TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 31 maggio 2012

La Riviera Ligure - Ettore Cozzani





















E' disponibile il n.67/68 de La Riviera Ligure, il quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, voce unica per storia e profondità di contenuti nel panorama culturale della nostra regione. Il quaderno è interamente dedicato alla figura e all'opera di Ettore Cozzani. Ne presentiamo l'indice e due brevi estratti. 

La Riviera Ligure
Quaderni della Fondazione Mario Novaro
anno XXIII - n. 1 (67/68) - gennaio/agosto 2012

Vincenzo Caputo
Cozzani letterato e uomo

Gabriele Chioma
"L'Eroica": presupposti culturali ed eziogenesi

Germano Beringheli
"L'Eroica" e la xilografia

Rosa Elisa Grangoia
Scrittori liguri negli anni liguri de "l'Eroica"

Isabella Tedesco Vergano
Letture da "Il poema del mare"

Eda Belsito
Poeta cum Poeta

Anita Ginella
La "Sagra dei Mille"

Franca Guelfi
78 lettere a Mimmo Guelfi

Ettore Cozzani
L'anima nascosta di Genova

Per informazioni e richiesta di copie scrivere a: info@fondazionenovaro.it

L'Eroica, copertina luglio 1911



















Maria Novaro

Presentazione

All'inizio del '900 in Italia si ebbe un rinnovato interesse per la xilografia, grazie soprattutto alla Mostra Internazionale di Grafica allestita nella Riviera ligure, a Levanto (agosto-settembre 1912), ideata e voluta da Ettore Cozzani. L'anno precedente (30 luglio 1911) aveva dato vita alla Spezia al primo numero de "L'Eroica", rivista fra le più longeve nel panorama letterario e artistico italiano della prima metà del secolo.

Singolare figura, quella dello spezzino Cozzani, lontano da ogni "corrente" o cenacolo, e forse proprio per questo rimasto un pò ai margini della storia culturale della nostra regione, dalla quale per altro si allontana già nel 1917 per proseguire a Milano la propria attività di editore.

Questo quaderno, ricco dei contributi di studiosi, che ne approfondiscono la poliedrica attività, è stato ideato con l'intento di dare appunto risalto al periodo "ligure" di Cozzani e ai suoi rapporti - anche in tempi successivi - con la sua terra d'origine, i suoi artisti, i suoi poeti.

(...)


Ettore Cozzani

L'anima nascosta di Genova


Incredibile città, Genova! Domandatene a chi la conosce e a chi non la conosce: sentirete: il porto (gremito! selve d'alberi, di antenne, di pennoni - elevatori e gru sempre in moto come ragni - barche, pontoni, chiatte che scivolano senza tregua fra le pareti a picco dei piroscafi - profumi, odori, e fetori, grida, fischi, scrosci di catene, ruggiti e mugghi di sirene...); Piazza De Ferrari e Via Venti Settembre (che movimento! tram e automobili da non saper come attraversare, la Posta, la Borsa, i negozi, gente che va e viene, ricostruendo nel cervello frizzante i telegrammi, i listini, moltiplicando, dividendo, tanto di percentuale, tanto di spesa viva, tanto d'utile...); e dovunque e sempre, il danaro: diné! diné! "Quantu u l'à? Quanto u ghe dà?"

(...)


Ettore Cozzani



















Ettore Cozzani

La rivista “L’Eroica” è, con la casa editrice omonima, l’immagine fedele del percorso morale e intellettuale di Ettore Cozzani alla ricerca della Poesia, intesa soprattutto come ragione di vita e di ogni forma artistica, ricerca condotta fuori dai circuiti canonici e dai vari salotti culturali, al di là di ogni scuola e movimento letterario; ricerca che lo ha relegato in un posto solitario nella storia delle nostre lettere, quasi ai margini dell’ufficialità..

Nato il 3 gennaio 1884 a La Spezia da famiglia di modeste condizioni, grazie a una borsa di studio frequenta la Scuola Normale di Pisa dove si laurea con una tesi sulla poesia sanscrita. Studia con Gioacchino Volpe e Vittorio Cian, ma subisce soprattutto l’influenza della figura di Giovanni Pascoli, di cui è allievo devoto e a cui dedica, nel tempo, numerose pagine di approfondimento.

Ben presto comincia a insegnare nella Scuola complementare pareggiata a La Spezia.

Nel 1911 assieme all’architetto Franco Oliva fonda la rivista “L’Eroica”, una rivista che si propone “di annunciare, propagare, esaltare la poesia, comunque e dovunque essa si manifesti: in ciascuna arte e nella vita”.

Nel 1912 organizza a Levanto la prima esposizione italiana di xilografia, evento di grande importanza di cui si festeggia il centenario appunto quest’anno con una mostra itinerante dal titolo “I cento anni della xilografia italiana”.

Tra i miti e modelli di poesia e di vita, oltre Pascoli, è d’Annunzio, che peraltro non collaborerà mai con “L’Eroica”. Cozzani, dopo molte peripezie, riesce però a coinvolger e il “vare” nell’inaugura­zione del monumento per l’impresa dei Mille, a Genova, il 5 maggio 1915.

Nel 1917 si trasferisce a Milano, dove continua la sua attività di scrittore ed editore. All’indomani della Seconda guerra mondiale, viene internato a Bresso ma presto rilasciato in quanto riconosciuto innocente. Prosegue la sua attività di editore e divulgatore fino alla morte, avvenuta il 22 giugno 1971.

Giornalista, editore e oratore (notabili alcune sue Lecturae Dantis), Cozzani è anche scrittore (suoi i romanzi La siepe di smeraldo, 1920; I racconti delle Cinque Terre, 1921; Le strade nascoste, 1921; Il Regno Perduto, 1927; Poema del mare, 1928).

mercoledì 30 maggio 2012

A Brigà, Artemisia.Le Alpi del mare




E' da poco disponibile l'ultimo cd di A Brigà, dedicato alla musica tradizionale e alle culture dei popoli delle Alpi Marittime. Un omaggio a una realtà ancora viva sui due versanti delle Alpi, perchè, come ci racconta il testo di introduzione al cd, le montagne non dividono, ma uniscono gli uomini.

A Brigà

Artemisia, le Alpi del mare

Appennino e Alpi Liguri sono il luogo d’incontro tra le alte vette e il Mediterraneo. Gli  appennini sfumano così dolcemente nelle Alpi, che la principale catena montuosa europea non sa dove iniziare. Allora comincia tre volte. Una prima volta all’estremo levante della provincia di Savona: per i geologi le Alpi iniziano con i calcari dolomitici del monte Gazzo sopra Sestri Ponente. Per i botanici le Alpi partono all’altro capo della provincia, dal Monte Carmo, i cui fiori rari raccontano la stessa storia di ghiaccio e neve dei fiori alpini. Per i geografi, invece, chissà perché, le Alpi iniziano proprio nel cuore della provincia di Savona, al Colle di Cadibona, da cui inizia la tiritera per ricordarsi i settori dell’arco teso fra Liguria e Slovenia: “Ma con gran pena le recano giù” (detto ampiamente usato in passato per insegnare la partizione delle Alpi italiane ai bambini.

Letteralmente, il MA designa le Alpi Marittime, il CO le Alpi Cozie, il GRA le Alpi Graie, PE per le Alpi Pennine, LE significa Alpi Lepontine, RE Alpi Retiche, CA Alpi Carniche e GIU Alpi Giulie). E le Liguri? Ultime arrivate dell’arco alpino, nate da una divisione interna delle Marittime, sono guardate con sospetto dai piemontesi, che non si fanno una ragione del fatto che montagne quasi per intero in Piemonte si chiamino “liguri” e coccolate dai liguri, gente strana, cresciuta tra l’orizzontale delle onde e la verticale delle alture a picco. Ma per ora hanno vinto i geografi: dal Colle di Cadibona al Colle di Tenda stanno stese al sole le Alpi Liguri, una splendida anomalia toponomastica, fatta di paesi, pascoli e pallido calcare.

