"Le donne, il conflitto, le guerre", questo il titolo dell'ultimo numero di Guerre & Pace, in gran parte dedicato al rapporto fra due movimenti, quello femminista e quello pacifista, dati per finiti e invece prepotentemente riapparsi sulla scena politica italiana e non solo. Una riflessione collettiva che va oltre l'attualità per proporre una "lettura di genere" degli accadimenti internazionali come momento ineludibile della riedificazione di un pensiero autenticamente critico. Ne proponiamo l'editoriale.
Floriana Lipparini e Gianluca Paciucci
Femminismo e pacifismo
In questo numero ci occupiamo, nella parte monografica, della “condizione femminile” così come si è presentata negli ultimi anni. La manifestazione del 13 febbraio l'ha riportata alla luce in uno di quei momenti di emersione del rimosso che ogni tanto vengono stabiliti. Allo slogan ufficiale “Se non ora, quando?”, le donne di Femminismo a sud e del Comitato per i diritti delle prostitute hanno risposto con un semplice avverbio, “sempre!”, a sottolineare l'ottusità delle periodiche riscoperte di ciò che c'è ed è sempre stato, e che solo la violenta miopia del mondo dell'informazione e della politica istituzionale ignora e vorrebbe impedire di vedere. Il femminismo, come la classe operaia e il movimento studentesco, sono stati più volte spacciati per morti, e chi ne parlava veniva puntualmente sommerso di ingiurie sia da parte dei nemici storici, che assaporavano il trionfo, sia da ex amici e compagni, la cui spocchia era ed è ormai pari all'insignificanza più completa a livello culturale e politico (ma non elettorale, perché le clientele e il servilismo funzionano ancora). E invece esistono, e sono sempre esistiti, liberi canali di comunicazione supportati dall'informazione in rete unita alla tradizionale militanza, che hanno tenuto alta la soglia di resistenza anche quando, da destra come da sinistra, partivano e partono raffiche micidiali.
Un altro soggetto era inserito nell'elenco dei dispersi: il movimento pacifista, che è effettivamente mal messo. La crisi della militanza in questo settore è andata di pari passo con la rinascita a livello collettivo di un forte (e drogato) sentimento patriottico teso a impedire qualsiasi azione e riflessione sulla politica estera, anche se siamo in guerra in Afghanistan, e fingiamo di ignorarlo, e le “missioni di pace” vengono rifinanziate, nella disattenzione più totale, con voto pressoché unanime. La retorica del tricolore e dell'unità nazionale sta coprendo ogni possibilità di dissenso: per non lasciare alla destra razzismo, bellicismo e patriottismo, la “sinistra” è diventata razzista, guerrafondaia e iperpatriottica. Anti-italiano è il nuovo insulto rivolto a chi si oppone: sono anti-italiani gli operai che votano contro Marchionne, chi si batte con e per le/i migranti, e ogni disertore/disertrice dal pensiero unico.
Pur appannato, però, il soggetto pacifista è riuscito a ribadire la contestazione delle menzogne del potere, anche se non più sostenuta da quella “massa critica” che per decenni ne aveva costituito la forza. È proprio unendo la riflessione sulle guerre e il loro sviluppo su scala planetaria con quella sulla nuova visibilità del movimento delle donne che questo numero di “Guerre&Pace” è stato pensato e realizzato. Abbiamo riflettuto sul fatto che il discorso sul “femminile” allude e apre a quello sul “maschile” e alla discussione sulla “virilità” come elemento attorno al quale si gioca molto del presente: una neovirilità, meglio, che si esercita in campi antichissimi e ipermoderni quali l'identità sessuale, l'uso intimo e pubblico dei corpi, il rapporto di tutto questo con il denaro e con la sfera politica, e infine la violenza del patriarcato e delle religioni che è ormai da troppi percepita come accettabile, nella generale regressione (backlash, contraccolpo) degli ultimi decenni. Su corpi che mai sono stati schiavisticamente denudati ed esposti sul mercato come oggi o mai così altrettanto schiavisticamente coperti (a due passi da noi, e nelle nostre stesse città), vengono poi effettuate violenze private e politicissime, senza tregua. La violenza della porta accanto e quella effettuata in un Cie, quella ad opera di alcuni rifugiati nella sede che fu dell'ambasciata somala a Roma e quella attuata da carabinieri in una prigione dello Stato (la donna sarebbe stata “consenziente”, nel linguaggio feroce di certi uomini in divisa) - solo per citare alcuni dei casi più recenti - rimandano a un universo maschile colpevolmente in crisi per non essersi mai interrogato sui fantasmi del proprio immaginario sessuale, fatto crescere in una pedagogia della conquista, di un corpo come di un territorio. Ecco la connessione, banale e vera: uomini che hanno la presunzione di conquistare donne come territori, oppure si arrogano l'onere di difendere le proprie donne in un gioco penoso che produce frequentissimi femminicidi (in Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa da mariti, amanti, ex, familiari ecc.) o riattualizza lo stupro come arma in tempo di guerra e di pace. Ecco la connessione: “Il femminile è anche simbolo della nazione, della patria, dell'appartenenza etnica, anche se la patria è in realtà una 'matria', un volto d'uomo su un corpo femminile, chiamato a dare l'unità organica e la sicurezza della riproduzione. Il genocidio di un popolo è spesso femminilizzato: nella donna viene colpita la sua continuità. Lo stesso si può dire per lo stupro etnico: le donne sono depositarie dell'onore e del disonore famigliare e nazionale...” (Lea Melandri, Oltre i poteri sostitutivi. Gli stereotipi della femminilità e le donne reali, Alfabeta2, marzo 2011).
