La più celebre delle
favole nasconde molti significati perchè quei nani vengono da molto
lontano, da una Grecia arcaica sospesa fra mito e magia. Altrettanto
degno di approfondimento sarebbe "l'esoterismo" implicito nei cartoon di Walt Disney, iniziato alla Massoneria e dunque aperto all'influenza della Tradizione.
Raffaele K. Salinari
Biancaneve e i sette
maghi
Nel 1812 viene pubblicata
nella raccolta Kinder und Hausmärchen (Fiabe dei bambini e del
focolare), a cura dei fratelli Grimm, la storia di Biancaneve ed i
Sette Nani. La trama è nota: la mamma della bambina muore dandola
alla luce ed il padre si risposa con una donna malvagia, una vera e
propria strega che vuole ucciderla. In altre versioni, decisamente
più “psicoanalitiche” e gotiche, è la mamma stessa che
impazzisce di gelosia di fronte alla bellezza della figlia e la vuole
morta. Fatto sta che dopo ben due tentativi andati a vuoto, oltre che
assoldando un killer che però ha il cuore tenero, la madre/matrigna
riuscirà a darle una mela avvelenata che la fa sprofondare in un
sonno di morte.
La bara di cristallo
E allora dorme
Biancaneve nella sua teca di purissimo cristallo: la pelle bianca
come la neve e le guance rosse come il sangue sono incorniciate dai
capelli, neri come l’ebano. Così la volle sua mamma (è questo
desiderio eugenetico che la farà impazzire?) prima che lei nascesse.
Ed ora la bella ragazza sembra morta anche se il suo aspetto resta
splendido e incorrotto.
Eppure sino a
quell’infausto incontro con la strega la vita era scorsa tranquilla
nella casetta del bosco, dove la bambina inseguita dal male aveva
trovata finalmente rifugio presso i Sette Nani. Ma la madre/matrigna
cattiva, grazie allo specchio fatato, aveva scoperto che la ragazza
era viva e in salute. Travestitasi da vecchia venditrice, allora, si
era presentata alla casa dei Nani e per ben due volte aveva cercato
di uccidere Biancaneve, prima stringendole una cintura in vita fino a
toglierle il respiro, poi facendole passare tra i capelli un pettine
avvelenato.
In entrambi i casi,
però, la giovane si era salvata grazie all’intervento dei Nani,
che riescono a rianimarla con le loro arti di guaritori. Ma,
purtroppo, il terzo tentativo andrà a segno: una mela avvelenata
verrà mangiata da Biancaneve che cadrà in catalessi tanto
profondamente da farla apparire morta. E così i Nani si preparano a
seppellirla; però il tempo passa e lei è sempre tanto bella… sarà
anche per via della triade cromatica, nero bianco e rosso, che
individua le varie fasi dell’Opera alchemica? Chissà.
E così, affinché la
terra bruna non reclami quel corpo in animazione sospesa, viene
costruita questa meravigliosa teca di cristallo che permetterà di
vegliare la bella ragazza, se necessario sino al risveglio. Il suo
sacello è dunque un manufatto che certamente ha del magico: non è
facile tenere insieme delle lastre di cristallo e farle rimanere così
trasparenti ed ermetiche per «tanto tanto tempo», come ci dice la
favola del sonno di Biancaneve.
Ma chi l’ha
costruita questa meraviglia? E come? Certamente sono stati i Nani: i
Sette Nani amici e protettori di Biancaneve; abili artigiani e
minatori, conoscitori degli antichi segreti che giacciono nella
profondità della terra, scavatori di gemme preziose, sono anche
fabbri provetti, signori incontrastati della metallurgia e soffiatori
di vetro, dominatori del fuoco che plasma i metalli e ne fonde
insieme le parti.
Ma chi sono veramente
i Sette Nani, da dove vengono? Sappiamo bene che Walt Disney era un
visionario che traeva le sue creature dalla letteratura per ragazzi
ma, al tempo stesso, la sua appartenenza massonica ne facevano di
fatto un iniziato a contatto con molti degli aspetti della
Tradizione. Ancora si narra della sua ibernazione nelle viscere di
Disneyland in attesa del risveglio (come Biancaneve e la Bella nel
bosco addormentato?).
