mercoledì 31 agosto 2022

"Garibaldi". Numero unico edito dalla Massoneria savonese (1907)

 


Garibaldi. Numero unico edito dalla Massoneria savonese” rappresenta uno dei pochi documenti sopravvissuti alla devastazione ad opera dei fascisti della casa massonica di Savona e alla distruzione del suo archivio di cui, assieme ad arredi e paramenti, venne fatto un falò sulla pubblica via. Il quaderno, uscito nell'estate del 1907, e destinato, come dimostra il modico prezzo di 20 centesimi, ad una larga diffusione, rappresenta il tentativo dei massoni savonesi di uscire dal chiuso delle loro logge e di presentarsi alla città come un'associazione patriottica e democratica, diretta derivazione delle lotte risorgimentali di cui ancora vivissimo era il ricordo. Da qui il titolo e il taglio di molti articoli.

Di particolare interesse l'articolo scritto da Pietro Sbarbaro che ribadisce il concetto della Massoneria come vera chiesa laica dell'umanità, portatrice di valori di fratellanza e tolleranza. Una risposta alle polemiche di chi, come i nazionalisti, accusavano l'Istituzione massonica di essere una consorteria al servizio di poteri forti finanziari stranieri di cui non si taceva la natura ebraica. Quel complotto pluto giudaico massonico diventato poi uno dei cavalli di battaglia della propaganda fascista che ancora oggi è alla base di molte delle teorie complottiste circolanti su una presunta “Europa dei banchieri” che schiaccerebbe gli interessi nazionali italiani. Unica differenza, l'abbandono del termine “giudaico”, impronunciabile dopo la Shoah, ma sottinteso in ogni riga se non apertamente suggerito come il caso Soros dimostra ampiamente.

Garibaldi. Numero unico edito dalla Massoneria savonese” esprime nelle sue venti pagine il momento forse più alto della Libera Muratoria savonese e italiana. Già l'anno dopo la scissione dell'ala conservatrice legata al Rito Scozzese Antico e Accettato e la nascita di una seconda Obbedienza nazionale, quella cosiddetta di Piazza del Gesù, avrebbe evidenziato le crepe esistenti nel “Tempio” che i massoni italiani, al pari dei loro fratelli del resto del mondo, intendevano costruire alle idee di Libertà, Eguaglianza, Fratellanza. La tragedia immane della prima guerra mondiale avrebbe cancellato quel mondo e quelle generose illusioni. Il fascismo avrebbe poi nel 1925 dato il colpo di grazia con la distruzione manu militari delle logge e una legge parlamentare di messa fuori legge della massoneria come organizzazione “segreta” ed “antinazionale” a cui il solo Antonio Gramsci, pur di idee totalmente diverse, ebbe il coraggio di opporsi con un discorso nobilissimo alla Camera.


G.A.


Il Quaderno può essere letto e scaricato al seguente link:

https://www.academia.edu/85922013/Quaderni_per_la_storia_della_massoneria

Quando l'Italia sbarcò a Tripoli. La verità sul colonialismo italiano in Libia

 


La tragedia libica, oggi visibile nella guerra civile strisciante fra i vari gruppo tribali e nella fuga disperata per mare dei migranti, ha radici lontane che chiamano direttamente in causa l'Italia. È quello che denunciavamo nel 1986 – quando ancora Gheddafi era ben saldo al potere – con questo articolo apparso sulla rivista della Lega Comunista Rivoluzionaria (LCR), sezione italiana della Quarta Internazionale.


Giorgio Amico

Quando l'Italia sbarcò a Tripoli


All'inizio di questo secolo l'Italia ha ormai raggiunto un grado di maturità imperialistica tale da rendere necessaria la conquista con ogni mezzo di nuovi mercati. L'avanzato processo di compenetrazione tra capitale finanziario e industriale spinge in direzione di una vigorosa politica espansionistica. Sono in particolare i gruppi legati alla finanza vaticana a puntare su di una proiezione nel Mediterraneo che in particolare privilegi il settore libico. Tra il 1907 e il 1910 con il fattivo appoggio del governo, il capitale italiano opera una capillare penetrazione in Libia fondando giornali come l'Economista di Tripoli, sorto nel 1910 con i fondi del cattolico Banco di Roma, e aprendo banche, istituendo linee di navigazione, creando aziende agricole.

Parallelamente, a livello politico nazionalisti, democratici di sinistra e perfino socialisti come Antonio Labriola, sviluppano la teoria del cosiddetto "imperialismo proletario", individuando in una politica espansionistica nel Nord-Africa la soluzione naturale alla questione meridionale e al problema dell'emigrazione. C'è poi chi, in questo precursore del vitalismo fascista, vedrà nell' espansionismo coloniale il segno di una "rinascita" morale del paese dal mediocre politicantismo affarista della classe dirigente dell'epoca. "L'impresa libica non ci darà nessun frutto materiale" scrive nel 1912 Gaetano Salvemini, "ma dovremo tutti alla fine considerarla, dal punto di vista morale, come un grande beneficio per il nostro paese".

L'occupazione della Libia finisce per diventare in quegli anni una sorta di idea fissa della politica italiana; l'entrata in guerra nel settembre 1911 col pretesto, tanto di moda anche oggi, della difesa dei residenti italiani in pericolo, suscita un'ondata di entusiasmo nel paese. Di fronte al fatto compiuto il movimento operaio, che pure è totalmente contro la guerra, stenta a reagire. La sinistra rivoluzionaria è isolata e divisa, mentre la destra socialista di Bissolati si schiera apertamente a fianco di Giolitti e il centro riformista di Turati-Treves non va al di là di una blanda condanna verbale. Nonostante il trionfalismo del socialista Pascoli che declama "la Grande Proletaria si è mossa", la storia militare della conquista della Libia è una delle pagine più nere della storia dell'esercito italiano. Il corpo di spedizione deve affrontare non solo poche migliaia di soldati turchi, ma la resistenza compatta e accanita dell'intera popolazione araba. La repressione è durissima, tutta rivolta contro la popolazione civile, ma non ottiene apprezzabili risultati se, ancora nel 1918, al di là della costa, il dominio italiano è solo formale. Al di fuori delle poche città presidiate dalle truppe, la guerriglia rende gran parte del territorio libico inaccessibile agli occupanti. "Arriveremo a Gialo, a Cufra e anche più in là" dice un'ironica canzonetta molto in voga tra i soldati italiani, "ma per uscire dalla porta, ognor la scorta ci vorrà".

Uno scritto di Lenin 

Le radici imperialiste della guerra per Tripoli e il suo carattere inumano sono lucidamente colte da Lenin in una nota pubblicata sulla Pravda dell' 11 ottobre 1912:

"L'Italia ha vinto. Un anno fa essa si è data a predare le terre turche in Africa e d'ora innanzi Tripoli apparterrà all'Italia. Non è superfluo gettare uno sguardo su questa tipica guerra coloniale di uno Stato civile del secolo XX.

"Che cosa ha provocato la guerra? La cupidigia dei magnati della finanza e dei capitalistici italiani, che hanno bisogno di un nuovo mercato, hanno bisogno dei progressi dell'imperialismo italiano. "Che cosa è stata questa guerra? Un macello di uomini, civile. le, perfezionato, un massacro di arabi con armi modernissime. Gli arabi si sono difesi disperatamente (...) per punizione (...) si sono depredate e massacrate famiglie intere, massacrati bambini e donne. Gli italiani: ecco una nazione civile e costituzionale. Circa mille arabi sono stati impiccati (...) 14.800 sono stati massacrati. La guerra, nonostante la pace, si prolungherà di fatto, perché gli arabi all'interno, lontano dalla costa, non si sottometteranno. Ancora per molto tempo essi saranno inciviliti per mezzo delle baionette, delle pallottole, della corda, del fuoco, degli stupri.

"Certo, l'Italia non è migliore né peggiore degli altri paesi capitalisti, tutti ugualmente governati dalla borghesia la quale, per una nuova sorgente di profitto, non indietreggia davanti a nessun macello". 


