Mostra di arte contemporanea
martedì 22 novembre 2011
Nel segno della donna
Nel segno della donna
Mostra di arte contemporanea
Mostra di arte contemporanea
Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, via Jacopo Ruffini 3, Genova
dal 18 novembre al 18 dicembre 2011
ART Commission, nell’ambito del Festival dell’Eccellenza al Femminile, presenta la mostra di arte contemporanea “ Nel segno della donna”, curata da Virginia Monteverde e Liliana Leone, con la partecipazione di otto artiste provenienti da diverse città europee.
Interverranno Francesca Serrati, responsabile del Museo di Villa Croce, e il critico d’arte Sandro Ricaldone.
Artiste: Ellen Boerner, Adriana Desana, Georgia Fambris, Maria Rosanna Fossati, Lory Ginedumont, Margherita Levo Rosenberg, Federica Marangoni, Nina Staehli.
La mostra, fin dal suo titolo, si propone di esprimere sia il segno grafico che le artiste rappresentano attraverso video, installazioni, pittura, fotografia, sia una sensibile capacità di lettura della complessità contemporanea, in grado di lasciare, con sguardi possibili sul futuro, segni forti del loro pensiero.
Le opere d’arte, mediante il raffinato impiego di tecniche e tecnologie artistiche sofisticate e sottili, rendono narrabile l’universale molteplicità delle relazioni umane e le loro infinite rappresentazioni.
La mostra si rende così testimone di un passaggio non più eludibile della crescita integrale ormai in atto dell’arte con la vita, del corpo con la mente, attraverso il riconoscimento di una produzione artistica al femminile, fondamentale per la trasmissione della nostra cultura e delle nostre conoscenze.
mercoledì 16 novembre 2011
Bologna: Convegno su Francesco Biamonti
Libreria delle Moline, Via Delle Moline 3/A, Bologna
in collaborazione con Associazione Amici di Francesco Biamonti
"da noi il mare sale per rocce e per dirupi con il suo respiro"
Paesaggi, luce e silenzi sospesi sull'abisso: l'officina letteraria di Francesco Biamonti
venerdì 18 novembre 2011 - ore 18.00
sull'opera di Francesco Biamonti, a dieci anni dalla scomparsa
domenica 13 novembre 2011
Francesco Biamonti, Se il mondo risorge
Uno degli ultimi scritti di Francesco Biamonti, apparso su La Stampa nel dicembre 2000. Un messaggio di speranza, ancora più significativo se si pensa che l'autore era già gravemente ammalato.
Francesco Biamonti
Se il mondo risorge
Nel silenzio le cose si rigenerano, si mostrano stranite e foreste, rivelano il loro lato eterno. Silenzi dolcissimi degli uliveti, del cielo che tocca le rocce, silenzi metafisici del mare; del cielo stellato, dell’interiorità dell’amicizia e dell’amore, della speranza e della nostalgia. Sono cose che non finiranno mai e che anzi diverranno fondamentali. Sono state minacciate dall’eccesso di ideologie, oscurate e svilite, ma, con la caduta dello storicismo, torneranno a campeggiare.
Ci sarà un ritorno alle cose stesse? Sì, perché è destino umano abitare un mondo, anche se è destino umano sognarne un altro. Gli scrittori più affascinati dalla storia e dal fare (Malraux, Saint-Exupery) hanno instaurato nel cuore dell’azione l’istante della contemplazione per dare un senso, una forma al contenuto del loro vivere. Hanno in qualche modo sabotato la loro stessa azione.
Una ricerca di valori in un mondo degradato? Che cosa regge in questo secolo che muore? Secolo greve di tirannidi, di sterminii, di ricostituzioni di orde barbariche, di fanatismi, con poche voci sovrastoriche, e inascoltate.
Direi che non regge niente, e per questo si va al fondamentale: mare, cielo, antichità della pietà, antichità della grazia. Il resto sembra un mondo perduto, abbandonato a polverosi fantasmi macchiati di sangue.
