L'adorazione del sole
e della luna era considerata dai greci una usanza da barbari, con
Pitagora inizia una certa reverenza nei confronti dei pianeti, a cui
Platone attribuisce natura divina. poi arriva Roma sotto il segno del
Toro. Una breve storia dell'astrologia da Babilonia a Goethe.
Raffaele Salinari
Stelle vagabonde
e culto dei presagi
“Perché, alzando
gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto
l’esercito del cielo, tu non sia trascinato a prostrarti
davanti a quelle cose e a servirle…”. Così nella
Bibbia, (Deuteronomio IV, 19) si afferma la
gerarchia inflessibile tra il vero ed unico Dio
e l’influsso degli astri sulla vita degli uomini,
stigmatizzando al contempo coloro i quali la
mettono in dubbio.
Eppure ogni inizio
di anno l’astromantica, l’antico tentativo della mente
umana di unificare scienza e fede per leggere
negli astri in perenne movimento gli auspici delle cose, ritorna
con le rinnovate previsioni dei suoi almanacchi
e dei relativi oroscopi.
Ma tutto questo non
doveva soccombere definitivamente di
fronte alla nascita della nuova teologia cristiana,
all’unico vero figlio del Dio che non poteva ammettere altro potere
sul creato se non il suo? Com’è stato possibile che
questa antica arte si sia progressivamente
insediata sino al cuore di quella religione monoteista a
dispetto dei dettami biblici e dei desiderata di
San Paolo, il fondatore della Chiesa istituzionale
e della sua teologia politica?
La nascita del
Salvatore stesso, infatti, venne annunciata ai maghi
orientali proprio da un astro mobile, comparso per
l’occasione nel firmamento delle stelle fisse, e Caldei
erano coloro i quali, leggendo il linguaggio del
cielo, avevano seguito il segno, giungendo a Betlemme
con i loro doni.
L’origine: Babilonia
L’astrologia, cioè
l’arte di trarre dai corpi celesti i segni della loro
influenza sulle vicende umane, nasce nell’antica Mesopotamia,
nel regno tra i due fiumi, dove un’atmosfera
straordinariamente limpida, arroventata
da un sole sfolgorante, fa apparire le masse celesti
ancora più vicine e potenti. Già Diodoro siculo,
nella sua Bibliotheca Historica, (Libro II, cap. IX)
così ce ne rende testimonianza: «I Caldei, che tra
i Babilonesi sono i più antichi, tengono
in quel Paese il posto che in Egitto
si arrogano
i sacerdoti… si applicano per tutta la vita agli
studi filosofici e traggono principalmente
assai gloria dall’astrologia. E come molto si occupano
dell’arte divinatoria, predicono le cose
future, e cercano, o con le espiazioni, o con
i sacrifici, o con certi incantesimi, di allontanare
le cattive vicende o di farne seguire le buone.
E sono anche valenti
nella scienza degli auguri, ed interpretano i sogni ed
i prodigi, e certamente vengono
reputati profeti esatti».
Probabilmente
Diodoro, come molti altri studiosi della tarda antichità,
conoscevano bene le tradizioni mesopotamiche
in fatto di astrologia, astronomia ed
astromantica; un patrimonio sconfinato
di osservazioni oggi solo in minima parte conservate
al British Museum come parte della biblioteca di re
Assurbanipal (668–626 a.C.). Ma quali erano gli
oggetti delle interpretazioni astrologiche?
Il flusso dei venti, le piogge o le siccità, la pescosità
dei fiumi, la presenza o meno degli animali, i giorni
propizi e quelli infausti per ogni singola
attività umana, le cagioni di fortune e disgrazie, di
salute e malattia, di nascita o di morte, i segni
per incominciare o terminare praticamente
tutte le attività da trarre secondo particolari
fenomeni naturali o celesti. E dunque non
solo di singoli oroscopi si trattava, bensì di
previsioni su un futuro governato dagli astri.
I pianeti (in greco
antico πλάνητες ἀστέρες , cioè plànētes
astéres, stelle vagabonde) indagati erano quelli
visibili ad occhio nudo già nell’antichità: la Luna, il
Sole, Venere, Marte, Giove, Saturno, Mercurio. Essi si
muovevano sul piano dell’eclettica «entrando» di
volta in volta nei dodici segni dello zodiaco, già nominati
nell’epopea di Gilgamesh, in relazione ai quali
erano osservati. Quando esattamente queste relazioni
furono fissate non è dato sapere, ma certo nel 2000 a.