   Omar al-Mukhtar


La "riconquista"

Al termine della prima guerra mondiale l'Italia ha finalmente l' opportunità di procedere alla repressione del movimento patriottico libico, utilizzando a tal fine una parte rilevante delle risorse belliche accumulate negli anni della "grande guerra". E' il liberale e antifascista Giovanni Amendola, ministro delle colonie, a dare nel gennaio 1922 il via alla "riconquista" della Tripolitania. Benito Mussolini non farà altro negli anni successivi che continuare la politica coloniale dell' Italia liberale di cui eredita "miti, obiettivi, uomini".

I metodi saranno, se possibile, ancora più spietati di quelli usati nel decennio precedente e che Lenin aveva tanto efficacemente bollato. I generali italiani condurranno per oltre dieci anni una vera e propria guerra di sterminio contro una popolazione che non riescono a sottomettere. Lo sforzo militare si accanisce di più contro gli accampamenti dei nomadi che contro le bande dei ribelli. Le truppe italiane occupano una regione per volta, eliminando con ferocia ogni focolaio di resistenza.

Nel 1925 la Tripolitania è "pacificata", nel 1929 tocca al Fezzan e alle regioni del Sud sperimentare quella che il regime chiama pomposamente "la pace romana". Badoglio, governatore della colonia, e Graziani, comandante militare, si ispirano ai metodi militari e politici usati dai francesi in Marocco: repressione spietata, trattative con una parte dei capi locali, utilizzo spregiudicato delle rivalità ataviche fra le tribù.

La resistenza maggiore gli italiani la incontrano in Cirenaica: risponderanno facendo terra bruciata. "La società dei pastori seminomadi del Gebel" scrive a questo proposito lo storico militare Giorgio Rochat "fu distrutta con un genocidio freddamente preparato e portato a termine sotto la copertura della censura e della propaganda fascista".

Il massacro di un popolo

Nel 1930, di fronte alla disperata resistenza degli abitanti del Gebel, Graziani, il futuro capo dell'esercito collaborazionista della RSI, chiede e ottiene i pieni poteri. Per impedire ogni rifornimento ai ribelli, il confine con l'Egitto viene chiuso con uno sbarramento fortificato di oltre 370 chilometri, mentre la popolazione viene interamente deportata in cinque grandi campi di concentramento sulla costa.

Le oasi vengono occupate militarmente, i pozzi fatti saltare con la dinamite, il bestiame, unica ricchezza del territorio, massacrato. Ventimila persone fuggono in Egitto, alcune migliaia muoiono di stenti durante la fuga o vengono massacrate dagli italiani. Nei campi le condizioni alimentari e igieniche sono spaventose: si tratta, con alcuni anni di anticipo su quelli tedeschi, di veri e propri campi di sterminio in cui perderanno la vita oltre 40.000 libici, un quarto dell' intera popolazione della Cirenaica, in maggioranza vecchi, donne e bambini.

Privata dell'appoggio della popolazione, senza possibilità di rifornimenti, la guerriglia viene rapidamente soffocata. Nel settem-bre1931 gli italiani catturano e impiccano il capo della rivolta, Omar al-Mukhtar, un vecchio di settant'anni! Nel gennaio 1932 Badoglio e Graziani annunciano trionfanti che la ribellione è definitivamente soffocata.

"Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace" aveva scritto venti secoli prima Tacito a proposito della "pace romana", e in effetti la Cirenaica "pacificata", distrutta, spopolata, altro non può essere considerata che un deserto. Eppure né Badoglio, né Graziani, né alcuno dei numerosissimi ufficiali che allora si macchiarono di ogni sorta di crimini furono mai processati per tali atrocità, neppure dopo il 25 aprile 1945. Graziani fu condannato solo per i crimini commessi al servizio dei tedeschi durante la repubblica di Salò e amnistiato pochi anni dopo. A Badoglio, diventato capo del primo governo post-fascista, fu addirittura intitolato un paese. Molti criminali di guerra continuarono la loro carriera nel nuovo esercito "democratico". La "Repubblica democratica nata dalla Resistenza" stese un velo sulle sanguinose e brutali vicende libiche continuando così di fatto l'opera di rimozione già intrapresa dal fascismo.

Bandiera rossa, n.9, 15 giugno 1986

lunedì 29 agosto 2022

Raffaele K. Salinari, Ex tenebris

 


È finalmente disponibile in libreria l'ultimo lavoro di Raffaele K. Salinari ricercatore attento di ciò che resta della “Tradizione” primordiale nei miti antichi e moderni. Ex tenebris continua questa ricerca, ma avremo modo di parlarne meglio in futuro dopo averlo letto con l'attenzione che merita. Per ora ci limitiamo a segnalarne l'uscita e a proporne la presentazione editoriale.

G.A.

Nelle cosmogonie antiche, d’Oriente e d’Occidente, il Cosmo viene generato dal Caos, da qualcosa cioè di essenzialmente oscuro, un «archè» che contiene e custodisce tutti i germi eterni della Creazione. Anche le moderne teorie astrofisiche ci dicono di una «materia oscura» prevalente nello spazio interstellare, alla quale dobbiamo forse il suo espandersi. Le forze di cosmizzazione dell’essere individuale e di quello universale, agiscono dunque muovendo da ambiti nei quali l’Oscurità assume le sue molteplici «forme» pur restando sempre la stessa nella «sostanza»: come «parendo inchiusa da quel ch’essa inchiude» (Paradiso, XXX-12). In questo percorso trasmutativo è racchiuso allora un mistero che cercheremo di svelare attraverso le multiformi immagini che ha evocato nel tempo. In esse l’Oscurità risplende come sorgente del Lux poietico ed esistenziale: emana da sé la Luce numinosa dell’Essere.


Raffaele K. Salinari
Ex tenebris. Immagini dall'oscurità
Tipheret, 2022



domenica 28 agosto 2022

Due poesie dal ponente ligure

 


Da tempo (decisamente troppo) Vento largo non si occupa più di poesia. Iniziamo a colmare questo vuoto ospitando due poesie, entrambe legate al Ponente ligure. La prima - in dialetto di Dolcedo - di un caro amico, Tommaso Lupi, prima classificata all'edizione 2022 del prestigioso premio di poesia dialettale “Giannino Orengo”. La seconda, omaggio all'opera di Francesco Biamonti, è arrivata al blog da un autore di cui non sappiamo nulla. Entrambe ci parlano della perdita e del ricordo con una malinconica dolcezza. La foto di copertina è sempre di Tommaso Lupi, tratta da un suo recentissimo lavoro sul “Ponte dei cavalieri di Malta” di Dolcedo.

G.A.


Tommaso Lupi

U baloccu da vitta


Cōřa Amiga,
da luntàn i m’àn dītu che
ti te ne sei andàita via sulla,
maladettu viru.
Cumme da fiö, Gianna,
a sun andàu de cursa
sutta a-u ponte de fèru
int’a crotta di ařimai de cà
dunde a te vegnivu darē
a dōghe recattu,
a te sercōvo cumme aluřa
pe’ rivēte esse, illüsu,
in te chellu scüřu in ruvīna
a l’ò truvàu numa u regordu
de candu tü žuvenetta,
ti m’ài fàitu cunusce
u baloccu da vitta.


Il balocco della vita

Cara Amica,/da lontano m’han detto/che te ne sei andata via sola,/maledetto morbo./Come da ragazzo, Gianna,/sono andato di corsa/sotto il ponte di ferro/nell’antro degli animali di casa/dove ti seguivo /ad accudirli,/ti cercavo come allora/per rivederti essere, illuso,/in quel buio in rovina/ho trovato solo il ricordo/di quando tu giovinetta/mi facesti conoscere/il balocco della vita.


