 105 anni.

Ne avevo perso memoria, pur avendo mantenuto una corrispondenza con lui per alcuni anni e pur essendo stato lettore del suo Incontro finché il giornale è esistito. Non immagini quanti pezzi di articoli da conservare ho ritagliato da quel giornaletto vecchio stile, stampato come Bandiera rossa degli anni ’60.
Ricordo ancora che in ogni numero c’era la pubblicità ai francobolli Bolaffi, che era chiaramente un modo per finanziare il giornale da parte di qualcuno che gli voleva bene. Segre infatti era massone e fiero di esserlo. E sul giornale questo si vedeva a ogni numero.
Ebbene, nella colonna che oggi il Corriere gli ha dedicato non si accenna minimamente a questa sua militanza massonica che invece fu per lui molto importante. È una sciocca autocensura.
Il giornale era anticlericale in maniera nettissima, era in prima linea per i diritti civili (Segre era stato una punta della lotta per il divorzio), per la memoria dell’Olocausto (Segre era ebreo) e per le libertà democratiche (il comandante «Elio» era stato partigiano).
Insomma un ex partigiano ebreo, massone, anticlericale e veramente democratico che ci ha lasciato senza che la cultura italiana gli renda l’onore che si sarebbe meritato.
La buona notizia è che è campato 105 anni (come Levy-Strauss).
Fossi in te gli dedicherei un articolo in Vento Largo (e se vuoi puoi anche usare queste mi parole).

Cosa altro aggiungere? Noto solo che, come Il Corriere , anche altri giornali, vista la levatura culturale e morale del personaggio, hanno dedicato grande spazio alla notizia della morte di Segre. La Repubblica ne parla con un denso articolo nelle pagine della cultura, mettendone in luce le doti di rigoroso intellettuale, di esponente di punta delle grandi battaglie laiche come quella del divorzio. Ricordandone la militanza partigiana, lo definisce già nel titolo "Un simbolo dell'antifascismo"- Toni analoghi usa Il Manifesto che insiste particolarmente sul grande impegno pacifista di Segre.. Peccato che, oltre che concordi nell'elogio, le tre autorevoli testate siano egualmente concordi nel tacere che Bruno Segre oltre che partigiano, antifascista, difensore accanito delle libertà, fosse massone, membro autorevole del Grande Oriente d'Italia che lo commemora sulla sua pagina web ricordando come nel 2020 fosse stato insignito della massima onorificenza massonica proprio per il suo instancabile costante impegno in difesa della libertà e dei diritti dei cittadini.

Non è comunque una novità. Dei massoni sulla stampa italiana si parla solo se il nome dell'interessato è accompagnato da un avviso di garanzia. Allora quella appartenenza, anche se non c'entra nulla con gli eventuali addebiti, non solo non viene taciuta, ma enfatizzata, scritta a lettere cubitali nel titolo dell'articolo. Un segno di come profondo resti il pregiudizio antimassonico nel nostro paese. D'altronde perché stupirsi ? Fino agli anni Sessanta e al Concilio Vaticano Secondo nelle prediche domenicali e sulle pagine delle riviste cattoliche la Massoneria era definita "Sinagoga di Satana" a sottolineare il legame diretto con quei "perfidi giudei" il popolo deicida che non poteva essere perdonato. Bruno Segre, ebreo e massone, si è battuto per tutta la sua lunga vita contro questi pregiudizi, essendo stato in gioventù testimone diretto di quali orrori potesse provocare l'odio ideologico e il fanatismo.

Bruno Segre se ne è andato nella giornata dedicata alla Memoria. Lo salutiamo con affetto fraterno, ricordando come negli anni bui del terrore nazista in tutta Europa si svolse una feroce caccia ai massoni che a decine di migliaia, trentamila solo dalla Francia occupata, furono deportati e uccisi nei campi di sterminio.

sabato 27 gennaio 2024

Nazismo, stalinismo e l'attuale antisemitismo "di sinistra"

 


