Se l'uomo vive nel
tempo come può avere il senso dell'eternità? E poi cos'è il
tempo? Una affascinante meditazione sulla perduta
unità del cosmo e sul faticoso cammino verso la reintegrazione del
molteplice nell'Uno primordiale. Un viaggio fra filosofi e mistici da Plotino a Borges.
Raffaele K. Salinari
Archetipi
dell’eternità
Che cos’è
l’eternità? Cos’è il tempo? Possiamo conoscerli? Divenire noi
stessi figure immutabili in un tempo che inesorabilmente muta? Ogni
epoca ha costruito la sua visione dell’eternità,
strumentalizzandola a fini politici o religiosi. Borges, nel suo
Breve storia dell’eternità, ci parla di due grandi concezione del
tempo, quella classica, con riferimento a Platone ed ai presocratici,
e quella cristiana, a partire da Ireneo con l’affermazione del suo
dogma trinitario.
L’eternità nella filosofia antica.
Nel libro III, 7
delle Enneadi, Plotino, l’ultimo maestro dell’antichità
classica, riassume, dal suo punto di vista neoplatonico, o forse post
platonico, la concezione classica della relazione tra eternità e
tempo. L’egizio parte da una affermazione radicale: se vogliamo
comprendere il tempo dobbiamo prima indagare le natura dell’eternità
poiché questa è sia il suo immobile contenitore sia il suo
contenuto.
Per i «filosofi
sovraumani», come Giorgio Colli definisce i presocratici, Parmenide,
Eraclito, Anassimandro, Anassimene, Empedocle, l’eternità è
tutt’uno con l’Essere, l’Uno, cioè il Principio intelligibile
che viene «prima di tutto ciò che esiste». Per Plotino esso ha
creato la realtà fenomenica del cosmo per emanazione, per estasi,
cioè uscendo fuori di sé, ma venendo a sua volta ricreato
attraverso il ritorno a se stesso dell’essenza divina presente in
ogni forma della creazione: “Infatti il mondo intelligibile e
l’eternità contengono entrambe le stesse cose” dice al punto 7,2
della terza Enneade. “L’occhio con il quale io guardo Dio, è lo
stesso occhio con il quale Dio guarda me; il mio occhio e quello di
Dio sono lo stesso occhio, lo stesso vedere, e riconoscere ed amare”,
ripeterà secoli dopo il mistico Meister Eckhart.
E dunque, in questa
concezione circolare di continua creazione e ricreazione dell’Uno
da parte del creato, non esiste nessuna differenza tra l’Essere e
l’eternità dato che, riprendendo la definizione platonica del
Timeo, esso «non era, né sarà, ma è». Riferisce Eustochio, suo
medico e allievo, che prima di morire, coerente con questa visione
del circolo ermeneutico dell’Essere da parte degli esseri, in altre
parole della rigenerazione della Zoé al di fuori del tempo, da parte
delle sue Bìos create nel tempo, Plotino abbia esclamato:
“Sforzatevi di restituire il Divino che c’è in voi stessi al
Divino nel Tutto”.
E così il tempo
altro non è che un momento di eternità in movimento che si affanna
nella sua corsa a spirale intorno all’anima delle cose e le rende
così transeunte. Ogni cosa creata è soggetta alla morte poiché
esiste nel tempo e con esso si muove: trascorre attraverso i suoi
momenti sempre diversi anche se scaturiti dalla stessa eterna
essenza. Come ricorda Eraclito «tutto scorre, non ci si può bagnare
due volte nell’acqua dello stesso fiume». Solo l’increato
quindi, l’Essere, è immerso pienamente e stabilmente nella sua
eternità che di esso è un attributo essenziale.
E allora, se così
stanno le cose, come ricomporre la scissione fenomenica tra Creatore
e creatura, come ripristinare l’unità del cosmo, l’intima
compenetrazione tra l’essenza comune e le esistenze particolari da
essa generate? In altre parole: come far convergere in un unico punto
metatemporale eternità e tempo?