Per questo, se alcuni
dei suoi personaggi sono rivisitazioni di protagonisti delle favole
classiche, Peter Pan con la sua ninfa Wendy, la Bella nel bosco
addormentato (questo è il titolo originario) e Biancaneve appunto,
altrettanti deuteragonisti sono invece scelti perché vengono da
molto più lontano, perché il loro essere emana ancora l’aura
delle origini, del divino. E spesso questa deriva dalla Grecia
arcaica sospesa tra mito e magia: è il caso dei nostri Sette Nani.
Lasciando da parte le
evidenze numerologiche legate al sette, sulle quali non ci
addentriamo perché sin troppo palesi , cerchiamo invece di risalire
ai loro antenati, ai loro ascendenti mitologici: se ne studiamo le
caratteristiche arriviamo chiaramente a collocarli all’interno
della cosmologia della Grecia omerica.
I Telchini di Rodi
Loro sono, infatti,
la trasposizione moderna, colorata e gioiosa, degli assistenti di
Efeso, il dio fabbro che forniva agli dei gli strumenti del potere o
delle loro gesta. Sono i Telchini di Rodi, esseri che la mitografia
ci descrive come naniformi, dalle fattezze deformi, come del resto lo
era il loro padrone e mentore, capaci di fulminare con lo sguardo o
«gettare il malocchio» su quanti si opponevano al loro volere, ma
anche di produrre, agli ordini di Efeso, dei manufatti unici e
favolosi, dotati di una potenza magica ineguagliabile persino dagli
dei stessi.
La loro nascita è
antichissima: avrebbero addirittura inventato la falce usata da Crono
per evirare il padre Urano, forgiato il primo tridente di Poseidone,
ci narrano Diodoro Siculo e Svetonio (Περὶ βλασφημιῶν
4, 49). Si tramanda che in origine, prima di diventare sette, fossero
tre, chiamati Oro, Argento e Bronzo, in ricordo del materiale
scoperto da ciascuno e che furono infine disarmati dalla pioggia di
Zeus o dalle frecce di Apollo.
Una prima
ricostruzione etimologica del loro nome viene da Svetonio, che
tramanda un altro appellativo diffuso per indicare queste creature,
Thelgines, che deriverebbe dal verbo greco θέλγω, “incantare,
ammaliare”, con riferimento alla loro natura stregonesca. In
effetti si è evidenziato lo stretto legame esistente tra i Telchini
e le Sirene, altre creature magiche e pericolose. (Cfr. D. Musti, I
Telchini, le Sirene. Immaginario mediterraneo e letteratura da Omero
a Callimaco al romanticismo europeo, Pisa 1999).
Ma i loro manufatti
magici di eccezionale valore e potenza non si limitano certo al
tridente di Poseidone o al falcetto che evirò Urano, dal cui membro
caduto nelle acque, non lo scordiamo, nacque in seguito Afrodite,
dato che afros significa non solo spuma ma anche sperma. E allora
vediamone alcuni.
Demetra e Atena
Il mito narra che
Demetra donò a Trittolemo, figlio di Celeo re di Eleusi, il segreto
del grano per fare il pane, così come Dioniso diede a Icario quello
del vino. Ma Atena, la dea guerriera, nata già in armi dalla testa
del Padre Zeus, non volle essere da meno ed insegnò all’umanità
come arare la terra con l’aratro per rendere il chicco di grano
fecondo.
Atena dunque – dea
della saggezza e patrona degli eroi guerrieri ma non della guerra,
governata dall’ottuso e brutale Ares – domanda ad Efeso di
forgiare il primo aratro. E così il fabbro divino inventa lo
strumento col quale ella potrà donare agli agricoltori la prima e
basilare tecnologia per dominare i prodotti della terra.
Ma, narra Servio nel
suo Commentario dell’Eneide, che in Attica viveva un tempo una
fanciulla di nome Murmix. Atena la teneva in grande amicizia perché
era vergine come lei ed aveva una grande abilità manuale. Ma un
giorno l’amicizia cedette il posto all’odio, come spesso accade
nelle relazioni ineguali tra dei e uomini. Ecco perché: Murmix, che
era al corrente dell’invenzione di Atena, l’aratro, ebbe
l’audacia di rubarne il manico e si recò presso gli uomini
dichiarando che esso era il pezzo mancante che avrebbe permesso loro
di coltivare con perizia la terra.