Solo chi non conosce la storia del Novecento può stupirsi di trovare oggi insieme a manifestare per la distruzione dello Stato di Israele uno schieramento che va  da Forza Nuova al Partito comunista dei lavoratori. Nel 1939 la seconda guerra mondiale fu la diretta conseguenza dell'accordo fra il regime nazista e quello  sovietico per la spartizione della Polonia. Che ciò comportasse lo sterminio per mano tedesca degli ebrei polacchi a Stalin non importava, L'importante era riconquistare, come oggi cerca di fare Putin, Polonia e paesi baltici. E d'altronde, mentre le SS liquidavano gli ebrei a Ovest, nella Polonia occupata dai sovietici venivano massacrati a Katyn quasi 30 mila prigionieri di guerra polacchi, mentre altre centinaia di migliaia venivano deportati nei lager siberiani a morire di fame, di fatica e di stenti. Fu solo dopo che Hitler ruppe l'alleanza e attaccò la Russia che Stalin si riscoperse antinazista. Fino ad allora l'URSS e i partiti comunisti avevano di fatto appoggiato la guerra nazista contro le odiate democrazie "borghesi" occidentali. Il fatto che oggi in prima linea fra i fascio-islamisti troviamo anche dei trotskisti dimostra solo che, come la critica storica ha ormai ampiamente dimostrato, lo stalinismo è stato non una controrivoluzione ma uno degli sviluppi possibili del bolscevismo. Anzi per certi aspetti il più coerente, tanto che fu Stalin e non Trotsky a trionfare nella lotta per il potere iniziata già prima che Lenin morisse nel gennaio 1924. per questo riprendiamo  il saggio di Roberto Massari scritto in occasione della giornata della Memoria.

Nazismo, stalinismo e l'attuale antisemitismo "di sinistra"

di Roberto Massari


(27 gennaio 2024, Giornata della Memoria)


Il primo hitlerocomunismo

Per «hitlerocomunismo» deve intendersi la corrente di pensiero politico che sorse nell’estate/autunno 1939, quando i totalitarismi nazista e sovietico si allearono per invadere la Polonia e annettere vari paesi dell’Europa orientale, scatenando così la Seconda guerra mondiale. Gli adepti dell’hitlerocomunismo (in Russia e nel resto del mondo) hanno poi approvato tutte le successive invasioni russe (Paesi Baltici, Finlandia, Cecoslovacchia, Afghanistan ecc.) fino a quella odierna dell’Ucraina. Alla base dell’hitlerocomunismo, vecchio e nuovo, vi è l’idea premoderna (per non dire medievale) che la Russia fosse e sia ancora legittimata nel compiere tali annessioni perché eserciterebbe un suo diritto storico riprendendosi i territori appartenuti all’Impero zarista. Questa posizione - reazionaria nel più pieno senso del termine - la si ritrova espressa più o meno inconsapevolmente nelle giustificazioni attuali per l’aggressione putiniana all’Ucraina e varrà ancora per eventuali possibili future aggressioni (a cominciare dai Paesi baltici).

L’alleanza sovietica col nazismo durò da agosto 1939 a giugno 1941: sono i quasi due anni che videro prendere forma definitiva al progetto di sterminio antiebraico, avviato ancor prima del Patto e che sfocerà nella cosiddetta «soluzione finale», sistematizzata nella Conferenza di Wannsee di gennaio 1942. Una delle «necessità» alle quali rispondeva questa scelta estrema del nazismo fu che nella parte di Polonia assegnata al Terzo Reich dal Patto con Stalin vivevano circa 1.700.000 ebrei: una massa di popolazione ebraica che il nazismo intendeva sterminare, secondo progetti e linee guida messe in opera già da tempo, e ben note a Stalin e al gruppo dirigente sovietico.

