È in via di
pubblicazione per Massari Editore una nuova traduzione del capolavoro
di Victor Serge È mezzanotte nel secolo, romanzo uscito
nel pieno della controrivoluzione staliniana. Ne anticipiamo la bozza
dell'introduzione.
Giorgio Amico
Victor Serge,
testimone del suo tempo
Militante
anarchico, poi bolscevico, protagonista della rivoluzione russa e fra
i primi critici della sua involuzione burocratica, vicino
all'Opposizione trotskista e poi sostenitore del Poum e per questo
scomunicato da un Trotsky insofferente ad ogni tipo di critica,
Victor Serge è stato un testimone del tuo tempo. Un testimone
scomodo, tormentato, l'esatto contrario del vero credente imbottito
di dogmi e di false certezze. Di sicuro, nonostante la sua lunga
militanza, non fu un grande politico, gli mancavano il cinismo e il
gusto del potere. E neppure un teorico. Semmai un osservatore curioso
e critico di ciò che accadeva attorno a lui. La sua fu, fin dagli
inizi anarchici, una militanza vissuta con coerenza e determinazione,
sorretta da una spinta etica che lo vide sempre, a partire
dall'affaire Bonnot, schierato dalla parte dei perdenti, dei
senza volto e dei senza storia. Di queste vite trascurate dalla
storia Serge volle essere il testimone, perché la memoria delle loro
speranze e del loro sacrificio non andasse perduta. Un impegno
vissuto come un dovere morale, senza alcuna concessione al proprio
ego, tanto da scrivere: «È importante lasciare una testimonianza su
questi tempi; il testimone passa, però può succedere che la
testimonianza rimanga».
Dunque
è la testimonianza che conta e non il testimone. E questo spiega
perché la sua opera sia priva di quegli elementi autobiografici che
ritroviamo in Koestler o in Solženicyn. Serge non racconta di sé
come protagonista e neppure partecipe dei grandi avvenimenti che
fanno da sfondo alla sua narrativa. E questo non ha mancato di
colpire molti di coloro che hanno scritto su di lui. Egli racconta il
dramma vissuto da almeno due generazioni di rivoluzionari travolti
dal fallimento del sogno di costruire un mondo di liberi e uguali. In
lui non c'è alcun pentitismo e neppure disillusione. Serge non è
Koestler e neppure Silone o Orwell. Fino all'ultimo egli rimane
convinto della necessità del cambiamento rivoluzionario e della
importanza fondamentale dell'Ottobre. È la barbarie stessa della
guerra, che osserva dall'esilio messicano, a ricordarglielo. Il
problema semmai è capire, non perché il Dio della rivoluzione è
fallito, ma perchè gli uomini non siano stati in grado di sviluppare
le potenzialità di liberazione che l'Ottobre portava dentro di sé.
Osservatore attento degli uomini, Serge non aveva illusioni. La sua
non è una visione sentimentale della rivoluzione. Egli sa che gli
uomini, messi alla prova della storia, possono esprimere il meglio ma
anche il peggio di sé. E dunque l'Ottobre aveva al suo interno anche
un cuore di tenebra che avrebbe poi portato all'orrore staliniano. Il
rapporto leninismo-stalinismo non è un processo meccanico di
causa-effetto. Lo stalinismo per Serge è allo stesso tempo
conseguenza di ciò che accade in Russia e nel partito dopo
l'Ottobre, ma anche aperta rottura con quella storia. E lo sterminio
dei vecchi bolscevichi nelle purghe degli anni Trenta sta a
dimostrarlo. Il sogno libertario di una nuova Comune di dimensioni
planetarie coabita con la creazione della Ceka e il terrore, la
democrazia proletaria con l'autoritarismo di un partito bolscevico
sempre più autoreferenziale. Per riprendere lo studio di Roberto
Massari sull'Ottobre, rivoluzione e antirivoluzione sono processi
complementari. La storia non ha sbocchi prefissati, né è
assimilabile ad una corsia d'autostrada. Può avere brusche svolte e
anche ritorni all'indietro. E la storia di una rivoluzione non fa
eccezione. Passati i primi entusiasmi, Serge già dalla tragedia di
Kronstadt è consapevole delle enormi potenzialità, ma anche delle
terribili insidie della realtà sovietica, ma soprattutto del suo
carattere profondamente contraddittorio. Serge vede gli sviluppi
della rivoluzione come conseguenza dell'azione di masse mosse dalla
situazione concreta, ma anche come la risultante di scelte
individuali. È questa combinazione a renderne complessa
l'interpretazione. Da qui l'attenzione all'analisi psicologica delle
masse e degli individui e la scelta della letteratura come terreno
privilegiato d'impegno. La scrittura viene concepita non come mera
narrazione e neanche come una compensazione di un agire politico
diventato ormai impossibile nell'URSS staliniana. Scrivere per Serge
significa comprendere ciò che sta accadendo e i mutamenti che la
nuova realtà produce nelle masse e negli individui, perché solo
capire può mantenere viva la speranza e saldi i legami fra chi non
vuole cedere al totalitarismo. «Concepisco la letteratura – scrive
- come un mezzo di espressione e di comunione tra gli esseri umani:
un mezzo particolarmente potente agli occhi di coloro i quali
vogliono trasformare la società. Dire ciò che si è, ciò che si
vuole, ciò che si vive, ciò per cui si soffre e si lotta, ciò che
si conquista. Bisogna dunque far parte di chi lotta, soffre, cade,
conquista. »
Serge
crede nell'umanità, ma non ha illusioni sugli uomini. Sa che un
rivoluzionario sincero e carico di ideali può diventare uno spietato
assassino. I suoi personaggi portano appieno nelle loro storie
individuali questa ambiguità di fondo. Nei suoi romanzi non ci sono
santi e demoni, ma solo uomini travolti da eventi più grandi di
loro, spinti avanti nonostante tutto dal vento tempestoso che
impedisce all'angelo di Benjamin di fermarsi a piangere sulle macerie
della storia.