Ma qualche sogno sprigiona uno spoglio oggetto di Morandi, un roccia di Cézanne che il cielo frange. Il mondo in qualche modo risorge. Può essere, sfrondate le ideologie, l’alba del millennio?
giovedì 10 novembre 2011
Terra d'Oc: Roaschia, la via del latte
Sulle strade dei pastori delle valli occitane. Pagine bellissime di Marco Aime che sono insieme trattato antropologico, testimonianza e ricordo di un mondo ormai quasi scomparso.
La via del latte
Fino a circa trent'anni fa, verso la fine di settembre, la piazza di Roaschia veniva invasa dalle pecore; ce n'erano persino davanti alla porta della chiesa. I pastori erano scesi dalla montagna e si preparavano a partire, a piedi, verso la pianura: nell'Astigiano, in Lomellina, nella pianura Emiliana. Viaggiavano con il "cartun", un carro ricoperto da un telo dove dormivano i bambini e gli agnellini, gli altri dormivano fuori. Lungo la strada raccoglievano un po' di legna, accendevano un fuoco e si preparavano da mangiare. Sarebbero ritornati in primavera, verso la metà di maggio, per incamminarsi nuovamente lungo i sentieri dei pascoli.
Roaschia è posta in una conca delle Alpi Marittime, al termine di un vallone laterale della Valle Gesso. Il paese è dominato dalla cima rocciosa del Casternaut, mentre più lontano si intravvede il Bec d'Ourel che deve il suo nome alla leggenda secondo la quale il figlio del re di Francia, innamorato della bellissima Reino Jano (Giovanna d'Angiò) la inseguiva per le vallate della terra d'Oc sperando di conquistare il suo cuore. La regina fuggendo si rifugiò nel vallone di Palanfrè e, il principe, giunto a Roaschia, si scontrò contro il silenzio dei suoi abitanti. Nessuno volle rivelare dove la regina si trovava.
Questo affronto gridava vendetta, ma prima di pensare quale punizione avrebbe inferto ai Roaschiesi, salì sulla vetta più alta per cercare di avvistare la fuggitiva. La montagna improvvisamente si spaccò facendo precipitare il principe e tutto il suo seguito. Da allora quel picco venne chiamato "Bec dou Rei", poi trasformato in Bec d'Ourel. Questa è leggenda, la realtà di Roaschia è quella di quasi tutti i comuni montani, segnata da uno spopolamento che ha causato un grande impoverimento delle valli. Il paese, che prima dell'ultima guerra vantava oltre mille anime, è oggi abitato da un'ottantina di persone.
In passato gli abitanti di Roaschia si dividevano in due gruppi: i "Gratta" (così venivano chiamati i pastori, per la loro abitudine a "grattare" ciò che trovavano sulla loro strada) e i "Vernenc", i contadini, così chiamati poiché erano i soli a trascorrere l'inverno al paese. «Ci chiamavano "gratta" - dice Toni, un ex pastore - perchè in fondo vivevamo anche sulle spalle degli altri. Poi per strada, se non ti vedevano, qualcosa "grattavi". Se c'era un po' di nebbia ti guardavi attorno e poi lasciavi che le pecore mangiassero, magari dove c'era della bella "medica". Ogni tanto si grattava!».
Non c'è mai stato troppo accordo tra i due "partì" come li chiamano qui: «Rispetto ai contadini la nostra vita era più brutta. Loro lavoravano e faticavano tutto il giorno, ma poi andavano a dormire nella loro stanza. Noi avevamo una tenda vicino al carro e basta. Adesso la Comunità montana ha rimesso a posto gli alpeggi e ne ha fatti di nuovi, ma una volta portavamo su un telo, poi alzavamo un muretto a secco, mettevamo dei colmi e ci rifugiavamo sempre lì. per quattro mesi, dalla fine di maggio alla fine di settembre. Ci si dava un po' il cambio a stare su. Un po' stavamo io e mio padre, poi dopo 15 giorni andava su un mio fratello e così via perchè làssù è la "vita del ribelle". Sempre in montagna, sempre, sempre. La montagna è bella per farci una gita, ma stare lassù: tuoni, fulmini, di tutto ... Portavamo su il pane ogni 15 giorni e dopo una settimana era duro così» dice Toni battendo la mano sulle pietre del muretto. «C'è gente che adesso ha delle ville, ma allora mandava i bambini a "garsun" da noi. Ci davano i bambini da tenere e noi li mantenevamo e qualche volta davamo soldi o formaggi alla famiglia. A noi servivano sempre degli aiutanti. Anche con un bambino era meglio che stare soli»
«Roaschia era il "posto dei pastori". Era l'unico paese del Piemonte dove c'era la scuola per i figli dei pastori. D'inverno, quando eravamo in pianura, andavano alla scuola normale, poi verso San Giuseppe si partiva. Arrivati a Roaschia il comune organizzava la scuola e i bambini potevano finire l'anno scolastico, a settembre davano l'esame e in ottobre si partiva di nuovo».