Per fissare delle date: il primo dei Konzentrationslager di Auschwitz divenne operativo dal giugno 1940, cioè nel pieno della collaborazione tra nazisti e sovietici; quello di Chełmno (considerato il primo lager di sterminio) nel dicembre 1941, cioè sei mesi dopo la rottura del Patto da parte nazista. Questi e altri campi di sterminio polacchi (come Treblinka, Sobibór, Bełżec) cominciarono a operare «tardi» (cioè nel 1942, «Aktion Reinhard») perché la loro progettazione fu possibile solo dopo l’invasione congiunta della Polonia nel settembre 1939; ma la loro costruzione si realizzò nel quasi biennio dell’alleanza con l’Urss: anzi, fu proprio quell’alleanza che li rese possibili. Sarebbe, però, un grave errore di prospettiva storica datare di lì l’inizio dell’Olocausto perché le persecuzioni antiebraiche erano iniziate in Germania negli anni ‘30: il lager di Buchenwald, per es., situato nella Turingia tedesca, era operativo dal luglio 1937.

Insomma, rispetto alla politica di sterminio antiebraico del nazismo, almeno tre cose furono subito chiare a chi voleva vederle allora (o che speriamo voglia cominciare a vederle chiare oggi): 1) Nello stringere il Patto con Hitler, ai sovietici non interessò minimamente il destino degli ebrei in Germania e nel resto d’Europa: delle persecuzoni antiebraiche non parlarono in documenti, atti ufficiali e sulla stampa. 2) I sovietici non ebbero la benché minima esitazione ad abbandonare quasi due milioni di ebrei polacchi nelle mani di chi intendeva sterminarli. 3) La fraternizzazione staliniana col Terzo Reich richiese che anche sull’Olocausto polacco calasse il silenzio stampa (oltre all’avvio della collaborazione delle rispettive polizie nelle consegne reciproche di prigionieri o nelle deportazioni di interi gruppi etnici).

Dopo l’aggressione nazista all’Urss

Si tenga conto che gli ebrei dell’Urss nel loro insieme non furono uccisi nei lager, ma con esecuzioni e fucilazioni di massa, seguite da seppellimenti in grandi fosse comuni. Ma ciò che normalmente si ignora è che dopo l’aggressione tedesca alla Russia (giugno 1941), il silenzio sovietico sulla Shoah non ebbe termine. Esso continuò negli anni del dopoguerra e il regime di Stalin addirittura ostacolò i tentativi ebraici di far luce sia sull’Olocausto in generale, sia sugli sterminî nei territori sovietici occupati dalla Wehrmacht e dalla Gestapo. 

Confrontiamo alcune macabre cifre: in Italia furono uccisi dal nazismo (alleato col fascismo della Repubblica sociale) circa 7.500 ebrei (in quanto ebrei e non perché comunisti o antifascisti). Ed è innegabile che dal dopoguerra ad oggi in Italia è stato fatto molto (e in misura per fortuna crescente) perché non si dimentichi l’orrore dell’accaduto - ivi comprese le responsabilità anche italiane - e si conservi e sviluppi la memoria dell’Olocausto: la cultura, il cinema, le istituzioni, i partiti, la scuola hanno contribuito a far sì che di questa immane tragedia si conservi la Memoria e non vi si pensi solo il 27 gennaio di ogni anno. [Sto scrivendo alla vigilia della giornata della Memoria 2024 e non posso non fremere d’indignazione alla vista di come quest’anno si è tentato d’infangare la Giornata commemorativa da parte di un risorgente hitlerocomunismo italiano, come tra breve dirò.]

In Urss, nelle parti di territorio occupate dai nazisti dopo il giugno 1941 furono uccisi tra i 2,5 e i 3,3 milioni di ebrei. Dati difficili da elaborare e che possono oscillare all’interno di quelle cifre. (Al riguardo vedi tra gli altri l’ottimo libro di Antonella Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah, il Mulino 2007.) Ciò significa che nell’Urss fu uccisa circa la metà delle vittime ebraiche dell’intero Olocausto e più della metà della popolazione ebraica complessiva residente in territori sovietici.


Il silenzio staliniano sull’Olocausto sovietico

Ci si sarebbe quindi attesi uno sforzo culturale e istituzionale da parte del regime sovietico per salvare la Memoria di questo immane Olocausto che in Russia fu circa 400 volte più grande di quello avvenuto in Italia. Ma non fu così: i fumi amari dell’hitlerocomunismo - che avevano portato lo stalinismo a fraternizzare col nazismo, nella convinzione che l’alleanza tra i due imperialismi fosse ormai saldamente consacrata dal sangue dei polacchi e degli altri popoli sottomessi - continuarono ad ammorbare l’atmosfera sovietica per molti anni a venire.