***

Gregorio Lanteri

Omaggio a Francesco Biamonti


Lente le stelle calano a ponente
Tra ulivi argentati gonfi di pena
Di antichi desideri il cuore è pieno
E rimpianti

Fari d’auto rivoltano la notte
In alto sull’autostrada
Mentre il vento lacera le foglie
Su crinali d’ombra

Avrigue, Aurno, Luvaira
Borghi di pietra screpolata
Sentieri diventati rovo
Miraggi nella luce incerta dell’alba

Sulla costa cementosa
Un cielo senza colore mostra le sue rughe
Anche il mare muore
Nel grido dimenticato dei gabbiani



sabato 27 agosto 2022

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 6. Il carteggio con Amadeo Bordiga e il tentativo di rientro nel partito

 



Un Giorgio Amico

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 6

Il carteggio con Amadeo Bordiga e il tentativo di rientro nel partito


Costretto ad una severa clandestinità, fuori dal partito, la vita di Pappalardi in Frncia ci resta in larga parte sconosciuta. Non sappiamo, a parte le scarne notizie riportate nelle carte di polizia, ad esempio cosa faccia di preciso nel suo periodo marsigliese. L'unica cosa certa è che fino alla morte, avvenuta in Argentina nel 1940, vivrà stentatamente esercitando i più disparati mestieri e spostandosi frequentemente per sfuggire alle ricerche della polizia italiana e francese. Sappiamo che probabilmente verso la fine del 1925 egli si è trasferito a Parigi al seguito di Bibbi che nel frattempo si è stabilito nella capitale. Cosa non sfuggita al consolato italiano di Marsiglia che in data 21 ottobre comunica al ministero dell'Interno che il Pappalardi aveva lasciato la città per una destinazione non ancora identificata. Sappiamo però che egli mantiene un stretto rapporto epistolare con Amadeo Bordiga. Un carteggio, pubblicato alcuni anni fa da Paolo Casciola, di cui sono rimaste alcune lettere comprese fra il 25 ottobre 1925 e l' 11 ottobre 1926 e indirizzate oltre che a Pappalardi anche a un piccolo nucleo di fedelissimi composto da Bruno Bibbi, Piero Corradi, Eugenio Moruzzo, Lodovico Rossi.

Nella prima lettera, spedita da Napoli il 25 ottobre 1925, Bordiga ribadisce il suo fermo dissenso ad una fuoriuscita dal Partito che non porterebbe da nessuna parte. Per Amadeo Pappalardi deve rientrare nel Partito al più presto:

«Insisti per tua riammissione, dichiarando che gli apprezzamenti politici non tolgono il tuo diritto statutario a fare domanda e a vederla giudicata con le forme e procedure ordinarie, non essendo tu un espulso, ma un dimissionario».

Rispondendo poi alla domanda, posta da Pappalardi in una lettera che non ci è pervenuta, riguardo al che fare nei confronti delle «manovre e delle minacce» della Direzione del partito nei confronti dei dissidenti, l'invito è a pazientare e a fare di tutto per non farsi espellere:

«Ora non bisogna né farsi spaventare né lasciarsi provocare: io sono abituato a tali assaggi e mi auguro di condurre bene la nostra azione evitando la rottura come l'imbottigliamento. Ti dico chiaramente che la scissione la eviteremo anche con ingioamento di rospi: ma ciò non è necessario gridarlo sui tetti. Il nostro metodo farà la sua strada, come non si può aqncora dirlo, ma malgrado tutto. Non sarà una strada agevole, questo è certo. Ma per ora non si può dire di più».

Lo scambio di lettere con Bordiga sortisce l'effetto di convince Pappalardi a richiedere di essere riammesso nel Partito. A tale richiesta fa accenno Pietro Tresso in una lettera al centro del quattro novembre 1925: «Vi preghiamo rispondere al più presto circa la domanda di riammissione presentata dal Pappalardo». Nella stessa lettera Tresso riferiva che la situazione “dei gruppi di Parigi” continuava ad “essere molto grave per l'azione svolta da i seguaci di Bordiga. Tresso faceva anche presente che, pur militando i compagni italiani nel Pcf, questi evitava di prendere una posizione netta in attesa che l'ormai prosimo congresso del partito italiano definisse una volta per tutte la questione Bordiga.

La risposta fu negativa, come si può dedurre da un'altra lettera di Tresso alla Centrale di poco successiva: «Riceviamo in questo momento – confermò Tresso il 12 novembre 1925 – le vostre disposizioni riguardanti il Pappalardo. Ci atterremo ad esse senza riserve». Non conosciamo di preciso il tenore delle disposizioni citate, ma sicuramente queste non erano lavorevoli alla riammissione del dissidente, visto che la richiesta di nuova iscrizione presentata da Pappalardi non ricevette mai alcuna risposta. Il Centro aveva dunque deciso di ignorare completamente la questione, per evitare di rafforzare oggettivamente la posizione già forte dell' opposizione interna. Ormai fuori dal partito, Pappalardi non era più da considerarsi un compagno e dunque non meritevole di alcuna risposta. Il fatto stesso che nella lettera di Tasca di accettazione delle sue dimissioni, ci si rivolgesse a Pappalardi con l'appellativo di «Signore» e non di «Compagno» rappresentava già un chiaro indizio come il Centro considerasse chi si allontanava dal partito, soprattutto se la faceva, non alla chetichella, ma in polemica aperta e pubblica con la linea ufficiale.

D'altronde in quel momento Tresso, a cui toccherà pochi anni più avanti di essere espulso a sua volta dal Partito, era forse il più zelante fra gli esponenti del Centro a Parigi a denunciare e combattere la minoranza bordighiana, accusata di sabotare l'attività del partito e di svolgere una aperta opera di disgregazione all'interno delle sue organizzazioni. Tanto da richiedere in una lettera in data primo dicembre che verso i dissidenti si usasse il massimo del rigore, espellendo tutti coloro che avessero preso posizione a favore del Comitato d'Intesa ed escludendo recisamente «di accondiscendere a qualsiasi forma di accomodamento.»

A Parigi infatti nel 1925 si era formata una sezione francese del Comitato d'Intesa composta principalmente da Piero Corradi, Lodovico Rossi, Bruno Bibbi, Ferdinando Borsacchi, Giovanni Bottaioli e Michelangelo Pappalardi. Proprio il gruppo di compagni a cui, come si è visto, indirizzava le sue lettere Bordiga invitandoli alla prudenza e a evitare ad ogni costo di far precipitare una situazione già molto difficile per la minoranza.

6. continua

martedì 23 agosto 2022

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 5. Il periodo marsigliese


Giorgio Amico

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 5

Il periodo marsigliese


Stabilitosi a Marsiglia, Pappalardi si inserì all'interno della numerosa comunità dei comunisti italiani emigrati. In poco tempo strinse stretti rapporti con quei compagni che più si riconoscevano nelle posizioni di Bordiga ed in particolare con Bruno Bibbi, presso cui andò a vivere, Guglielmo Spadaccini e Eugenio Moruzzo segretario amministrativo dei comunisti italiani residenti nel vasto territorio compreso fra Marsiglia e il confine italiano. Le sue condizioni economiche non erano delle migliori, non solo era completamente privo di mezzi di sussistenza, ma essendo un intellettuale non possedeva alcuna competenza professionale che gli permettesse di trovare un lavoro. Secondo le testimonianze di alcuni suoi compagni di allora, nonostante non fosse particolarmente robusto, accettava comunque qualunque lavoro gli venisse offerto, in genere lavori saltuari , pesanti e malpagati come lo scaricatore a giornata sui moli di Marsiglia. Una vita difficile che non gli impedì comunque di svolgere un'intensa attività politica e una grande mole di lavoro intellettuale, ma che gli minò irreparabilmente la salute. Grazie alla sua preparazione teorica, unita anche a un indubbio carisma, Pappalardi divenne in breve l'elemento più rappresentativo di quanti nel gruppo italiano del Pcf marsigliese si rifaceva alle posizioni bordighiane. Fu da allora, che incominciò ad essere conosciuto nell'ambiente dell'estrema sinistra come «il professore». Un segno del rispetto con cui i suoi compagni, pressoché tutti operai senza grandi basi culturali o teoriche, guardavano a lui.