L’euroregione delle Alpi del Mare nasce nel cuore dell´Europa meridionale, tra l’arco alpino e il Mar Mediterraneo; il territorio raggruppa aree vicine da un punto di vista geografico, culturale, storico e economico. Nel libro “I popoli della lingua D’oc”, Pier Domenico Brizio esprime con grande sintesi e sensibilità il concetto d’incontro tra queste realtà: “Il superamento della catena alpina è stato necessario fin dai tempi più antichi perché le montagne, nonostante contrastanti opinioni, uniscono i popoli anziché dividerli”.

Pastori, mercanti, pellegrini hanno cercato di cucire, con mulattiere e sentieri, le terre ai piedi delle Alpi; nei secoli trascorsi fu dato il nome di “strade del sale” o “strade delle acciughe” a questi percorsi obbligati lungo i quali il sale marino, prodotto nelle saline di Hyères e della Camargue valicava le montagne partendo dalla Liguria e dalla Costa Azzurra per arrivare attraverso le valli alla pianura cuneese e oltre, su su fino alla Svizzera dove ancora oggi si trovano indizi toponomastici della presenza Ligure.

A Brigà ripercorre nel progetto “Artemisia, le alpi del mare” queste strade e le loro tradizioni alla ricerca di ritmi antichi e perduti, rivisitando e arricchendo con composizioni strumentali originali il repertorio composto da canti narrativi, numerativi, rituali e ninnananne. Percorriamo la Val Bormida alla ricerca del canto delle uova, risaliamo la Val Roya a cavalcioni fra Italia e Francia, poi lungo l’antica Strada Marenca alla scoperta della terra brigasca e del suo dialetto che profuma di mare e di alpeggio, di Provenza, Piemonte e Liguria: una terra mitenca, dove persone, parole, idee e accenti si incontrano da secoli. Ci incamminiamo per la ripida Val Nervia con Baiardo, Apricale o il vicino paese di Ceriana, per incantarci ascoltando cori ancora oggi testimoni di una tradizione secolare.

A Brigà rispetta le tradizioni, per questo le interpreta, perché, come dicono gli antropologi Clemente e Mugnaini «la tradizione non è un prodotto del passato, ma una riappropriazione selettiva di una porzione di esso, una filiazione inversa». Così ciascuno dei brani raccolti nel CD, A Brigà lo ha rivestito con il suo inconfondibile sound, contaminato dalle esperienze musicali dei singoli componenti (jazz, swing, irish, gipsy). Per la scelta dei brani ci siamo avvalsi delle ricerche di alcuni etnomusicologi e, in misura minore, di interviste svolte da noi, che ci hanno permesso in molti casi di stabilire un legame con gli abitanti delle valli che abbiamo percorso.

Fondamentali sono state le registrazioni di Giorgio Nataletti e Paul Collaer (1962, 1965,1966), le registrazioni di Edward Neill gentilmente concesse dalla Fondazione De Ferrari, le raccolte di canti narrativi e canti da strada liguri di Mauro Balma e le registrazioni effettuate tra il 1953 e il 1954 da Alan Lomax a Bajardo e a Imperia, unite alle testimonianze lasciate nel suo libro “L’anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia”. Alcuni libri sono poi stati fondamentali, come “I canti popolari del Piemonte” raccolti alla fine dell’800 da Costantino Nigra e “I canti popolari italiani” di Roberto Leydi.




A Brigà

Nel 2009 esce “Sul tempo (on the beat)” il primo Cd, che raccoglie alcune fra le più note canzoni popolari italiane rivisitate, riarrangiate e arricchite da composizioni originali, sempre nel rispetto degli stilemi tipici della danza e del repertorio del “Bal-Folk”. Il cd vanta la collaborazione di alcuni fra i più importanti musicisti del panorama folk-jazz-pop italiano e non solo: Marco Fadda, Fernando Oyaguez (Felpeyu), Edmondo Romano, Dino Cerruti, Matteo Dolla, Zibba. Il cd riceve ottime recensioni da parte della stampa musicale europea FolkBullettin (Italia), Les Canard Folk (Belgio), Froots, TradMagazine (Francia), FolkEnLaRed (Spagna), etc.

La rivista TradMagazine francese assegna il Bravò (grammy della musica folk) a “Sul tempo (onthe beat)” come migliore disco del bimestre luglio-agosto 2009. Nel 2010 A Brigà viene scelta, come unico gruppo rappresentante l’Italia, dal produttore e regista televisivo francese Paul Rognoni (Mareterraniu production) per una puntata dell’edizione 2010 del programma “Mezzo Voce”: programma di FC3 dedicato ai gruppi più interessanti del Mediterraneo. Inoltre 2 tournée in Francia e la presenza ad importanti festival nazionali.


Franco Astengo, Terremoto



Il terremoto svela le debolezze di un modello di sviluppo, quello padano, incentrato sulla elusione generalizzata delle norme per poter massimizzare i profitti e continuare a competere sul mercato globale. Un modello arretrato che non può portare che a catastrofi.

Franco Astengo

Terremoto

In un Paese, l’Italia, dove si sta toccando davvero il fondo della moralità e della qualità nella convivenza civile e politica anche l’abbattersi di una calamità naturale come il terremoto rappresenta la spia di un disagio profondo e di una scarsa, se non inesistente, attenzione alla qualità della vita delle cittadine e dei cittadini.

Pur con il massimo rispetto per tutte le persone che hanno subito danni e per la vera e propria tragedia che ha colpito intere comunità, non può che essere rimarcato il fatto che la maggior parte delle vittime siano lavoratori uccisi durante lo svolgimento delle loro mansioni, all’interno di capannoni industriali miseramente crollati.

Si pone un problema di fondo relativo alla qualità di queste edificazioni (tutte risalenti a tempi piuttosto recenti) e agli evidenti problemi di speculazione edilizia che emergono: speculazione portata avanti nella fretta di accumulazione del profitto che ha contraddistinto il modello del Nord-Est del Paese a partire dagli anni’80, quelli in cui si è avviata la liberazione dai “lacci e lacciuoli” ed è venuta avanti l’idea vincente della “fabbrichetta” luogo d’intensivo profitto e altrettanto intensivo sfruttamento.

Una fretta che probabilmente ha accompagnato l’urgenza del dichiarare i capannoni agibili, allo scopo di riprendere il più rapidamente possibile il ciclo produttivo.

Nell’ambito della gravissima crisi economica che stiamo attraversando vengono al pettine i nodi di un modello economico profondamente sbagliato, per il quale eviteremmo di usare la consueta allocuzione “ di sviluppo”.

Un’occasione di profondo ripensamento per molti, pagata però un prezzo del tutto inaccettabile.

domenica 27 maggio 2012

Sotto la buona stella. Rosa Leonardi 40 anni di ricerche dall'astrattismo alla video arte




SOTTO LA BUONA STELLA UNDER THE LUCKY STAR
Rosa Leonardi: 40 anni di ricerche, dall’astrattismo alla video arte
Museo d’arte contemporanea di Villa Croce
 30 maggio -30 giugno 2012

Nel decennale della scomparsa il Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce ricorda Rosa Leonardi, gallerista e operatrice culturale nel senso ampio del termine, con la mostra “Sotto la buona stella” che riunisce oltre cento lavori (di artisti “storici” e di giovani, con una presenza importante di video) raccolti nel corso dei suoi quarant’anni di attività, dal marzo del 1963, quando con Edoardo Manzoni inaugura nel centro storico di Genova, in Vico Morchi, la galleria La Polena, sino al giugno 2002.