«Lo sterminio degli ebrei non fu oggetto di alcuna speciale pubblicazione. Venne largamente ignorato dalle  monografie sulla Seconda guerra mondiale e ampiamente trascurato nelle sillogi di fonti, così come non trovò quasi posto nei libri di testo per le scuole o nei tradizionali repertori» (A. Salomoni, op. cit., p. 9).

Il primo accenno ufficiale allo sterminio antiebraico che comparve in un documento sovietico è del 19 dicembre 1942, cioè circa 18 mesi (!) dopo l’aggressione nazista all’Urss e nonostante il massiccio afflusso di combattenti ebrei nelle file dell’esercito sovietico che si era verificato nel frattempo.

Dopo quella modesta interruzione, il silenzio ufficiale riprese a dominare e anzi il regime staliniano fece di tutto per ostacolare le iniziative che gli ebrei sovietici tentarono di intraprendere per denunciare le dimensioni e l’efferatezza dell’Olocausto nei territori dell’Urss. Funzione di un così assordante silenzio era di impedire il sorgere di una nuova coscienza identitaria da parte degli ebrei sovietici, del tutto incompatibile con lo sciovinismo grande-russo del regime staliniano e con la sua politica repressiva di qualsiasi iniziativa che avesse un odore anche alla lontana di extranazionalismo o cosmopolitismo.


La memoria degli ebrei sovietici

Il 24 agosto 1941 c’era già stato l’incontro dell’intellighenzia ebraica sovietica che nel comunicato finale aveva denunciato lo sterminio avvenuto e ancora in corso nei territori occupati. Nella primavera del 1942 - su iniziativa di Solomon M. Michoels (che verrà assassinato su ordine di Stalin nel 1948, a Minsk) e Šachno Epštejn - fu creato il Comitato antifascista ebraico (Eak) col preciso intento di partecipare attivamente alla guerra antinazista come componente etnica riconosciuta, alla pari degli eserciti formati su base etnica da altre nazionalità sovietiche. Ad esso però s’impose d’essere composto solo da ebrei sovietici. Ragion per cui i due dirigenti del Bund polacco (Partito operaio ebraico) - Henryk Erlich e Wiktor Alter - che avrebbero voluto dargli invece una veste ebraica internazionale, furono arrestati e fatti scomparire tra il 1942 e il 1943. Nemmeno l’Eak, del resto, ebbe vita facile proprio perché tendeva inevitabilmente a diventare uno strumento di riscoperta dell’identità ebraica: le sue disavventure meriterebbero un libro a parte.

Un altro libro a parte (ma per fortuna ne sono stati scritti vari) lo meriterebbe la storia del Libro Nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945 (Чёрная Кнuга, [Čërnaja Kniga], Mondadori). Nacque da un’idea di Albert Einstein e fu compilato per iniziativa di due grandi e celebri scrittori, entrambi ebrei ucraini: Vasilij S. Grossman (1905-1964) e Il’ja G. Ėrenburg (1891-1967). Grazie alla collaborazione con l’Eak, il volume, di oltre 500 pagine, poté ricostruire una gran parte degli eccidi ebraici compiuti dal nazismo in territori sovietici. Esso rimane una testimonianza storica preziosa e insostituibile.

Il manoscritto ottenne il visto della censura nel 1945 e ciò permise di inviarlo in vari Paesi all’estero (compresa l’Italia), ma in Russia non ottenne mai l’autorizzazione alla stampa. Questo perché il regime stava ormai facendo di tutto per impedire che l’Olocausto in Urss si considerasse una tragedia specifica del popolo ebraico e non parte della più generale aggressione nazista ai popoli sovietici. Insomma, il regime ebbe paura e capì che il Libro nero avrebbe dato alimento alle crescenti tendenze identitarie degli ebrei sovietici.