C. già si sapeva che Venere è sia la stella del mattino
che quelle della sera «Che il sol vagheggia or da coppa or
da ciglio», come ci ricorda Dante nel Paradiso (VIII, V 12).
L’arte di
interpretare le stelle deve poter prevedere anche
la direzione che dal cielo prenderanno
i pericoli incombenti o le prospettive
salutari. Ed ecco che a Babilonia nasce la
geografia astrologica, in cui il mondo
conosciuto viene diviso in quattro Paesi corrispondenti
alle regioni celesti: Akkad, cioè Babilonia stessa,
a sud; Subartu, ad est di essa, si estende sino all’altopiano
armeno ed al Mar Caspio; a nord troviamo Elam, cioè una
parte della futura Persia ed infine, ad ovest, Amurru, cioè
l’Occidente, compresa la Siria e la Palestina.
Ad ognuno di essi veniva
assegnato un pianeta o una costellazione:
Giove, ad esempio, è anche chiamato stella di Akkad,
Marte stella di Amurru, mentre le Pleiadi sono assegnate ad
Elam. Si sviluppa, da questa tetrapartizione,
anche una divisione temporale, in cui alcuni giorni
erano più fausti o viceversa per ognuna delle
aree geografiche corrispondenti.
Tutto questo
è comprensibile solo alla luce della religione
astrale che dominava la vita degli antichi
Babilonesi. Ad ogni pianeta, infatti, non
corrispondeva una divinità, ma erano i pianeti
stessi ad esserlo, tracciando nel cielo le loro immutabili
«strade» attraverso le quali influenzavano la vita
degli uomini e di tutto il mondo loro sottostante.
L’esempio più noto,
e studiato, di questa identità, è certamente
quello tra Venere ed Ishtar, dea dell’amore e della
procreazione, benefica al Paese quando concede le
proprie grazie, dispensatrice di aiuto e di
guarigione, patrona della vegetazione. È lei
l’ipostasi babilonese dell’archetipo che genererà
l’Afrodite greca e poi la Vergine Maria madre di Dio, ultima
immagine del Principio di cura e manutenzione del
Mondo, epigona della Grande Madre che ai primordi della
spiritualità umana ne dominava le visioni.
Manca tuttavia
una conoscenza sicura di queste corrispondenze
tra divinità e pianeti; possiamo forse dire che
l’antichissima triade divina Anu, dio del cielo; Enlin, cioè il
Signore per antonomasia, dio della terra, ed Ea dio
degli abissi marini, altro non fossero che riferimenti
alle diverse «case» che i grandi pianeti
occupavano nello zodiaco. Anche le divinità
legate al Sole, in sumerico Utu ed in semitico Shamash
erano riflessi delle qualità dell’astro splendente,
della sua capacità di dare morte con la siccità
o vita con il suo calore.
Generalmente
benigna, e particolarmente osservata,
era infine la Luna, figura della notte che, nella metamorfosi
continua delle sue manifestazioni, ben si
incardinava nella mutevole vita del mondo sublunare.
Anche Giove, pianeta di Marduk, onnisciente creatore
del cosmo, vivificatore dei morti, veniva influenzato
dalla sua vicinanza o meno con l’alone lunare.
Divinità minori,
nel panteon assiro babilonese, erano legate ad altre
stelle, capaci di produrre figure demoniache, metà
uomo metà animale, o semplicemente esseri
mostruosi. Queste entità, generalmente malvage,
venivano esorcizzate da preghiere ed amuleti
astrali, generati per attirare le forze benigne
e dunque cambiare di segno all’influsso.
La generazione
di oggetti ed iscrizioni apotropaiche trova la
sua massima espressione nelle pietre di confine
databili XIV secolo a. C., in cui vengono raffigurati i
sette grandi dei come ammalati, cui vengono affiancati
testi esorcistici che chiamano alla loro
guarigione attraverso la cosiddetta «preghiera
della levata di mano», un rito di purificazione che
troviamo trascritto in un frammento a lettere
cuneiformi in cui Assurbanipal si rivolge ad
Orione in questo modo: «Parla, e che i grandi dei siano
con te! Levati e dammi il tuo oracolo!… Accetta la mia
levata di mano, ascolta la mia preghiera! Sciogli il mio
incantesimo, annulla i miei peccati!».