Dice Borges
commentando l’apparente aporia: “Questa avvertenza preliminare,
tanto più grave se la riteniamo sincera, sembra annientare ogni
speranza di intenderci con l’uomo che la scrisse (Plotino). Il
tempo è per noi un problema, un inquietante ed esigente problema,
forse il più vitale della metafisica: l’eternità, un gioco o una
faticosa speranza”. Lo scrittore argentino passa poi a considerare
la possibile soluzione del problema analizzando in primis il senso in
cui il tempo si muoverebbe. Ma questa strada porta soltanto al punto
di partenza: come in un labirinto circolare. L’autore dell’Aleph
afferma che nulla ci è dato sapere di certo del tempo se non che
esso scorre; forse dal passato verso il futuro, come comunemente si
avverte, ma anche, perché no, dal futuro verso il passato: «notturno
il fiume delle ore scorre dalla sua fonte che è il domani eterno»
recita un verso di Miguel de Unamuno.
Per alcune scuole
filosofiche indiane addirittura il tempo presente non esiste dato che
«l’arancia sta per cadere dal ramo, o è già a terra: nessuno la
vede cadere». In Altre inquisizioni il già direttore della
Biblioteca Nazionale Argentina introduce poi, come ulteriore elemento
di complessità, l’evidenza che se il tempo è un processo mentale
«come possono condividerlo migliaia di individui, o anche due soli
di essi?». Non abbiamo prove di nessuna di queste ipotesi o
paradossi, conclude, se non l’unica certezza generica – ma il
generico può essere più intenso del concreto ci ricorda Rilke –
del suo fluire entro quella stessa eternità che sembra averlo
generato.
Ed ecco che Plotino,
a questo punto disperante e disperato, introduce forse il vero
argomento della sua speculazione filosofica, la sua versione ante
litteram di quella che Severino Boezio, tre secoli dopo, nel 525, in
attesa dell’esecuzione capitale, riprenderà nel suo De
philosophiae consolatione con la celebre definizione: “Aeternitas
est interminabilis vitae tota et perfecta possesio”. La domanda
dell’antico maestro di Licopoli è infatti la stessa
dell’antimoderno maestro di Buenos Aires: “Bisogna dunque che
anche noi partecipiamo dell’eternità, ma come se siamo nel
tempo?”.
La risposta plotiniana è
sconvolgente: non si tratta di capire l’eternità attraverso la
comprensione della misura o del senso del tempo che in essa e da essa
fluisce, quanto di comprendere che il tempo è la vita dell’anima e
che essa, discendendo direttamente dall’Essere, è il nostro
tramite per l’eternità.
Qui, la suggestiva
espressione di Keatz «fare anima», ripresa da Hillman per
illustrare la sua concezione psicanalitica dei miti greci, assume un
significato di merito e di metodo. Il problema è che l’anima è
preda di una «potenza inquieta» che la distoglie dalla percezione
dell’Essere e la riporta continuamente «a far passare in altro»
ciò che invece si deve contemplare estasiandosi: in questo modo
perverso il tempo «imita soltanto l’eternità volgendosi intorno
all’anima, sempre disertore di un passato, sempre anelante
l’avvenire».
Che fare? Poiché
necessariamente il tempo è immagine dell’eternità, l’anima deve
vivere la sua relazione con le cose sensibili così come il tempo
vive la sua relazione con l’eterno; in altre parole «fare anima»
significa l’estasi di fronte al Mondo, il ritrovare lo stupore
infantile nei confronti del creato. Solo questa estasi terrena,
analoga a quella che l’Essere ha vissuto quando, uscendo da sé, ha
generato il Cosmo, può riportare l’anima al suo creatore
immergendola nell’eternità e così contribuire a rigenerarla.
È dunque il tempo
estatico quello che riunisce in un unico momento metatemporale tempo
ed eternità. Da cosa partire per estasiarsi? Qui l’autore delle
Enneadi riprende il filo del suo maestro Platone e ci ricorda che la
Bellezza è l’anima del Mondo: Afrodite, l’anadiomenon, la sempre
rigenerata dalle acque delle creazione – dalla spuma (afros in
greco) nata attorno ai genitali di Urano, come narra Esiodo nella sua
Teogonia – è il veicolo che ci farà estasiare al suo cospetto.
Eros, il grande daimon della creazione vitale, ci spingerà oltre
l’apparenza delle forme che scorrono per svelarci l’essenza
ontologica della Bellezza. Come per Platone, anche per Plotino la
follia che viene dalle Ninfe sarà la strada verso il
ricongiungimento con l’Uno.