Dopo un periodo di orientamento, la linea della Polena si indirizza verso l’astrattismo con mostre dei maestri italiani d’anteguerra (Magnelli, Radice, Rho, Veronesi, Soldati e, soprattutto, Reggiani) ed europei (Sonia Delaunay, Vasarely, Glattfelder, Bill, Lohse), aprendo alle ricerche di Fontana (che nel 1966 allestisce in galleria uno dei suoi celebri “ambienti spaziali”) e alle esperienze dei tedeschi del Gruppo Zero (Mack, Piene, Uecker), come dei genovesi Rocco Borella e del Gruppo Tempo 3 (Bargoni, Carreri, Esposto, Stirone, accompagnati dal fiorentino Guarneri). Cruciali in quegli anni gli incontri, oltre che con Fontana, con Castellani, Dadamaino e Calderara, che rimarranno in seguito punti di riferimento irrinunciabili. Attraverso le mostre allestite in galleria ha inoltre modo di seguire da vicino la vicenda dell’arte cinetica (con la rassegna “Proposte strutturali plastiche e sonore” del ’64-’65, curata da Umbro Apollonio e ordinata da un giovanissimo Germano Celant e personali di Alviani, Gruppo Enne, Morellet, Soto, Cruz-Diez, Le Parc ecc.), fondamentale nel radicare il suo interesse per il rapporto fra arte e tecnologia.

Lasciata la Polena dopo un quindicennio, Rosa Leonardi collabora per breve tempo con alcune gallerie genovesi (Galleriaforma, Samangallery, Locus Solus) prima di aprire nel 1985 un nuovo spazio, lo Studio Leonardi, con una mostra dei Giovanotti Mondani Meccanici (“Nel vuoto del ritorno”). Senza dimenticare il cammino già percorso (ritornerà, fra l’altro, su Tempo 3, Günther Uecker, Rabinowitch, Calderara, Guarneri), inaugura così una nuova stagione nella quale la video arte e le video installazioni (citiamo per tutte la rassegna “La lingua ibridata” con Camerani, Hammann, Plessi e vom Bruch) acquisiscono una tempestiva centralità, affiancate al lavoro con artisti Fluxus (in particolare con Giuseppe Chiari e Takako Saito), alla riproposta delle esperienze del Bauhaus Immaginista (mostre di Pinot Gallizio e di Piero Simondo) ed a puntate verso il concettuale storico (Agnetti) e nuovo (Costantino, Formento-Sossella).

Altri tratti caratteristici sono l’apertura verso gli artisti più giovani (fra i quali spicca il nome di Maurizio Cattelan); la collaborazione con istituzioni culturali italiane (in specie con il LAB, Laboratorio di Arte Contemporanea della Lunigiana) ed estere (Goethe Institut, Pro Helvetia); l’organizzazione di mostre in sedi pubbliche (fra cui, nel 1995 “Tra il fisico e l’ottico”, a cura di Viana Conti, a Palazzo Ducale; “Antonio Calderara: opere dalla Fondazione Calderara di Vacciago d'Orta” al Museo di Villa Croce).

Recentemente la sua raccolta di opere video è stata digitalizzata ad opera di Alessandra Visentin nell’ambito di una tesi di dottorato ed acquisita dall’ADAC, l’Archivio di Arte Contemporanea dell’Università di Genova.

La mostra, curata da Sandro Ricaldone in collaborazione con Giorgia Barzetti, Gianfranco Pangrazio e Alessandra Visentin è stata realizzata dal Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce con il supporto dell’associazione Leonardi V-idea, che ha proseguito l’attività di Rosa Leonardi dopo la sua scomparsa, e del MUCAS (Museo del caos).

Nel corso della mostra verranno presentati, in data che verrà precisata con apposito comunicato, due video inediti incentrati sulla figura e l’attività di Rosa Leonardi.

Inaugurazione: mercoledì 30 maggio 2012, ore 18,00.

sabato 26 maggio 2012

Fiera degli Acciugai della Val Maira






Fiera degli Acciugai della Valle Maira
Sapori e profumi delle Valli D'OC
Dronero - 1 - 2 - 3 Giugno 2012
Programma:


Venerdi 1 Giugno

ore 20,30: Gara Belote, 1° Trofeo degli Acciugai (Presso Bar Tabacchi Galliano)
Ore 21,00: Spettacolo musicale con il coro delle scuole elementari di Oltremaria e l'Istituto Civico Musicale di Dronero (Campo Sportivo Pra Bunet)

Sabato 2 giugno

Ore 10,00-22,00: Area espositiva dei prodotti tipici delle Valli d’Òc (Piazza Martiri della Libertà, Via Saluzzo e Piazza Manuel di San Giovanni)Dalle ore 10,00: Mostra fotografica “FotoSlow Valle Maira e la storia del Mestiere degli Acciugai” (Via Roma e Foro Frumentario e Convitto)Ore 14,00-18,00: L’acciuga in un clic: maratona fotografica (Piazza Manuel di San Giovanni)Ore 16,30: Inaugurazione della Fiera e taglio del nastro (Piazza Manuel di San Giovanni)Ore 17,30: Dibattito “Le Evoluzioni del mestiere dell’Acciugaio”, moderato da Paolo Massobrio - interverranno produttori dalla Sicilia e dall’Albania (Sala Consigliare del Palazzo Comunale). A seguire, degustazioni di ricette a base di acciughe preparate dall’Istituto Alberghiero di Dronero
Dalle ore 19,00: Aperacciuga e Serata gastronomica nei bar e ristoranti di tutta la Valle Maira

Ore 22,30 VAN DE SFROOS IN CONCERTO presso Campo Sportivo di Pra Bunet - € 15,00 + diritti di prevenditaINFO Tel: 0171 908700 (Comune di Dronero) - E-mail: fieradegliacciugai@gmail.com

Domenica 3 giugno


ore 9,00 - 18,30: Area espositiva dei prodotti tipici delle Valli d'Oc (Piazza Martiri della Libertà, via Saluzzo e Piazza Manuel di San Giovanni)
ore 10,30: Premiazione degli scatti vincitori de L'acciuga in un clic ( Piazza Manuel di San Giovanni)
ore 10,50: L'acciugaio racconta e premiazione degli Acciugai storici. Incontro-dialogo con gli acciugai storici: la storia, gli aneddoti, le curiosità del mestiere tipico della Valle Maira

Inoltre:

- Visite guidate del centro storico durante il sabato e la domenica (ritiro dei pass presso il punto info in piazza Martiri)
- Allestimento di punti di degustazione nel centro storico
- Apertura del Mulino della Riviera (ore 9,00/12,30 e 14,30/18,00) con speciale macinatura del mais pignoletto autoctono della Valle Maira con degustazione di paste 'd melia e specialità a base di mais antico. L'apertura rientra nel programma di Le Identità Visibili. Produzione e degustazione di focacce e pizze fresche da speciali forni (sabato pomeriggio e domenica)
- "I Bigat" la metamorfosi del baco da seta con esposizione dal vivo di bachicoltura (piazza Santa Brigida)
- Esposizione di casette in legno per la nidificazione e mangiatoie per uccelli (piazza Santa Brigida)
- "Totem e Trame" Esposizione dei lavori del Laboratorio di Discipline Plastiche delle classi seconde e terze dell'Istituto G.Giolitti di Dronero e delle scuole Medie di Bernezzo (sala ex-Tripoli, Via Roma)
- In occasione delle due giornate allestimento nelle vetrine del centro storico degli scatti fotografici dell'Ecomuseo dell'Alta Valle Maira




Aligi Sassu. Cronache dalla Liguria






venerdì 25 maggio 2012

Bombe nelle scuole. L'attentato alla scuola elementare slovena di Trieste del 1969




Giorgio Amico

Bombe nelle scuole: l'attentato alla scuola elementare slava di Trieste del 1969


Si è un pò da tutti messo in risalto come l'attentato di Brindisi rappresenti un unicum nella storia lunga e terribile del terrorismo in Italia in quanto mai prima era stata colpita una scuola.

Purtroppo non è così. Nel 1969 la strategia della tensione ebbe fra i suoi primi atti un attentato fortunatamente non riuscito alla scuola elementare slovena di Trieste. Gli attentatori,per la Magistratura riconducibili all'estrema destra veneta, avevano programmato una strage di bambini. 