In quel periodo in casa di Bibbi viveva anche Gino Lucetti, l'anarchico autore nel 1926 di un attentato contro Mussolini. Questa coabitazione, dovuta principalmente al fatto che Bibbi e Lucetti erano cugini, fece si che, dopo l'attentato fallito, Pappalardi e i suoi compagni venissero attentamente seguiti dall'Ovra, soprattutto tramite la spia Ugo Girone, non solo come avversari politici, ma anche come possibili esecutori di azione armate rivolte a colpire la persona del Duce in occasione dei suoi viaggi all'estero. Presso l'Archivio centrale dello Stato esiste una copiosa documentazione in proposito, in larghissima parte frutto della fantasia di Girone che ingigantendo ad arte la situazione alzava così il prezzo delle sue informazioni. Si deve però riconoscere che Pappalardi ha una posizione ambigua nei confronti del terrorismo come mezzo di azione politica che tende a giustificare come «un prodotto del processo storico»; atteggiamento per molti aspetti più vicino alle posizioni anarchiche che a quelle marxiste. Lo testimonia l'articolo L'Epos Révolutionnaire et les Bolchévisateurs pubblicato nel novembre 1927 sul primo numero di Le Réveil Communiste, il foglio di agitazione e propaganda su cui svilupperà via via le sue idee.

L'anno in cui Pappalardi si sposta all'estero, prima in Germania e poi definitivamente in Francia, rappresenta un anno cruciale per la formazione di nuovi equilibri nel movimento comunista internazionale e per la maturazione, in Italia, Germania e Francia di una estesa area di dissenso con caratteristiche ultrasinistre, come sottolinea Danilo Montaldi nel suo lavoro su Korsch e i comunisti italiani:

«Maturano nel 1923, e si esprimono appieno nel '26, in sede politica – la sede, in ultima analisi, che decide – di gruppo, di frazione, di partito, molti degli orientamenti che segneranno non soltanto destini individuali quali di Bordiga, di Korsh, di Gramsci, ma quelle masse cui troppo spesso ci i richiama a vanvera.»

Il 1923 è l' anno in cui iniziano a manifestarsi le prime critiche di Bordiga nei confronti della politica dell'Internazionale comunista. Nei primi giorni di settembre dal carcere, dove è detenuto in attesa del processo al gruppo dirigente del Pcd'I che si concluderà poi con l'assoluzione piena di tutti gli imputati, Bordiga scrive il suo «Manifesto a tutti i compagni del Partito» in cui si accusa la direzione dell'Internazionale di puntare alla «liquidazione dei partito quale esso sorse a Livorno». 

Nonostante il delinearsi di questo aperto contrasto i dissidenti restano nel partito che considerano non ancora perso alla causa rivoluzionaria. Diversa la situazione di Pappalardi che porta alle estreme conseguenze la rottura ormai evidente fra Bordiga e la direzione dell'Internazionale comunista, decidendo di uscire dal partito. il 10 novembre 1923 egli da le dimissioni dal partito, nonostante Bordiga cerchi in tutti i modi di dissuaderlo.

Dimissioni accettate il 30 novembre da Tasca (Valle) in nome del Comitato esecutivo del Pcd'I. Dunque l'uscita del «Professore» dal Pcd'I è il frutto di una scelta politica autonoma dell'interessato e non la conseguenza di una espulsione come scrive la rivista del partito «Stato Operaio» nel numero 9-10 del novembre-dicembre 1927.

Una versione che circolava già da qualche anno, tanto da essere ripresa il 15 settembre 1924 dal console italiano a Marsiglia che in una informativa comunicava a Roma che secondo voci ascrivibili a Secondino Tranquilli (Ignazio Silone) Pappalardi era stato espulso dal Pcd'I «per aver criticato l’opera del comitato centrale e per avere aderito al comunicato delle opposizioni». Proprio per smentire una volta per tutte questa notizia mirante a screditare Pappalardi agli occhi dei militanti di base del Pc, Le Réveil Communiste pubblicherà agli inizi del 1928 il testo della risposta ufficiale del Comitato esecutivo del Pcd'I alla domanda di dimissioni.

N. P. 3985 R.

30-11-23.

A Monsieur PAPPALARDI, Marseille

Nous prenons note de ce que tu exposes dans la lettre du 10-11-23, et nous acceptons te demission du parti.

Le Comité exécutif du P.C.I.

Signé par VALLE

5. continua

sabato 20 agosto 2022

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 4. L'emigrazione italiana in Francia

 


Giorgio Amico

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 4

L'emigrazione italiana in Francia

Non conosciamo i motivi precisi che spinsero Pappalardi ad abbandonare Berlino e a trasferirsi in Francia, ma la decisione probabilmente si inseriva nel quadro più generale delle scelte del partito in merito all'utilizzo dei militanti all'estero. Il 10 settembre1923 il Comitato esecutivo del Pcd'I aveva comunicato alla segreteria del Pc austriaco come d'ora in avanti gli emigrati italiani sarebbero stati indirizzati in Francia dove la loro condizione legale era considerata migliore per la particolare situazione politica del paese. È probabile che questa decisione fosse stata determinata dalla constatazione elementare che in confronto ai numeri molto ristretti della comunità italiana in Germania, la Francia risultasse assai più interessante per la presenza di una estesa e radicata emigrazione italiana dovuta in prevalenza a motivi economici. Realtà come Lione o Marsiglia, oltre che Parigi, ospitavano consistenti comunità italiane frutto di flussi migratori iniziati addirittura dal XVII secolo. Il Lionese, ad esempio, era tradizionalmente luogo di immigrazione, sia stagionale che stanziale, di vaste porzioni della popolazione in età da lavoro delle valli alpine piemontesi che trovavano occupazione in particolare nell'industria tessile. A proposito della Francia si può dunque parlare rispetto al fenomeno migratorio di una vera e propria “tradizione” che prende dimensioni di massa alla fine del XIX secolo a causa di una forte pressione demografica e di un esteso malessere sociale. Un flusso di forza lavoro non specializzata che, a parte il Lionese, si indirizza più che verso le fabbriche verso l'edilizia, le miniere, l'agricoltura della Provenza e i porti di Marsiglia e Nizza. Verso lavori che non richiedono una particolare specializzaazione, pesanti e malpagati che i francesi non amano più svolgere Una emigrazione che ha spesso carattere temporaneo o, come nel caso dell'agricoltura, stagionale. A questa emigazione si aggiunge l'emigrazione politica, soprattutto dopo l'andata al potere di Mussolini. Nella sua ricerca sulla Sinistra italiana nell'emigrazione Michel Roger ricostruisce così motivazioni e dimensioni numeriche del fenomeno:

«Una prima ondata nel 1921-1922 riguarda i dirigenti sindacali e i membri delle amministrazioni “rosse”. Una seconda ondata assai dispersa attraverso l'Europa riguarda i quadri del movimento operaio e si accresce dopo la “marcia su Roma”. Si tratta di evitare il terrore fascista del 1922-1926, e riguarda anche i militanti che appartengono alle organizzazioni di lotta del PCI perseguitati per le loro azioni contro i fascisti. Una terza ondata ha luogo dopo il 1926 e riguarda i militanti più in vista del movimento operai. La salita al potere del fascismo in Italiaobbliga molti militanti operai a lasciare il paese. Alcuni, in seguito a combattimenti di strada debbono sfuggire alla giustizia emigrando in Francia, in Germania, in Austria o in Svizzera. Altri si rifugiano in Russia come Ambrogi, Calligaris, ecc. È in Francia che emigra la maggior parte degli italiani. Un rapporto di polizia del 1938 indica che la colonia parigina contava 95000 persone di cui 79000 uomini e 16000 donne.»

Negli anni Trenta risiederanno in Francia circa 300 000 italiani, a cui si aggiungono i 30 000 residenti in Belgio. Sarà fra di loro che si impianterà la Frazione di sinistra dei comunisti italiani. D'altronde i rapporti fra i due partiti comunisti erano sempre stati particolarmente fraterni. Al Congresso di Marsiglia del Pcf del 1921 era stato proprio Amadeo Bordiga il rappresentante ufficiale dell'Internazionale comunista. Immediatamente dopo la Direzione del Pcd'I aveva inviato in Francia Onorato Damen, ricercato dalla polizia per uno scontro con una squadraccia fascista nel corso del quale un fascista era rimasto ucciso. A Parigi Damen svolge l'incarico di rappresentante del Pcd'I presso l'Ufficio politico del Partito francese con il compitro di organizzare i comunisti italiani emigrati. Fino al 1924, quando rientrerà in Italia, egli dirige il supplemento in italiano de l'Humanité. I comunisti italiani si organizzano all'interno del Pcf in gruppi di lavoro e in un Comitato intersindacale. Secondo un rapporto della Prefettura di Parigi che mantiene un attento controllo sull'emigrazione politica, l'influenza della «Sinistra» è preponderante nel Comitato intersindacale, tanto che uno dei principali dirigenti è Bruno Bibbi (Bianco) che sarà poi il segretario della Federazione parigina della Frazione di sinistra dei comunisti italiani. Nel 1927, nei gruppi italiani del Pcf la «Sinistra è maggioritaria copn i suoi punti di forza a Parigi, Lione e Marsiglia.


