Un mito
moderno: la civiltà degli olivi
Capita
spesso di leggere di una millenaria civiltà ligure dell'olivo,
addirittura “greca e fenicia”, in realtà siamo in presenza di un
mito nato in epoca moderna. Certo, gli ulivi in Liguria ci sono da
tempo immemorabile, forse come olivastro selvatico da sempre. Ma la
civiltà di cui vediamo i resti nella rete di muretti a secco che
ancora avvolgono le nostre montagne e nella marea di oliveti che
sommergono le nostre vallate, quella no, non è millenaria, i Fenici
e i Greci non c'entrano molto. E neppure i Benedettini, così tante
volte citati a sproposito.
Quella degli
oliveti, della monocultura dell'olivo è tutta un'altra storia, ben
più prosaica. Una storia recente e tutto sommato breve, destinata ad
esaurirsi in pochi secoli. Un portato della modernità che in Liguria
si presenta fin dal Quattrocento sotto il segno di un capitale
mercantile che cerca nel ritorno alla terra una possibilità di
valorizzazione che la crisi del commercio mediterraneo, causata
dall'affermarsi delle nuove rotte atlantiche e dal controllo turco
del Levante, non offre più. Processi ben descritti da Massimo Quaini
nel suo studio sulla storia del paesaggio agrario in Liguria, apparso
nei primi anni Settanta nella rivista della Società Ligure di Storia
Patria.
La
nascita dell'olivicultura in Liguria
Sulla base
di una grande mole di dati Quaini dimostra come a partire dagli inizi
del Cinquecento la monocultura dell'olivo si sostituisca in tutte le
vallate del Ponente, con l'eccezione del Dianese dove è già
attestata da almeno due secoli, alla preesistente cultura promiscua.
Nei documenti (dagli Statuti agli atti notarili, giudiziari e
fiscali) di Porto Maurizio, delle comunità delle valli d'Oneglia, di
Albenga, Pietra L., Finale, Noli, Savona, Albisola, Celle non si
trovano tracce di una preminenza dell'olivo. Quasi ovunque è la vite
la coltura privilegiata. In molte realtà dell'entroterra, a partire
dallo stesso Onegliese, l'olivo ha minore importanza nell'economia
locale persino della produzione di fichi e castagne. Una realtà che
emerge anche dagli archivi delle abbazie benedettine di San Pietro in
Varatella, di San Eugenio di Bergeggi e soprattutto del grande
monastero di Bobbio dove l'approvvigionamento d'olio per gli usi
liturgici e per la mensa si basa in larga parte sugli oliveti del
Garda.
Perse le
colonie d'Oriente, soppiantato il Mediterraneo dall'Atlantico le
grandi famiglie genovesi, da un lato si dedicano alla finanza e
dall'altro tornano alla terra. Una sorta di rifeudalizzazione delle
campagne ponentine totalmente inserita nel più generale processo di
riassestamento degli assetti socio-economici delle campagne europee
così ben studiati da Ruggiero Romano e Fernand Braudel. Gli ulivi
investono le valli, le risalgono fino a 800 metri. Nel territorio
compreso tra Taggia e Laigueglia nel giro di un secolo l'olivo
diventa “coltura esclusiva”.
Una società,
basata sull'uso promiscuo della terra e su una produzione mirata
soprattutto all'autoconsumo, deve confrontarsi per la prima volta con
le logiche del mercato. Un processo che non sarà indolore, ne
deriverà la disintegrazione del tradizionale mondo contadino delle
vallate. Non è un caso che proprio questo periodo veda accendersi i
roghi delle streghe, a Triora e non solo, mentre i domenicani del
convento di Taggia danno la caccia agli eretici provenienti dalle
vicine Alpi Marittime e Tenda che si favoleggia essere un covo di
“valdesi”.
Il
processo di Triora
Emblematico,
si diceva, il caso di Triora. Negli anni 1585-1587
una grave carestia colpisce la Valle Argentina, conseguenza diretta
del profondo cambiamento avvenuto nella valle nei decenni precedenti.
