Il 12 agosto
nell'ambito della festa provinciale di Rifondazione comunista si è
tenuto un dibattito sul pensiero di Rosa Luxemburg, a cui abbiamo
partecipato assieme a Sergio Dalmasso, Giovanni Zanelli e Marco
Sferini. Di seguito il testo del nostro intervento.
Giorgio Amico
Il marxismo libertario
di Rosa Luxemburg
Ho sempre pensato a Rosa
Luxemburg come a una figura tragica, e non solo per il destino
terribile che la colse all'inizio del 1919, primo anno di "pace"
dopo una guerra interminabile e distruttiva come mai se ne erano
viste prima, ma perché nei suoi scritti seppe prefigurare
lucidamente il carattere tragico del secolo nuovo che si apriva con
le immagini accattivanti della Belle èpoque e del Ballo Excelsior.
Già dai primi anni del
secolo che tutti, socialdemocratici tedeschi compresi, vedevano
destinato a svolgersi sotto il segno del progresso e della civiltà,
fino a diventare pacificamente, quasi naturalmente, socialismo, cioè
una forma superiore, pacifica ed evoluta, di vita sociale, Rosa
seppe, in assoluta controtendenza e in compagnia di pochi (Lenin,
Trotsky) intravvedere ciò che sarebbe poi accaduto: il trionfo delle
barbarie, l'orrore della guerra totale, la disumanizzazione come
segno della modernità e della tecnica trionfanti.
"Il capitale non
conosce altra soluzione che la violenza, metodo costante
dell'accumulazione del capitale, come processo storico, non solo al
suo primo nascere, ma anche oggi", scriveva nel suo saggio
sull'accumulazione del capitale, contrastando la tesi che la
violenza, la brutalità e la guerra fossero fenomeni del passato, che
lo sviluppo della moderna società industriale avrebbe, proprio per
il suo carattere civilizzatore, bandito dalla storia futura.
La violenza è intrinseca
al capitale e al suo sviluppo, basato sullo sfruttamento intensivo
degli uomini e delle risorse naturali, fondato sulla concorrenza e
dunque sulla contesa costante per il predominio sui mercati, interni
ed internazionali. E questo non solo a livello degli Stati. La
violenza, come guerra di tutti contro tutti, diventa il carattere
principale della vita quotidiana, in un mondo in cui centrale è il
profitto, cioè l'avere e non l'essere. Socialismo o barbarie, questo
il dilemma che attendeva l'umanità e che il Novecento ha poi
tragicamente confermato oltre ogni possibile aspettativa.
E' sulla base di questa
visione che Rosa si batte per una forma diversa e superiore di
società, dove lo sviluppo armonioso e libero di ciascuno sia la
condizione dello sviluppo di tutti.
Da qui nel suo pensiero
l'importanza della democrazia, non nel senso meramente formale dei
diritti giuridici, ma come condizione essenziale per la libera
organizzazione delle masse proletarie, per il pieno dispiegarsi delle loro potenzialità creative che solo una visione critica e razionale della
realtà poteva garantire. Un modo di vedere che ci ha sempre ricordato
le tesi gramsciane sulla necessità nell'Occidente avanzato di una battaglia continua per l'egemonia culturale.
Solo la democrazia, può
permettere il libero confronto delle idee, il dibattito continuo e
questo non solo nella società, ma anche e anzi soprattutto nelle
organizzazioni operaie, partito e sindacato. Da qui la lotta costante
contro la burocrazia del movimento operaio tedesco, il più
sviluppato e avanzato dell'epoca, ma anche la polemica già dal 1904
con Lenin sui pericoli di un eccessivo centralismo. Tanto da scrivere
in occasione del dibattito in corso nel partito socialdemocratico
russo fra bolscevichi e menscevichi che "gli errori commessi da
un movimento operaio rivoluzionario sono storicamente infinitamente
più fecondi e più preziosi dell'infallibilità del miglior Comitato
Centrale".
Rosa si faceva così
interprete fedele della visone marxiana per cui l'emancipazione del
proletariato non può che essere opera diretta dei proletari stessi,
non negando la necessità del partito, ma rifiutando recisamente
l'idea di un partito, detentore della giusta linea, che si
sostituisce alla classe che quella linea deve solo applicare
disciplinatamente come un esercito ben addestrato ed inquadrato.