La mattina del 4 ottobre 1969, due mesi prima di Piazza Fontana, il custode della scuola elementare di lingua slovena, sita in Via Caravaggio 4 a Trieste, scoprì sul davanzale di una finestra una cassetta portamunizioni militare con scritte in inglese avvolta da filo zincato. Quando i Carabinieri intervenuti sollevarono il coperchio, la cassetta risultò contenere sei candelotti di gelignite spezzati a metà, avvolti in carta paraffinata rossa, e un congegno ad orologeria formato da una pila, due detonatori e un orologio da polso con una vite inserita nel quadrante e collegata ai fili elettrici a loro volta collegati ai detonatori Ai piedi dell'edificio venivano inoltre rinvenuti otto volantini con scritte in stampatello di carattere antislavo. La perizia disposta dall'autorità giudiziaria di Trieste evidenziò che la cassetta conteneva complessivamente kg. 5,700 di gelignite e che l'ordigno, programmato per esplodere in orario di lezione,  non aveva funzionato per un difetto tecnico connesso o al basso voltaggio della pila elettrica o a un cattivo contatto fra i fili conduttori o fra la lancetta dell'orologio e la vite inserita nel quadrante.



giovedì 24 maggio 2012

Valli Valdesi: emigrazioni di ieri e di oggi




Comunità Montana del Pinerolese, Sportello linguistico itinerante per la valorizzazione delle lingue minoritarie

Nell'ambito degli incontri promossi sul tema "Valli Valdesi e lingua francese: emigrazioni e immigrazioni di ieri e di oggi", il Centro culturale valdese di Torre Pellice organizza:

Venerdì 25 maggio 2012, ore 20,45, Bobbio Pellice, Centro Culturale Dogana Reale,
Le emigrazioni dei valdesi per motivi religiosi nel Seicento. 
Relatore Daniele Tron

Giovedì 31 maggio 2012, ore 20,45, Torre Pellice, Centro Culturale Valdese, via Beckwith 3,
L'emigrazione delle Valli per cause economiche nel XIX secolo. 
Relatore Ettore Peyronel

Gli incontri sono finanziati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nell'ambito del programma di interventi previsti dalla Legge 15 dicembre 1999 n. 482 sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche, coordinato dall'Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte - Settore Promozione del patrimonio culturale e linguistico.

martedì 15 maggio 2012

L'estate di Paraloup







Aperitivi letterari a Carcare


venerdì 11 maggio 2012

Figli del Duce: i tredicimila bambini italo-libici dimenticati dalla storia



Venerdi 11 maggio 2012 alle ore 17, nell'ambito della manifestazione nazionale Il Maggio dei Libri verrà presentato il volume I Tredicimila ragazzi Italo-Libici dimenticati dalla Storia (Marco Sabatelli Editore).


L'appuntamento è presso la Sala Cosigliare in via Dell'Oratorio ad Albissola Marina. Il Prof. Giorgio Amico presenterà l'opera e sarà presente l'autrice, Grazia Arnese Grimaldi.

L'autrice racconta una storia vissuta in prima persona e che risulta una delle pagine più tragiche e sconosciute della storia italiana. Il 6 giugno 1940, Grazia Arnese Grimaldi, insieme ad altri 13.000 bambini libici, venne tolta ai genitori e obbligata a “vacanze” in colonie fasciste. Cominciò una triste odissea di vagabondaggio per l'Italia. Con altri bimbi subì il trauma della guerra e soffrì soprattutto la lontananza della famiglia che era rimasta in Africa, senza più notizie. Una cronaca degli avvenimenti visti con gli occhi di una bimba costretta a diventare grande troppo presto e una lucida presa di coscienza dell'orrore della dittatura fascista.


giovedì 10 maggio 2012

Cattedrale negli ulivi




"E noi fummo fra gli ulivi come un popolo antico nella sua cattedrale"


Fondazione TribaleGlobale


Giovedì 10 maggio 2012 alle ore 21 
nel bar “Au Campu” (Pro Loco di Vendone)

Lunedì 14 maggio 2012 alle ore 17
al “Mercato delle Idee”, il presidio MAP di Savona

Giorgio Amico

parlerà su

Diffusione della coltura dell'ulivo e culto della Madonna della Misericordia nel Ponente ligure


sabato 5 maggio 2012

Filippo Turati, la Critica Sociale e Antonio Labriola




Concludiamo la pubblicazione di questo studio, apparso una decina di anni fa su "L'Internazionale" di Livorno. Nonostante il taglio risenta ancora di una sopravvalutazione dell'esperienza leniniana, pensiamo possa ancora avere un qualche interesse nell'ottica di un ripensamento globale dell'esperienza della sinistra in Italia.


Giorgio Amico

Alle origini del socialismo italiano
5. Filippo Turati, la “Critica Sociale” e Antonio Labriola

Nella seconda metà degli anni Ottanta la teoria marxista, fino ad allora pressocchè quasi sconosciuta, conosce una rapidissima diffusione in Italia sia nell’ambito del movimento operaio che dello stesso mondo accademico ufficiale. Nel 1886, sette anni dopo la pubblicazione del “Compendio” del Primo Libro redatto da Carlo Cafiero, esce la prima traduzione integrale del “Capitale”. Due anni più tardi viene pubblicato “Il Manifesto del partito comunista”, mentre nel 1890 Antonio Labriola, ormai in piena rottura col radicalismo, inizia a tenere presso l’università di Roma le sue lezioni sul materialismo storico. Tra il 1888 e il 1890 appaiono traduzioni di scritti di Marx, Engels, Kautsky, Lafargue e Plechanov e larga diffusione hanno articoli e opuscoli che riprendono le posizioni del Partito operaio francese e del Partito socialdemocratico tedesco. Tutto questo fervore di iniziative non manca di avere benefici effetti sul movimento operaio italiano, costretto dalla necessità di confrontarsi con le nuove idee provenienti d’oltralpe a rompere con il municipalismo e l’operaismo che tanto pesantemente ne avevano segnato i primi tentativi di organizzazione politico-sindacale. 

Filippo Turati è l’uomo che incarna questo passaggio. Di formazione culturale positivistica, proveniente come buona parte dei militanti della sua generazione dal radicalismo post-risorgimentale, assieme ad Anna Kuliscioff, esperta conoscitrice dei testi marxiani e del dibattito internazionale, egli fonda la Lega socialista milanese con il preciso intento di favorire la sprovincializzazione del movimento operaio italiano. Centrale in questo progetto è la rivista la “Critica sociale” che in brevissimo tempo diventa un fondamentale punto di riferimento per quanti, consapevoli della necessità che anche in Italia si proceda speditamente sulla via della costruzione del partito sul modello tedesco, cercano un’ispirazione per l’azione politica quotidiana in grado di andare al di là delle ormai annose dispute che travagliano il campo socialista. In questa battaglia la “Critica sociale” funge da luogo di incontro, stanza di compensazione, fra lo spontaneo movimento di lotta e di organizzazione della classe operaia e la coscienza socialista degli intellettuali più avanzati, sede di dibattito privilegiata e, come affermerà lo stesso Turati, “scuola collettiva” per i quadri della futura organizzazione politica. 

Certo, Turati non è un marxista ortodosso e la sua visione del socialismo risente, anche nei suoi interventi migliori, di un gradualismo di fondo che sotto la copertura di una “intransigenza” formale di fatto segnerà profondamente in senso riformistico il nascente partito socialista. Così come profonde sono le differenze con l’altro grande esponente del socialismo italiano di quell’epoca, quell’Antonio Labriola che mai ne accetterà la direzione politica sul movimento, tanto da scrivere ad Engels all’indomani del Congresso di Genova, a cui rifiuta di partecipare, per denunciarne il carattere “ambiguo, equivoco, elastico”. Labriola, che pure acutamente coglieva l’eclettismo del socialismo milanese, restava tuttavia prigioniero di una visione rigorosa, ma astratta, del partito, mancandogli l’esperienza viva a contatto quotidiano con la classe operaia che invece rappresenta il retroterra dell’azione turatiana. Per questo, pur raggiungendo livelli di assoluta eccellenza nell’elaborazione teorica, tanto da rappresentare un punto di riferimento fondamentale per un’intera generazione di quadri marxisti e non solo in Italia, basti pensare a Trotsky che ne “La mia vita” riconoscerà l’influsso determinante del filosofo italiano nella sua formazione, egli non riuscirà mai a giocare un ruolo politico di un qualche rilievo nel movimento socialista. 