I posseduti dalle
Ninfe, i «linfatici», come li chiamavano i latini (lymphaticos), e
come sino alla prima metà del secolo scorso venivano chiamati i
bambini dall’incarnato pallido, tendenzialmente gracili e
psichicamente sensibili, sognatori propensi a perdersi vivendo i loro
stessi sogni ad occhi aperti – tra i quali i medici annoveravano lo
scrivente – costoro, dicevamo, sono allo stesso tempo immersi in
una felicità ineffabile, estatica, che Aristotele, nella sua Etica a
Eudemo, chiama eudaimonía, per distinguerla qualitativamente dagli
altri quattro tipi di felicità: «O forse la felicità non può
venire a noi in nessuno di questi modi, bensì in due altri, e cioè
o come accade ai nymphólēptoi e ai theólēptoi, che entrano come
in una ebbrezza (enthousiázontes) per ispirazione di un essere
divino, o altrimenti attraverso la fortuna (molti infatti dicono che
la felicità e la fortuna sono la stessa cosa)».
Per ciò felicità e
fortuna condividono la stessa natura, come lo stato di chi è
posseduto dalle Ninfe o da un dio. Qui bisogna ribadire che, per i
Greci, e dunque anche per l’ellenizzato Plotino, la possessione
divina era una modalità primaria per accedere alla conoscenza
dell’Invisibile, della «prima materia» della quale sono composte
tutte le cose, l’essenza immutabile del Mondo.
Ed è proprio di
questa essenza che sono fatte le Ninfe, espressione archetipica delle
potenze elementari e soprattutto metamorfiche, come il tempo che
scorre e cambia la forma esteriore delle cose. Il tempo «grande
scultore» come scriveva Marguerite Cleenewerck de Crayencour, al
secolo Marguerite Yourcenar. Come Eros, fluido nella forma, ed
Afrodite dai dardi più veloci nata dalla spuma spermatica, le Ninfe
sono l’eternità ed al contempo ce la offrono: il mutevole
dell’Invisibile che ha l’acqua come elemento materiale; le fonti
e i fiumi come labirinti nei quali perdersi, il mare e gli stagni
come occhi che ci mirano insonni, sono tutte immagini di essa.
La seconda eternità
«Il miglior
documento sulla prima eternità è il quinto libro delle Enneadi,
sulla seconda, o cristiana, l’undicesimo libro delle Confessioni di
sant’Agostino». Così Borges chiarisce il passaggio dalla visione
classica a quella cristiana dell’eternità. La nuova religione
universale non poteva imprimere il suo sigillo all’eternità, far
coincidere l’Evo cristiano con una nuova concezione monoteista del
tempo. La visione platonica del rapporto tra eternità e tempo
subisce dunque una mutazione drammatica in seguito alla nascente
egemonia culturale del cristianesimo.
L’eternità
cristianizzata è il prodotto dell’incontro tra le tre figure
trinitarie. Primo Artefice di questa mutazione ontologica che la
allontana dalla diretta contemplazione dell’umanità per
sottometterla al divino, è Ireneo (130-202), martire sotto
l’imperatore Marco Aurelio e Padre della Chiesa. Il vescovo di
Lione decreta dal dirupo di Fourvière, l’antico sito romano di
Forum vetus, che il Verbo è generato dal Padre, lo Spirito santo è
prodotto dal Padre e dal Verbo (il Cristo); da queste due innegabili
operazioni dogmatiche, ci fa notare Borges: “Gli gnostici solevano
inferire che il Padre era anteriore al verbo, ed entrambi allo
Spirito: questa inferenza, dunque, dissolveva la Trinità: Ireneo
chiarì che il duplice processo – generazione del Figlio dal Padre,
emanazione dello Spirito da ambedue – non accadde nel tempo, ma
esaurisce di colpo il passato, il presente e l’avvenire. Il
chiarimento prevalse ed ora è dogma. Così fu promulgata l’eternità,
prima tollerata appena all’ombra di qualche screditato testo
platonico”.
