Nel 1976-77 si
sviluppa il Movimento dei Sottufficiali Democratici per la democratizzazione degli ambienti militari e
la concessione di diritti sindacali al personale in servizio. Il testo
che segue, finalizzato all'organizzazione di una iniziativa nella
realtà savonese che poi non avrà luogo, cerca di inquadrare
storicamente la questione nel più vasto ambito della
democratizzazione mancata del Paese.
Giorgio Amico
Esercito e popolo nella storia d'Italia
Discutendo
sul tema della democratizzazione delle Forze Armate non si può
prescindere da una seppur minima analisi di come storicamente si
formi l'esercito in Italia. Il
fronteggiarsi di due strategie sia militari che politiche segna tutta
la vicenda risorgimentale: da una parte i fautori di un esercito di
popolo, braccio armato della rivoluzione democratico-repubblicana;
dall'altra i teorici della guerra regia incentrata su di una
struttura militare rigidamente staccata dalle masse popolari,
strumento di oppressione interna al servizio delle classi dominanti.
Il
confronto fu vivacissimo. Già nel 1828 Carlo Bianco di Saint-Jorioz
pubblica a Malta uno smilzo libretto dal titolo significativo “Della
guerra nazionale d'insurrezione per bande”. La guerra di
liberazione è una guerra partigiana da far precedere da una fase
cospiratoria. Ancora caldo è il ricordo della vittoriosa guerriglia
delle masse contadine spagnole contro l'occupante francese.
L'esaltante
biennio 1848-49 pone i democratici di fronte al compito di spiegare
il fallimento dei moti rivoluzionari e delle teorie cospiratorie di
derivazione mazziniana.
Pisacane, Cattaneo e
l'esercito di popolo
Carlo
Pisacane, ex ufficiale dell'esercito borbonico, raccoglie nell'esilio
svizzero le sue riflessioni in un volumetto che è il contributo più
interessante del partito democratico alla teoria politico-militare
dell'insurrezione. Nel libro “Sulla guerra in Italia del 1848-49”,
pubblicato a Genova nel 1851, Pisacane sottopone ad una critica
serrata gli avvenimenti di quel biennio rivoluzionario. Fieramente
avverso alla “guerra regia”, egli è profondamente convinto che
solo il risvegliarsi delle masse contadine, cioè della stragrande
maggioranza del popolo, possa portare non solo alla liberazione dallo
straniero, ma anche alla creazione di un assetto sociale radicalmente
nuovo. Egli afferma a gran voce la necessità di una guerra di popolo
che respinga sia il metodo della guerriglia che quello rivelatosi
predente delle barricate, e che si fondi sulla formazione di un
esercito regolare, emanazione diretta del popolo, basato sul
reclutamento di massa e sulla democrazia interna. Il modello a cui si
richiama è significativamente quello delle milizie della democratica
e federale repubblica elvetica.
Quanto
al Cattaneo nel suo libro “Dell'insurrezione di Milano nel 1848”
egli ripropone il concetto democratico di “nazione armata”. In
pagine violentissime egli attacca la condotta bellica di Carlo
Alberto, maggiormente timoroso della libera e repubblicana Milano
delle cinque giornate che dell'esercito austriaco. Egli documenta
l'avversione dei generali piemontesi verso i volontari che “potevano
spargergli nell'esercito pensieri di libertà”.
Il Risorgimento
tradito
Anche
ad un sommario esame delle tre campagne del 1848-49, del 1859 e del
1866 si nota come la teoria democratica della guerra di popolo non
venga mai neppure presa in considerazione. La guerra è totalmente
affare degli Stati Maggiori e non del popolo e dei suoi partiti. Il
fenomeno del volontariato è visto con fastidio come una possibile
fonte di ribellione e di indisciplina, di concetti democratici
oggettivamente sovversivi.
La
liquidazione dell'impresa garibaldina ne è l'esempio più
drammatico. Come nota lo storico inglese Mack Smith l'esercito
piemontese fu in gran fretta spedito al Sud con l'ordine segreto di
attaccare se necessario i garibaldini per porre fine all'inquietante
dittatura democratica di Garibaldi nell'ex Regno delle due Sicilie.