Il mestiere del pastore è quasi scomparso, solamente tre famiglie, fino agli anni della guerra erano 175, esercitano ancora la pastorizia, la grande tradizione sta scomparendo ingoiata da un'economia che non lascia più spazio alla vita del pascolo. I pastori arrivavano in paese verso la metà di maggio, risalivano la strada che da Roccavione conduce alla Villa con tutto il loro seguito di pecore e, sul carro, le loro poche masserizie. La Villa, come veniva chiamato il paese per distinguerlo dalle frazioni che erano i Tetti, era invasa dalle greggi e dai cani che le tenevano a bada. Ricordano alcuni montanari, che allora erano bambini, di come i pastori si arrabbiavano se si giocava con un cane: il cane non deve imparare a giocare, deve lavorare.
Le pecore venivano ospitate dai contadini, nei loro prati, che ricevevano così in cambio un ottimo concime per i campi. Poi i pastori prendevano la via dei pascoli, lunghe teorie di uomini e animali si snodavano lungo i sentieri che portano in alta valle. Il piccolo territorio di Roaschia non poteva sopportare tutti quegli armenti e così ci si divideva. «Andavamo verso Limone, Entracque, in Val Maira, in Val Varaita, fino in val di Lanzo! Si andava un po' dappertutto. Ogni famiglia aveva più o meno centocinquanta pecore e a Roaschia non c'era si e no posto per due famiglie. C'è stato un periodo che per portare le pecore dalla pianura facevano addirittura le tradotte, C'era la riduzione e costava meno. Si caricavano tutte le pecore a Tortona e si facevano tre o quattro treni. Il primo era all'inizio di maggio, per quelli che "avevano le montagne più basse". Gli altri venivano dopo a seconda dove avevano il pascolo. Quelli che andavano al colle della Maddalena dovevano aspettare fino a giugno.
A Limone le montagne sono "matinere": al Cros, San Giovanni, Capanna Chiara. Si andava su e si saliva per primi. Facevano un treno di 50 o 60 vagoni. Madonna! Quando arrivava a Cuneo dovevano mettere due motrici, una davanti e una dietro che spingeva. Era carico da fare paura!».
I pascoli venivano assegnati tramite un incanto:«Esponevano i "tilet", i manifesti, che c'erano dei pascoli per esempio a Tenda e chi voleva concorrere andava all'asta. L'appalto era per tre anni. L'incanto si faceva in municipio, a buste chiuse o a candele. Si mettevano dei cerini, si accendevano e si aprivano le offerte:" ... chi c'è ancora che dice, chi c'è ancora che dice lire e il cerino era ancora acceso. Arrivava un altro e diceva 310.000 all'ultimo momento, prima che si spegnesse e ti fregava. A volte te lo fregava un amico, non ti diceva niente e alzava l'offerta. Quando il cerino era bruciato finiva l'asta. Se prendevi una montagna dove ci stavano più pecore di quelle che avevi, allora cercavi un socio e "pagavi il male" a metà. Poi d'inverno ci si separava e si ritornava insieme in primavera».