Ritroveremo
questi stessi demoni all’interno delle cattedrali
medioevali, quelle gotiche in particolare,
come espressione diretta dell’influsso orientale
astrologico che, tramite le Crociate, si era mosso verso
Occidente.
«La venerazione
del cielo stellato» dice Julius Wellhausen, noto
biblista tedesco del secolo scorso «era così
radicata nei Semiti, che anche per i monoteisti
Ebrei rimase sempre una grande tentazione, dell’aver
resistito alla quale Giobbe così si vanta: Vedendo la luna
avanzare solenne il mio cuore non ne è stato
segretamente sedotto e non ho mandato baci con
la mano».
Gli astri nell’antica
Grecia
Come arriva l’astrologia
nella Grecia classica, terra della razionalità
speculativa, della filosofia come amore
del Vero? Certo agli inizi della civiltà minoica, quella illuminata
dalle taurocatapsie dedicate alle ipostasi
teriomorfe della Grande Dea, sospesa sulla sua altalena
nella forma umana, non vi è traccia di culti celesti.
Il Sole e la Luna restano sullo sfondo di quell’arte
visionaria che ancora, anche se mercé il papavero, aveva
accesso diretto alla visione della Dea come scaturigine
del Tutto.
La stessa religione
greca, dopo che i Dori hanno colonizzato l’Ellade,
non trae impulso dagli astri. Le divinità greche sono
figure che non nascono o muoiono con o nella natura,
come la Luna o il Sole quando scompaiono dalla vista
degli uomini, ma hanno una esistenza eterna indipendente
da tutto.
Zeus nella sua forma
definitiva, antropomorfa, di capo degli dei, non
è il cielo splendente, anche se il suo nome in origine,
all’alba del linguaggio, quando esistevano le
parole-aggettivo, i primi sintagmi come li aveva descritti
Saussure, questo significava. Aristofane
dice chiaramente che l’adorazione del Sole e della
Luna sono usanze dei barbari.
Ovviamente
i marinai Greci si orientavano con le stelle,
come pure i contadini traevano i segni delle stagioni
dall’osservazione del cielo, ma in questo rapporto meramente
pratico non vi è nulla di religioso.
Certo nel cosiddetto
medioevo Greco, dall’anno mille sino agli albori della filosofia
jonica, quella dell’elemento unificante del Cosmo, del
Principio Primo, il luccichio delle stelle poteva alludere
e suscitare un sentimento mistico, ma erano
elementi che mai portarono ad una religiosità
astrale: al massimo sentimenti poetici, come
ben ci dice Omero nei suoi versi dell’Iliade (VIII, vv. 762–770):
«Quando in ciel tersa è la Luna e tremule e vezzose
a lei dintorno sfavillano le stelle… in cor
ne gode l’attonito pastore». Il saggio viandante
jonico, ci dicono Boll, Bezold e Gundel nel loro
Storia dell’astrologia, non venerava neppure il
terribile Sirio che con la sua apparizione
in luglio suscita i febbrili giorni della canicola
(dalla costellazione del Cane).
Lo stupore attonito
con cui nel 648, il poeta Archiloco vede manifestarsi
l’eclissi di sole, «tradisce tutto al di fuori del
reverenziale timore del padre Zeus». È vero che gli
jonici avevano anch’essi osservato le stelle, traendone
calcoli per le eclissi come nel caso di Talete, ma mai
queste nozioni furono usate per far corrispondere
ai fenomeni celesti il destino degli uomini. Certo la
mantica era diffusissima in Grecia,
e spesso portenti celesti erano interpretati
come segni divini: fulmini e tuoni appartengono
a Zeus, la caduta di un meteorite suscita il timore del
prolungarsi di una guerra, e ancora nel 463 a.C.
Pindaro scrive per i tebani un inno inteso a placare
l’ira degli dei dopo una eclissi.
Anassagora vede
nel cielo la sua patria, ma in nessun caso questi afflati
religiosi tradiscono un rapporto specifico
fra i fenomeni e la volontà degli dei inscritta nel
cielo: sono solo effetti collaterali delle loro
volontà superiore. «Di una tecnica per interpretare
in base ad essi il futuro», dicono ancora gli autori della Storia
dell’astrologia, «e di una credenza nel destino fissato
nel firmamento, non vi è traccia».