I volontari, considerati una seccatura politica, vennero smobilitati
in gran fretta e molti di loro, che avevano disertato dall'esercito
sabaudo per unirsi alla spedizione, trattati con maggiore severità
dei borbonici sconfitti.
L'esercito
nazionale si costituì con l'immissione nei ranghi di migliaia di ex
ufficiali e graduati dell'esercito napoletano, mentre venivano
sistematicamente epurati i quadri di origine garibaldina. La stessa
polizia fu ampliata utilizzando le spie, gli informatori e i
funzionari dei passati regimi mentre i carabinieri inglobano le
gendarmerie locali.
La
grande occasione storica di creare un'Italia più libera e
democratica era andata perduta. A livello militare ciò comporterà
la creazione di un esercito e di una polizia come corpi separati. Il
vero nemico è quello interno, l'obiettivo da colpire sono le
nascenti rivendicazioni di libertà e giustizia sociale. La spietata
repressione dell'insurrezione contadina al Sud (il brigantaggio come
la chiamano sprezzantemente i giornali dell'epoca) e l'uso costante
della truppa nella repressione delle lotte operaie e bracciantile
saranno il banco di prova della rispondenza dello strumento militare
agli obiettivi di politica interna delle classi dominanti.
Poco
importa la conclamata inefficienza bellica delle Forze Armate
dimostrata nella campagna del 1866 e nelle spedizioni africane.
Proprio nell'aristocratico isolamento della casta militare, educata
din dall'Accademia al disprezzo verso tutto ciò che anche
lontanamente sappia di eguaglianza, di democrazie, di progresso che
verranno a maturazione via via i germi di Custoza, Adua, Caporetto e
dell' 8 settembre.
La Resistenza:
un'occasione mancata
Impressionante
il parallelismo – se l'Italia non fosse il Paese del Vico dei corsi
e ricorsi – con la storia recente. Nella
guerra civile spagnola prima, nella Resistenza in Italia poi si
realizza concretamente per la prima volta il sogno di Pisacane e di
Cattaneo: dalla lotta di liberazione nasce l'esercito di popolo.
È
l'occasione tanto attesa per una spinta democratica risolutiva che
trasformi realmente il “secondo risorgimento” in ciò che il
primo non ha saputo e potuto essere. Anche sul piano militare le
condizioni ci sono tutte: l'esercito partigiano si è formato, ha
combattuto e vinto. Soprattutto ha dimostrato che efficacia militare
e democrazia non sono inconciliabili. Molti ufficiali hanno
partecipato alla lotta armata, interi reparti dopo lo sbandamento
dell'8 settembre si sono uniti in Grecia e Jugoslavia alla Resistenza
anti-tedesca. Non mancano neppure i sostenitori della ripresa della
teoria della “nazione in armi”, basti pensare a Giustizia e
Libertà, a Parri, a Lussu.
L'occasione
verrà di nuovo lasciata cadere. I partigiani verranno disarmati e
smobilitati, pochissimi di loro entreranno nei ranghi delle Forze
Armate per uscirne alle prime avvisaglie della guerra fredda.
Torneranno i vecchi quadri compromessi con il fascismo se non
addirittura con la Repubblica di Salò; diventerà norma l'uso
indiscriminato della polizia contro i lavoratori, si tenterà di
creare un solco profondo tra esercito e popolo. Il nemico tornerà ad
essere quello interno.
I
compiti attuali
Ma
questi trent'anni non sono passati senza lasciare traccia, la grande
ondata democratica degli ultimi anni ha toccato in profondità anche
le caserme. La
generazione dei diritti civili, dello Statuto dei lavoratori, della
contestazione studentesca inizia a farsi sentire anche dentro le
Forze Armate.
Nasce
il Movimento dei Sottufficiali Democratici, prende forza fino a
diventare uno dei temi centrali dell'attuale fase politica, la
campagna per la smilitarizzazione e la sindacalizzazione della
polizia. La drammatica esperienza cilena costringe la sinistra da
interrogarsi sul ruolo e la natura delle Forze Armate. È
una nuova occasione che non deve andare nuovamente sprecata.
Savona,
1977