Espressione dell’area socialmente ed economicamente più moderna del paese, Turati è il primo fra gli esponenti socialisti italiani a cogliere a fondo la necessaria dimensione internazionale del nuovo movimento operaio in gestazione in tutta Europa. Lo troviamo così, agli inizi del 1891, a rappresentare il proletariato italiano al Congresso di Bruxelles della neocostituita Seconda Internazionale. Esperienza fondamentale che lo convince della necessità e dell’inevitabilità, pena l’emarginazione del socialismo italiano dal contesto del movimento operaio internazionale, della rottura con gli anarchici, superando in tal modo definitivamente le esitazioni che per oltre un decennio avevano reso incerta l’azione politica di Costa.



Il giornale nazionale come organizzatore collettivo

Preparato da almeno un anno di intenso lavoro di ricucitura fra i vari gruppi da parte della Lega socialista di Filippo Turati, il 2-3 agosto 1891 nella sede del Consolato operaio di Milano si tiene il “congresso operaio italiano” con rappresentanze di tutte le principali correnti del movimento socialista e radicale, comprese quella anarchica e quella repubblicano-collettivista. La gestione dei lavori congressuali risultò fin da subito difficile per l’eterogeneità dei partecipanti e per la violenta opposizione degli anarchici e di parte degli operaisti alla definizione di un chiaro piano di azione politica del proletariato e alla costituzione di un partito dei lavoratori che fosse qualcosa di più di una semplice federazione di società operaie. Nonostante questo, grazie al paziente e tenace lavoro di mediazione svolto da Turati e dagli altri esponenti della “Critica sociale” il congresso si concluse con l’approvazione di uno Statuto e di un Programma comune e con la convocazione di lì a un anno di un nuovo e questa volta definitivo momento di dibattito per verificare l’esistenza delle condizioni minime per la costituzione di un’organizzazione politica nazionale della classe operaia. 

Uscire dal ristretto ambito delle lotte corporative, unificare la classe su scala italiana, costruire un giornale nazionale capace di fungere da organizzatore collettivo, fondare il partito di classe: questi i problemi fondamentali che si pongono in quel momento i militanti d’avanguardia e non solo in Italia, basti pensare al “Progetto di programma del Partito Operaio Socialdemocratico Russo” scritto in carcere da Lenin a cavallo fra il 1895 e il 1896. Quello che distingue il movimento operaio italiano è semmai la confusione teorica e il pressapochismo organizzativo contro cui, come si è visto, tentano da angolazioni diverse e con differenti strumenti di battersi sia la “Critica sociale” che Antonio Labriola.

In preparazione del congresso il 31 luglio a Milano esce il primo numero del settimanale “Lotta di classe, Giornale dei lavoratori italiani”, con a grandi lettere sulla testata riportato il motto di Marx “Proletari di tutti i paesi unitevi!” Diretto nominalmente da Camillo Prampolini, ma di fatto redatto principalmente da Turati e dalla Kuliscioff, il giornale mostra fin dai primi numeri un respiro assai più largo dei fogli socialisti dell’epoca, una capacità nuova di abbracciare interessi e temi non soltanto locali e di parlare un linguaggio comprensibile a tutti i proletari qualunque fosse il loro ambito di lavoro o il luogo di residenza. Con grande chiarezza il settimanale riassumeva i caratteri specifici del movimento socialista nella lotta per la socializzazione dei mezzi di produzione da ottenersi mediante la conquista del potere politico. A questo proposito l’editoriale del primo numero, dopo aver tributato il giusto riconoscimento al valore dell’attività svolta dal vecchio Partito Operaio, scriveva:

Gli scioperi, le organizzazioni di resistenza, le cooperative , ecc., sono eccellenti mezzi di agitazione, eccellenti mezzi di reclutamento per formare l’armata proletaria, ma guai al movimento operaio, guai all’avvenire della classe operaia se essa pone in questi mezzi tutta la sua speranza, i suoi scopi finali (…) La radice di tutte le vessazioni, di tutti gli abusi, per i quali il salariato è una nuova forma dell’antica schiavitù, deve trovarsi nel monopolio dei mezzi di produzione e nella direzione della società nelle mani di privilegiati. La socializzazione di questi mezzi è la soluzione del problema. Trascurando questo scopo, la questione operaia resta una semplice questione borghese, una piccola questione di accomodamento fra i servitori e i padroni. Questo è il metodo con cui i padroni hanno interesse a considerarla”.

Nonostante il linguaggio usato non abbia l’incisività e il rigore scientifico delle pagine leniniane, la messa in guardia contro una visione meramente tradeunionistica della lotta di classe è chiarissima, come in modo nettissimo è espressa l’esigenza che il giornale nazionale funga da organizzatore collettivo della classe.

La questione operaia, come questione soltanto a sè, nel suo piccolo significato, nel suo significato borghese, è stata abbandonata per sempre: si è capito che la questione separata e allontanata dall’ideale socialista è un controsenso; si è capito che il movimento operaio e il socialismo sono due aspetti di un medesimo fenomeno: il primo è il fatto, il secondo la coscienza, l’anima del fatto: separarli vuol dire distruggerli (…) Quest’opera di fusione, di elaborazione coscienziosa, questa opera di educazione e di vivificazione del partito, non può essere completa se al lavoro particolare, anche nei giornali secondari, non si aggiunge per completarlo e coordinarlo il lavoro di un organo centrale che non sia il giornale di una o di un’altra città, di uno o di un altro mestiere, ma sia il giornale del partito stesso.”



Il congresso di Genova

In esecuzione del mandato del congresso milanese dell’anno precedente il 14 agosto 1892 si riuniscono a Genova, alla Sala Sivori, oltre 400 rappresentanti di società operaie, leghe di resistenza, cooperative, comitati elettorali, circoli socialisti, repubblicani e anarchici. Sono presenti, con l’eccezione clamorosa di Antonio Labriola che snobba il congresso non considerandolo sufficientemente rappresentativo, i nomi più noti di oltre un decennio di lotte operaie e democratiche: Giuseppe Croce, Costantino Lazzari, Antonio Maffi, Camillo Prampolini, Andrea Costa, Leonida Bissolati e naturalmente Filippo Turati e Anna Kuliscioff. 

Fin dai primi interventi fu evidente che il fragile compromesso con gli anarchici raggiunto un anno prima a Milano non poteva reggere. Nonostante un ultimo, disperato tentativo unitario di Andrea Costa, che deluso e stanco abbandonerà immediatamente dopo il congresso, gran parte dei delegati concorda sulla necessità di rompere definitivamente con gli anarchici che strenuamente si oppongono all’ipotesi di costituire un vero partito politico che finalmente sappia andare oltre l’ormai asfittica formula dei “circoli operai affratellati”. Il giorno dopo 197 delegati guidati da Turati si riuniscono a parte e deliberano la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani che l’anno successivo a Reggio Emilia assumerà il nome di Partito socialista. 