Naturalmente la
dottrina dei giorni fausti e di quelli contrari
era nota ai greci dell’antichità, e dunque certi
influssi, in particolare di provenienza
Egiziana, si facevano sentire. Ma è con le
conquiste orientali di Alessandro Magno e,
ancor più, con le dottrine filosofiche di
Pitagora, che i pianeti entrano nella vita dei greci.
Vi è in questo filosofo un chiaro timore
reverenziale per gli astri, per la sublime bellezza del
Cosmo, l’intuizione e poi la scoperta di certe leggi,
a partire dalle corrispondenze musicali, che regolano
tutto il creato. Questa corrente di pensiero sarà
ripresa in epoca romana da Cicerone quando afferma che «nel
cielo nulla ha luogo a caso e senza un disegno
prestabilito».
Ma sarà la crisi
spirituale del mondo Greco del VI secolo a.C. con la
nascita dell’orfismo, a dare alle dottrine pitagoriche
della reincarnazione e dello studio delle
immutabili leggi cosmiche, la forza del misticismo
astrologico, il culto di quelle «divinità
visibili» che erano i pianeti e le stelle.
Questo nascente
interesse per l’osservazione astrale, unito alla sempre
presente razionalità del pensiero greco, porterà
nel II secolo a.C. Aristarco di Samo ad espellere la
Terra dal centro del cosmo ed ad adottare una ipotesi
eliocentrica molti secoli prima di Copernico.
Giungiamo così
a Platone ed alla sua Accademia che aveva ripreso
alcuni concetti pitagorici arrivando a dichiarare
la natura animata e divina dei pianeti, principio
ripreso anche dal suo discepolo Aristotele che, pur
criticando il Maestro su molti punti, tiene
anch’egli ferma «la stupenda armonia, come in
volontaria osservanza alla legge che tutto governa, che
esprimono ogni notte i pianeti».
Apoteosi, è il
caso di dirlo, di questa concezione platonica,
è la compiuta espressione della natura astrale dell’anima,
ognuna legata ad una stella diversa, espressa nel Timeo (41 E), ove
il Demiurgo assegna ad ogni anima una stella come
veicolo: «Dopo che ebbe costituito tutto, lo divise
in anime, tante quante erano gli astri, distribuì ciascuna
anima a ciascun astro, e postele in tal modo come su
un veicolo, mostrò loro la natura del cosmo e disse loro
le leggi del Fato».
È l’idea
dell’astrum in homine: la ricerca della propria stella
interiore come riflesso di quella fitta entro il
macrocosmo cosmico; la ritroveremo anche in
Paracelso e, più in generale, in tutto il
neoplatonismo rinascimentale, da
Marsilio Ficino a Pico della Mirandola. Arriviamo
così a Teofrasto, allievo di Aristotele,
che nomina esplicitamente i Caldei ed
esprime ammirazione per la loro arte; ed alla fine del
periodo ellenistico saranno le invincibili legioni di Roma
a mostrare il segno del Toro sui loro stendardi come emblema di
Cesare, raffigurazione della congiunzione
con la reggenza di Venere sotto la quale era nata la gens
del grande condottiero. Ritroveremo questa
raffigurazione nel Palazzo Schifanoia
di Ferrara.
Augusto farà
pubblicare il suo oroscopo col segno del Capricorno,
sua costellazione natale: le titaniche forze astrali
dell’Oriente hanno alla fine vinto l’originaria razionalità
Greca e sono passate vittoriose a conquistare
Roma. La cometa apparsa nel cielo dopo l’uccisione di Cesare viene
interpretata da tutti come sidus Julium: prova sicura
dell’assunzione del dittatore tra gli astri che dominano
l’Universo. Il giovane Ottaviano, suo erede, si spinge
oltre: vede nella cometa il presagio della sua stessa
ascesa. Nella vita di Tiberio sono gli oroscopi a dettare
gli ultimi anni di regno. Non più Cosmo dunque, ma oramai
Universo, questo cielo è una invenzione prettamente
romana, un infinito rivolto da una parte sola, cioè regolato
secondo leggi ferree il cui senso verrà determinato
dal nomos del più forte.
