Giuliano Arnaldi
Da tempo si nota in Italia un crescente interesse per le arti tradizionali dei paesi extraeuropei e particolarmente africani. La Liguria è protagonista discreta di questo interesse: la mostra in corso a Genova a Palazzo Ducale fino a giugno 2011 ne è un esempio, ma non bisogna dimenticare l’ottimo lavoro sistematico svolto al Museo delle Culture del Mondo presso il Castello d’Albertis, che ha prodotto tra l’altro alcune significative esposizioni, quali “Gli Ori degli Akan” e “L’anima delle piccole cose: arte del quotidiano in Costa d’Avorio”, e a partire dal 2004 il lavoro di Tribaleglobale nel savonese, con la presentazione della Collezione Passaré nella casa-museo di Asger Jorn. Il nostro paese non ha una tradizione coloniale, e questo ha certamente frenato lo sviluppo della conoscenza di quei linguaggi dell’arte non a caso ben radicati in Francia, in Belgio e per altri motivi negli Stati Uniti. Soprattutto in Francia esiste il mercato più articolato e ricco di opere di arti primarie, il più significativo museo (Musée du quai Branly), la più riconosciuta rete di esperti. In realtà questo “ritardo” italiano porta in sé una grande opportunità, segnata anche dalla peculiarità italiana dell’attenzione per l’arte moderna e contemporanea e dal sedimento culturale che fa del nostro paese una grande opera d’arte a cielo aperto. La consuetudine con la bellezza e una grande, discreta e radicata tradizione di collezionismo d’arte fanno del nostro paese il luogo ideale per proporre un altro sguardo sulle arti primarie, ben testimoniato per esempio dal lavoro artistico del genovese Claudio Costa.
Dove esse sono più note e diffuse esiste un “filtro” antropologico ed etnografico tutto occidentale che spesso condiziona lo sguardo su quei linguaggi dell’arte. Comunemente si usa la definizione “arti primarie” come versione più rispettosa per identificare le arti delle culture extraeuropee più distanti dalla nostra idea di arte: non è usata per le arti giapponesi, cinesi o indiane ma quasi esclusivamente per quelle africane e oceaniche, le più distanti, le più “selvagge” e “primitive”. È realistico pensare che anche questa definizione sia quindi riduttiva e in qualche modo ipocrita: “primario” etimologicamente deriva dal latino primus (primo) con il suffisso arius che ne indica l’appartenenza, ovvero “primo nell’ordine gerarchico, principale”. Si può sostenere quindi che sia più adeguato usare questa definizione per quelle opere d’arte che sono insieme rigorosamente figlie del loro tempo e capaci di “parlare” all’uomo in ogni tempo e in ogni luogo, perché scritte con quell’alfabeto metaforico che l’uomo usa dai tempi delle incisioni rupestri quando vuole indagare ciò che è.
Ciò allarga sorprendentemente i confini dell’arte, e di chi la pratica come operatore culturale, collezionista, artista. Si noti inoltre che la stessa definizione politicamente corretta di “arti primarie” fatica ancora a sostituire quella di “arti tribali” o “primitive”, e non è bastata la costante relazione tra gli artisti del Novecento attivi a Parigi nei primi decenni del secolo scorso (da Picasso a Tristan Tzara) per liberare le arti dei popoli extraeuropei da un “recinto” a volte addirittura colonialistico. L’esempio più eclatante di questo atteggiamento è l’affermazione (tipica di tanti mercanti ed esperti d’arte africana) che nel Continente Nero non esistano più opere autentiche. Sarebbe come pensare che nelle campagne toscane non si trovi più un mobile o un dipinto antico… Un altro luogo comune (tanto interessato quanto colonialistico) è sospettare “a prescindere” dei mercanti africani, considerandoli tutti spacciatori di falsi.
Questa considerazione apre uno dei problemi più spinosi legati alle arti africane: il problema dei falsi. Credo si debbano fare alcune premesse. Non è semplice stabilire i criteri in base ai quali un’opera proveniente da quelle culture possa essere considerata autentica, intanto per la profonda differenza del contesto culturale: mentre il nostro antiquariato si fonda sulla definizione di epoche storiche cui corrispondono stili e linguaggi precisi, le arti africane sono vive e in continuo divenire. È arte funzionale a un sentimento trascendente, usata per misurarsi con il mistero della vita e tentare di governarlo e quindi, pur nel solco di una tradizione stilistica identificabile nella visione del mondo di una specifica comunità, essa è in continuo divenire, interagisce con i cambiamenti e con le sollecitazioni che un mondo sempre più piccolo propone anche nelle comunità più periferiche.