«Non era una vita di fatica come quella del contadino. Per esempio verso fine stagione c'era poco da fare, stavi coricato tutto il giorno. C'era solo tanta noia. Il pascolo andava gestito bene. In genere si facevano tre "gias". All'inizio si pascolava più in basso, poi si saliva e si faceva un altro gias più in alto. Intanto l'erba maturava anche in alta quota. Così si aveva sempre l'erba migliore. Le bestie non devono camminare tanto per trovare il pascolo. Si stava 15 o 20 giorni in un posto e poi ci si spostava. la montagna si mangiava così: dai piedi alla testa. Alla testa ci arrivavi in luglio, salivi finché c'era erba. Più si sta in alto più l'erba è buona. Se vai a Roccavione l'erba viene alta, ma non è buona. L'erba alta va bene per le mucche, ma le pecore preferiscono quella corta. Quella dei pascoli alti la pecora la mette tutta nella schiena. E' una cosa a cui il pastore tiene. Se è
stata bene in estate, la pecora rende anche d'inverno. Le pecore vogliono una montagna pulita. Non sono come le mucche che sono di bocca buona. Per esempio le pecore preferiscono il secondo taglio, non il maggengo che è il primo, il secondo è più basso. Qui le montagne sono cattive, c'è solo erbaccia. Se vai al colle del Mulo o alla Gardetta allora sì. Ci sono montagne che tirano su le pecore. Anche in Francia o a Limone, in val Pesio, al Marguareis, le montagne sono favolose».
C'era però un giorno, l'unico durante il periodo del pascolo, in cui i pastori abbandonavano le loro bestie e scendevano in paese: era il 20 di agosto, S. Bernardo, patrono di Roaschia. Arrivavano le bancarelle, sulla piazza montavano il ballo e le osterie si riempivano di uomini che giocavano a carte, bevevano vino e, spesso attaccavano lite. Non sempre i Gratta erano ben visti in paese e vecchie rivalità familiari a volte scoppiavano in risse violente. Un triste episodio, legato al giorno della festa, viene ancora oggi ricordato a Roaschia: i Titun, una famiglia di pastori, che era al pascolo presso il Passo del Van, scese in paese per la festa. Improvvisamente il tempo peggiorò e le pecore, spaventate dal temporale, si diressero verso la cresta rocciosa della montagna. Furono centoventi a precipitare giù dal burrone che dà sulla Valle di Entracque, un disastro immenso per quella famiglia. A volte i pastori prendevano dei "famij", ragazzini che le famiglie mandavano a lavorare con loro in cambio di qualche moneta o di qualche derrata. Il bambino restava lontano per tutto il periodo del pascolo, poi veniva riportato alla sua famiglia assieme alla "paga", che potevaessere un sacco di grano o qualche pecora.
Le storie degli anziani pastori si intrecciano in un'unica trama fatta di solitudini, vita randagia e fame. Fino all'arrivo della seconda guerra mondiale. Questa epoca, di grandi ristrettezza per quasi tutta la popolazione, vide i pastori in posizione privilegiata: i loro prodotti divennero ricercatissimi e sempre più rari. La pecora offriva notevoli risorse: dalla lana alla pelle e tutti i derivati del latte. «Nel Piacentino la nostra merce era ricercata, valeva oro, soprattutto la ricotta, andava che era un piacere. I formaggi andavamo a venderli ad Asti, a Moretta o a Sommariva Bosco. Osella c'era già allora, non era famoso come adesso, ma comperava delle grosse partite di formaggio. Noi ci radunavamo i tre o quattro, caricavamo i formaggi sul "cartun" e andavamo per lì ad Asti per fare un "mercato". Quello veniva e comperava tutto ciò che gli serviva». Fu in quel periodo che i pastori di Roaschia riuscirono ad accumulare un certo quantitativo di denaro che servirà a porre le basi delle loro attività future. Poi gli anni sessanta, il boom industriale, la corsa alla città e allo stipendio fisso calano come un falco sulle greggi dei pastori. Le nascenti produzioni di latte e formaggi a livello industriale mettono in crisi il prodotto artigianale dei montanari. La qualità del cibo sarà un concetto che si verrà a scoprire molto più tardi, e ai gustosi formaggi dei "Gratta" vengono preferiti asettici latticini avvolti in carta colorata. Intanto l'asfalto corre sempre più veloce a ricoprire le antiche strade e i prati di pianura e le pecore diventano un ingombro che il nascente traffico stradale non può più sopportare. E sopportare non vogliono neppure più gli uomini; il relativo benessere dovuto ai guadagni recenti permette di affrontare in modo diverso la vita, si vogliono dimenticare le fatiche, la solitudine e la vita nomade, da zingaro.
