Quest'anno il 25 Aprile cade in un momento politico particolarmente difficile e teso. Noi iniziamo a parlarne partendo da un'angolazione un pò particolare, quella del romanzo.
Giorgio Amico
Il
romanzo della Resistenza
E' nei giorni stessi dell'insurrezione che la
Resistenza diventa un tema letterario. Il 25 aprile 1945 l'edizione
di Genova dell'Unità (ancora clandestina) pubblica una poesia che
celebra l'insurrezione e la lotta partigiana. La qualità di questi
versi è per lo più modesta e retorica e questo livello scarso
caratterizzerà la massima parte della produzione poetica a tema
resistenziale, ma la tendenza è chiara: la
lotta partigiana segnerà il clima letterario degli anni seguenti,
almeno fino al 1947, quando l'estromissione delle sinistre dal
governo e l'inizio della guerra fredda cambia drasticamente il quadro
politico (e culturale) italiano.
Gli anni successivi alla
Liberazione vedono dunque la pubblicazione di un enorme numero di diari,
cronache, racconti e romanzi in cui la
Resistenza è rappresentata come un fenomeno nato dal basso,
fondamento di una rinascita civile e morale del paese dopo gli anni
bui della dittatura e della guerra.
Come è stato scritto da
un osservatore attento della scena letteraria italiana, sembra quasi
non ci sia, per chi in quegli anni vuole dedicarsi alla scrittura,
altra possibilità che raccontare storie di vita vissuta, ambientate
nel clima da cui si era appena usciti: la guerra, la Resistenza, un
dopoguerra denso di problemi ma dove ancora forte è la speranza di
un cambiamento radicale. La Resistenza sembra rappresentare una
miniera ricchissima in cui sono racchiusi tutti i fatti e le
esperienze che uno scrittore sente di dover raccontare. (S.
Pautasso, Il Laboratorio dello scrittore – Temi, idee, tecniche
della letteratura del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1981)
Gli
scrittori ex-partigiani, quasi tutti giovani e in larga parte
impegnati politicamente, non si rivolgono ad un pubblico
indifferenziato, ma ad un popolo intero passato attraverso
un’esperienza storica terribile ed esaltante di cui occorre
mantenere vivo e operante il ricordo. Un'ideale comunità fra autori
e lettori fondata sui valori che la Resistenza incarna e che uniscono
scrittori e popolo e che fa si che il raccontare la guerra partigiana
mantenga, anche quando si tratta di opere di fantasia, il valore
della testimonianza. (G. Falaschi,
La Resistenza armata nella narrativa italiana,
Torino, Einaudi, 1976)
Tentativi e speranze
d'una generazione di scrittori narrati da Italo Calvino nella
prefazione all'edizione del 1964 de “Il sentiero dei nidi di
ragno”:
“L’esplosione
letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte,
un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la
guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a
fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti,
“bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della
battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità.
Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia, tutt'altro:
quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come
qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico
generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo
sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello di una spavalda
allegria. (…)
L’essere usciti da
un’esperienza - guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato
nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo
scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari,
carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno
aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si
strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la
gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a
funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio,
ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli
erano occorse (…); ci muovevamo in un multicolore universo di
storie. Chi cominciò a
scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia
dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di
persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che
ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza,
un’espressione mimica.(…)
Eppure, il segreto di come si scriveva allora non era soltanto in
questa elementare universalità di contenuti,(…) al contrario, mai
fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale
grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane
scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o
informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi
stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora,
tante cose che si credeva di sapere o di essere e forse veramente in
quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari,
didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed
amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma
(...) tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come
trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo”.
Il primo a provare
davvero a trasformare la guerra partigiana in opera letteraria fu
Elio Vittorini con “Uomini e no”, scritto
tra la primavera e l'autunno del 1944, nel cuore stesso degli
avvenimenti raccontati, e pubblicato nel giugno del 1945 non appena
l'editore ottenne dalle autorità militari alleate il quantitativo di
carta necessaria per la stampa del volume.
Storia
di un grande amore sullo sfondo della guerra crudele dei gappisti in
una Milano livida e spettrale attanagliata dalla paura, Uomini
e no
resta, nonostante il lirismo di tante sue pagine, un'opera
sostanzialmente irrisolta in cui, come scrive Asor Rosa, la
Resistenza si presenta come la semplice
occasione
di un discorso, che ancora una volta trova le sue motivazioni al
livello della cultura e della ricerca intellettuale. (A. Asor Rosa,
Scrittori e popolo,
Torino, Einaudi, 1965)
Nonostante
il grande successo di pubblico del romanzo (tanto da richiedere una
seconda edizione nell'ottobre del 1945), Uomini
e no
resta dunque un romanzo sulla Resistenza e non “il romanzo della
Resistenza” ricercato da un'intera leva di scrittori-partigiani.
E'
sempre Calvino a dircelo nella Prefazione all'edizione del 1964 di
“Il sentiero dei
nidi di ragno”,
il suo primo romanzo (1947):
“Come
entra questo libro nella” letteratura della Resistenza”? Al tempo
in cui l’ho scritto, creare una “letteratura della Resistenza”
era ancora un problema aperto, scrivere il “romanzo della
Resistenza” si poneva come un imperativo (…) A me, questa
responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo
impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non
lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l’avrei
affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto
dagli occhi di un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi.
Inventai una storia che restasse ai margini della guerra partigiana,
ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il
colore, l’aspro sapore, il ritmo (…) Posso definirlo un esempio
di letteratura impegnata, nel senso più ricco e pieno della parola
(…) Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti,
lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso
tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata”.
Storia
di un bambino (Pin) in un mondo di grandi, partecipe di avventure (e
tragedie) più grandi di lui e dunque in larga misura
incomprensibili, Il
sentiero dei nidi di ragno
è prima di tutto un romanzo-paesaggio che si dipana dai caruggi
della Pigna, cuore antico di Sanremo, ai boschi di castagni delle
Alpi Marittime, scritto in una lingua-dialetto di grande forza
evocativa, già a partire dall'incipit:
“Per
arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere
diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d'arcate
che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti,
i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine
sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai
davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù sul selciato,
fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l'orina
dei muli”. (I. Calvino, Il sentiero dei
nidi di ragno,
Torino, Einaudi, 1947)
Eppure
neanche “Il sentiero dei nidi di ragno”
rappresenta la Resistenza nella sua totalità. Sarà lo stesso
Calvino a scriverlo due anni più tardi in un bilancio
apparso nel primo numero dei quaderni del “Movimento di
Liberazione in Italia”:
“A chi si chiede se la
letteratura italiana ha dato qualche opera in cui si possa
riconoscere ‘tutta la Resistenza’ (e intendo tutta anche parlando
d’un solo villaggio, d’un solo gruppo, tutto come ‘spirito’), se una opera letteraria possa dire veramente di sé: ‘io
rappresento la Resistenza’, l’indubbia risposta è: ‘Purtroppo
non ancora’.”
E poi, “quando nessuno
più se l'aspettava”, apparve il libro che quella generazione di
giovani scrittori avrebbe voluto fare. Ma questa è una storia che
racconteremo in un'altra occasione.