Per esempio, a partire dagli anni cinquanta i Baulé rappresentano gli antenati, figure mitiche e centrali nella cosmologia di quel popolo, anche con abiti occidentali, i Dogon dipingono le loro maschere rituali – tuttora usate – con colori acrilici e a volte diversi da quelli indicati dalla tradizione, anche per sottrarle alla bramosia di un turismo “culturale” sempre più invasivo. La relazione tipicamente occidentale epoca-autenticità per stabilire il valore culturale (ed economico) di un’opera risulta quindi assolutamente fuori luogo. Essendo poi l’opera d’arte oggetto d’uso funzionale a una necessità rituale, chi la realizza non si percepisce (e non è percepito) come “artista” nel senso occidentale di questo termine, ma è considerato come il custode di un sapere misterico antico che deve materializzare in un oggetto, rispondente a precisi canoni di tradizione, l’energia necessaria al compimento del rito richiesto.
La grande maggioranza, inoltre, degli oggetti africani (con la significativa esclusione della terracotta e dei metalli) ha meno di cent’anni, ed è realizzata in materiali non sottoponibili ad analisi scientifiche. L’arte africana è diventata negli ultimi anni un bene rifugio appetito dagli investitori, aumentando spesso in modo vistoso il proprio valore: l’assenza di regole certe ha generato confusione e situazioni spesso discutibili o addirittura illegali. Certamente esiste un problema di falsi. Chi conosce l’Africa ha avuto modo di vedere vere e proprie “fabbriche” destinate a produrre e invecchiare opere destinate al mercato europeo e magari vendute da occidentalissimi mercanti, ed è davvero difficile orientarsi. Esistono parametri oggettivi: alcune tra le opere più significative – e costose – presentano caratteristiche stilistiche e materiche precise. Per fare solo alcuni esempi, raramente una maschera Dan avrà la parte interna patinata: chi la cede la desacralizza grattandone l’interno; attraverso l’analisi delle scarificazioni si può identificare la comunità di appartenenza: nell’arte africana il segno è linguaggio e non decoro; le maschere Fang hanno erosioni prodotte da termiti presenti solo in quell’area geografica. Essendo però il falso molto remunerativo è possibile trovarsi davanti a copie ben eseguite, e confonde certamente le idee il fatto di vedere oggetti apparentemente simili nelle gallerie e nei musei come sulle bancarelle dei mercatini. Personalmente ritengo utili alcuni principi di fondo: un’opera è autentica quando è fatta in Africa, da un africano, per essere usata da un africano. Stabilirne l’epoca diventa paradossalmente irrilevante, perché condividendo questo punto di vista una maschera fatta negli anni venti per un turista dell’epoca è meno autentica di un oggetto rituale di vent’anni fa.
La bellezza parla, e testimonia la qualità di un’opera d’arte. Siamo fortunatamente strutturati anche neurofisiologicamente per comprendere l’armonia: è necessaria l’onestà intellettuale di riconoscere a linguaggi artistici diversi dal nostro la stessa dignità e profonda complessità. Esistono comunque parametri stilistici, caratteristiche legate ai materiali e alle patine che possono aiutare la comprensione di un’opera.
Altro è il discorso del valore economico. Credo che la cosa più onesta sia riconoscere il fatto che le cifre importanti sono appannaggio di quelle opere note fuori dall’Africa da molti decenni perché presenti in collezioni ed esposizioni documentate. È innegabile che chi spende oltre 10.000 euro per un’opera d’arte africana “acquista” anche una provenienza. Quando si spende però una cifra analoga a quella che si può destinare a un oggetto di arredo o a un’opera d’arte contemporanea di medio valore dovrebbe prevalere la relazione emotiva con l’oggetto, quel misterioso impulso che ogni vero collezionista ben conosce, e che a volte trasforma le collezioni private in suggestivi presidi di memoria consapevole dei popoli e delle loro culture. Ecco perché esiste a mio avviso una singolare opportunità per il collezionismo italiano: abituati, come già ricordato, a una consuetudine diffusa con l’arte, e con l’arte moderna, non è difficile cogliere un’energia vitale archetipica nelle opere provenienti dalle culture africane. Chi ha negli occhi e nel cuore Capogrossi non faticherà a costruire dialoghi con i tessuti rituali dei Bushoong: bisogna infatti ricordare che le arti africane non sono rappresentate solo dalle rare e costosissime sculture e maschere Fang o Punu, ma da una moltitudine di oggetti tanto sublimi quanto ancora abbordabili sotto il profilo economico.
Liberati dal bisogno rassicurante della classificazione etno-antropologica e restituiti alla dimensione senza tempo del mistero della bellezza, essi possono diventare i discreti compagni dei dialoghi infiniti tra il collezionista e i suoi oggetti.
(Da: Cambi Auction Magazine, n. 01, aprile 2011)
Giuliano Arnaldi vive e lavora a Savona. Sovrintendente Generale del MAP, Museo di Arti Primarie di "Saona". Appassionato ed esperto di arte primarie, prevalentemente africane: ideatore e coordinatore del format culturale TRIBALEGLOBALE, ha curato eventi in luoghi diversi : 2000 -London, Black Soul, Nice 2004 Africa Anima del mondo in contempornea in diversi spazi museali e archeologici privati e pubblici, Il Padiglione della Marginalità nell'ambito della 52 Biennale di Venezia , la riapertura ( dopo ven'anni di chiusura) nel 2004 della casa Museo Jorn ad Albissola Marina.