I "cartun" lentamente entrano nelle stalle per non uscirne più e i pastori di Roaschia iniziano anche loro, come la maggior parte dei montanari, a scegliere la città in cui trasferirsi. Torino, Cuneo, Savona, sono le mete principali, la scelta spesso avviene perchè in quella città c'è un parente o si conosce qualcuno. Abili nel maneggiare il latte e nel ricavarne tutto ciò che è possibile, i "Ruas-cin" puntano subito sulle latterie e dopo poco tempo, con il denaro accumulato in tutti quegli anni di risparmio e privazioni, aprono dei nuovi negozi. La solidarietà che univa i pastori quando erano in montagna e si aiutavano uno con l'altro nei lavori, si traduce nelle città in prestiti vicendevoli che permettono a tanti di loro di iniziare la nuova attività. «Noi siamo venuti qui nel '58 - dice una lattaia di Roaschia - e abbiamo preso questo negozio, poi sono venuti i nostri cugini e altri dal paese. Sai, uno tirava l'altro e se c'era una latteria da vendere noi lo dicevamo a qualcuno di Roaschia». Da produttori a rivenditori, ma sempre di latticini. Dopo tutto "marghè" si
chiamano i pastori in dialetto e "marghè" sono anche i lattai. La tradizione sembra continuare, dagli ampi pascoli delle Marittime agli spigoli geometrici dei palazzi urbani, ma è sempre il latte a tenere legati questi montanari alla loro terra di origine, ai "ciabot" dove si riparavano durante i temporali estivi, al bestiame con cui convivevano tutto l'anno.
Quello che sembra quasi un segno del destino è in realtà solamente il frutto di quelle dinamiche sociali che gli uomini muovono spesso inconsciamente, ma che nascono da quel profondo legame che unisce l'uomo al proprio lavoro. Soprattutto quando questo lavoro è in realtà una forma di vita, come lo era quello dei pastori, un lavoro che non occupa solamente le classiche otto ore, ma che coinvolge l'esistenza intera delle persone. I Roaschiesi, oggi lattai, non rimpiangono la vita lungo le strade, quando percorrevano la pianura in cerca di un po' di erba per le loro pecore. C'è nostalgia per il paese, per la montagna e per l'aria pulita, ma c'è anche il ricordo di una vita passata "cuma i singher" (come gli zingari) a dormire accanto al carro e mangiare polenta e formaggio. «La vita era dura, eppure il mondo sembrava più bello di quello di oggi: la gente si accontentava. C'erano un sacco di divertimenti nelle frazioni allora, ogni sera c'erano i suonatori. Adesso vanno in discoteca, ma la differenza è solo che ci sono più soldi. Il mondo allora era più tranquillo, adesso ci sono troppi fastidi».
(Da: http://www.comune.roaschia.cn.it/storia/storia.html)
*Ricercatore di Antropologia culturale presso l'Università di Genova
mercoledì 9 novembre 2011
Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario
Una nuova traduzione, filologicamente corretta, dell'opera più importante di Victor Serge, corredata da un imponente apparato di note e di una stimolante introduzione critica di Roberto Massari. Ne presentiamo l'incipit.
Roberto Massari
L'utopia rossa di Victor Serge
L'utopia rossa di Victor Serge
C’è un Victor Serge anarchico che, reduce dal carcere e dall’internamento, raggiunge il movimento rivoluzionario nella Russia del 1919, divenendo il Serge «bolscevico» che nell’estate del 1920 scrive un panegirico molto poco libertario del processo ivi in corso:«Chi dice rivoluzione dice violenza. Ogni violenza è dittatoriale. Ogni violenza impone una volontà che spezza le resistenze... Ammetto di non concepire che si possa essere rivoluzionari (se non in modo puramente individualistico) senza riconoscere la necessità della dittatura del proletariato... Pena la morte, pena cioè l’essere immediatamente messi a morte dalla vittoria di una dittatura reazionaria, bisognerà che i rivoluzionari instaurino subito la dittatura»
E c’è un Victor Serge - sfuggito eccezionalmente allo sterminio dei vecchi bolscevichi, dopo un triennio d’internamento siberiano (Orenburg negli Urali), esule in Messico e conquistato ormai all’idea che sia indispensabile una sintesi rivoluzionaria di pensiero marxista e libertario - che scrive nell’estate del 1947, a pochi mesi dalla morte:«Il totalitarismo, così come si è instaurato in Urss, nel Terzo Reich e debolmente abbozzato nell’Italia fascista e altrove, è un regime caratterizzato dallo sfruttamento dispotico del lavoro, dalla collettivizzazione della produzione, dal monopolio burocratico e poliziesco (meglio sarebbe dire terroristico) del potere, dal pensiero asservito, dal mito del capo-simbolo...