Scrivere
significa testimoniare di questa ambiguità profonda insita nella
vita stessa di ogni uomo, descrivere le potenzialità e le
contraddizioni di una Storia che altro non è che la sintesi di una
pluralità di destini. Un concetto che Serge ha ben chiaro, tanto da
scrivere:
«Ricordare,
fissare, comprendere, interpretare, ricreare la vita. Non possediamo
che una vita, ma questa contiene molti destini possibili. Non è
unica nel senso che si confonde con innumerevoli radici, affinità e
contaminazioni (la maggior parte delle quali non si possono esprimere
razionalmente) con altri uomini, la terra, gli esseri, il Tutto.
Scrivere diventa allora la ricerca di una polipersonalità, una
maniera di vivere molti destini, di penetrare l’altro, di
comunicare con lui.»
L'intera
sua opera testimonia di questo tentativo di esplorare l'animo umano,
i fili invisibili che legano gli uomini fra loro e che diventano poi
la trama vera di quello che chiamiamo Storia, un intreccio
inestricabile, una volta si sarebbe detto dialettico, fra individuo e
collettività.
La
sua è una scrittura solo all'apparenza semplice, e forse proprio per
questo poco considerata dai critici letterari. In realtà Serge, per
quanto autodidatta, è un grande scrittore e un autore colto. Nelle
sue pagine, non c'è nulla di improvvisato, oltre all’influenza
della grande scuola del romanzo russo dell'Ottocento, troviamo echi
di Joyce, Dos Passos, Proust e fra i russi Boris Pil'njak con cui era
stato in grande intimità nella seconda metà degli anni Venti. Così
come negli anni dell'esilio manterrà stretti contatti con i
surrealisti Breton e Peret e poi in Messico con Octavio Paz. Spesso,
si considera solo l'attivista politico e si dimentica che Serge aveva
vissuto a Vienna dove aveva avuto stretti contatti con Lukacs e
Gramsci, e che, pressoché unico fra i marxisti ortodossi, si era
interessato di psicoanalisi approfondendo lo studio di Freud, Adler,
Ferenzi. Studi a cui attingerà per descrivere i cambiamenti profondi
che vivere in un regime totalitario provoca nei comportamenti
individuali e collettivi.
Serge
fu un uomo del dubbio e dunque una presenza scomoda prima nell'ambito
del Partito russo e poi nelle fila dell'Opposizione. La sua costante
volontà di comprendere, il non accettare le versioni correnti, lo
esposero a critiche dure e ingiuste anche da parte di Trotsky che lo
accusò di essere un intellettuale piccolo borghese prigioniero dei
suoi scrupoli. Bolscevico per gli anarchici, anarchico per i
bolscevichi, Serge era in realtà un comunista libertario, fautore di
un marxismo umanistico che, al pari del giovane Marx, poneva l'uomo
al centro di ogni cosa. Centrale per lui restava il fattore umano, e
questo sia nel bene che nel male. Esattamente il contrario del rigido
determinismo economicistico usato sia da Stalin per giustificare le
sue giravolte, che da una opposizione incapace di riflettere sul
proprio fallimento e di ripensare il suo stesso modo di stare nel
mondo. La sua richiesta alla Quarta Internazionale di essere più
tollerante e aperta al dialogo con le altre componenti del campo
rivoluzionario viene bollata da Trotsky come un tentativo di dare
libertà di parola a confusionari, settari e centristi di ogni sorta.
Una visione, autoritaria e centralistica, che spiega l'infinita serie
di scissioni che fin dalla sua formazione hanno caratterizzato quella
storia.
