Il Golem era ritenuto
incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di
emozione perché privo di un'anima che nessuna
magia fatta dall’uomo sarebbe stata in grado di fornirgli
Raffaele K. Salinari
Frankenstein reloaded
«Ti chiesi io,
Creatore, dall’argilla di crearmi uomo, ti chiesi io
dall’oscurità di promuovermi…?». Così parla Adamo
dopo la Caduta nei versi del Paradiso Perduto di
Milton. Oggi questa relazione tra creatore
e creatura torna prepotentemente di
attualità, specie se l’agente causale della
creazione è l’uomo stesso. È recente, infatti, la
notizia del riuscito trapianto, per la prima volta in
Europa — in Inghilterra — di un cuore espiantato da un
cadavere, di un organo cioè clinicamente morto,
consentito da una tecnica di «ricondizionamento»
dei tessuti. Una metodica che apre la porta all’entrata
nella vita reale di quell’archetipo dell’immortalità fisica
attraverso la rivitalizzazione della
materia organica, già magistralmente illustrato
dal Frankenstein o il moderno Prometeo di
Mary Shelley.
I Prometei del
passato
Prometeo: il
Titano che rubò il fuoco dagli dei per donarlo all’umanità; da
sempre il simbolo della liberazione dalla
schiavitù dell’ignoranza e l’anelito alla conoscenza
come fonte di libertà. Ma anche la metafora della hýbris,
dell’orgoglio che vìola leggi immutabili, con la
conseguente némesis, la punizione divina,
in questo caso per una conoscenza di forze superiori
che si possono rivoltare contro chi non è in
grado di gestirle, perché il livello evolutivo non
è ancora in grado di disperdere le ombre che
scaturiscono dalla loro luce.
E così, prima del mostro
gotico per eccellenza, la Creatura di Mary
Shelley, altri antecedenti mitologici
e letterari ci narrano della volontà dell’uomo
di ricreare la vita imitando il suo stesso Creatore. Già
nella Bibbia, nel Salmo 139–16 infatti, compare la figura
del Golem. Il termine deriva probabilmente
dalla parola ebraica gelem che significa «materia
grezza» o «embrione», che gli Ebrei accomunano ad Adamo
prima che gli fosse infusa l’anima.
Secondo la tradizione
cabalistica, dai poteri legati alla meditazione
sui nomi di Dio si può fabbricare un Golem di
argilla che può essere usato come servo. Si dice che il Golem sia
stato creato attraverso le formule contenute
nel Sefer Yetzirah — «Libro della formazione»
o «Libro della Creazione» — il più importante testo di
riferimento dell’esoterismo ebraico risalente alla
sapienza diAvraham, Abramo, che si distingue per l’esegesi
dell’alfabeto e della corrispondenza tra la
dieci Sefirot e l’anatomia del corpo umano.
Le Sefirot nella Cabala ebraica sono le dieci
«emanazioni» divine, cioè le modalità o gli
«strumenti» attraverso cui Dio si rivela
e continuativamente crea sia il Regno
fisico che la Catena dei Reami metafisici superiori
(Seder hishtalshelus).
Il Golem era
ritenuto incapace di pensare, di parlare e di
provare qualsiasi tipo di emozione perché privo
di un’anima che nessuna magia fatta dall’uomo sarebbe stata
in grado di fornirgli. Questo sottile diaframma
separa, almeno nella tradizione cabalistica, il
Creatore dall’uomo, incapace di generare la
coscienza di sé: ciò che distingue in essenza la vita
superiore da quella inferiore.
Nelle storie
narrate da Ahimaaz ben Paltiel, cronista
medievale del XII secolo, si narra come nel IX secolo il
rabbino Ahron di Bagdad, scoprisse
un Golema Benevento: era un ragazzo cui era stata
donata la vita per mezzo delle formule magiche contenute
nel Sefer Yetzirah. Sempre alla fine del IX secolo,
secondo Ahimaaz, nella città di Oria, in Puglia, risiedevano
dei sapienti ebrei capaci di creare il Golem. È interessante
notare come le lettere, che per la tradizione
cabalistica potrebbero essere utilizzate per
creare un Golem, sono le stesse conservate nelle
piccole Mezuzah — contenitori
del deuteronomio — simboli di alleanza con
Dio, che si trovano presso le porte di ingresso delle case
ebraiche.