La vendetta di Atena non si
fece attendere: i Telchini si incaricarono di recuperare il manico e
di fissarlo nuovamente all’aratro, mentre Murmix veniva trasformata
in formica, condannata a vivere rubando di quando in quando un chicco
di grano.
Atena deve dunque
questo ruolo di «divinità tecnologica» ad Efeso ed ai suoi
assistenti Nani ma, come sappiamo, in realtà deve loro molto di più:
la sua stessa nascita.
La sua genesi,
infatti, è tutta legata all’abilità di Efeso, anche se la
relazione tra le due divinità non viene abbastanza illuminata di
quella luce mitologica che, invece, tanto potrebbe ancora insegnarci.
La dea è figlia di Zeus e della sua prima moglie Metis, una Titanide
nata da Oceano e Teti. Metis è la divinità dell’intelligenza
accorta, dell’astuzia, della capacità di valutare a colpo d’occhio
una situazione, della strategia bellica. Sul piano umano l’eroe
della metis è indubbiamente Ulisse, non a caso sempre protetto ed
aiutato da Atena.
E così quando Metis
resta in cinta di Zeus egli, ci racconta Esiodo nella sua Teogonia,
semplicemente la inghiotte, perché?
Ebbene il futuro re
degli dei sapeva bene che la stessa sorte che lui aveva inflitto al
padre Crono poteva toccare a lui se gli fosse nato un erede
abbastanza intelligente, astuto e indipendente da prendere il suo
posto. Decide così di assimilare la dea dell’astuzia e di
partorirne personalmente la figlia, legandola così a sé. Atena,
infatti, sarà sempre legatissima al padre, arrivando a disprezzare
le donne comuni ed anche le altre divinità femminili.
Ma chi farà
“partorire” Zeus? Sarà appunto Efeso, forgiando prima di tutto
una particolare ascia di bronzo e poi utilizzandola a colpo sicuro
per spaccare in due la testa del cronide per farne uscire la figlia.
Anche in questa occasione chirurgico ostetrica, saranno i suoi Nani a
cercare i metalli nelle viscere della terra per creare uno strumento
così potente, si badi bene, da fessurare il cranio del re degli dei.
Se pensiamo, allora,
non solo a quanta abilità tecnica ci vuole per un manufatto del
genere, ma a quanta potenza magica, superiore finanche alla forza
divina, per farlo funzionare, capiamo che le figure “minori” che
si muovono sullo sfondo delle narrazioni spesso rappresentano in
realtà le Potenza archetipiche che rendono perenne la mitologia
stessa.
Avrebbe trionfato
Achille, pur nella sua fine tragica, come eroe indiscusso
dell’Iliade, senza le famose armi? Cosa sarebbe stata la mitica
figura se la madre Teti non fosse andata da Efeso a chiedergli di
forgiarle? E senza i Nani dove avrebbe preso il metallo la
particolare tonalità lucente che lo ha reso terribile, se questi non
avessero infuso in esso la loro sapienza magica?
Si dice che le armi
di Achille gettassero uno «sguardo penetrante» sui nemici; ebbene
chi ha dato questo sguardo alle bronzee ermi del pelide se non i
Telchini che possedevano il potere dello sguardo incantatore?
Tutto
ciò deve farci riflettere su come la mitologia possa essere riletta,
perché la nostra interpretazione è ancora decisamente superficiale,
legata agli effetti ma lontana dall’indagare gli archetipi che li
hanno determinati.
Bellerofonte e Pegaso
Un altro eroe che non
avrebbe potuto compiere la sua impresa senza i Telchini è
Bellerofonte. Sappiamo che il suo scopo era combattere ed annientare
la Chimera, il mitico animale dalle diverse nature.
«Era il mostro di
origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda; e
dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno, col favor
degli Dei, l’eroe la spense» (Iliade, VI, 180-184).
Sappiamo che il
mostro devastava il territorio di Patara e che il re di Licia Lobate
ordinò a Bellerofonte di ucciderlo.
