La
tragedia libica, oggi visibile nella guerra civile strisciante fra i
vari gruppo tribali e nella fuga disperata per mare dei migranti, ha
radici lontane che chiamano direttamente in causa l'Italia. È quello
che denunciavamo nel 1986 – quando ancora Gheddafi era ben saldo al
potere – con questo articolo apparso sulla rivista della Lega
Comunista Rivoluzionaria (LCR), sezione italiana della Quarta
Internazionale.
Giorgio
Amico
Quando
l'Italia sbarcò a Tripoli
All'inizio
di questo secolo l'Italia ha ormai raggiunto un grado di maturità
imperialistica tale da rendere necessaria la conquista con ogni mezzo
di nuovi mercati. L'avanzato processo di compenetrazione tra capitale
finanziario e industriale spinge in direzione di una vigorosa
politica espansionistica. Sono in particolare i gruppi legati alla
finanza vaticana a puntare su di una proiezione nel Mediterraneo che
in particolare privilegi il settore libico. Tra il 1907 e il 1910 con
il fattivo appoggio del governo, il capitale italiano opera una
capillare penetrazione in Libia fondando giornali come l'Economista
di Tripoli, sorto nel 1910 con i fondi del cattolico Banco di Roma, e
aprendo banche, istituendo linee di navigazione, creando aziende
agricole.
Parallelamente,
a livello politico nazionalisti, democratici di sinistra e perfino
socialisti come Antonio Labriola, sviluppano la teoria del cosiddetto
"imperialismo proletario", individuando in una politica
espansionistica nel Nord-Africa la soluzione naturale alla questione
meridionale e al problema dell'emigrazione. C'è poi chi, in questo
precursore del vitalismo fascista, vedrà nell' espansionismo
coloniale il segno di una "rinascita" morale del paese dal
mediocre politicantismo affarista della classe dirigente dell'epoca.
"L'impresa libica non ci darà nessun frutto materiale"
scrive nel 1912 Gaetano Salvemini, "ma dovremo tutti alla fine
considerarla, dal punto di vista morale, come un grande beneficio per
il nostro paese".
L'occupazione
della Libia finisce per diventare in quegli anni una sorta di idea
fissa della politica italiana; l'entrata in guerra nel settembre 1911
col pretesto, tanto di moda anche oggi, della difesa dei residenti
italiani in pericolo, suscita un'ondata di entusiasmo nel paese. Di
fronte al fatto compiuto il movimento operaio, che pure è totalmente
contro la guerra, stenta a reagire. La sinistra rivoluzionaria è
isolata e divisa, mentre la destra socialista di Bissolati si schiera
apertamente a fianco di Giolitti e il centro riformista di
Turati-Treves non va al di là di una blanda condanna verbale.
Nonostante il trionfalismo del socialista Pascoli che declama "la
Grande Proletaria si è mossa", la storia militare della
conquista della Libia è una delle pagine più nere della storia
dell'esercito italiano. Il corpo di spedizione deve affrontare non
solo poche migliaia di soldati turchi, ma la resistenza compatta e
accanita dell'intera popolazione araba. La repressione è durissima,
tutta rivolta contro la popolazione civile, ma non ottiene
apprezzabili risultati se, ancora nel 1918, al di là della costa, il
dominio italiano è solo formale. Al di fuori delle poche città
presidiate dalle truppe, la guerriglia rende gran parte del
territorio libico inaccessibile agli occupanti. "Arriveremo a
Gialo, a Cufra e anche più in là" dice un'ironica canzonetta
molto in voga tra i soldati italiani, "ma per uscire dalla
porta, ognor la scorta ci vorrà".
Uno
scritto di Lenin
Le
radici imperialiste della guerra per Tripoli e il suo carattere
inumano sono lucidamente colte da Lenin in una nota pubblicata sulla
Pravda dell' 11 ottobre 1912:
"L'Italia
ha vinto. Un anno fa essa si è data a predare le terre turche in
Africa e d'ora innanzi Tripoli apparterrà all'Italia. Non è
superfluo gettare uno sguardo su questa tipica guerra coloniale di
uno Stato civile del secolo XX.
"Che
cosa ha provocato la guerra? La cupidigia dei magnati della finanza e
dei capitalistici italiani, che hanno bisogno di un nuovo mercato,
hanno bisogno dei progressi dell'imperialismo italiano. "Che
cosa è stata questa guerra? Un macello di uomini, civile. le,
perfezionato, un massacro di arabi con armi modernissime. Gli arabi
si sono difesi disperatamente (...) per punizione (...) si sono
depredate e massacrate famiglie intere, massacrati bambini e donne.
Gli italiani: ecco una nazione civile e costituzionale. Circa mille
arabi sono stati impiccati (...) 14.800 sono stati massacrati. La
guerra, nonostante la pace, si prolungherà di fatto, perché gli
arabi all'interno, lontano dalla costa, non si sottometteranno.