Ancora oggi, ad esempio
nel ghetto di Venezia, è possibile osservarle.
La Mezuzah viene fissata obliqua, come la
vita. La sua funzione è rendere coscienti dei propri
doveri. Per i mistici ebrei, dunque, la vita non si
illumina se non c’è volontà consapevole.
I cabalisti dicono che solo così si può
varcare Malkhut: lasefirà ove la luce cambia
direzione, passando dalla discesa alla salita. In chi non
ha meriti è il luogo ove si fa esperienza della Caduta;
per chi esercita la retta intenzione è invece
l’inizio della trasfigurazione;
evidentemente tra le rette intenzioni non
rientra la volontà di ricreare la vita.
Tutte le leggende
inerenti il Golem, infatti, hanno in comune sia la volontà
creatrice dell’uomo che si vuole elevare a Demiurgo,
sia la punizione divina per un’opera prometeica che
travalica le sue capacità. Non a caso la figura
delGolem viene richiamata nel romanzo della Shelley
come ispirazione del dottor Frankenstein sia
dal punto di vista dei limiti della creazione umana, anche
laCreatura è apparentemente senza
anima, sia dal punto di vista della particolarissima
nemesi divina che si manifesta attraverso
l’attivazione di una oscura forma di coscienza da cui l’essere
creato dall’uomo è comunque in qualche modo
animato e che finisce, proprio per questo,
per rivoltarsi contro il suo creatore che non lo
riconosce per ciò che egli sente di essere: un’entità
forse non umana e tuttavia dotata di una
consapevolezza propria che vuole essere
gratificata.
Tutti questi
elementi sono magistralmente riassunti nella
vicenda del Golemcreato da Rabbi Loewe (1513–1609), celebre
rabbino in Praga, costruttore, secondo la leggenda, di
un potentissimo essere di fango, usato come schiavo ma che,
ad un certo punto, si ribella al dominio del suo dispotico
creatore. La storia narra come il Golem si
rivoltasse proprio perché non era riconosciuto
in lui lo «spirito», la sua vita equivalente.
Nel XII secolo esisteva
una versione della leggenda secondo la quale, per animare il Golem,
veniva scritta sulla sua fronte la parola «verità», in
ebraicoתמאemet; quando veniva
cancellata la lettera iniziale, l’Aleph, restava la parola
«morte»,תמmet, ed egli si
disanimava. Un giorno il rabbino lasciò il servo di
fango da solo; arrivata la sera il Golem trovò una
sua forma di esistenza e libertà tra le polarità
opposte della vita e della morte. Inebriato da
questa nuova sensazione fuggì seminando panico
tra gli abitanti del ghetto ed alla fine solo la presenza
di un bambino, un essere come lui innocente, lo fermò. La
scena finale è questa: il Golem si inchina
dinanzi al bambino che, invece di cancellargli la
lettera, accarezza tutta la parola, così che egli
possa finalmente morire, come un essere che ha veramente
vissuto.
Una versione della
leggenda, illustrata da Dino Battaglia
e pubblicato sulla rivista Linus nel
maggio del 1971, finisce con questa frase
illuminate: «Chi potrà dirci cosa pensava Dio nel
guardare il suo rabbino in Praga?».
Altro essere creato
dall’uomo attraverso le arti arcane
è l’Homunculus attribuito, tra gli altri,
a Paracelso, il celebre medico ed alchimista
svizzero (1493–1514), il cui vero nome era Philipp
Theophrast von Hohenheim. Nel testo del suo De
natura rerum, per la verità più probabilmente un
testo pseudoparacelsiano, troviamo una
ricetta in proposito, che parte da uno spermatozoo
(la fonte di vita), opportunamente allevato: «Se
la fonte di vita, chiusa in un’ampolla di vetro sigillata
ermeticamente, viene seppellita per
quaranta giorni in letame di cavallo e opportunamente
magnetizzata, comincia a muoversi e a
prendere vita. Dopo il tempo prescritto assume forma
e somiglianza di essere umano, ma sarà trasparente
e senza corpo fisico. Nutrito artificialmente
con arcanum sanguinis hominis per
quaranta settimane e mantenuto
a temperatura costante prenderà l’aspetto
di un bambino umano. Chiameremo un tale
essere Homunculus, e può essere istruito ed
allevato come ogni altro bambino fino all’età adulta,
quando otterrà giudizio ed intelletto».