L’antisemitismo sovietico nell’epoca di Stalin

Il tentativo di cancellare i tratti caratteristici dell’ebraismo (sua storia e cultura nei Paesi del blocco sovietico), si inseriva nella più generale lotta alle influenze straniere e al cosiddetto «cosmopolitismo». Tale lotta era stata avviata da Andrej A. Ždanov con la celeberrima risoluzione approvata dal Cc del Pcus il 14 agosto 1946. Uno dei primi effetti che essa ebbe fu il passaggio del controllo dell’Eak al Dipartimento di politica estera del Cc del Pcus, diretto dal grande epuratore Michail A. Suslov. (Questi, entrato nel Pc russo nel 1921, ne uscirà solo da morto, nel 1982, dopo essersi reso corresponsabile di tutte le nefandezze dello stalinismo di Stalin e dei suoi successori).

Un ruolo non secondario nel fomentare la crescente ostilità del regime staliniano verso l’ebraismo - anche se non esplicitamente dichiarata - lo ebbe anche la paura che emergesse alla luce del sole il fenomeno storico rappresentato dalla collaborazione di ampi settori dei popoli sovietici (soprattutto in Ucraina) che erano passati dalla parte del nazismo sperando in tal modo di liberarsi del regime staliniano. Scelte disastrose e represse nel sangue dall’Armata Rossa, che mostravano però quanto odio si fosse accumulato nei popoli sottoposti al giogo sovietico dopo l’illusione di essersi liberati da quello zarista. La verità non doveva emergere nemmeno a questo riguardo.

C’era poi il problema rappresentato dall’esistenza di una sorta di repubblica sovietica ebraica in Crimea e dal fallimento pratico del tentativo di creare un’Oblast’ autonoma ebraica nel Birobidžan, quasi ai confini con la Cina. Tutte pagine di storia molto complesse che furono manipolate a uso e consumo del regime di allora, ma che in rapporto alla questione ucraina sono ancora utilizzate dalla propaganda russa attuale.

Resta il fatto che in Russia fu vietata la pubblicazione del Libro Nero. Se ne ordinò il sequestro, ma alcune copie si salvarono (contenenti, tra l’altro, la prefazione di Albert Einstein che era stata eliminata). Ne uscirono versioni incomplete all’estero e solo nel 1980 a Gerusalemme fu pubblicata la prima edizione in lingua russa, seguita dall’edizione del 1991 a Kiev. L’edizione del 1994 si deve all’impegno di Irina Ėrenburg, figlia di Il’ja, e nel 2014 il libro è stato ripubblicato in Russia dalle Edizioni Corpus.

Stiamo parlando di un libro che ricostruiva la memoria della morte orrenda di quasi tre milioni di ebrei...


La storia dell’antisemitismo negli ultimi anni della dittatura di Stalin è stata ricostruita più volte ed è talmente documentata che qui non si deve far altro che ricordare alcune tappe. [Tra i lavori migliori, quelli curati da Shimon Redlich, War, Holocaust and Stalinism, Routledge 1995, e da Joshua Rubenstein-Vladimir P. Naumov, Stalin’s secret pogrom, Yale 2001.] Con una premessa riguardo allo storico voto dell’Urss - il 29 novembre 1947 - a favore della risoluzione n. 181 con cui l’Assemblea delle Nazioni Unite decideva la nascita dello Stato d’Israele. Quando il 14 maggio 1948 fu proclamato lo Stato d’Israele, tre giorni dopo l’Urss fu il secondo Stato a riconoscerlo, dopo gli Usa. E quando la Lega Araba iniziò l’aggressione contro Israele, l’Urss aiutò il neo-Stato con armi inviate tramite la Cecoslovacchia.

Si conciliava un simile comportamento con la crescente ondata di antisemitismo staliniano?