Ancora per molto tempo essi saranno inciviliti per mezzo delle
baionette, delle pallottole, della corda, del fuoco, degli stupri.
"Certo,
l'Italia non è migliore né peggiore degli altri paesi capitalisti,
tutti ugualmente governati dalla borghesia la quale, per una nuova
sorgente di profitto, non indietreggia davanti a nessun macello".
Omar al-Mukhtar
La
"riconquista"
Al
termine della prima guerra mondiale l'Italia ha finalmente l'
opportunità di procedere alla repressione del movimento patriottico
libico, utilizzando a tal fine una parte rilevante delle risorse
belliche accumulate negli anni della "grande guerra". E' il
liberale e antifascista Giovanni Amendola, ministro delle colonie, a
dare nel gennaio 1922 il via alla "riconquista" della
Tripolitania. Benito Mussolini non farà altro negli anni successivi
che continuare la politica coloniale dell' Italia liberale di cui
eredita "miti, obiettivi, uomini".
I
metodi saranno, se possibile, ancora più spietati di quelli usati
nel decennio precedente e che Lenin aveva tanto efficacemente
bollato. I generali italiani condurranno per oltre dieci anni una
vera e propria guerra di sterminio contro una popolazione che non
riescono a sottomettere. Lo sforzo militare si accanisce di più
contro gli accampamenti dei nomadi che contro le bande dei ribelli.
Le truppe italiane occupano una regione per volta, eliminando con
ferocia ogni focolaio di resistenza.
Nel
1925 la Tripolitania è "pacificata", nel 1929 tocca al
Fezzan e alle regioni del Sud sperimentare quella che il regime
chiama pomposamente "la pace romana". Badoglio, governatore
della colonia, e Graziani, comandante militare, si ispirano ai metodi
militari e politici usati dai francesi in Marocco: repressione
spietata, trattative con una parte dei capi locali, utilizzo
spregiudicato delle rivalità ataviche fra le tribù.
La
resistenza maggiore gli italiani la incontrano in Cirenaica:
risponderanno facendo terra bruciata. "La società dei pastori
seminomadi del Gebel" scrive a questo proposito lo storico
militare Giorgio Rochat "fu distrutta con un genocidio
freddamente preparato e portato a termine sotto la copertura della
censura e della propaganda fascista".
Il
massacro di un popolo
Nel
1930, di fronte alla disperata resistenza degli abitanti del Gebel,
Graziani, il futuro capo dell'esercito collaborazionista della RSI,
chiede e ottiene i pieni poteri. Per impedire ogni rifornimento ai
ribelli, il confine con l'Egitto viene chiuso con uno sbarramento
fortificato di oltre 370 chilometri, mentre la popolazione viene
interamente deportata in cinque grandi campi di concentramento sulla
costa.
Le
oasi vengono occupate militarmente, i pozzi fatti saltare con la
dinamite, il bestiame, unica ricchezza del territorio, massacrato.
Ventimila persone fuggono in Egitto, alcune migliaia muoiono di
stenti durante la fuga o vengono massacrate dagli italiani. Nei campi
le condizioni alimentari e igieniche sono spaventose: si tratta, con
alcuni anni di anticipo su quelli tedeschi, di veri e propri campi di
sterminio in cui perderanno la vita oltre 40.000 libici, un quarto
dell' intera popolazione della Cirenaica, in maggioranza vecchi,
donne e bambini.
Privata
dell'appoggio della popolazione, senza possibilità di rifornimenti,
la guerriglia viene rapidamente soffocata. Nel settem-bre1931 gli
italiani catturano e impiccano il capo della rivolta, Omar
al-Mukhtar, un vecchio di settant'anni! Nel gennaio 1932 Badoglio e
Graziani annunciano trionfanti che la ribellione è definitivamente
soffocata.
"Hanno
fatto un deserto e lo hanno chiamato pace" aveva scritto venti
secoli prima Tacito a proposito della "pace romana", e in
effetti la Cirenaica "pacificata", distrutta, spopolata,
altro non può essere considerata che un deserto. Eppure né
Badoglio, né Graziani, né alcuno dei numerosissimi ufficiali che
allora si macchiarono di ogni sorta di crimini furono mai processati
per tali atrocità, neppure dopo il 25 aprile 1945. Graziani fu
condannato solo per i crimini commessi al servizio dei tedeschi
durante la repubblica di Salò e amnistiato pochi anni dopo. A
Badoglio, diventato capo del primo governo post-fascista, fu
addirittura intitolato un paese. Molti criminali di guerra
continuarono la loro carriera nel nuovo esercito "democratico".
La "Repubblica democratica nata dalla Resistenza" stese un
velo sulle sanguinose e brutali vicende libiche continuando così di
fatto l'opera di rimozione già intrapresa dal fascismo.
Bandiera
rossa, n.9, 15 giugno 1986