In questo senso, la rivoluzione proletaria non è più, ai miei occhi, il nostro fine; la rivoluzione che intendiamo servire non può essere che socialista, nel senso umanistico del temine, e più esattamente socialisteggiante, democraticamente, libertariamente compiuta»
In mezzo ci sono le grandi vicende del Novecento (burrascoso dopoguerra, Rivoluzione russa, ascesa dello stalinismo, tentativi insurrezionali in vari Paesi, fronti popolari, guerra civile in Spagna, patto Hitler-Stalin, Seconda guerra mondiale, spartizione del mondo in due blocchi, sconfitta storica del movimento operaio organizzato) vissute in prima persona da un grande scrittore belga-russo, naturalizzato... apolide.
(Il testo integrale dell'introduzione può essere letto su: http://utopiarossa.blogspot.com)
martedì 8 novembre 2011
domenica 6 novembre 2011
Ciao, Claudio
martedì 1 novembre 2011
Da leggere: "Ballata per la figlia del macellaio" di Peter Manseau
Se il destino si chiama Sasha
Prendete la pittura di Chagall, l'ironia dissacrante di Woody Allen, la saggezza antica di Moni Ovadia e le storie yiddish di Isaac Bashevis Singer. Mescolate il tutto e avrete un'idea di che cos'è "Ballata per la figlia del macellaio" di Peter Manseau, scrittore irriducibile ad ogni classificazione già a leggerne la biografia. Figlio di una monaca e di un prete che hanno abbandonato i voti (storia che narrerà nell’esilarante autobiografia "Vows: the Story of a Priest, a Nun and Their Son" ) , restauratore di antichi testi yiddish presso il National Yiddish Book Center, oggi insegnante di scrittura creativa alla Georgetown University.
Un romanzo vasto e complesso che racconta con toni a volte lievi, a volte drammatici, un secolo di storia (dai pogrom antisemiti nella Russia zarista di inizio secolo all'America degli anni Ottanta), fatto della materia, impalpabile e tenace, di cui sono fatti i sogni. Soprattutto quelli fatti a occhi aperti, la vera porta sull'inconscio secondo Jung.
Un romanzo che si fonda sulla certezza incrollabile del potere delle parole e della letteratura, unica zattera a cui aggrapparsi per sopravvivere alle tempeste della vita. Come nell'invocazione dell'oste-editore Minkovsky:
“Fa’ che la tua patria siano le tue parole.
Falle diventare il tuo amore. Ti giuro che, se lo farai,
non sarai mai senza una casa e non sarai mai disperato.
Ti alzerai ogni mattina sapendo che il mondo è tuo,
non importa in quale angolo ti sveglierai”
Un romanzo, articolato su più piani (almeno tre), fatto di storie che si intrecciano: quella di Itsik Malpesh, "il più grande poeta yiddish vivente d'America", quella di un giovane cattolico costretto per amore a fingersi ebreo ortodosso e quella, indimenticabile, di Sasha, la figlia del macellaio, la donna/bambina capace di fermare la violenza cieca degli uomini e degli eventi. Un personaggio capace fin dalle prime pagine di entrare nel cuore del lettore, di suscitarne la curiosità e l'interesse.
Storie che si intrecciano, dicevamo, pur se poste su piani temporali e spaziali diversi (la Moldavia di inizio secolo, il porto di Odessa, la Palestina dei primi pionieri sionisti, l'America degli anni venti e di oggi) a delineare i contorni di un mondo tragicamente reale, ma anche in qualche modo magicamente surreale. Proprio come l'opera di Chagall che illustra la copertina.