Sì, indubbiamente. A parte l’illusione politica di Stalin di poter indebolire in questo modo la presenza ingombrante del colonialismo britannico nella regione mediorientale - e magari attrarre a sé il nuovo Stato, all’epoca ancora attraversato da forti pulsioni socialistiche - c’era anche se non soprattutto la volontà di liberarsi del maggior numero possibile di ebrei in territori sovietici. Si spalancò momentaneamente la porta per l’emigrazione e tutti gli ebrei che vollero recarsi a vivere in Israele furono incoraggiati a farlo. Fu un esodo «biblico-staliniano», animato dal proposito di liberarsi di cittadini sovietici difficili da controllare (come effettivamente si vedrà in tutta la storia della dissidenza sovietica negli anni dopo Stalin), difficili da assimilare e soprattutto da irreggimentare nei nuovi schemi repressivi richiesti dall’inizio della Guerra fredda. Un segnale di questi pericoli per il regime fu dato dall’inaspettato successo della visita della delegazione israeliana condotta da Golda Meyerson (Meyer) nell’autunno del 1948.


La repressione antiebraica

Abbiamo già ricordato l’uccisione di S.M. Michoels il 12 gennaio 1948. A novembre dello stesso anno furono chiusi il giornale dell’Eak in yiddish (Eynikayt) e l’unica  editrice ebraica sopravvissuta (Der Emes). Si cominciarono a chiudere le sezioni ebraiche dell’Unione degli scrittori, mentre esponenti ebraici della cultura (universitaria, scientifica, culturale ecc.) venivano gradualmente allontanati dai loro incarichi. L’Eak fu sciolto il 20 novembre 1948, mentre iniziavano gli arresti degli scrittori di nazionalità ebraica: la lista è lunga e ormai la si può leggere in libri di seria documentazione e in alcuni siti on-line.

Nell’agosto 1952 - cioè tredici anni esatti dopo il Patto con Hitler - furono processati a porte chiuse dal Collegio militare del Tribunale supremo tutti i dirigenti dell’ex Eak: 15 imputati e 13 condanne a morte. Fu condannata al carcere solo una donna (Lina Štern) e fu trattato a parte il caso di Solomon Bregman, colpito da collasso e morto in prigione nel gennaio 1953. Nonostante la segretezza delle procedure, si seppe che gli imputati erano stati sottoposti al consueto trattamento riservato a chi doveva confessare colpe inesistenti: interrogatori brutali, torture.

Nell’ottobre 1952 cominciarono gli arresti dei cosiddetti «camici bianchi», cioè il «complotto dei medici» accusati di voler uccidere vari esponenti del regime. E poiché molti di costoro erano ebrei, si è sempre pensato che fosse solo il primo passo per una nuova ondata di repressioni antisemitiche. Non se ne hanno prove certe e nessuno è poi riuscito a decifrare cosa avesse in testa «il magnifico georgiano». E questo perché il 5 marzo 1953 il più grande e più longevo dittatore della storia moderna chiuse finalmente gli occhi. Si disse poi che il «complotto» era stato una provocazione dei servizi segreti e alcune vittime del disciolto Eak furono riabilitate.


L’attuale antisemitismo «di sinistra»

Sono già intervenuto sugli aspetti teorici della questione «legittimità dello Stato d’Israele»: si veda in Utopia Rossa la mia «Risposta ad Albertani» del 26 dicembre 2023. Ad essa rinvio, soprattutto per quanto riguarda la definizione dell’antisemitismo come distinto dall’antisionismo. Per semplificare, definivo «antisemita» chi nega il diritto del popolo ebraico a tenere in vita lo Stato d’Israele che le Nazioni Unite gli hanno assegnato 77 anni fa. E delimitavo il mondo dell’antisionismo a chi, pur riconoscendo il diritto all’esistenza di uno Stato democratico israeliano, si oppone al suo carattere confessionale, ai suoi regimi di destra sorretti dalle componenti più fanatiche dell’ebraismo, ai provvedimenti antipalestinesi, al furto di terre in Cisgiordania e tutto il resto. Di questo antisionismo mi sento parte da sempre, avendo anche compiuto una delle esperienze più istruttive della mia vita trascorrendo nel 1966 un periodo di studio e lavoro in uno dei più avanzati kibbutzim dell’epoca (il kibbutz Lahav).

Le questioni teoriche sono più che chiare, per chi vuole studiare, capire e giungere a delle conclusioni compatibili con la realtà attuale dell’esistenza irreversibile di Israele: una democrazia imperfetta (soprattutto perché confessionale) che vede la sua esistenza in continuazione minacciata dalla volontà sterminatrice di alcune entità o Paesi islamici, con l’orrenda dittatura iraniana in prima fila. Nel testo citato definivo il regime dell’Iran un’autentica «vergogna per l’umanità».