Questa
trasfigurazione guiderà anche la creazione
dell’Homunculus nel Faust II di Goethe.
A questo proposito Pietro Citati, nel
suo Goethe, osserva che la meta che Faust si propone
è la più alta meta simbolica che Goethe abbia
mai proposto agli uomini: redime e salvare la
natura.
Da notare anche in
Paracelso, come poi sarà in Frankenstein, il
riferimento alla «magnetizzazione» come
forza agente della rivitalizzazione di sostanze
organiche, che troviamo già nel ‘700 ad animare
un «falso automa» per eccellenza, ilTurco del barone
ungherese Wolfgang Von Kempelen. Anche questa
fantastica macchina, infatti, capace di giocare
a scacchi e di sconfiggere i più
grandi scacchisti europei ed americani di
quel secolo, si diceva fosse animata dal «magnetismo
animale» studiato da Franz Anton Mesmer (1734–1815)
e dunque noto con il nome di «mesmerismo».
La notorietà del
«mesmerismo» è tale che Mozart, nel finale del
primo atto della sua celebre opera Così fan tutte, fa
«resuscitare» Ferrando e Guglielmo dalla
cameriera Despina la quale, travestita da medico,
rianima i due servendosi di una calamita,
mentre canta: «Questo è quel pezzo di calamita:
pietra mesmerica, ch’ebbe l’origine nell’Alemagna,
che poi sì celebre là in Francia fu».
Va detto che anche E. A.
Poe, indagatore del segreto del Turco, era un seguace
del «mesmerismo», tanto da scrivere alcuni celebri
racconti sull’argomento, tra i quali Rivelazione
Mesmerica (o Magnetica), in cui racconta di un
soggetto «mesmerizzato» che, in punto di morte,
comincia a descrivere la vita nell’aldilà. Qui lo
scrittore dei più avvincenti racconti dell’orrore
senza nome rovescia, in questo modo, l’archetipo delle
creazione della vita mondana in quella dell’aldilà.
Galvani e Volta
Ma, oltre a queste
ascendenze leggendarie o mistiche
presenti nel romanzo, al tempo della concezione
del Frankenstein furono ben più attuali ed
influenti le evidenze scientifico sperimentali,
dato che sin dalla metà del XVIII secolo diversi studiosi
stavano esplorando la concreta possibilità
di rivitalizzare la materia inerte rendendogli
quel «fluido vitale», come si pensava allora, che distingueva
la vita organica da quella inorganica. La lunga serie
di tentativi concreti di dare nuova vita ai tessuti
morti nasce con il «galvanismo», termine
derivato dagli esperimenti di Galvani e di
Volta.
Lo scienziato
bolognese studiò in particolare il
cosiddetto fenomeno dell’elettricità
animale sviluppando, sulla base di questo
assunto, la teoria secondo la quale gli esseri viventi fossero
in possesso di una sorta di elettricità intrinsecaprodotta
dal cervello, propagata al corpo tramite i nervi,
ed infine immagazzinata nei muscoli. Gli esperimenti
del padre della neurofisiologia nascono
dalle osservazioni di Benjamin Franklin che,
nel 1750, aveva dimostrato come nell’atmosfera fosse presente
una carica elettrica naturale che genera i lampi. Così
Galvani nel 1786 cercò di capire se e come l’elettricità
presente nell’atmosfera potesse generare contrazioni
muscolari; si accorse ben presto, però, che i due
fenomeni, quello naturale cioè estrinseco e quello
endogeno, intrinseco ai corpi — in questo caso delle
famose «rane preparate» — erano sì di natura simile,
ma diversi per generazione.