Nei secoli imperiali
il culto degli astri innerva ogni religiosità pagana. Il
Pantheon di Agrippa e di Adriano, con i suoi
rosoncini a forma di stella e l’occhio solare da cui
irrompe la luce, le sette nicchie originarie,
altro non è che un tributo ai grandi astri che dominano
il fato degli uomini; «allegoria del cielo» lo chiama lo
storico Dione Cassio.
Ancora più avanti, ormai
all’inizio della decadenza imperiale, il culto
misterico-solare di Mitra, proveniente dall’Oriente,
sussume lentamente tutte le altre divinità; come
ha detto Franz Cumont: «L’astrologia offre alla nuova religione
solare una teologia scientifica, ovvero la dimostrazione
scientifica di ciò in cui si crede». La luna, lo
Zodiaco, il Sole, sono elementi fondanti del culto di
Mitra. La fede nel Sol Invictus, eretta a culto imperiale
dall’imperatore Aureliano dopo la presa di Palmira nel
273 è l’ultimo atto della credenza pagana negli astri,
tramonterà col decreto di Teodosiano nel 391.
Tolomeo ed il
cristianesimo
La figura centrale
dell’era cristiana in fatto di astrologia
è certamente Tolomeo che, nel secondo
secolo dopo Cristo, descrive l’Universo ordinato secondo
la centralità della Terra: immagine che darà all’astrologia
una base immutabile di osservazione sino alla rivoluzione
copernicana.
È di fronte a questa
situazione che si trova a dover profilare la sua
alterità il cristianesimo che deve
affermare la nuova fede universale. Come altre
religioni soteriologiche esso offre la salvezza
nel «regno dei cieli», dunque oltre l’influsso degli astri
e del fato. Paolo, consapevole che queste
credenze nel potere degli astri, e la loro
interpretazione, potevano minare alla base il
destino della nuova istituzione ecclesiale, prende di mira
direttamente l’astrologia nella lettera ai Romani
(I, 19–
21): «Poiché ciò
che di Dio si può conoscere è loro manifesto;
Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le
sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna
potenza e divinità, vengono contemplate
e comprese dalla creazione del mondo attraverso le
opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo
di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo
hanno glorificato né ringraziato come Dio,
ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti
e la loro mente ottusa si è ottenebrata».
Qui si afferma per la
prima volta l’amore di Dio contro le potenze degli astri e del
destino: in seguito schiere di apologeti cristiani si
ispireranno a questo passaggio per proclamare
peccaminosa e vergognosa l’adorazione
non di Dio ma del suo capolavoro, l’Universo,
elevando così a falsi idoli il Sole e la Luna.
Eppure la forza del culto
solare, dal miracolo dell’eclissi alla morte del Cristo, Sole
esso stesso immensamente luminoso ed eterno,
preceduto dalla comparsa della cometa che orienta
i Magi verso la Natività, spinge la Chiesa, secondo lo
studioso Joseph F. Kelly nel 336, a rifarsi ad un passo del
profeta Malachia che chiama Dio «Sole di giustizia»,
per fissarne la data di nascita il 25 Dicembre, cioè
quello che per i pagani era il «genetliaco del sole», in
quanto da quel giorno, il solstizio di Inverno, la
luce aumentava: Lux crescit.
E così la Luce del
Mondo, il Cristo, il Cristallo purissimo degli
alchimisti cristiani, non poteva che essere nato lo
stesso giorno. Riflessi di questa sovrapposizione
solare tra Gesù ed il Sole li ritroviamo anche nel tedesco
Sonntag o nell’inglese Sunday per dire
domenica che ben più del «giorno del signore», ci dice
dell’antica origine del Natale, frutto dunque
dell’inesauribile luce delle stelle.
Certo alla fine ci furono
degli accomodamenti teologici per cui,
a partire dall’epoca bizantina, ma ancor più dopo
le Crociate, si afferma il principio che Dio è in
tutto e che dunque anche negli astri è possibile
leggere la sua volontà. Così già Origene sostiene che gli
angeli possono leggere nelle stelle il linguaggio
di Dio, come pensavano d’altra parte molti devoti;
Giustiniano però condannò questa visione.