4. continua


giovedì 18 agosto 2022

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi. 3 Il periodo berlinese

 


Giorgio Amico

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi 3

Il periodo berlinese


A Berlino Pappalardi entra in contatto con elementi della «Sinistra tedesca» e per un breve periodo rappresenta il Pcd'I presso il Partito comunista tedesco (Kpd).

Agevolato dalla buona conoscenza della lingua tedesca, che parla e scrive con grande proprietà, egli ha probabilmente i primi contatti diretti con Karl Korsch, intellettuale di punta del partito, professore ordinario di diritto civile e del lavoro presso l'università di Iena, deputato al Parlamento di Turingia e ministro della giustizia nel «governo operaio del Land». Da Berlino Pappalardi tiene informato Bordiga del dibattito in corso nel partito tedesco e dei forti contrasti che iniziano a manifestarsi anche nei confronti dell'Internazionale e del partito russo dove si sta affermando sempre più la leadership di Stalin.

Berlino era allora un crocevia della politica europea, soprattutto per le forze della sinistra rivoluzionaria e della destra estrema. Emissari del Comintern e rappresentanti dei vari partiti comunisti si mescolavano agli esiliati controrivoluzionari russi e ad esponenti dei più vari movimenti revanscisti tedeschi. Come racconta Mauro Canali nella sua documentatissima ricerca sulle spie dell'OVRA, a Berlino Pappalardi incontrò Vanni Buscemi, un giovane comunista di Mazara del Vallo

Poco tempo prima, il 13 marzo 1923, il giovane era stato arrestato mentre tentava di passare clandestinamente il confine con la Francia a Ventimiglia. Il 19 marzo Canuto Rizzatti, prefetto di Porto Maurizio, inviò un'informativa ''urgentissima'' alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza il cui oggetto era ''l'arresto del comunista Buscemi Giovanni''. La relazione identificava Buscemi come ''comunista, propagandista, antimilitarista'' per proseguire sottolineando: ''Il Buscemi all'atto dell'arresto chiese di essere tradotto in questo capoluogo dicendo di dover fare rivelazioni di indole politica. Interrogato, rilascio' un 'Pro Memoria', nel quale si fa cenno a varie circostanze politiche, che sono state trasmesse alle autorità competenti per gli opportuni provvedimenti''. Da quel momento Buscemi era passato al servizio della polizia politica che favorì il suo espatrio in modo da utilizzarlo come informatore negli ambienti dell'emigrazione comunista almeno fino al 1928 quando si trasferì negli Stati Uniti dove iniziò una carriera di sindacalista socialdemocratico e anticomunista al servizio degli apparati polizieschi e di spionaggio americani. Pappalardi non parlò mai di questo incontro. Montana invece ne trattò nella sua autobiografia:

«A Berlino incontrai il Prof. Michele Pappalardo [sic], un fanatico che seguiva Bordiga. Era un napoletano e conosceva un po’ di tedesco. Arrivò da Vienna Toni Ribarich. Due ex deputati comunisti, Misiano ed Ambrogi, dedicavano il miglior tempo a fare i cascamorti davanti alle ragazze dei negozi, comprando baci ‘con l’incollish’, dicevano».

Dunque Pappalardi si inserisce negli ambienti comunisti berlinesi dimostrando buone doti politiche tanto che l'Internazionale comunista progettò di spostarlo negli Stati Uniti per lavorare allo sviluppo delle attività del Partito comunista all'interno della comunità italoamericana, ma poi per motivi imprecisati non se ne fece nulla. Un episodio, come tanti altri nella vita di Pappalardi, su cui ancora oggi si conosce molto poco. Così come nulla si sa dei motivi che lo convinsero a trasferirsi in Francia, ancora una volta accompagnato da Luigi Bello.

Secondo Dino Erba, autore dell'unica ricerca su Pappalardi purtroppo infarcita di errori e imprecisioni, dopo il fallimento dell'Ottobre tedesco Pappalardi avrebbe deciso di abbandonare Berlino e di riparare in Francia. In realtà il passaggio in Francia avvenne nel mese di settembre, esattamente un mese prima del precipitare della situazione tedesca. Il dato è certo. Il 22 settembre 1923 Michelangelo Pappalardi e Luigi Bello sono fermati dalla polizia di Basilea e trovati privi di documenti validi sono arrestati. Il 25 settembre il Dipartimento di polizia di Basilea chiese informazioni su Luigi Bello alla Questura di Napoli che rispose in data 17 ottobre fornendo i dati richiesti e che sui due non esistevano carichi pendenti. Pappalardi e Bello dichiararono di essere esuli italiani e che la loro intenzione non era di fermarsi in Svizzera ma di passare in Francia. Di  conseguenza i due furono rilasciati ed espulsi dal territorio elvetico.  

3. continua

mercoledì 17 agosto 2022

Se la sinistra diventa reazionaria.

 


Giorgio Amico


Se la sinistra diventa reazionaria.
A proposito dell'ultimo libro di Roberto Massari


È da poco disponibile in libreria l'ultimo lavoro di Roberto Massari, Reazionari sinistri, che raccoglie articoli, riflessioni, lettere che vanno dal 2007 ad oggi. La parte più consistente,e anche ovviamente la più attuale del volume, è quella dedicata all'Ucraina. Senza alcun timore di andare controcorrente Massari si schiera, senza se e senza ma, a fianco del popolo ucraino aggredito e inchioda alle loro contraddizioni una sinistra fatta di orfani: orfani di Lenin, orfani di Stalin, orfani di Mao, orfani del “Grande PCI”. Ma anche orfani di Trotsky, al cui pensiero per larga parte della sua vita Massari si è rifatto, da militante e da studioso del movimento operaio. In polemica feroce fra loro, ma accomunati da un amore smisurato per ogni forma di regime o movimento che si dichiari antiamericano. Perché, come per gli ayatollah iraniani, gli Stati Uniti ( e Israele) sono il “Grande Satana”. E dunque, proprio come il presidente dell'ANPI Pagliarulo, che da quegli ambienti proviene, pensano che Putin abbia avuto le sue ragioni e che se la guerra continua è perché gli Ucraini rifiutano di arrendersi e continuano ostinatamente a resistere.

Da qui il titolo, malizioso e ambivalente come un palindromo. I reazionari sono “sinistri” perché portano dentro l'idea di morte, ma questi “sinistri”, gli orfani di cui si diceva, sono reazionari perché vivono nel passato, in un mondo di spettri che spacciano per il mondo reale. E si trattasse solo di pochi imbecilli isolati, “comunisti da tastiera”, non meriterebbero neppure un rigo, ma purtroppo parliamo di quello che resta di partiti politici che pure in passato ebbero largo seguito. Come, tanto per citare il più noto, il Partito della rifondazione comunista o almeno quello che ne resta.

Messi tutti insieme, neosindacalisti compresi, rappresentano l'equivalente a sinistra di aree come quella dei No Vax, a cui comunque si sono abbondantemente mescolati. Sono il partito dell'irrazionalismo e dell'anticultura. Perché, essendo comunisti “a prescindere”, come li avrebbe catalogati Totò, non hanno bisogno di documentarsi e studiare perché tanto, proprio in quanto “comunisti” sanno già tutto. Anzi, i libri fanno male, perché possono creare qualche dubbio in chi invece vive di certezze granitiche. Figurarsi che c'è perfino chi scrive che nel '39 Stalin e Hitler furono alleati nel scatenare la seconda guerra mondiale aggredendo la Polonia, la Finlandia e i paesi baltici! O che nazismo e stalinismo sono stati per molti versi regimi gemelli che si sono copiati a vicenda.

