Paolo Favilli
L'ossimoro del riformismo neoliberista
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Alla vigilia della Rivoluzione francese si scontrano due progetti di riforma del sistema fiscale dello Stato, un sistema fiscale che è la risultante dei continui aggiustamenti conseguenti alle diverse fasi dell’assestamento assolutistico e che quindi non ha più la forma della fiscalità feudale. Lo scontro, durissimo, ha, dunque, come oggetto la direzione dell’ormai necessario mutamento di forma, della riforma appunto. E la durezza dello scontro fu direttamente proporzionale al fatto che non di scelta tra diverse tecniche finanziarie si trattava, bensì di scelte che implicavano un profondo mutamento di equilibrio rispetto allo status quo sociale. Insomma, la riforma veniva definendosi come l’esito di una fase della lotta di classe, un esito che finì per determinarne la direzione.
Due i termini dello scontro: a) scegliere una modernità che legasse la soluzione del deficit pubblico ad un forte e decisivo allargamento della platea dei soggetti fiscali (nobili e chiesa compresi), un allargamento che di fatto preludeva anche a necessari e profondi mutamenti politico-giuridici nel rapporto tra le classi; b) scegliere di ripristinare aspetti della fiscalità feudale ormai andati in disuso e quindi scaricare totalmente il problema del deficit pubblico sulle classi subalterne.
AMBEDUE LE SOLUZIONI possono essere considerate come cambiamenti in meglio per il deficit dello Stato. Dal punto di vista dei rapporti sociali è necessario, però, rispondere al quesito meglio per chi? La risposta che per più di duecento anni ha dato la storia è estremamente chiara: le riforme sono quelle proposte da Turgot. Per gli altri si usa il termine di reazione.
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IL BALZO ALL’INDIETRO nei «trenta ingloriosi» [1993-2023, gli anni del neoliberismo berlusconiani – nota nostra] si è concretizzato nel trasferimento di 12 punti di Pil da salari e pensioni a rendite e profitti. Una sinistra che proponesse un progetto di lotta per riforme tendenti alla restituzione alle classi subalterne di quell’immenso surplus loro sottratto, sarebbe esemplificativa di un riformismo definibile davvero, [come tale – nota nostra] . Il riformismo dell’antitesi.
La costruzione/ricostruzione dell’antitesi si farà (e anche in ciò non c’è nessuna predeterminazione) solo attraverso un percorso non breve e assai accidentato. Un percorso che richiede un impegno costante senza alcuna attesa risolutiva straordinaria. Un atteggiamento «riformista», insomma. Un percorso che richiede la consapevolezza che in ogni istante può esserci la possibilità di una parziale rottura del tempo determinato. Un atteggiamento «rivoluzionario», insomma.
(Per leggere l'articolo nella sua integralità cfr. Il Manifesto del 29 luglio 2023]