Il programma, opera soprattutto di Turati che con una serie di emendamenti aveva profondamente trasformato l’originario testo di Maffi infarcito di ovvietà democraticistiche, nei fatti riprende le linee portanti del programma della Lega socialista milanese e rappresenta una prima definizione dei principi basilari del socialismo sancendo la nascita di un partito autonomo della classe operaia che accoglie, almeno sul piano dei principi, la dottrina marxista. Certo, il programma uscito dal congresso di Genova soffre ancora notevolmente dell’estrema povertà teorica che caratterizzava – e , detto per inciso, caratterizzerà sempre, fatta salva la parentesi felice del primo periodo di vita del PCd’I - il movimento operaio italiano. Di più, il partito che nasce alla Sala dei Carabinieri genovesi presenta già in modo avvertibile quegli elementi di opportunismo che dovevano negli anni successivi ed in particolare nel periodo giolittiano segnare indelebilmente l’intero suo percorso politico. Ne è prova la discussione sfociata poi nella risoluzione sulla questione dello stato dove fortissimo è l’eco del programma adottato al congresso di Erfurt della socialdemocrazia tedesca (1891) profondamente segnato dall’illusione di un utilizzo dello stato borghese, conquistato e diretto dal partito operaio, in funzione della costruzione del socialismo.Resta comunque il fatto che, come in sostanza noterà Engels in risposta alle note polemiche di Labriola, anche la classe operaia italiana aveva ora il suo partito e questa era la cosa importante.



venerdì 4 maggio 2012

Andrea Costa e la crisi del Partito Socialista Rivoluzionario



Giorgio Amico

Alle origini del socialismo italiano
4. Andrea Costa e la crisi del Partito Socialista Rivoluzionario

Il primo congresso del Partito socialista rivoluzionario italiano

Come si è visto una delle principali differenze fra i socialisti costiani e gli operaisti lombardi consisteva proprio nella accettazione da parte dei primi di una politica di alleanza elettorale con le forze della sinistra borghese ed in particolare con i gruppi repubblicani assai forti in Romagna. Proprio su questo terreno si era consumata la rottura con il movimento anarchico che imputava a Costa l’abbandono di una posizione classista intransigente in favore di un atteggiamento legalitario ed evoluzionista e proprio per discutere di questi temi si tenne a Forlì nel luglio 1884 il terzo congresso del Partito socialista rivoluzionario di Romagna. Gran parte dei lavori del congresso fu dedicata alla definizione dell’atteggiamento da prendere rispetto al cosiddetto Fascio della democrazia, l’associazione dei radicali che dopo le elezioni del 1882 aveva preso il posto della Lega della democrazia di origine mazziniana e garibaldina. 

Nonostante le critiche degli esponenti del POI che lo accusavano di trasformare il Partito socialista in un partito parlamentare, Costa si rendeva perfettamente conto dell’insidioso tentativo dei radicali di recuperare politicamente il movimento operaio, trasformando le nascenti organizzazioni proletarie in un’appendice della democrazia borghese. Altrettanto chiara restava però la comprensione dell’estrema complessità della fase attraversata e della necessità per il movimento operaio di non rompere totalmente con il campo radicale. Almeno fino a che non si fosse raggiunto un punto più avanzato di consolidamento politico ed organizzativo delle forze socialiste. Fino a quel momento l’alleanza tattica con i radicali andava mantenuta, ma con tutte le precauzioni del caso. 

Dopo un vivacissimo dibattito non privo di aspre polemiche il congresso deliberò la partecipazione critica delle organizzazioni del partito al Fascio della democrazia, mantenendo però la più completa libertà d’azione e non rinunciando a sostenere fino in fondo il proprio autonomo punto di vista socialista sia per quanto riguardava le questioni economiche che per quelle politiche. Su insistenza di Costa e Musini il congresso deliberò anche di assumere il nome di Partito socialista rivoluzionario italiano, proprio al fine di rispondere all’esigenza di unità che pareva con forza provenire dal basso. A tal fine venne deliberato di organizzare quanto prima un congresso costitutivo nazionale in Roma a cui invitare i gruppi socialisti di tutta Italia. Alleanza tattica con la sinistra borghese e costruzione di un autonomo partito di classe su scala nazionale queste le coordinate entro cui si compendia alla fine del 1884 l’azione politica costiana. Un amalgama di difficile gestione come i fatti avrebbero presto dimostrato.



La dissoluzione del Partito Socialista Rivoluzionario

Di fronte allo sviluppo del Partito Operaio che alla metà degli anni ’80 sembra essere in grado di radicarsi in profondità anche nelle masse bracciantili del Parmense e del Mantovano fino ad allora campo d’azione dei socialisti rivoluzionari, Andrea Costa inizia a considerare la possibilità che la costruzione su scala nazionale del Partito socialista rivoluzionario debba necessariamente passare attraverso la fusione del PSRI con il POI. Così, nell’aprile del 1885, la Commissione federale del Partito Socialista Rivoluzionario invia un caldo saluto al Congresso del POI, auspicando una prossima fusione dei due partiti. In realtà, al di là delle frasi di circostanza, le differenze fra le due organizzazioni permanevano profonde e non si trattava solo di questioni organizzative. 

Nel programma del Partito Operaio mancava completamente ogni accenno, anche gradualista o riformista, al socialismo: scopo del partito era “ottenere un reale e positivo miglioramento economico, a ciò che tutti i lavoratori possano raggiungere la loro emancipazione”. Ma neppure una parola era dedicata a chiarire meglio di quale emancipazione si trattasse. Ciononostante, pur provenendo da una esperienza politica diversissima, Costa appare affascinato dalla forza del Partito Operaio, che come abbiamo visto in quel momento parlava a nome di decine di migliaia di operai membri delle leghe affratellate. Così, invece che evidenziare i limiti politici degli operaisti e il loro sostanziale economicismo, egli riprende la tesi caratteristica del POI di un partito capace di essere al tempo stesso organizzazione politica e lega di resistenza. Sfugge a Costa, che pure in questi anni si era sensibilmente avvicinato al marxismo, il fatto che, a differenza del sindacato tenuto assieme dal collante oggettivo degli interessi economici immediati, il partito di classe si caratterizza per il programma, cioè per una più generale visione del mondo che trascende la contingenza. Accade così - e sarà una costante nella storia del socialismo e poi del comunismo in Italia da Costa alla cosiddetta “nuova sinistra” degli anni ‘70 – che in nome di un esasperato pragmatismo dovuto all’ansia di costruire hic et nunc “il partito di massa”, si sostituisca ad un lavoro in profondità di analisi e di intervento sulle tendenze spontaneamente emergenti a livello di classe l’esaltazione della contingenza, il tatticismo politico, l’improvvisazione organizzativa. 

Invece di un processo lungo e faticoso di accumulo di forze a livello politico, teorico ed organizzativo, la costruzione del partito è concepita pressocchè esclusivamente a livello ideologico-politico, come una serie di pronunciamenti verbali e di svolte tattiche ciascuna delle quali considerata risolutiva. Manca in sostanza ai padri fondatori del socialismo italiano – da Costa a Turati a Labriola che pure fu eminente marxista - quella visione dialettica della prospettiva che quasi nello stesso periodo porterà Lenin ad analizzare in profondità lo sviluppo del capitalismo in una Russia da tutti considerata arretrata e semi-feudale e ad impostare sulle risultanze scientifiche di tale ricerca gli assi di costruzione del partito e la concreta definizione del “che fare”.

Il problema dei rapporti con il Partito Operaio fu al centro del IV Congresso del PSR (di fatto il II del PSRI) che si svolse a Mantova nell’aprile del 1886 radunando delegati provenienti oltre che dalla Romagna, dall’Emilia (Mantova, Parma e Reggio), dal Piemonte (Torino, Asti, Alessandria), dalla Liguria (Genova e Sanremo), dal Veneto (Rovigo), dalla Toscana (Livorno) e dall’Italia centro-meridionale (Roma, Napoli, Brindisi e Palermo). Si tratta, dunque, del primo congresso a carattere realmente nazionale di un partito, il PSRI, che al di là del nome aveva fino ad allora mantenuto un impianto prevalentemente limitato alla Romagna. 

Ma proprio questo risultato, tenacemente perseguito dal Costa e che appariva finalmente raggiunto, doveva paradossalmente evidenziare la debolezza del partito e le numerose contraddizioni irrisolte che questo si portava dietro fin dalla sua fondazione. Intanto lo scopo centrale del congresso – l’unificazione o almeno il raggiungimento di una larga unità d’azione con il POI – non fu raggiunto e non solo per la manifesta indisponibilità dei lombardi. Fatto ben più preoccupante la crescita del partito, che pure c’era stata e aveva spinto Costa a bruciare le tappe della costruzione del partito nazionale, apparve più un fatto numerico che organizzativo. Il PSRI aveva moltiplicato le sezioni, costruendo legami con i gruppi più disparati dispersi ai quattro angoli d’Italia, ma a scapito della chiarezza politica e nell’assoluta mancanza di una rete organizzativa che permettesse poi la gestione centralizzata e unitaria delle forze così largamente raccolte. 