Ireneo concepisce e
sancisce in questo modo, per confutare una eresia che poteva
rivelarsi esiziale per la Chiesa paolina, un «atto senza tempo» che
crea l’eternità. E dunque, per il cristiano, il primo momento
coincide con la creazione che a sua volta non esiste se non nella
volontà dell’Onnipotente di farla esistere. Quindi l’eternità
altro non può essere che uno degli attributi divini. Le cose
temporali, tra cui l’umanità, si distinguono allora da quelle
divine per il fatto che sono prive di potenzialità creativa. Questo
significa, in sostanza, che il tempo degli uomini non è
commensurabile a quello trinitario, che così resta imperscrutabile e
misterioso per definizione: non vi è partecipazione all’eternità
se non indirettamente attraverso l’atto di fede che essa esiste
poiché creata da Dio. Come scrisse riassumendo mirabilmente questa
terribile distanza tra tempo umano e tempo divino San Paolino: “Toto
coruscat trinitas mysterio”, cioè rifulge la Trinità in un totale
mistero.
Pavel Florenskij
L’eternità
teandrica di Florenskij
Ma nonostante il
predominio metafisico che la Chiesa cattolica ha esercitato per
secoli sull’eternità attraverso il dogma trinitario – un vero e
proprio trattato di «teratologia intellettuale» lo definisce
l’ineffabile Borges – nella Russia dei primi del Novecento,
insieme al movimento simbolista e, più profondamente ancora, dalle
radici della mistica ortodossa, nasce un autore che, senza in
apparenza rinnegare, anzi con una massimo di affermazione della sua
fede religiosa, spinge sulla barriera dogmatica e riapre le porte
della patristica verso un orizzonte che travalica l’angusta visione
trinitaria per ridare all’umanità, ma più in generale alla
Creazione, un ruolo comprimario a quello del Creatore. Questo
personaggio è Pavel Florenskij, il Leonardo russo: l’uomo che
studierà il transfinito matematico per metterlo al servizio della
riconciliazione tra eternità e tempo.
Autore di
profondissima fede spirituale, Pavel Florenskij segue il ragionamento
neoplatonico andando ben oltre le proposte di Plotino e di
sant’Agostino. Egli esplora il tema del rapporto tra tempo ed
eternità riconducendolo a quello, analogo, tra l’uno ed il
molteplice, tra finito ed infinito. Per l’ingegnere-sacerdote
ortodosso, responsabile per un lungo periodo dei programmi di
elettrificazione dell’Unione sovietica staliniana, le forme
sensibili, cioè la realtà in atto del Mondo, sono le porte verso
l’intelligibile assoluto, sono simboli che ci portano alla
contemplazione della profondità enigmatica del Mondo sino a
«scorgere l’unità del finito e dell’infinito», cioè del tempo
con l’eternità, l’unità integrale della conoscenza.
La visione di
Florenskij è di una originalità estrema, anche perché vissuta con
coerenza sino alle ultime conseguenze. Internato in un gulag per non
voler abbandonare la sua veste talare, sarà infine fucilato nel 1937
e la sua opera scomparirà negli archivi del KGB sino agli anni
Novanta del secolo scorso. Nel freddo glaciale delle isole Solovki
scrive ai figli: “Che cosa ho fatto per tutta la vita? Ho
contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà
compatta, ma ad ogni tappa della mia vita da un determinato punto di
vista […]. Le sue angolature mutano, l’una arricchendo l’altra”.
Il clima culturale in
cui si sviluppa la Weltanschauung integrale di Florenskij è sia
quella del cristianesimo ortodosso russo dunque, molto vicino alle
radici platoniche e altrettanto distante da quello romano, sia
l’elaborazione matematica di Cantor sui numeri transfiniti che
introduce nuove definizioni e mezzi di comprensione degli infiniti
matematici. Qui, ai primi del Novecento, in pieno clima
rivoluzionario, troviamo pensatori come Vladimir Solov’ëv padre di
quel «realismo mistico» che poi padre Florenskij elaborerà sino
alla visionarietà, proponendo la fusione tra tempo ed eternità
attraverso il processo della «unitotalità», vsejedinstvo in russo.
Questa è allora la
sua risposta alla domanda su come vivere l’eternità nel tempo: la
convinzione che non solo l’umanità, ma tutti i fenomeni del Mondo,
quelli animati e quelli inanimati, quelli coscienti consapevolmente e
quelli che ancora non lo sono e, spingendosi molto oltre, tutto il
Cosmo, siano chiamati a partecipare ontologicamente al graduale
processo di costruzione dell’unità del tutto. In altre parole
l’eternità non sarà in atto sinché tutti i fenomeni da essa
prodotti nel tempo non formeranno un organismo universale, una
«unitotalità» in cui ogni distinzione verrà annullata e non
esisteranno più né il tempo né l’eternità.