Per evitare tumulti il Parlamento degli Anziani, espressione del
notabilato triorese, imputa ciò che accade all'azione malefica delle
streghe. A ottobre i due vicari mandati ad indagare dal vescovo di
Albenga fanno apprestare le carceri e fanno arrestare una ventina di
donne. Tutte sottoposte a tortura, confessano e denunciano altre
donne, alcune di buona famiglia. A questo punto, spaventato dagli
sviluppi non previsti, nel gennaio 1588 lo stesso Consiglio degli
Anziani invia al governo della Repubblica di Genova una dura protesta
contro gli inquisitori denunciando i labili indizi, la ferocia delle
torture che hanno causato la morte di due donne, l'elevato numero
delle donne incarcerate.
Il
21 gennaio il vicario vescovile manda un lungo rapporto a Genova: si
difende dall'accusa di aver ecceduto nelle torture, dichiara che la
morte delle due donne (una sotto tortura, l'altra per suicidio) era
opera del diavolo, infine sostiene che “tutte nel loro primo exame
senza altra minaccia di tormenti hanno confessato di aver fatto
quella scellerata professione nelle mani del diavolo”
La
tortura – continua il rapporto - durava solo un quarto d'ora, al
massimo un'ora, il fuoco ai piedi dato solo a tre o quattro delle più
irriducibili e “con misura”, a tre si dette la veglia per “Il
dubbio che havevamo che quelle tali non havessero nell'altre sorte di
tormenti qualche maleficio di taciturnità”
Ai
primi maggio 1588 il padre inquisitore di Genova si reca
personalmente a Triora. Interroga le donne che ritrattano (tutte meno
una) le confessioni rese e denunciano la violenza delle torture
subite.
L'
8 giugno arriva un commissario straordinario governativo che allarga
le indagini, arresta alcune donne, le sottopone alla tortura del
fuoco, ne individua infine quattro di Andagna che accusa di aver
causato la morte e la malattia di fanciulli e bestiame, tempeste e
grandine con distruzione delle vigne, oltre all'uccisione di due
adulti, uno a Savona e l'altro a Finale.
Nuove
denunce (una ventina) si aggiungono a Badalucco, Montalto ligure,
Porto Maurizio e a Sanremo. Una donna, certa Luchina di Badalucco,
muore sotto tortura. Significativo il verbale dell'accaduto steso dal
Commissario Scribani:
“et
havendola ieri sera a 22 ore fatta porre al tormento del cavalletto
se ne è morta, cosa certo che mi ha alterato assai et fatto restar
molto stupido perchè essendo che in Triola delle donne assai più
vecchie di lei et per quanto si poteva scorgere di più debole
complessione sono state nel medesimo tormento chi 32 hore continue e
chi 25 senza avere riportato pericolo di vita... io ho gran sospetto
che da lei stessa si sia fatta qualche fattura col mezzo del diavolo
per non havere causa...”
Il
22 luglio 1588 sempre lo Scribani condanna a morte le 4 donne di
Andagna, citando contro la tesi difensiva che si tratti di sogni e
illusioni, l'autorità del Malleus maleficarum, il testo guida degli
inquisitori domenicani.
Di
fronte a questi nuovi fatti le autorità locali si appellano di nuovo
a Genova, facendo notare come il commissario non ha distinto tra
delitti comuni e quello di “stregheria” riservato
all'Inquisizione. Intanto cresce il numero delle condanne. Tre donne
sono condannate a morte a Badalucco, Castelvittorio e Baiardo.
La
protesta delle autorità locali determina la nascita di un conflitto
di competenza tra magistratura civile e Inquisizione. In attesa di
decidere a chi spetta l'onere del processo, nell'ottobre le donne
arrestate sono trasferite a Genova.
Nel
frattempo la pratica viene trasferita a Roma per un parere del Santo
Uffizio. Il governo genovese vuole liberarsi da una causa diventata
troppo ingombrante. Ma Roma prende tempo e così nel febbraio 1589
la Repubblica Serenissima preme sulla Congregazione della Fede a
Roma perché, si legge, “dette fattucchiere si vanno consumando...
che già tre di loro sono morte”
A
maggio nuova pressione del governo genovese per accelerare la causa,
visto che altre due donne sono morte nel frattempo.