Alla chiarezza delle questioni teoriche non corrisponde però altrettanta chiarezza nelle questioni politiche, anche per ragioni emotive: ci sono di mezzo popoli che soffrono, bambini vittime innocenti, bombardamenti di popolazioni palestinesi, missili su popolazioni israeliane, stupri e pogrom antiebraici, dichiarazioni di guerra unilaterali. Mi riferisco all’azione di Hamas compiuta proprio allo scopo di provocare la grave rappresaglia, incurante del male che avrebbe causato al suo stesso popolo.

Ma soprattutto ci sono tanti giovani italiani, europei, nordamericani ecc. che scendono in piazza con passione a manifestare il loro sostegno all’islamismo sterminatore di Hamas, dell’Iran, del Qatar, di Hezbollah e ora anche degli Houti. Non sanno nulla o quasi nulla della questione palestinese, della questione ebraica e del perché si è giunti a tale situazione drammatica. Reagiscono emotivamente alla tragedia di un popolo che soffre, senza stare a chiedersi se ci siano responsabilità della vecchia Lega Araba con la sua prima aggressione nel 1948; se non ci sia stato un cinico gioco da parte del governo sovietico nell’alimentare la politica fallimentare e suicida di Al Fatah/Olp; se gli Stati arabi più ricchi non abbiano altrettanto cinicamente usato la causa palestinese come arma diplomatica o di ricatto commerciale; se sia stato giusto da parte di questi stessi Stati tenere per decenni i profughi palestinesi in campi-ghetto, invece di assimilarli nelle proprie strutture sociali (come invece è avvenuto sia per i 7-800.000 ebrei espulsi dai Paesi arabi, sia per gli arabi rimasti in Israele).

Non si può non vedere, però - soprattutto nel caso italiano, ma non solo - che questi movimenti di giovani manifestanti o membri di gruppi di presunta «estrema sinistra» sono animati per lo più dagli stessi hitlerocomunisti che rifiutano di solidarizzare col popolo ucraino. Hitlerocomunisti - dichiarati o inconsapevoli - che, nella richiesta di arrendersi (camuffata da «pace» o «tregua») rivolta all’Ucraina fin dal primo momento, si schierano inevitabilmente dalla parte degli aggressori, cioè dell’invasione neocolonialistica di Putin. Ora però non chiedono ad Hamas di arrendersi e consegnare gli ostaggi.

Giovani che non fanno più alcuna differenza tra democrazie e dittature, ma anzi sembrano a volte prediligere proprio quest ultime a scapito della loro stessa esperienza di vita, che invece si svolge in paesi imperfettamente democratici o postdemocratici, nei quali essi non accetterebbero nemmeno la più microscopica riduzione dei loro diritti (ignorando tuttavia il come e il quando questi loro diritti sono stati conquistati). C’è una componente razzistica in questo ritenere che la democrazia vada difesa in Italia o in Occidente, quindi per noi stessi, e sia invece superflua per gli altri, i popoli poveri e oppressi. Come è tendenzialmente razzistico approvare gli atti di terrorismo di Hamas e Hezbollah, giustificandoli con la loro arretratezza politica e culturale, mentre in patria si difende - giustamente - fino all’ultimo comma del diritto di sciopero.

Insomma, tra ignoranza e rifiuto della democrazia (per gli altri, insisto) emerge l’immagine di un mondo antisraeliano culturalmente confuso e teoricamente disarmato. Un mondo in cui la lotta contro lo Stato d’Israele diventa un’entità astratta, visto che non si sa che fine dovrebbero fare le israeliane e gli israeliani (ebrei, non ebrei, vari tipi di ebrei, arabi, cristiani, protestanti, atei ecc.).