Dunque meglio non sapere. Che il leggere è già in sé il primo passo sulla via del pensare e dunque del dubbio. Convinti come sono che il compito di un rivoluzionario (si fa per dire) non sia prima di tutto porsi domande, ma dare solo e sempre risposte. Ovviamente le più semplici possibili.


Di seguito la parte finale della prefazione:

Robero Massari

Reazionari sinistri

Sono infatti tempi duri per la Ragione, assediata d’ogni parte dall’estensione del fenomeno che nel passato definii i «da-soliideologici»: cioè i sinistri misantropi (in genere «leninisti-senzamai-un-partito») che dal proprio blog fingevano di dialogare col mondo, pur di evitare il confronto con la realtà e con gli altri.

Questa variante «sinistra» dei cretini digitali di Michel Desmurget, dell’Homo videns di Giovanni Sartori, dei frenetici informatissimi idioti di Franco Ferrarotti, è cresciuta a dismisura e coincide in gran parte col popolo degli io-non-me-la-bevo: quelli che invece si bevono tutto, purché venga da links o dai social, ma non da analisi teoriche serie, esposte negli odiatissimi libri.

Sono ignoranti, ma presuntuosi; disperatamente soli, ma in connessione permanente; non leggono, ma diffidano di chi legge; angosciati dalle proprie insufficienze intellettuali, si creano dei super-Superego. Sono ovviamene complottisti, dietrologi e prede delle più varie paranoie. Convinti che solo loro abbiano capito l’ultimo inghippo del Potere, sono antieuro («le Banche...»), no-vax («le Big Pharma...»), antiucraini («la Nato...»), antiqualsiasi-cosa pur di poter gratificare il proprio narcisismo ripetendo a se stessi: «Solo io ho l’intelligenza per capirlo...».

(…) Simpatizzano per le dittature stabili (quelle d’origine staliniana come Russia e Cina, o islamica come l’Iran), purché siano antiamericane.

Indifferenti alla morte di milioni per Covid e di migliaia di ucraini sotto le bombe, non provano il minimo senso di umana pietas.

A differenza di «noi del Vietnam», tifano per Golia contro David, per gli aggressori contro gli aggrediti, non riuscendo più a sentire l’appartenenza e la solidarietà di specie...


Roberto Massari
Reazionari sinistri
Quelli del «io-non-me-la-bevo» tra guerre e pandemie (2007-2022)
Massari editore, 2022
544 pagine, 20 euro

martedì 16 agosto 2022

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi

 


Giorgio Amico


Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi

2. L'espatrio in Austria

Nel suo sintetico lavoro su Pappalardi Dino Erba sostiene che questi «nel dicembre 1922 espatriò in Austria con Luigi Bello, un compagno di Castellamare che, dopo essere stato licenziato dall'Ilva, aveva svolto attività nel sindacato dei pastai e dei mugnai». La cosa ovviamente é impossibile considerato che, come si è visto, fino agli inizi del 1923 il dirigente comunista è ancora a Napoli, dove viene arrestato il 5 febbraio. L'errore nasce da una dichiarazione rilasciata alle autorità di polizia proprio da Luigi Bello, che in piena guerra, nel 1941 viene arrestato dalla polizia di Vichy e estradato in Italia. Ricondotto a Napoli e duramente interrogato agli inizi del 1942 il Bello ricostruisce la sua quasi ventennale vita in clandestinità all'estero, dichiarando agli agenti della polizia politica di essere espatriato con Pappalardi nel novembre 1922. Sono passati quasi vent'anni, forse il Bello confonde le date, più probabilmente mescola nella sua confessione verità e menzogna per intorbidare le acque e proteggere chi lo aveva aiutato ad espatriare. Non lo sappiamo, resta il fatto che Erba si sbaglia, nel dicembre 1922 Pappalardi è ancora in Italia.

In realtà l' ex segretario della Camera del Lavoro era espatriato qualche mese più tardi nella primavera del 1923 subito dopo essere stato rilasciato. Oltrepassato il confine austriaco, Pappalardi e Bello si erano stabiliti per un breve periodo a Vienna probabilmente a casa di Torquato Lunadei anche lui politicamente molto vicino a Bordiga, già delegato del Pcd'I al Quarto Congresso dell'Internazionale comunista e poi fiduciario a Vienna del Partito comunista, incaricato proprio di gestire oltre che i rapporti con il Partito comunista austriaco anche l'accoglienza dei rifugiati italiani.

Ma perché proprio Vienna? La risposta la troviamo in un lungo studio di Renato Monteleone dedicato all'emigrazione politica italiana verso la capitale austriaca nel 1923:

«Gli arresti di febbraio avevano inferto un durissimo colpo all'organizzazione di partito, liquidando il grosso dei dirigenti. […] Nel frattempo, mentre incalzava la persecuzione poliziesca, era cominciato un intenso movimento di espatrio di comunisti o comunque di oppositori al regime, decisi o disposti a continuare all'estero la lotta antifascista. Per la sua posizione geografica Vienna sembrò prestarsi bene come punto d'appoggio per questa emigrazione politica, specie per quanti intendevano congiungersi coi centri operanti nell'Europa centrale o dirottare verso l'Unione Sovietica. Ma è probabile che nel puntare sulla capitale austriaca ci fosse (almeno inizialmente) anche una certa esagerata aspettativa dalle posizioni di potere detenute dai “rossi”.

Bisogna però anche ricordare che fin dal 1919-'20 socialisti e comunisti italiani avevano avuto diverse occasioni per prendere contatto con i compagni viennesi. Anzi, in quegli anni in cui si trattò di riallacciare i collegamenti internazionali in Europa e con l'Unione Sovietica, Vienna fu una delle principali “stazioni” nella rotta dei corrieri clandestini che facevano la spola tra l'Italia e Berlino e Mosca. Nella direzione di Vienna anche Innsbruck fu un importante centro di transito e tale rimase nel 1923, tanto che il PCI vi inviò un suo fiduciario, Ernesto Tamburini, con l'incarico di assistere e di istradare verso la Germania i profughi politici dell'Italia.

Questa precededente attività clandestina spiega la presenza a Vienna di gruppi di comunisti e socialisti italiani, costituitisi già da qualche anno sia pure in modo instabile (perché le partenze e gli arrivi si susseguivano con una certa frequenza).» Il dato è confermato da una lettera del 2 marzo 1923, con cui Gramsci e Gennari da Mosca informano il comitato esecutivo del Pcd'I che l'esecutivo allargato del Comintern ha deciso di aprire suoi Uffici a Berlino e a Vienna. L'Ufficio di Vienna è incaricato in particolare di aiutare il Partito italiano nell'organizzazione del lavoro illegale. Inoltre si creerà un « Comitato di soccorso » per i rifugiati italiani come copertura dell'attività illegale dell'ufficio.

Il soggiorno dei due militanti stabiesi fu comunque di breve durata. A metà maggio Lunadei comunicò alla direzione del partito che i «compagni di Napoli, Papalardi [sic] ed amico, sono già partiti per B. [Berlino]».

2. continua

lunedì 15 agosto 2022

L'estate torbida del 1945 tra vendette e misteri

 


Appena letto

L'estate torbida (1990) è il secondo romanzo di Carlo Lucarelli nato dalla sua tesi di laurea sulla polizia della Repubblica di Salò. È la storia di un poliziotto repubblichino, che pur non avendo avuto parte nei crimini del regime, è in fuga dopo la Liberazione, Lucarelli compone una storia torbida, fatta di vendette, omertà, paura, ma anche di orgogliosa rivendicazione della lotta partigiana. Uomo onesto, il commissario De Luca, si trova costretto sotto falso nome ad indagare sul massacro di una famiglia di contadini nella Romagna violenta dell'estate '45. Un quadro vivissimo dell'Italia di allora popolato di ex fascisti che di notte scompaiono per non riapparire più, partigiani che sognano la rivoluzione o che sono diventati gangster, ragazze (“la Tedeschina”) che sono andate con i tedeschi e ora ne pagano le conseguenze. Onnipresente il “Partito”, che cerca non senza fatica di bloccare la spirale delle vendette, perché il tempo delle armi è finito e ora si apre la stagione della ricostruzione. Ma non tutti lo capiscono e l'accettano. Un libro da leggere per capire l'atmosfera di quei giorni e come sia impossibile uscire da una dittatura ventennale e da due anni di guerra civile feroce mantenendo integra la purezza degli ideali.