Lo scienziato, come
spesso succede, ebbe l’intuizione fondamentale
durante un ennesimo esperimento per collegare
l’elettricità naturale al fenomeno delle contrazioni:
era il 1781; Galvani, aveva «preparato» una rana,
con i nervi crurali e il midollo spinale
isolati, e l’aveva posta ad una certa distanza da una
Bottiglia di Leida, il primo rudimentale
generatore di energia elettrica messo a punto,
nell’omonima città, dall’olandese Pieter van
Musschenbroek nel 1746. Durante lo scocco di una scintilla
un assistente toccò per distrazione con la pinza il nervo
crurale scoperto e questo provocò
un’intensa contrazione delle cosce dell’animale.
Galvani rimase
impressionato dall’evento – la possibilità
cioè che esistessero altre forme di elettricità,
oltre quella naturale estrinseca — e decise di
approfondire l’intuizione.
Dopo diversi
esperimenti riuscì finalmente ad ottenere
delle contrazioni collegando, attraverso un
conduttore metallico, le strutture nervose,
nervi o midollo spinale, ai muscoli delle zampe. In questo
modo Galvani aveva creato un sorta di circuito simile
a quello che si formava proprio nella Bottiglia
di Leida.
Nel suo De viribus
electricitatis in motu musculari
commentarius del 1791, il bolognese
illustra le sue conclusioni: esiste negli
animali una elettricità intrinseca che egli
chiama «elettricità animale».
Negli animali,
dunque, esiste la capacità di immagazzinare
il fluido elettrico e di mantenerlo in uno stato
di eccitazione potenziale che l’arco conduttivo
è in grado di mettere in movimento producendo
la contrazione muscolare.
Questa teoria
fu poi contestata da Volta che iniziò
a considerare l’idea che l’elettricità
potesse derivare dai metalli stessi. Benché Galvani
dimostrasse, nel 1797, che la contrazione poteva
essere provocata connettendo direttamente
due nervi dell’animale senza l’utilizzo dell’arco metallico,
questo esperimento, considerato come
fondante l’elettrofisiologia, non venne compreso nelle
sue implicazioni poiché Volta era riuscito nel
frattempo a creare una macchina che poteva generare
energia: la pila.
Il successo di
questa invenzione portò in auge Volta e l’ipotesi
dell’elettricità animale venne accantonata.
Tuttavia
qualche decennio dopo, quando si comprese che
a generare l’elettricità della pila erano gli ioni
presenti nella soluzione salina e che il ruolo dei
metalli era solo quello di trasformare l’energia chimica
di questi ioni in energia elettrica, le intuizioni
di Galvani furono rivalutate.
Frankenstein
Junior
In tutto questo la
parte di comprimario venne giocata dal nipote di
Galvani, Giovanni Aldini, una sorta di Frankenstein
Junior che, tra il 1802 e il 1803, a Londra, eseguì
degli esperimenti su cadaveri umani e animali
con l’esplicito intento di riportarli in vita: collegava
alcuni elettrodi a teste mozzate ottenendo così
delle contrazioni dei muscoli pellicciai (quelli
che generano le varie espressioni del volto) e, mirabile
visu, a volte l’apertura delle palpebre, con effetti
sugli spettatori che si possono immaginare.
Se poi gli elettrodi venivano collegati ai corpi
decapitati si avevano vere e proprie
convulsioni e movimento degli arti che, per un
momento, davano l’illusione di una possibile rinascita.
Come ci ricorda Alex
Boese nel suo documentatissimo Elefanti
in acido, la dimostrazione più celebre rimane quella
svoltasi a Londra, al Royal College of
Surgeons, il 17 gennaio 1803: «L’assassino
ventiseienne George Forster, impiccato per
l’omicidio di moglie e figlio, appena staccato dalla
forca fu portato nella sala del collegio. Aldini
collegò i poli di una batteria rame-zinco da 120
volt a diverse parti del corpo di Forster: al volto
innanzitutto, quindi alla bocca e alle orecchie.