Ora solo l’aiuto di
una animale possente ed indomabile poteva aiutare l’eroe
nell’impresa: il cavallo alato Pegaso. Nato dal sangue della
Gorgona Medusa, il cui capo era stato mozzato da Perseo, il mitico
destriero non si faceva imbrigliare da nessuno.
E allora, ancora una
volta, entrano in gioco i Telchini, i Nani magici che diventeranno
poi i protettori di Biancaneve. Sono loro, infatti, a fornire ad
Atena il morso dorato che permetterà a Bellerofonte di governare la
sua cavalcatura e portare a compimento l’impresa.
Senza il magico morso
da loro forgiato nessuno avrebbe potuto costringere il cavallo alato
ad essere cavalcato e guidato.
E qui entra in gioco
un altro particolare della storia di questi Nani assistenti di Efeso,
e cioè il loro aspetto fisico. Abbiamo detto che sono naniformi e
che somigliano anche in parte al loro padrone, che notoriamente aveva
i piedi storti per via della caduta dall’Olimpo. Ma la deformità,
specie se mitologica, ha sempre un significato emblematico ed a volte
ambivalente; in questo caso la capacità dei Telchini di poter
frequentare gli abissi marini in quanto metamorfici e dunque,
all’occorrenza, dotati di pinne e chele.
Qui il parallelo tra
i Nani di Biancaneve, Efeso ed i Telchini si arricchisce di
interessanti particolari. Ad un certo punto della favola raccolta dai
Fratelli Grimm, in una delle sue tante versioni, si descrivono i Nani
come uniti ai loro strumenti di lavoro da un legame particolare,
quasi simbiotico, come se questi fossero «prolungamenti dei loro
stessi arti».
Ebbene i Telchini –
ci dice H. Herter che nel suo splendido libro monografico Telchinen
riporta l’opinione di Diodoro siculo e di Nonno di Panopoli nelle
Dionisiache – hanno alla bisogna sia pinne per immergersi in mare,
come le foche, o addirittura vere e proprie chele come i granchi, che
consentono loro sia di scendere nelle profondità marine sia di
estrarne materiale che si trova solo nelle caverne subacquee. Queste
loro caratteristiche, dunque, al di là della deformità, come i
Sette Nani di Biancaneve, li rendono però speciali e specificamente
adatti a compiere lavori altrimenti impossibili.
Non dimentichiamoci
che anche Efeso era descritto con i «piedi da granchio» cioè
storti kullopodÍon.
Come ci ricorda M.
Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nella Grecia antica,
i granchi venivano stimati in grandissima considerazione, specie a
Rodi, dato che essi venivano ritenuti quelli che ancoravano l‘isola
al fondale marino. A Lemno, invece, altra isola, l’epiteto karkÍnon
indicava sia la chela del granchio sia le tenaglie del fabbro,
chiudendo così in cerchio analogico tra i Telchini ed Efeso.
Altro particolare
mitologico interessante, diremmo quasi lamarckiano, cioè dove è
l’organo a fare la funzione, i piedi del fabbro erano adattissimi,
per questa loro deformazione granchiforme, a muoversi di lato così
da consentirgli di passare da un mantice all’altro velocemente.
Anche in tedesco esiste l’espressione krebsgang, usata da Hegel,
che significa appunto camminare di lato come un granchio.
Le scarpe della
matrigna
Biancaneve. La sua bara
trasparente, ad un certo punto, si aprirà dopo una caduta, senza
rompersi, e la bella ragazza verrà liberata dalla mela avvelenata
che le era rimasta nella gola. Ancora una volta l’abilità dei Nani
si rivela fondamentale anche perché, non lo dimentichiamo, l’avevano
già salvata altre due volte, sempre mercé le loro arti magiche.
Ma il ruolo
metallurgico, ed a questo punto anche vendicativo dei Nani-Telchini,
non finisce certo con il risveglio di Biancaneve. Ed infatti sappiamo
come finisce la fiaba, almeno nelle versioni originali raccolte dai
Grimm: la matrigna cattiva è costretta ad indossare per il ballo del
matrimonio un paio di scarpe arroventate che la costringono a ballare
sino a che non cadrà morta in terra… indovinate un poco chi le ha
forgiate?
Il manifesto – 4 marzo
2017