Al congresso di Mantova apparve chiaro che non solo non esisteva un progetto organizzativo vero e proprio, ma che anche sul piano programmatico l’identità del partito tendeva ad appannarsi parallelamente al dilatarsi della sua presenza sul territorio nazionale e sempre più si riduceva al mero rapporto che i singoli gruppi locali avevano stretto con la figura carismatica di Costa. Un partito, dunque, privo di una identità definita, contenitore di istanze diversissime e fortemente connotate in senso localistico. Un partito più grande sul piano numerico e più influente sul terreno elettorale, ma molto fragile sul piano teorico ed organizzativo. Lo stesso accresciuto peso elettorale, frutto anche del patto d’unità d’azione con la democrazia radicale che imponeva vincoli all’azione parlamentare e amministrativa del partito, creava oggettivamente le condizioni di una crescente divaricazione fra le aspettative e i comportamenti di una base, fatta prevalentemente di braccianti e di piccoli artigiani in rovina, tanto combattiva quanto politicamente primitiva e le complesse - e spesso per questa base incomprensibili - tattiche portate avanti dagli eletti.

In queste condizioni a far funzionare il partito non poteva di certo bastare il carisma e la capacità di mediazione di Andrea Costa. Pochi mesi dopo la conclusione del congresso, nell’agosto del 1886, la Commissione Federale che dirigeva il partito si dimetteva in blocco denunciando l’impossibilità di svolgere a pieno il proprio mandato a causa della “nessuna cooperazione di coloro che pure avrebbero dovuto e potuto aiutarci, l’apatia, l’insofferenza generale contro cui ogni energia vien meno, ogni buona volontà è inutile”.

Questo documento rappresenta l’atto di morte del PSRI che di fatto rapidamente si dissolse come organizzazione unitaria. Il congresso, immediatamente convocato per procedere alla riorganizzazione del partito, non si tenne mai. Gran parte delle sezioni al di fuori della Romagna, venute al partito negli ultimi due anni, interruppero quasi totalmente i rapporti con il centro. Molti gruppi in Piemonte e Liguria passarono al POI che pure, come abbiamo visto, soffriva degli stessi mali. Di fatto, almeno dalla fine del 1886, diventava impossibile parlare di un Partito Socialista Rivoluzionario Italiano come di un organismo realmente esistente e operante.

Il partito, che formalmente continuava ad esistere, era tornato ad essere poco più di una corrente di idee e un’insieme di gruppi federati su direttive generiche, uniti soltanto da un comune riferimento al ruolo parlamentare svolto dal Costa. Anche nell’ambito romagnolo, vero nocciolo duro del partito, il PSR era praticamente soltanto più una sigla che copriva le iniziative di una miriade di circoli e di associazioni locali. Paradossalmente, almeno in Romagna, questa situazione non significava la scomparsa del partito. Espressione di una base “fluttuante”, legata alla precarietà del lavoro bracciantile e delle grandi opere pubbliche di bonifica delle paludi, il partito avvertiva meno la necessità di una stabile struttura organizzativa e di un centro autorevole. Ma il proletariato industriale delle fabbriche di quello che si avviava a diventare il “triangolo industriale”, non più legato al carattere stagionale del lavoro bracciantile o all’individualismo tipico del piccolo artigiano, necessitava di altri strumenti. A questa richiesta né l’operaismo economicista del POI né il movimentismo localistico del PSR erano in grado di dare risposte. I tempi erano maturi per il partito, ma i gruppi che per un decennio si erano battuti per costruirlo apparivano ormai più un retaggio del passato, sia pure di un passato eroico, che il simbolo del nuovo che tuttavia da ogni lato premeva.



















Epilogo

Nonostante questa situazione, Andrea Costa continuò con tenacia il suo lavoro. Già nel 1885 in Parlamento aveva richiesto con forza il richiamo delle truppe dall’Africa e si era opposto con coraggio alle avventure coloniali del governo Depretis. Nel 1887, all’indomani del massacro di Dogali, egli rinnovò con coraggio la sua condanna del colonialismo, presentando un ordine del giorno in cui si affermava che “il prestigio militare e l’onore della bandiera sono i soliti pretesti con cui tutti i governi cercano di far passare le loro imprese criminali o pazze”. 

Rifiutando il voto alla richiesta del governo di un nuovo credito per inviare in Africa nuove truppe, Costa lanciava una parola d’ordine destinata a diventare celebre: “Per continuare le criminose pazzie africane noi non daremo né un uomo, né un soldo”. Denunciato, condannato, costretto ad un nuovo esilio in Francia, egli continua a perseguire il progetto di costruzione di un vero partito socialista rivoluzionario su scala nazionale. Ma senza risultati apprezzabili. Anche il congresso svoltosi a Ravenna alla fine del 1890, nonostante le entusiastiche proclamazioni, di fatto non andò oltre, come il quasi contemporaneo congresso del POI, alla enunciazione scontata della necessità di convocare al più presto un convegno nazionale. 

Pure, in questa situazione di sostanziale immobilismo qualcosa di nuovo era accaduto. Largo spazio era stato concesso nell’ambito dei lavori congressuali alla lettura di un messaggio di solidarietà inviato, a nome di una da poco costituita lega Socialista Milanese considerata da tutti assai vicina alle posizioni dei socialdemocratici tedeschi e del vecchio Engels, da un giovane Filippo Turati, da poco passato dalla scapigliatura letteraria alla militanza di classe. Andrea Costa e i delegati romagnoli non potevano saperlo, ma sotto i loro occhi era avvenuto un ideale passaggio di consegne. Il partito tanto atteso e così tenacemente voluto sarebbe nato prima di quanto sperato, ma Andrea Costa, che forse più di tutti si era speso per costruirlo, non sarebbe stato fra i suoi fondatori.

giovedì 3 maggio 2012

Il Partito Operaio Italiano (1882-1890)


Giorgio Amico

Alle origini del movimento socialista in Italia
3. Il Partito Operaio Italiano

Questo fervore di iniziative era in realtà la manifestazione di un più profondo e complessivo processo di trasformazione della vita politica italiana innescato dai grandi cambiamenti in atto nella società. La riforma elettorale del De Pretis del 1882, determinando un consistente allargamento del suffragio, contribuiva oggettivamente a spingere le organizzazioni operaie a uscire dalla tradizionale tattica astensionista e agevolava l’azione di chi, anche al di fuori del PSR, riteneva ormai esistessero le condizioni per un’autonoma presenza operaia all’interno delle istituzioni borghesi. 

E’ il caso di Milano dove, nel maggio 1882, il Circolo Operaio, principale forza organizzata in ambito proletario, aveva deliberato di partecipare alle elezioni politiche e di chiamare alla costituzione di un Partito Operaio Italiano (POI) che sapesse difendere in maniera del tutto indipendente dalla sinistra borghese gli autonomi interessi proletari anche sul terreno elettorale. 

Tuttavia, il programma del nuovo partito, nonostante il forte accento posto sulla necessità della lotta economica contro il capitale, non andava molto al di là di un vago socialismo dagli echi ancora risorgimentali. In particolare si rivendicava il suffragio universale, la libertà di stampa e di associazione, il riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso senza ingerenze governative, l’istituzioni di scuole professionali gratuite, laiche e obbligatorie, la libertà di insegnamento, l’abolizione dell’esercito permanente e la sua sostituzione con una milizia popolare, l’autonomia comunale, l’abolizione delle imposte indirette in favore di un’unica imposta diretta fortemente progressiva, la laicità dello stato e l’assoluta, incondizionata, libertà di sciopero. 