I muscoli della mascella ebbero uno spasmo e l’espressione
dell’assassino divenne una smorfia di dolore. L’occhio
sinistro si aprì, fissando sbarrato il suo
torturatore. Aldini divenne l’onnipotente
burattinaio di quella marionetta disarticolata:
fece battere un braccio sul tavolo, inarcare la
schiena, fece aprire i polmoni in un angosciato
respiro.
Poi, il gran finale:
collegò un polo ad un orecchio e infilò l’altro
nel retto. Il cadavere cominciò una danza grottesca
e terribile. Scrisse l’inviato del London
Times che la mano destra si era alzata stringendo il pugno,
mentre le gambe e i fianchi avevano iniziato
a muoversi. Agli spettatori non informati su
quel che stava succedendo sembrò davvero che il
corpo di quel disgraziato fosse sul punto di riprendere vita».
Non sappiamo se
Aldini abbia anche tentato di rigenerare stabilmente
un singolo organo morto, cosa improbabile per quei
tempi senza trapianti, ma sappiamo per certo che proprio
dai suoi esperimenti Mary Shelley trasse ispirazione
per il personaggio del dottor Frankenstein.
L’intelligenza
del cuore
Dagli esperimenti
di rianimazione dell’800 dovremo attendere un
centinaio di anni prima di arrivare alle tecniche
trapiantistiche attuali, favorite nel tempo
da una maggiore conoscenza sia della neurofisiologia
e dell’immunologia, sia da un avanzamento
tecnologico in vari campi correlati. Si
arriva così al primo intervento, quello operato da
Christian Barnard nel lontano 1967, con tutti gli
interrogativi che poneva la nuova tecnica: cos’è
una persona, cosa ne forma l’individualità unica ed
irripetibile, è possibile «restare se
stessi» ricevendo organi di un altro individuo,
soprattutto il cuore, vaso simbolico dei sentimenti
e delle regioni più profonde dell’essere?
Ma Barnard, e molti
altri dopo di lui, aveva trapianto un cuore pulsante, vivo.
Oggi, con il «ricondizionamento» di un cuore
morto trapiantato su un vivo, questi interrogativi
si espandono ulteriormente: è ammissibile
rianimare un cadavere, cioè resuscitarlo?
Porsi cioè alla stessa stregua della divinità, per chi ci
crede almeno, che ne ha decretato la morte? In questa serie
di questioni, da cui ovviamente ne conseguono
molte altre – prima tra tutte la definizione stessa di
morte — risiede il senso di un dibattito che ondeggia tra
psicologia, etica, medicina e religione.
Nessun organo come
il cuore, infatti, assomma in sé sia la simbolica
del principium individuationis cioè
dell’unicità identitaria di un individuo,
sia quello di una «intelligenza superiore»,
l’intelligenza del cuore appunto, in grado di far risuonare il
nostro organo con quello della Creazione e del suo
Creatore stesso, simboleggiato nell’iconografia
cristiana, dal Cuore di Gesù o da quello della Vergine
dei sette dolori, trafitto di spade.
«Il cuore e non la
ragione sente Dio» dice Pascal. Ma è certamente S.
Agostino il fondatore del primato del cuore: «Non
corporis voce, quae cum strepitu verberati
aeris promitur, sed voce cordis, quae hominibus
silet, Deo autem sicut clamor sonat»… non con la voce
del corpo, la cui sonorità risulta dalla vibrazione
dell’aria, ma con la voce del cuore, che è silenziosa
per gli uomini, ma innanzi a Dio risuona come un grido. Una
visione religiosa avvalorata poi sul piano laico
dall’avvento dell’Amor Cortese di cui Dante, suo seguace, si
servirà nel descrive il Paradiso.
Ma la supremazia
del cuore in quanto organo centrale dell’individualità, più
fondante in questo senso del cervello, la troviamo
già in Aristotele che, nel suoDe generatione
animalium ci dice come sia il cuore che primo si
sviluppa e poi, a sua volta, sviluppa l’embrione,
arrivando ad affermare che «il principio
naturale è nel cuore».