La
sua vita dalla fine degli anni Venti fu, un «viaggio nella
disfatta», come scrive, nel Caso Tulaev, il suo romanzo
migliore in cui mostra di aver raggiunto una completa maturità
espressiva. Una disfatta narrata in È mezzanotte nel secolo
attraverso le storie di un piccolo gruppo di rivoluzionari che
assistono al progressivo consolidarsi di un nuovo e feroce regime di
oppressione che non è però il frutto di una controrivoluzione
venuta da fuori, ma è progressivamente lievitato nelle viscere
stesse del partito e del regime a partire da elementi già comunque
presenti e avvertibili fin dall'inizio. Una disfatta che ha le sue
radici anche nelle storie personali e nelle scelte politiche di chi
ora è diventato vittima. E proprio in questo sta la tragedia degli
uomini e delle donne dell'Opposizione. Assetato di verità, Serge
vuol capire come ciò sia stato possibile. Come l'alba radiosa della
liberazione si sia trasformata nell'ora più buia del secolo. Non gli
basta prendere Stalin a unico responsabile, tanto meno una presunta
burocrazia vista come una casta di fatto esterna alla politica. È il
partito stesso a essersi progressivamente corrotto proprio a causa di
quella politica del terrore indiscriminato, giustificato in nome
degli ideali della rivoluzione, diventato poi mera gestione del
potere, prassi quotidiana, fino a travolgere gli stessi quadri del
partito che lo avevano teorizzato e praticato. Non ci sono innocenti
nella Russia di Stalin.
Lo
sguardo di Serge sul mondo è quello di un sopravvissuto, di un uomo
tornato dal regno dei morti. Uno sconfitto, ma non un vinto: mai egli
rinuncerà ad affermare la necessità, prima di tutto morale, di
battersi contro un mondo feroce, il nazismo trionfante in Germania,
il totalitarismo staliniano nella Russia che doveva essere l'inizio
di un nuovo mondo. Per Serge la rivoluzione non ha perso legittimità,
il socialismo resta, come per Rosa Luxemburg, l'unica alternativa
alle barbarie. Ma, come Rosa Luxemburg, Victor Serge pensa a un
socialismo a misura d'uomo, profondamente libertario. Di qui il suo
rifiuto netto di continuare a giustificare in nome del fine l'uso di
mezzi ignobili, ancora teorizzato da Trotsky in quel testo totalmente
inaccettabile che è La nostra morale e la loro. Se si
acconsente all'idea che tutto ciò che serve alla rivoluzione è
morale e che a decidere cosa serva nelle varie fasi siano solo i
vertici del partito, escludendo i lavoratori dalla gestione diretta
del Paese, allora davvero lo stalinismo è figlio legittimo
dell'Ottobre e del bolscevismo. In questa incomprensione sta proprio
il grande errore di Trotsky, ma anche in Italia di Bordiga, che del
leninismo colsero e valorizzarono soprattutto l'aspetto centralistico
e autoritario.
E
allora che fare? Davanti alla reazione crescente egli sceglie la via
della letteratura intesa come un dovere di testimonianza. Quando
tutto pare perduto, l'attività intellettuale resta la sola
possibile. Lo scrive nel gennaio 1942 nei suoi Carnets. Solo
così, lavorando sulla memoria, si può andare oltre alla disfatta,
continuare la lotta, recuperarne l'originale spinta libertaria. Con
lo scopo dichiarato di riuscire a trasmetterne il senso autentico
alle generazioni che verranno e impedire che il filo rosso
dell'utopia sia definitivamente spezzato, travolto dalle menzogne di
un regime che ad ogni tornante politico riscrive la storia,
cancellandone chi, come Trotsky, si è trasformato in una presenza
scomoda. In una parola, mantenere vive la memoria e la speranza. Per
questo egli non sarà mai un pentito, né un transfuga in cerca di
nuove certezze atte a sostituire quelle così tragicamente fallite.
Per lui la rivoluzione resta un processo aperto, anche se al momento
ha subito una dura battuta d'arresto, che però non cancella la
validità dell'esperienza dell'Ottobre. « Noi non siamo dei
vinti che nell'immediato » scrive nelle sue Memorie. Nonostante
l'avvento dei totalitarismi gemelli dello stalinismo e del nazismo, i
personaggi di Serge restano, nell'esilio o nei Campi siberiani,
ancora in piedi anche se circondati da macerie.