La lotta a favore dei movimenti palestinesi che vogliono distruggere Israele e sterminare il suo popolo (come recita la Carta costituzionale di Hamas del 1988, ma viene in continuazione ripetuto in tutti i comunicati, anche i più recenti), significa negare al popolo ebraico il diritto di essere nazione e il diritto di avere un proprio Stato. E questo è antisemitismo, addirittura genocida nelle intenzioni, anche se nessuno di questi giovani ha chiaro cosa sia il genocidio o quale storia stia dietro questa definizione giuridica, autentica conquista dell’umanità pagata con le vite di sei milioni di esseri umani.

Hamas in continuazione dichiara intenzioni genocide verso il popolo ebraico, in genere facendo appello anche al martirio dei poveri palestinesi ed evocando la volontà d’Allah. Lo stesso fanno l’Iran e Hezbollah. L’Arabia Saudita e l’Egitto hanno smesso da un po’ di tempo di farlo, ma anche in questi paesi esistono correnti mussulmane fanatiche, antisemitiche che continuano a invocare Allah perché si decida finalmente a far scomparire gli ebrei dalla faccia della terra.

Ma questo antisemitismo si può considerare anche razzista? La risposta è no e mi avvio a conclusione, tornando anche al tema iniziale dell’antisemitismo staliniano.

L’antisemitismo hitleriano fu certamente razzista, giacché il suo disprezzo per gli ebrei si fondava anche su teorie pseudoscientifiche, pseudoantropologiche, pseudodemografiche, pseudobiologiche ecc.: razziali in questo senso del termine. Il loro massimo punto di riferimento teorico poteva essere il conte Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882) che nel suo Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane (1853-54) aveva posto le basi di tutte le moderne teorie razzistiche, sviluppate poi in ambienti positivisti (Lombroso, Le Bon ecc.) e altrove. Ebbene l’antisemitismo nazista (come quello dei segregazionisti negli Usa o degli attuali suprematisti, «potere bianco» ecc.) era pienamente razzista per la sua adesione a teorie razziali. Non sembri un gioco di parole.

Non si può però dire lo stesso dell’antisemitismo staliniano o sovietico, che non accennarono mai, neanche inconsapevolmente, a caratteristiche biologiche o razziali nelle loro campagne antiebraiche. E se per caso lo avessero voluto fare, avrebbero dovuto scomodare Trofim D. Lysenko (1898-1976) e le sue pseudoteorie genetiche che Stalin fece diventare un dogma ad agosto 1948, nonostante gli effetti disastrosi che avevano avuto sulla già tanto disastrata agricoltura sovietica.

L’hitlerocomunismo staliniano fu antisemita in senso politico e non razziale. E tali sono oggi i giovani che in preda a isteria antiebraica, inneggiano ad Hamas e più o meno inconsapevolmente chiedono la distruzione d’Israele e lo sterminio dei suoi popoli (Non si rendono conto, infatti, che proprio questo accadrebbe se Hamas e l’Iran per disgrazia riuscissero a prevalere, con conseguenze devastanti come la crescita delle componenti più barbare dell’islamismo, già in piena crescita per conto loro.)

Insomma, questi giovani politicamente antisemiti - non razzisti, ma sostenitori delle dittature purché in casa altrui, filoputiniani senza accorgersene, molti anche no-Vax (e ciò non è da sottovalutare perché dice molto sul loro rapporto col sapere e con la scienza), mobilitabili oggigiorno tramite i social e i telefonini (altro che noi del Vietnam con i volantini e le riviste teoriche!) - questi giovani, dicevo, stanno vivendo un loro rito giovanile di iniziazione collettiva.

Dove approderanno? L’antisemitismo, il fioloputinismo, l’antidemocrazia e il disprezzo per la scienza potrebbero far prevedere il peggio. Ma poi, trattandosi di una fase transitoria, per l’appunto giovanile e da rito di iniziazione, non è detto che vadano a finire peggio delle decine o centinaia di migliaia di giovani che «hanno ballato una sola estate» (nel ‘68) e poi rientrarono nei ranghi del sistema, scoprendo troppo tardi che quei ranghi erano pessimi e che avrebbero fatto molto meglio a continuare a lottare, ma soprattutto a studiare il funzionamento del sistema contro il quale avevano tentato da giovani di combattere.

Shalom e buona giornata della Memoria.


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