Anche Isidoro di
Siviglia, l’enciclopedico saggista medioevale,
nel suo monumentale trattato Etymologiarium
sive Originum afferma che: «Cuore è nome
derivato dal greco kardias, ovvero dal sostantivo
cura: nel cuore, infatti, risiedono ogni sollecitudine
e causa di conoscenza (causa scientiae)».
James Hillmann nel
suo L’anima del mondo ed il pensiero del cuore sostiene
che l’inizio del processo di «ricomposizione»
della scissione che esiste tra il mondo dentro
e quello fuori di noi muove dalla consapevolezza
di una comune appartenenza. Per renderla effettiva
è necessario «scrutare consapevolmente
l’abissale che esiste dentro-fuori di noi, restando in
equilibrio, soffermandoci in
questo pensiero». L’abissale, secondo Hillmann è il
nostro stesso cuore, la nostra essenza più contraddittoria
ed inesplorata.
Evidentemente
il cuore del quale parla lo psicanalista del Puer
Aeternusè quello simbolico, sede della forza
vitale che ci collega con l’anima del mondo. «È questo
il cuore che vogliamo in petto», continua Hillmann,
«non la mera pompa che si guasta in-farcita dello stress cui ci
sottopone la vita nella modernità». L’immagine che
abbiamo del nostro cuore è dunque fondante, perché
ce lo restituisce come visione di qualcosa che
è precisamente dentro-fuori di noi, che lega il
nostro corpo particolare con il resto del mondo,
pompando il fluido vitale che collega, attraverso
l’ossigeno, ogni singola cellula proprio a quella
atmosfera che ci consente la vita. Questa capacità
del cuore di immaginarsi nel mondo allo stesso
tempo immaginando il mondo, cioè creandolo dalla
natura stessa della sua propria natura, è detta himma dal
poeta-filosofo Ibn Arabi.
Certo il cuore è anche
l’organo delle passioni più feroci, basti pensare
all’episodio del Decamerone in cui Messer
Guiglielmo Rossignone dà in pasto a sua moglie
il cuore di Messer Guardastagno, ucciso da lui
perché amante da lei. L’antropofagia poi, in ogni tempo
e cultura, ed ancora oggi negli episodi più barbari
delle guerre attuali, vede l’atto di strappare e poi
mangiare il cuore del nemico sia come forma di appropriazione
delle sua forza vitale sia come estremo sfregio al suo cadavere.
Anche nella Vita
nuova, però, sempre in omaggio alla visione «cordiale»
dell’Amor Cortese, Dante sogna che la sua amata gli mangi il
cuore, volendo con questo simboleggiare il
rapimento spirituale che lo coglie alla vista della
figura di Beatrice. Arrivando ai nostri tempi, basti
riferire l’inquietudine della signoraWashkansky,
moglie del primo trapiantato che, alle domande dei
giornalisti sul suo stato d’animo rispondeva:
«Quello che realmente mi preoccupa è che mio
marito non mi ami più».
Ancora più sottile, però, fu il
senso della risposta alla domanda posta al trapiantato
stesso che aveva, da ebreo, avuto in dono dalla chirurgia
il cuore da un «gentile»: Washkansky disse che «si
sentiva» benissimo, come pure il secondo trapiantato
da Barnard che ricevette, da bianco nel Sud Africa
razzista, il cuore di un nero, con la conseguenza
di una lunga diatriba filosofico-politica sulla possibilità
che il cuore di un nero potesse entrare, con il suo nuovo corpo, nei
locali per soli bianchi!
Infine vale la pena
ricordare un topos della miracolistica
cristiana: il trapianto ad opera dei Santi Medici Cosima
e Damiano, nel III secolo d. C., della gamba di un nero su un
bianco.
E dunque, anche se
la scienza avanza di buon passo, le ascendenze filosofiche
e simboliche resteranno permanenti
per molto altro tempo mettendo il nostro cuore al posto giusto,
facendone sempre cioè il luogo dell’identità
sentimentale, anche quando, forse un giorno non
lontano, saremo tutti delle nuove Creatureperché,
nonostante le diverse parti possano provenire da
corpi diversi, come diceva già Nietzsche, «ciò che pensa ed
ama è il nostro corpo nel suo insieme».
Il manifesto – 4 luglio
2015