Passano i secoli
e l’astrologia si insinua saldamente nella
religiosità cristiana: per il mistico poeta del
Parzifal Wolfram von Eschenbach (1170–1220
circa) «non è forse tutta la vita degli uomini regolata
dal giro degli astri?». Anche i Carmina Burana, giocano
con l’azione degli astri nelle cose del mondo.
Nei secoli XV e XVI
oramai il prestigio dell’astrologia è in
costante aumento: Papa Giulio II fa calcolare agli
astrologi il giorno propizio alla sua
incoronazione, mentre Leone X (1475–1521) fonderà
addirittura una cattedra di astrologia
presso la Sapienza. Nelle università di Bologna,
Padova e Parigi la scienza dell’interpretazione degli astri
fiorisce; in altre parti d’Europa pure: Ottone Enrico del
Palatino (1502–1559) chiede ai suoi dotti di riunire
i frammenti sparsi di questa scienza in una
grande libro miniato, Borso d’Este, a Ferrara, siamo
verso il 1470, fa dipingere nel famoso palazzo Schifanoia
i celebri affreschi con gli Arcani Maggiori.
E così si arriva al
Rinascimento, al grande Pico della Mirandola che, pur
apparentemente avversario dell’astrologia
— il suo Disputationes adversus astrologiam
divinatricem verrà usato da Savonarola per
scagliarsi contro i maghi - immerge i suoi
pensieri negli studi cabalistici e nella mistica
pitagorica e platonica.
Ironia della sorte,
la sua morte precoce (1494), che trova conferma punto per
punto in un prognostico astrologico, smentisce
alla radice la sua opposizione. Alcuni sostengono
anche che sia stato avvelenato da Marsilio Ficino
proprio per la sua opposizione all’astrologia,
ma questa è un’altra storia.
Lutero riconosce
un segno ammonitore di Dio nel temuto incontro di
diversi pianeti nella costellazione dei pesci, lascito
della sapientissima astrologia araba, mentre
Tycho Brahe, il grande astronomo scandinavo dichiara
nella prolusione all’apertura dell’anno
universitario del 1579, dopo la pubblicazione
del suo oroscopo in onore del cristianissimo
Principe di Svezia e Danimarca: «Dio ha così
fatto gli uomini che, se vogliono, possono vincere le
funeste inclinazioni degli astri». Anche Copernico
sarà un astrologo, come Galileo, e perfino
Leibniz in qualità di presidente della
Accademia di Prussia, tollera ancora che i suoi
calendari presagiscano il tempo dallo stato
dei pianeti.
Venne poi ad abbattere
ed oltrepassare ogni soglia, illuminato dal fuoco
della sua esecuzione, il pensiero di Giordano
Bruno, il sincretico profeta astrologo che però
troppo lontano si era spinto a cercare la fede nella
«saggezza della Madre Materia». Passano così i secoli
e l’astrologia resta a presidiare il cuore
delle relazioni tra la terra ed il cielo col beneplacito
della Chiesa. Neppure l’Illuminismo poté darle il colpo
definitivo se, ancora ai primi del Novecento, Madame
de Thèbes riusciva a gettare nel panico
i francesi con le sue profezie da Pizia
contemporanea.
Leopardi chiarisce
il suo pensiero sugli oroscopi nel celebre Dialogo
tra un viaggiatore ed un venditore di
Almanacchi: «Quella vita ch’è una cosa bella, non è la
vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la
vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso
incomincerà a trattar bene voi e me e tutti
gli altri, e si principierà la vita felice. Non
è vero?».
Ma è forse Goethe,
con il suo genio tollerante e lo sguardo perspicuo
per tutto ciò che humanun est a dire la parola
definitiva: «La superstizione astrologica
si basa sull’oscuro senso di un universo sconfinato.
L’esperienza insegna che le stelle più vicine hanno un
influsso decisivo sul tempo, sulla vegetazione etc…
non c’è che da salire di grado in grado, sempre più in
alto, e chi può dire dove questa azione cessi?».
Sì chi può dirlo? Il
calendario di Frate Indovino, pubblicato dal
1945 con rubriche quali «le stelle parlano» o «vedo
e prevedo», e che continua
a diffondere in sei milioni di copie ogni anno le
inesauribili osservazioni astrologiche
dei Frati Cappuccini, non è forse ritenuto
da noi tutti, credenti e non, un testo di profonda
saggezza che legge negli astri il Segno dei tempi?
Il manifesto – 10
gennaio 2015