Un romanzo di 80 pagine, intensissimo, a dimostrazione che anche con i "polizieschi" si può fare letteratura e storia. Ne proponiamo una pagina:

«Qui si c'è da fare... il fronte è stato fermo sul fiume e per due mesi ci siamo presi le cannonate di tutti, tedeschi, inglesi e polacchi. Non c'erano praticamente più vetri in paese. Ma noi ci siamo dati da fare... ha visto la scuola, ingegnere? La stiamo rimettendo su da soli, con i soldi della cooperativa». «Davvero?» disse De Luca, con interesse esagerato. Ma c'era Camera che lo fissava, dall'altra parte del tavolo e lui Io sentiva, anche se non lo guardava, lo vedeva con la coda dell'occhio, appoggiato pesantemente al piano di legno, con le mani enormi sulle braccia, le spalle larghe e il collo massiccio, il volto magro e affilato, dalla carnagione scura. Sotto il tavolo si strinse le mani fino a farsi male.

«E questo è solo l'inizio, ingegnere» disse Bedeschi, che aveva i capelli bianchi e un paio di baffetti sottili, stretti sul labbro superiore. «Tempo un anno e Sant'Alberto sarà meglio di prima. E lo sa perché? Perché qui siamo uniti. Io non conosco le sue idee politiche, ingegnere...».

«Non mi interesso di politica» si affrettò a dire De Luca.

Bedeschi annui, serio. «Neanch'io, se questo significa parlare e basta, ma quando fare politica significa progettare il futuro, allora è proprio questo il momento adatto, perché adesso, cacciati i fascisti e cacciati i tedeschi, si tratta di ricostruire. E d'accordo, ingegnere?».

De Luca si strinse nelle spalle, imbarazzato. «Ecco, io...» iniziò, ma la voce profonda di Camera lo copri e copri anche il brusio indistinto che c'era nella stanza.

«Via i fascisti e via i tedeschi, bravi! E adesso che è finito tutto possiamo tornarcene a casa. Come dici tu, Savioli? Normalizzazione...».

«La guerra è finita, Learco...» disse il sindaco, duro, con la voce che gli tremava.

«Ah, è finita? Io non me ne sono accorto... perché in giro io vedo sempre la stessa gente di prima e qui e a Roma ci sono ancora le stesse facce da culo o da prete. Ci vogliono solo delle teste dure come voi per fare certi discorsi!» e batté il pugno chiuso a martello sulla fronte di chi aveva vicino, guardando il sindaco, che spostò indietro la test istintivamente.

«Le cose cambieranno, Learco» disse Bedeschi, con un sorriso indulgente, «cambieranno, vedrai e anche in fretta... ma ci vuole il sistema giusto».

«Io ce l'ho il sistema» Camera si batté una mano sulla giacca, vicino alla cintura, «ed è un pezzo che vado avanti con quello».

Il sindaco sfilò dalla tasca un giornale piegato per il lungo e lo tenne in mano, agitandolo. «Sull'Unità di oggi» disse, «c'è un corsivo di Togliatti che dice Noi vogliamo uno stato democratico forte e ordinato, con un esercito solo, una sola polizia...».

Carnera si sollevò sulle braccia, strappò il giornale di mano al sindaco e lo gettò sul tavolo, con violenza. De Luca lo prese al volo, fermandolo prima che gli rovesciasse addosso il bicchiere.

«Che venga qui, Togliatti!» ruggì Carnera, «ce l'ho anch'io un bel discorso da fargli a Palmiro! Se proprio vuole la mia pistola, eccola qua! Che venga a prendersela!».

Mise una mano sotto alla giacca e sfilò una pistola, sbattendola di piatto sul tavolo.

«Con te non si può parlare!» sibilò il sindaco, irrigidito contro lo schienale della sedia».


Carlo Lucarelli
L'estate torbida
Einaudi 2017 (nuova edizione)


domenica 14 agosto 2022

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi (1895-1940)

 


Iniziamo la pubblicazione delle bozze provvisorie di un lavoro in via di stesura sulla figura, oggi quasi totalmente dimenticata, di Michelangelo Pappalardi, seguace di Amadeo Bordiga e poi nell'esilio molto vicino ai comunisti dei consigli tedeschi ed in particolare a Karl Korsch.

Giorgio Amico

Un rivoluzionario dimenticato. Michelangelo Pappalardi (1895-1940)


.Michelangelo Raffaele Pappalardi, nasce l'8 novembre 1895 a Campobasso. La famiglia appartiene al piccolo notabilato cittadino. Il padre, Luigi, lavora come cancelliere presso il Tribunale, incarico per i tempi assai prestigioso nell'ambiente un po' asfittico di una cittadina meridionale. La madre, Pasqualina Cannavina, appartiene alla piccola nobiltà tanto da essere definita nei documenti dello stato civile alla voce professione «gentildonna». Una famiglia numerosa - Michelangelo ha tre sorelle e un fratello – ma abbastanza benestante. Accade così che, nonostante la precoce morte del padre, i due figli maschi possano laurearsi: Silverio in Ingegneria e Michelangelo in Lettere. Una famiglia profondamente cattolica tanto che le tre sorelle – Luisa, Bettina e Maria – si faranno suore di clausura nell'ordine delle Agostiniane e passeranno l'intera vita nel convento di Piano di Sorrento.

Non sappiamo nulla della sua infanzia e della sua giovinezza, quanto abbia pesato la precoce perdita del padre quando era ancora bambino, né quali fossero i rapporti in famiglia con la madre. Di sicuro fu l'unico dei figli a cambiare radicalmente il suo modo di vivere e di pensare. La sua scelta di aderire al Partito socialista rappresentò, come si evince anche da lettere scritte al fratello durante l'esilio in Francia, una brusca rottura con l'ambiente famigliare e sociale di appartenenza a partire dall'opprimente educazione cattolica ricevuta fin dai primi anni. Un cattolicesimo, conservatore se non reazionario, utilizzato come puntello dell'ordine dell'ordine sociale esistente dalle classi possidenti del profondo sud.

Come per Amadeo Bordiga, di qualche anno più vecchio di lui, Michelangelo Pappalardi maturò la sua adesione alle idee socialiste a Napoli durante gli anni dell'Università, studi che gli permisero di acquisire una buona conoscenza della lingua tedesca, ma che soprattutto lo misero in contatto con le idee di avanguardia del tempo. Contrariamente a quello che solitamente si pensa, all'inizio del XX secolo Napoli era una città, culturalmente molto viva. All'Università di Napoli insegnava il liberale Benedetto Croce, alla cui rivista «La Critica» collaboravano intellettuali emergenti come Giovanni Gentile, ma anche l'ex sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola. Socialmente l'area rappresentava un misto di sottosviluppo e di grandi industrie moderne come i cantieri navali di Castellamare di Stabia.

Anche il socialismo napoletano rappresentava una realtà complessa che andava da un riformismo non privo di reminiscenze risorgimentali dalle forti venature massoniche, al sindacalismo rivoluzionario influenzato da Sorel e Labriola, al massimalismo intransigente del Circolo Carlo Marx, fondato nel 1912 a Castellamare di Stabia da Amadeo Bordiga e da un gruppo di giovani socialisti insofferenti della politica dei blocchi elettorali fra socialisti e democrazia radicale. E al giornale «La Voce», organo del Circolo, Pappalardi collabora con corrispondenze sulle lotte operaie nelle fabbriche del circondario. In questa sua prima militanza stringe intensi rapporti di amicizia e collaborazione con Amadeo Bordiga che fino al 1926 rappresenterà il suo principale punto di riferimento politico.