Finalmente
il 28 agosto si annuncia da Roma il termine della causa. Il
Commissario genovese Scribani viene scomunicato per “essersi
ingerito nelle cose pertinenti alla Sancta Inquisizione contro la
disposizione de' sacri canoni”. Di fatto il processo viene sospeso.
Misteriosa resta la sorte delle donne detenute a Genova. Nessun
documento ne parla più. Qualcuno degli storici che si sono occupati
della vicenda le da per morte, altri per liberate.
Un
santuario in ogni vallata
Segni della
resistenza di un mondo rurale che si ribella ad una trasformazione
imposta dall'alto, alla sparizione delle terre comuni, all'abolizione
dei diritti d'uso di pascoli e di boschi che si stanno mutando in
proprietà private. Una resistenza che la Chiesa combatte con
campagne di devozione e il richiamo alla fede.
Uno dopo
l'altro nelle valli investite dalla nuova coltura sorgono santuari
mariani, posti il più delle volte agli snodi di antichissime vie di
transumanza in luoghi da tempo immemorabile segnati nell'immaginario
popolare dalla presenza del numinoso. Alla fine se ne conteranno una
cinquantina tra cui quello di Savona, costruito dopo l'apparizione
del 1536 e presto diventato, fino alla costruzione nell'Ottocento del
santuario di Lourdes, il principale centro di devozione mariana della
cristianità.
Valle dopo
valle l'arrivo degli oliveti si accompagna alle apparizioni
miracolose della Vergine che chiama i contadini alla rassegnazione in
nome della Misericordia e non della Giustizia. Il clima è quello
della controriforma tridentina, con il rigido controllo sulle
confraternite e il disciplinamento delle feste popolari, con il
barocco che si sostituisce negli edifici sacri via via ad un
romanico considerato ormai troppo rozzo, con il rito religioso che da
momento comunitario diventa spettacolare ostentazione di potere e
ricchezza. Chiese risplendenti d'oro per un popolo impoverito, come
impoverite sono le campagne nel Sud del mondo attuale che sulla
monocultura vivono in balia degli andamenti di un mercato mondiale
che non possono in alcun modo controllare.
Ulivi e
pastori transumanti
Ma non muta
solo il paesaggio, cambiano anche le relazioni sociali. Muta
l'atteggiamento verso i pastori transumanti, signori delle vie di
crinale, questi si rappresentanti la vera civiltà millenaria della
Liguria di Ponente, di cui si regolamenta in modo sempre più
restrittivo il passaggio. Lo documentano eloquentemente gli Statuti
delle comunità; come Triora che a partire da questo periodo
disciplina in modo estremamente fiscale il transito delle greggi con
particolare riguardo agli oliveti e il cosiddetto “de damno dato
in olivis” causato dalle pecore e dalle capre.
Dopo secoli
di convivenza il pastore diventa un intruso, un “ladro d'erba”
secondo la bella espressione dell'antropologo Marco Aime che al tema
della transumanza ha dedicato un libro bellissimo. Transumanza che
comunque continuò fino ai primi anni del Novecento, spingendosi le
greggi in inverno dalla terra brigasca alla costa in particolare
nella zona di Bordighera e fino sulle pendici del Monte Mao fra
Spotorno e Vado Ligure
Epilogo
Quello
dell'olio fu un mercato in espansione per almeno due secoli. Nel giro
di cinquant’anni, tra il Settecento e l’Ottocento, solo nella
Valle di Oneglia vennero impiantate 250.000 nuove piante di olivo,
destinate soprattutto ad alimentare la crescente produzione
industriale di saponi nell'area di Marsiglia. Una vita felice tutto
sommato breve, chè già dagli ultimi anni del Settecento il mercato
è in crisi e fra gli economisti della repubblica di Genova inizia un
vivace dibattito sui rischi della monocultura, che certo risente
della suggestione delle teorie fisiocratiche allora in pieno
rigoglio, che precorre nelle argomentazioni molte tesi degli attuali
critici di una economia fondata sulla monocultura in molte aree del
Sud del mondo.
Ma quella
della crisi della “civiltà degli ulivi”, per citare Boine che vi
dedicò il suo scritto più famoso, come si suol dire, è un'altra
storia che merita una trattazione specifica.
Giorgio Amico