Anche Trotsky, allora
giovanissimo, aveva intravvisto il pericolo di una deriva autoritaria
nella visione eccessivamente centralizzata del partito avanzata da
Lenin in polemica con Martov e i menscevichi, tanto da scrivere nel
1903, e guadagnarsi così la fama di profeta, "i metodi di
Lenin conducono a questo: prima l'organizzazione del partito si
sostituisce al partito nel suo complesso, poi il comitato centrale si
sostituisce all'organizzazione, e infine un unico dittatore si
sostituisce al comitato centrale".
Temi che riemergono
nell'opuscolo, incompleto e pubblicato solo postumo nel 1920, sulla
rivoluzione russa che Rosa stende in carcere nel 1918 e in cui
critica duramente, pur sostenendo a fondo il potere bolscevico,
l'eccessiva stretta autoritaria a cui Lenin e il partito comunista
hanno dopo l'Ottobre sottoposto il popolo russo, compresi gli operai.
Una disciplina spietata che rende impossibile una vera democrazia
proletaria e dunque mina alle radici le possibilità stesse dello
sviluppo di una società nuova di liberi e uguali.
"Senza illimitata
libertà di stampa - scrive Rosa - senza libera vita di associazione
e di riunione è proprio il dominio di larghe masse popolari a
presentarsi assolutamente impossibile".
La dittatura del
proletariato non può essere intesa come dittatura del partito sul
proletariato. Dall'angusta cella in cui è imprigionata per la sua
coerente e appassionata opposizione alla guerra, Rosa vede con
lucidità i pericoli che minacciano la rivoluzione e il nascente
potere dei soviet:
"Con il soffocamento
della vita politica in tutto il paese anche la vita dei soviet non
potrà sfuggire a una paralisi sempre più estesa. Senza elezioni
generali, libertà di stampa e di riunione illimitata, libera lotta
illimitata libera lotta d'opinione in ogni pubblica istituzione, la
vita si spegne, diventa apparente e in essa l'unico elemento attivo
rimane la burocrazia. La vita pubblica si addormenta poco per volta,
la guida effettiva è in mano a una dozzina di teste superiori e una élite di operai viene di tempo in tempo convocata per battere le mani
ai discorsi dei capi e votare unanimemente risoluzioni prefabbricate.
(...) Dittatura, certo, non la dittatura del proletariato, ma la
dittatura di un pugno di politici".
Meglio non si sarebbe
potuto descrivere la futura macchina del consenso staliniano. Lucidissima
Rosa, ma comunque incapace di contemplare, anche solo in via
ipotetica, quello che questo avrebbe comportato sul piano pratico: la
mostruosità dei processi farsa, della liquidazione sistematica di
ogni forma di dissenso, della costruzione di un paese moderno grazie
al lavoro di milioni di schiavi rinchiusi nei campi di
"rieducazione". Un orrore troppo grande anche per una donna
che era stata capace, unica fra i grandi teorici della
socialdemocrazia tedesca, già all'inizio del secolo di vedere
la barbarie inedita di una guerra mondiale che si avvicinava a grandi
passi.
La voce libera di Rosa si
spegne nel gennaio 1919, la sua visione democratica della rivoluzione
e del potere proletario verranno messe da parte, considerate una
deviazione del marxismo, una sorta di eresia. Ma quando, dopo la
morte di Stalin e il XX Congresso, quel modello di socialismo
"realizzato" mostra i primi segni di un declino, che si
rivelerà poi irreversibile, il messaggio libertario di Rosa riappare immediatamente come un punto di riferimento fondamentale da cui ripartire.
Lo dimostra, e la cosa
stupirà molti che conoscono le posizioni attuali di Lotta
comunista, un passo di una lettera di Arrigo Cervetto a Danilo
Montaldi dell'ottobre 1956:
"Ho letto la
prefazione di Damen alla Luxemburg e la ritengo un buon contributo
alla chiarificazione ideologica sulla controversa questione della
dittatura del proletariato. Credo che se dalle formule aprioristiche
si scendesse, come in questo caso, all'elaborazione teorica molti e
molti problemi verrebbero risolti e l'unità rivoluzionaria sarebbe
una realtà. Sostanzialmente mi trovo d'accordo con la formulazione
di Damen e ciò mi ha spinto a rileggere le opere della Luxemburg. Un
ritorno alla Luxemburg, alla sua grande profondità di analisi e di
previsione, alla problematica che solo la sua sensibilità aveva
posto e che oggi è quanto mai attuale: questo potrebbe essere il
punto d'incontro teorico dell'unità rivoluzionaria".
Dopo tanti anni, crediamo che ancora oggi non si possa dire di meglio.