Questa connessione abbiamo indagato chiedendo a collaboratrici e a collaboratori, ad amiche e ad amici, di intervenire con articoli o per il tramite di interviste da noi raccolte. Floriana Lipparini riflette sul nesso tra guerre, violenze e religioni, e intervista la psicoanalista Paola Zaretti: questi due testi aprono l'ampia sezione che ragiona sul rapporto tra patriarcato e femminicidio in “Occidente” (sapendo della debolezza di questo termine, ma anche della sua utilità concreta) grazie all'intervista alla docente universitaria Patrizia Romito e ai due articoli di Stefano Ciccone (associazione “Maschile Plurale”) e della sociologa Daniela Danna. Nella terza sezione si analizzano singole aree geografiche e vengono evidenziati alcuni tentativi di resistenza organizzata delle donne (Colombia, Haiti, Bosnia Erzegovina, Afghanistan, Somalia e Repubblica Democratica del Congo) che mostrano come sia difficilissimo ma possibile, anche in situazioni estreme, agire e ricucire rapporti. Accanto agli interventi delle donne della Organización Feminina Popular e dell'Afghan Women's Network, vi sono quelli di Mario Boccia, Simone Sarcià e Nadia Demond, che scrivono a partire da esperienze direttamente vissute, e l'intervista di Floriana Lipparini a Kaha Mohamed Aden. Completano la sezione gli articoli della direttora di “Marea”, Monica Lanfranco, e di Giselle Donnard il cui testo di una conferenza del 2003 è stato tratto dal trimestrale “Multitudes”. Chiude la parte monografica una riflessione di Mirella Scriboni sull'opposizione femminista alle guerre di fine Ottocento e inizio Novecento. La foto di copertina e altre all'interno del numero sono di Mario Boccia, mentre quelle da Haiti sono di Simone Sarcià. Cogliamo l'occasione per ringraziare di cuore tutte e tutti coloro che hanno permesso di costruire questo numero della rivista. Una rete felice di amicizie antiche, o appena nate e già profonde.
E un'ultima considerazione. Il numero è spostato, rispetto all'attualità, ma forse proprio in questo scarto sta la sua forza, garantita dal semplice prestigio delle firme. Travolte, travolti come siamo da continue emergenze, rischiamo di non afferrare più quanto si muove sul medio e lungo periodo, su quella “lunga durata” che ha fatto la meritata fortuna degli storici delle Annales, e così prendiamo decisioni vitali sotto la spinta di umori momentanei. Nostra convinzione è invece che proprio una lettura di “genere” delle vicende possa aiutarci ad andare più a fondo nelle cose, e di non essere sorpresi almeno dalla differenza costitutiva del nostro essere al mondo, ovvero quella del “maschile/femminile”, nel nomadismo e nella costruzione culturale dei sessi che è concetto cardine del sapere, per cui non si nasce donna, uomo o altro, ma lo si diventa. A chi di noi è diventato uomo, proponiamo queste parole di Lea Melandri, dall'articolo sopra citato: “...Occorre, soprattutto, che gli uomini, anziché occuparsi delle donne, per usarle e proteggerle, comincino a deporre la maschera di neutralità e a interrogare se stessi, le loro paure, i loro desideri, la cultura prodotta da secoli di dominio maschile, riconoscendo quanta poca libertà e scelta sia stata lasciata anche a loro, nel dover indossare la corazza virile”. Anche da qui parte la riedificazione di un pensiero militante che non sia narcisismo o riproduzione degli apparati, ma sincero investimento basato sull'autocoscienza. A chi di noi è diventata donna proponiamo di continuare nell'impegno di sempre, magari consolidando con più robusti fili il legame tra le generazioni, che in molti si erano messi a recidere.
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