Pappalardi segue Bordiga in tutti i passaggi che dal Circolo Carlo Marx porteranno alla fondazione del Partito comunista d'Italia nel 1921. Così lo troviamo nel 1918 fra i primi aderenti alla Frazione comunista astensionista, la corrente organizzata nazionalmente attorno a Bordiga, che insieme al gruppo torinese de «l'Ordine Nuovo» e alla sinistra comunista milanese di Fortichiari e Repossi, sarà poi il nucleo centrale del futuro partito. Proprio in rappresentanza della Frazione Pappalardi viene nominato nell'aprile 1920 segretario della Camera del Lavoro di Castellamare di Stabia, sorta nel 1919 ad opera di Antonio Cecchi anche lui seguace di Bordiga, destinato a dirigere la più prestigiosa CdL di Napoli. Carica che il giovane professore di Lettere esercitò con totale dedizione tanto da essere inserito nell'elenco dei sovversivi pericolosi, da tenere sotto stretta sorveglianza. Dalla Sottoprefettura di Castellamare di Stabia iniziano a partire per la Prefettura di Napoli informative sulle sue attività. Relazioni che troveremo poi riassunte in una scheda biografica del marzo 1923 in cui si sottolinea come il «Pappalardo» [sic] deve ritenersi il principale organizzatore di scioperi e manifestazioni. Inoltre egli tiene frequentemente comizi e riunioni in si cui predica «l’ odio di classe» e si incita «alla rivoluzione». Molto legato ai «noti Misiano, Buozzi, Bordiga, Arcucci di Napoli», il «professore» si deve considerare un quadro importante del partito.

Intanto fra fine ottobre e inizio novembre si erano svolte in tutta Italia le elezioni amministrative, le prime dopo la conclusione della guerra. Fu un grande successo del Partito socialista che riuscì a conquistare oltre duemila comuni in tutta Italia, quasi interamente concentrati nel Centro Nord del Paese. In Campania i socialisti prevalsero solo a Castellammare di Stabia e Torre Annunziata, la cintura industriale di Napoli dove la Frazione astensionista, pur contraria alle elezioni, era stata l'unica a condurre un intervento in profondità sulle fabbriche. A Castellamare la vittoria socialista scatenò un vero e proprio panico fra i borghesi anche perché la nuova amministrazione aveva immediatamente deliberato una radicale riforma dei tributi locali spostandone il carico principale dalla classe operaia ai ceti possidenti. La reazione fascista non si fece attendere. Il 20 gennaio 1921, durante la cerimonia di intitolazione della piazza centrale della cittadina a Spartaco, in memoria di Karl Liebknecht, assassinato il 15 gennaio di due anni prima, squadre fasciste, arrivate da varie parti della Campania, scatenarono violentissimi scontri con un bilancio di sei morti e decine di feriti. Fra gli uccisi anche un maresciallo dei carabinieri Clemente Carlino, abbattuto da un colpo di rivoltella probabilmente esploso dai fascisti. Pappalardi, che in qualità di segretario della Camera del Lavoro era stato uno dei principali organizzatori della manifestazione, fu arrestato e denunziato per complicità in omicidio con altri quattordici «sovversivi».

Dopo l’arresto per i fatti di Castellammare di Stabia il Pcd’I candidò Pappalardi alle elezioni del maggio 1921 per ottenerne la scarcerazione, ma non riuscì a farlo eleggere. La carcerazione preventiva durò oltre tredici mesi, nonostante le proteste della stampa di sinistra e varie forme di lotta per accelerare i tempi dell'istruttoria fra cui lo sciopero della fame degli arrestati. Finalmente il

6 febbraio 1922 iniziò il processo attentamente seguito dalla stampa rivoluzionaria comunista e anarchica con numerosi articoli de «Il Soviet» e «Umanità nova». Il dibattimento si concluse agli inizi di aprile con l'assoluzione di tutti gli imputati che, immediatamente rimessi in libertà, rientrarono a Castellammare dove ad attenderli trovarono una enorme folla plaudente. In quell'occasione Michelangelo Pappalardi arringò la piazza da un palco improvvisato incitandola a proseguire nella lotta per la sconfitta della reazione fascista e l'instaurazione anche in Italia del potere dei soviet.

Ritornato in libertà, Pappalardi fu mandato a dirigere la Camera del Lavoro di Napoli che nel biennio rosso era arrivata a contare 84 Leghe e 40 mila iscritti, un quarto dei quali metallurgici. Come già era accaduto a Castellamare, andava a sostituire Antonio Cecchi, la cui gestione eccessivamente personalistica aveva creato forti tensioni non solo fra i socialisti, ma anche fra i suoi compagni di partito, tanto da essere attaccato con toni molto duri da Ortensia De Meo, moglie di Amadeo Bordiga ed esponente della Federazione napoletana del Pcd'I su «Il Soviet» del 22 febbraio 1922: «Non è da noi tollerare, ammesso che vi siano, gli opportunisti, i cacciatori di stipendi, gli spostati in cerca di fortuna, che quasi sempre antepongono agli interessi del partito la propria utilità pratica, la propria carriera economica e politica».

La sua fu tuttavia una gestione di breve durata. Già nell'autunno Pappalardi rassegnò le dimissioni in seguito a serie divergenze, di cui non si conosce la natura, insorte con il partito che addirittura lo sospese dall'attività per tre mesi.

Dopo la marcia su Roma e la formazione del primo governo Mussolini la situazione per Pappalardi come per molti altri militanti del movimento operaio si fa difficile. Nei primi giorni di febbraio 1923 la polizia attua una gigantesca retata. Umberto Terracini, in una lettera del 13 febbraio 1923, scrive: «Il governo fascista ha aperto la grande battuta anticomunista da tempo preannunciata. Nello spazio di una settimana la polizia ha arrestato oltre 5000 compagni... Il nostro partito non piega e non cede: arrestati un quarto dei propri iscritti, sciolte le sue sezioni, privo del suo capo, il compagno Bordiga, minacciato nei suoi membri di morte e di tortura, il Partito Comunista d'Italia ha già ripreso la sua funzione e i suoi lavori». Tra febbraio e aprile viene arrestato quasi tutto il Comitato Centrale e 72 segretari federali nonché i segretari delle organizzazioni giovanili provinciali. Anche Michelangelo Pappalardi è fra gli arrestati. Rilasciato dopo una breve detenzione, Pappalardi venne schedato, il dieci marzo, dalla Sottoprefettura di Castellammare di Stabia. Di quell'arresto ci resta la sua scheda segnaletica con le fotografie di fronte e di profilo, come d'uso, e una sintetica descrizione. Pappalardo, come si ostinano a chiamarlo i poliziotti, è una persona di bassa statura, di circa un metro e sessanta, dal viso tondo, la fronte alta, l’espressione fisionomica seria e l'uso abituale di «occhiali a stanghetta essendo miope»

1. continua

lunedì 8 agosto 2022

S'avanza uno strano soldato. Il movimento per la democratizzazione delle Forze armate (1970-1977)

 


A SETTEMBRE IN LIBRERIA

Deborah Gressani, Giorgio Sacchetti, Sergio Sinigaglia, S'avanza uno strano soldato. Il movimento per la democratizzazione delle Forze armate (1970-1977), Derive & Approdi, Roma, 2022, pp. 192 + ill., euro 18,00.

La saggistica che in questi anni ha trattato il decennio 1968-78, occupandosi dei movimenti di protesta protagonisti, nel nostro Paese, di quella stagione politica, si è interessata principalmente alle mobilitazioni studentesche e operaie, ignorando le dinamiche che interessarono le Forze armate e in particolar modo l'esercito. Questo libro si propone di colmare tale lacuna. L'intento è offrire un quadro delle lotte che attraversarono le caserme italiane a partire dal 1970 e che diedero vita a un movimento capace di relazionarsi con altri settori della società. Il testo ripercorre le principali tappe che trasformarono un clima di malcontento nei confronti della naja in un vero e proprio movimento di massa, capace di far proprie le istanze democratiche presenti nella società italiana del tempo e alimentate dall'agire di quella parte della sinistra extraparlamentare interessata ad allargare la pratica politica a soggetti tradizionalmente estranei al dibattito pubblico, in continuità con lo spirito del '68. Le immagini che accompagnano il volume restituiscono un'idea visiva della crescente partecipazione dei militari di leva al desiderio di trasformazione che nel decennio Settanta si diffuse nella società italiana, caserme incluse.