Questo organismo
cosmo-teandrico, come lo definisce Florenskij cioè alla coincidenza
tra il divino (teos) e l’umano (andros), è allora il punto di
convergenza e di sintesi tra le grandi intuizioni dell’idealismo
tedesco di Schelling, Fichte, dello stesso Hegel, e il pensiero di
scrittori abissali quali Dostoevskij e il movimento dei simbolisti
russi.
«Dentro di noi
portiamo il transfinito, il sovrafinito, noi – il kosmos – non
siamo qualcosa di finito, di direttamente opposto alla Divinità: noi
siamo transfiniti, siamo in mezzo tra il tutto ed il nulla». Così
l’autore si esprime in merito alla sua intuizione della relazione
tra l’eternità ed il tempo, tra il finito e l’infinito, nel I
simboli dell’infinito.
Anche la sua
concezione del microcosmo umano è coerente con la visione teandrica
del macrocosmo: «l’uomo è parte del mondo, ma allo stesso tempo
egli è complesso tanto quanto lo è il mondo. Il mondo è parte
dell’uomo, ma anche il mondo è complesso quanto lo è l’uomo».
La relazione tra creato e creatura, tra infinito e finito è tutta
riconducibile e questa «interrelazione sostanziale».
Il soma dunque, il
nostro fenomeno immerso nel tempo, si presenta agli occhi del
matematico russo come un vero e proprio simbolo dell’eternità
(soma-sema) dato che «il nostro corpo è infinitamente più profondo
di quanto lo ritenessero il materialismo e il positivismo da un lato,
e lo spiritualismo dall’altro. Alla sua base la fisiologia è
assolutamente mistica, è la base della religione di tutta l’umanità…
il nostro corpo esperisce misticamente il mondo intero».
E qui, con un balzo
difficilmente immaginabile senza la capacità visionaria di collegare
pensiero scientifico e misticismo, finito ed infinito, unità e
pluralità, Florenskij fa collassare su se stesso il dogma
trinitario, senza negarlo o rinnegarlo ma anzi portandolo a potenza,
distillandone l’essenziale unisostanzialità come infinito
rispecchiamento tra tutte le forme del cosmo.
«Il simbolo mi è
sempre stato caro nella sua immediatezza, nella sua concretezza,
nella sua carne e la sua anima. In ogni vena della sua carne io
volevo vedere, cercavo di vedere, e credevo di poter vedere l’anima,
la sola sostanza spirituale. Il positivismo mi disgustava, ma non
meno la metafisica astratta. Io volevo vedere l’anima, ma volevo
vederla incarnata».
Da questa tensione
insonne, indomita, da questo intento visionario che travalica
l’antinomia tra verità dogmatica e intuizione simbolica, nasce
l’idea della homoousìa cioè dell’unisostanzialità trinitaria
come vera e propria provocazione del pensiero, un avvicinamento
totale tra significato e significante, tra corpo e anima, tra
eternità e tempo.
Come fa notare
Natalino Valentini nella sua bella introduzione al volume Il simbolo
e la forma sui saggi scientifici dello scienziato russo: “Nel
simbolo Florenskij coglie quel tipo di incarnato di realtà
fisico–spirituale in cui è espressa direttamente l’antinomicità
dell’essere, l’unità e la non riconducibilità di fenomeno e
noumeno, di visibile ed invisibile, razionale e mistico” Al
proposito, chiosa il filosofo Choruzij, tra i commentatori più acuti
di Florenskij, «l’Essere-Cosmo si struttura integrandosi».
E dunque, in
conclusione, l’essere nel tempo struttura il tempo dell’essere,
il tempo l’eternità, l’eternità il tempo, la vita particolare
quella universale, la vita del cosmo quella delle sue parti, in una
ricerca di totalità che alla fine cancellerà ogni distanza. Come
esclama Jack Kerouac in Satori a Parigi: «Quando dio dirà: Ho
vissuto!, dimenticheremo tutte queste storie di separazione».
il manifesto – 7 maggio
2016