Per
Serge prioritaria è la lotta al totalitarismo, mostrarne il
carattere disumanizzante, combatterne le menzogne. Una scelta che ne
fa un mistico laico, perché come per i mistici deriva da una
illuminazione avvenuta in un momento di profonda crisi fisica e
spirituale. Il racconto che Serge fa della sua decisione di dedicarsi
totalmente alla scrittura è la descrizione di una conversione. Nel
1928 gravemente ammalato, sapendosi in serio pericolo di vita, in uno
stato di semidelirio tira un bilancio della propria storia personale:
« Pensai che avevo enormemente lavorato, lottato, imparato
senza produrre niente di valido e di duraturo. Se per caso dovessi
sopravvivere – mi dissi – bisogna che io finisca presto i libri
che ho iniziato, scrivere, scrivere... »
Da
allora scrivere diventa per lui una missione. Un impegno a cui dedica
tutto se stesso, fermamente convinto che, proprio perché tornato da
una discesa agli Inferi, il suo dovere è parlare per chi è rimasto
là in quel mondo di ombre prive di voce. È per loro che Serge
scrive i suoi romanzi. Oltre ad articoli, saggi, traduzioni e perfino
un libro di poesie, egli scrive nove romanzi, divisi in due cicli :
quello dell'ascesa e del trionfo della rivoluzione e quello della
resistenza al totalitarismo. In questo secondo ciclo si colloca È
mezzanotte nel secolo, dedicato alla memoria di Kurt Landau,
Andrés Nin, Erwin Wolf, tutti assassinati a Barcellona dagli
stalinisti. Il romanzo è la storia di un piccolo gruppo di
rivoluzionari confinati in Siberia per la loro opposizione al regime.
Serge era stato arrestato e deportato a Orenburg, sul fiume Ural, ma
il libro non vuole essere una testimonianza autobiografica e neppure
un romanzo a tesi. Il romanzo tratta dell'ora più buia del secolo,
segnata dal trionfo apparente dei totalitarismi gemelli staliniano e
nazista. Siamo in piena controrivoluzione, ma paradossalmente esiste
ancora spazio per la speranza, nell'esilio, ma anche nel profondo
dell'arcipelago Gulag. Non è per caso che, dopo il capitolo
iniziale, la parte del libro ambientata nel confino di Cërnoe si
apra con una straordinaria descrizione dell'arrivo della primavera:
« I
ghiacci della Cërnaja si aprirono tardi, a metà maggio. In questo
periodo la neve si è dileguata, tranne in qualche avvallamento mal
esposto ; le acque scintillanti stagnano in pianura. E si vedono
gli uccelli svolazzare a stormi. La terra, svanito il suo candore, è
conquistata dalle acque, le ali, il cielo. Da dove vengono tutti
questi uccelli ? Alcuni, volando, formano dei triangoli. Altri
formano dei nugoli che descrivono curve, volteggiano e si sfilacciano
come nebulose. Una gioia serena si diffonde tra la terra e il
cielo. »
È
mezzanotte nel secolo, ma le tenebre non sono destinate a durare,
almeno fino a che ci saranno sulla terra uomini ancora capaci di
immaginare un mondo diverso, risoluti a non cedere al terrore e
all'oscuramento delle menti. Victor Serge crede profondamente in
questo futuro positivo, nonostante la solitudine e la povertà
dell'esilio. L'Ottobre ha dimostrato che il mondo può essere
cambiato, che l'utopia può diventare realtà. A patto però di
mantenere salda la fiducia nell'uomo. Si è persa una battaglia, ma
la guerra continua. Una lotta in nome dell'uomo, democratica e
libertaria, dove non è ammessa alcuna contraddizione fra i fini
dichiarati e i mezzi utilizzati per raggiungerli. Proprio in questa
profonda visione umanistica, che ci ricorda Erasmo da Rotterdam e il
suo tentativo di mantenere viva la ragione nel tempo folle delle
guerre di religione, consiste la grandezza dell'uomo e dello
scrittore. È questo a renderlo una delle poche autentiche voci
libere di un secolo attraversato dal 1917 da un'unica ininterrotta
guerra civile, dove la libertà è considerata un lusso che per primi
i rivoluzionari non possono permettersi. Un mondo dove, come egli
stesso amaramente annota, nessuno dei due due schieramenti cerca
ormai di convincere, ma solo di uccidere.
Victor
Serge muore all'improvviso di infarto il 17 novembre 1947 in una
strada di Città del Messico, vestito poveramente e senza documenti.
Il suo corpo viene portato nella camera mortuaria di un ospedale,
dove lo trova Julián Gorkin, dirigente del POUM in esilio:
«Lo
trovammo a mezzanotte passata, steso in una stanza spoglia dalle
pareti grigie. Aveva le scarpe bucate con la suola completamente
logora e una camicia da operaio. Un nastro di tela gli chiudeva la
bocca, quella bocca che nessun tiranno era riuscito a far tacere.
Sembrava un vagabondo raccolto per pietà. E non era forse stato
l’eterno vagabondo della vita e di un ideale? Il suo volto
esprimeva un’amara ironia, un sentimento di protesta, l’ultima
protesta di Victor Serge, l’uomo che per tutta la vita aveva
protestato contro le ingiustizie umane.»