"L'anno venturo a Gerusalemme", diceva l'antico augurio degli ebrei della diaspora. Metafora di un sogno e insieme progetto di vita individuale e collettivo. Il ritorno alla patria degli avi, alla terra promessa. In fondo questo è "Ballata per la figlia del macellaio" che riprende attualizzandolo il tema archetipico del nostos, del ritorno a casa.
Un viaggio procelloso, contro venti e maree, alla ricerca del senso profondo della vita e della propria autentica individualità da ritrovare nell'incontro misterioso e salvifico con l'altro.
Peter Manseau
"Bashert"
Peter Manseau
Ballata per la figlia del macellaio
Fazi, 2009
19.50 euro
Il suo libro è la biografia poetica di un poeta che non esiste. Ma lei ha mai scritto poesie? Magari per conquistare un amore, come il protagonista del suo libro?
"Ebbene, confesso: ho scritto davvero qualche poesia, e tutte per mia moglie. Una era il regalo per il nostro primo anniversario. All’epoca stavo scrivendo il mio libro ma – si sa come sono le vite degli scrittori esordienti – lavoravo anche come falegname. La mia specialità? I tetti. Piantavo chiodi sui tetti altrui otto ore al giorno, tornavo a casa e piombavo addormentato. Così intitolai la poesia "Ballata per la moglie di un conciatetti"; per farle capire che, anche arrampicato su un tetto con un martello in mano, pensavo a lei".
Lei scrive romanzi, e ha una vita da romanzo: è figlio di un’ex monaca e un ex prete, e l’ha raccontato, in modo leggero e divertente, nel suo libro, non ancora tradotto in italiano, "Vows: The story of a priest, a nun and their son". Ha più volte dichiarato di aver usato questa storia per abbordare le ragazze alle feste… E’ stato così che ha conosciuto sua moglie?
"No, quando l’ho conosciuta avevo abbandonato da tempo questa tecnica di abbordaggio, anche perché onestamente non aveva molto successo. A dir la verità per far colpo sulla mia futura moglie le dissi che ero uno scrittore, e lei rispose: "Ah sì? E che cosa hai pubblicato?". Peccato che all’epoca i miei romanzi fossero ancora nel cassetto. Diciamo che ho passato gli ultimi anni della mia vita a cercare di essere all’altezza di quello che ho raccontato a mia moglie nei nostri primi cinque minuti insieme!"
Nel libro lei parla di "bashert", termine yiddish che spiega così: "è il destino e, quindi, può significare tante cose. In questo caso bashert è la persona con cui sei destinato a trascorrere la vita". E’ questa la sua parola yiddish preferita?
"Bashert in effetti significa destino, ma in yiddish ha una dimensione più interpersonale che in altre lingue. Parlare di bashert non vuol dire parlare solo del proprio destino, ma della persona a cui il nostro destino è legato. E’ una parola intrigante, ma non è la mia preferita. Che è invece "luftmensch", letteralmente "uomo d’aria": qualcuno che sembra vivere solo d’ossigeno. Un sognatore, insomma. Senza doti apparenti, ma con molte idee. Come il protagonista del mio libro".
Lei non è ebreo, non parla yiddish, però ha scritto un libro il cui protagonista è un poeta yiddish, completamente immerso nella cultura yiddish. Ed è stato così convincente che ha vinto un premio letterario, il National Jewish Book Award.
"Non solo: quando il libro è uscito ho avuto reazioni davvero sorprendenti! Le faccio un esempio. Il padre del protagonista lavora in una fabbrica di piumini, fatti con piume d’oca, a Kishinev, e inventa una particolare tecnica di lavorazione. Tutto frutto della mia immaginazione. Eppure sono stato contattato da una donna, che mi ha raccontato che la sua famiglia aveva allevato oche per decenni in Russia, e che sicuramente mi ero ispirato a loro! L’ho rassicurata: i segreti del commercio di famiglia erano salvi, mi ero inventato tutto…".
(Da un'intervista di Lisa Corva all'autore, apparsa su "Il Piccolo" di Trieste)
Peter Manseau
Ballata per la figlia del macellaio
Fazi, 2009
19.50 euro
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