Il POI, che a differenza del PSR ammetteva fra i suoi membri solo lavoratori manuali, tendeva ad assomigliare più ad un sindacato che a un partito politico e con un certo successo, se si considera l’immediata apertura di sezioni a Torino e Genova e la vasta diffusione in tutta l’Italia del nord dell’organo di partito, Il fascio operaio. Mentre, o forse proprio per questo, sul piano elettorale, a differenza del PSR che anche grazie al patto di unità d’azione stretto con i repubblicani era riuscito a far eleggere Andrea Costa alla Camera, gli operaisti non andarono oltre a un magrissimo risultato. Sta di fatto, comunque, che per la prima volta nella regione più industrializzata d’Italia era apparso sulla scena politica un partito che, nonostante un programma in gran parte simile a quello della democrazia radicale, intendeva caratterizzarsi come un’organizzazione di classe, operaia, antiborghese. 

Un partito che, a differenza degli effimeri cartelli elettorali progressisti destinati a sciogliersi una volta terminata la conta dei voti, affermava con orgoglio la sua volontà di sviluppare un lavoro di lunga lena finalizzato alla costruzione di una grande federazione di leghe di resistenza. Un partito diverso dagli altri in quanto…”la diversità con gli altri partiti sta in ciò che questi ultimi, finita la campagna elettorale (…) si avvolgono nella cappa del silenzio lasciando ovunque il tempo che trovano; il partito operaio, invece, resta permanente perché essendo tutti i giorni sfruttato ed umiliato nei suoi singoli individui, giornalmente deve combattere sulla breccia, per la rivendicazione di tutto ciò che gli spetta"


La crescita del movimento socialista

Anche una rapida analisi dello stato delle forze operaie organizzate dimostra come la crescita del movimento socialista non fosse un fenomeno effimero legato alla particolare situazione determinata dalla tornata elettorale del 1882, ma una tendenza ormai inarrestabile. Nel 1883 il Partito socialista Rivoluzionario poteva contare nella sola Romagna sezioni in più di 60 località con oltre un migliaio di aderenti, mentre a Roma Andrea Costa sviluppava un fervente attività di organizzazione della locale Federazione Operaia a cui univa una instancabile attività di conferenziere in giro per l’Italia. Utilizzando da rivoluzionario conseguente il mandato parlamentare e le sue prerogative, circolazione gratuita sulla rete ferroviaria e tutela dalle angherie poliziesche, egli sviluppava un paziente lavoro di diffusione dei principi socialisti e di ricucitura di una fitta trama di relazioni fra gruppi locali e singoli militanti operai. Il tutto finalizzato alla costruzione di un’unica grande organizzazione politica proletaria a livello nazionale di cui si ritenevano ormai mature le condizioni, come decise il II Congresso del PSR che nell’autunno di quello stesso anno chiamava alla convocazione a scadenza ravvicinata di un congresso dei socialisti italiani. Cresceva intanto l’area di influenza del partito che dal 1884 poteva contare su di un secondo deputato, l’ex garibaldino covertito al socialismo Luigi Musini. 

Il PSR abbandonava le sue caratteristiche di partito regionale costruendo sezioni a Bologna, nel Parmense e in parte del Veneto (Padova e Rovigo). A Milano e in Lombardia, ma con consistenti appendici in Piemonte e Liguria, si sviluppavano nel frattempo le leghe di resistenza de I Figli del Lavoro, animate dai militanti del Partito Operaio. Il Fascio operaio, organo del partito, diffondeva mediamente fra le 1500 e le 2000 copie nella sola Lombardia, ma il numero delle persone toccate costantemente dalla propaganda operaista era di molto superiore avvicinandosi alle 15000. Nell’estate del 1884 la Lega figli del lavoro di Milano e la Società figli del lavoro di Legnano e altri centri minori si riunirono a congresso costituendo la Federazione regionale Alta Italia del POI e chiamando tutte le società operaie a rompere con la sinistra radicale accettando come membri solo lavoratori manuali e a unirsi in un’unica grande federazione operaia. Un partito costituito di soli operai, organizzati su base di mestiere, “arte per arte”, da cui sono esclusi per statuto gli artigiani, i piccoli proprietari agricoli (a meno che non svolgessero anche attività bracciantile) e nelle fabbriche tutti quei salariati che avessero a qualunque titolo compiti di direzione o di controllo di altri lavoratori. Un partito che destinava interamente le quote dei propri militanti (pari a 10 centesimi per ogni socio delle società affiliate) alla costituzione di un fondo di resistenza destinato a sostenere gli scioperi indetti da quelle stesse società affiliate. 

Nel dicembre 1885, qualche mese il grande sciopero agricolo de La boje che in alcune località aveva assunto toni insurrezionali, il Partito tenne a Mantova, epicentro dell’agitazione, il suo secondo congresso adunando i rappresentanti di ben 132 società operaie e adottando un ordine del giorno conclusivo in cui si affermava che la soluzione del tragico problema della disoccupazione alla base dei recenti moti bracciantili poteva trovare soluzione solo colla “emancipazione completa dei lavoratori, cioè quando il capitale, le terre e gli strumenti del lavoro siano diventati proprietà comune dei lavoratori”. Nello stesso documento si riconosceva che nella riduzione dell’ orario di lavoro e nell’abolizione del lavoro a cottimo risiedeva un mezzo potente di difesa delle condizioni operaie che i lavoratori organizzati nelle loro leghe di resistenza dovevano sapere imporre al padronato. Il congresso, infine, ribadiva la decisione di partecipare alla lotta politica, lasciando ampia libertà di azione alle sezioni, ma riaffermando con forza il rifiuto di ogni compromesso o alleanza con la borghesia radicale. “Il partito operaio – si affermava nel manifesto – parteciperà alla lotta pubblica all’infuori di qualunque partito borghese”.


Potenzialità e limiti dell’operaismo

Nei primi giorni di gennaio del 1885 il quinto congresso della Confederazione operaia lombarda registra il successo politico degli operaisti che assumono il controllo della Commissione direttiva di quella che di fatto era la principale organizzazione operaia italiana. Per il gruppo dirigente del POI il risultato del congresso di Brescia dimostra che i tempi sono ormai maturi per la costituzione formale del partito. Il 12 aprile a Milano e qualche settimana dopo a Torino i rappresentanti delle società operaie affiliate alla Lega dei “Figli del lavoro” costituiscono ufficialmente il Partito Operaio Italiano, chiudendo così la lunga fase di gestazione iniziata quattro anni prima. 

In realtà l’attività del partito non subirà nessun particolare mutamento: anche dopo la sua formale costituzione il POI resta più una federazione di associazioni operaie impegnate in un’intensa attività di organizzazione sindacale che un partito politico vero e proprio, tanto che per chi oggi si dedichi a ricostruirne la storia è difficile persino capire se nelle agitazioni operaie i militanti del POI, che pure vi svolgono un ruolo centrale, intervengano come esponenti del partito o a titolo meramente individuale. Di certo il partito, proprio perchè non seppe orientarsi verso il marxismo che faticosamente proprio in quegli anni stava penetrando nel movimento operaio italiano, non si pose mai concretamente il problema dell’organizzazione della classe sul terreno della politica complessiva e di conseguenza mai definì con chiarezza il problema dei rapporti con lo Stato borghese e i suoi apparati.

Nonostante il suo indubbio sviluppo, in pochi mesi i membri delle società “federate” al POI superano i 30 mila, il partito non va oltre all’obiettivo di organizzare “le falangi del proletariato” su base di mestiere: “arte per arte”. Mai in tutta la sua storia il POI si pone il problema della conquista e della gestione del potere. Nonostante questi limiti, il Partito Operaio ha comunque il grande merito di avere con decisione operato per sottrarre la classe operaia all’egemonia politica della piccola borghesia radicale e di avere in tal modo potentemente contribuito allo sviluppo di una coscienza di classe nel proletariato. 

Resta però il fatto che la mancata definizione di una più complessiva prospettiva politica impedì al partito di costruire un’efficace struttura organizzativa che desse gambe reali al processo di unificazione della classe sul terreno dell’autonomia proletaria. In tale situazione, la sempre riaffermata delimitazione di classe, per cui al partito possono aderire solo lavoratori manuali, si trasforma paradossalmente da strumento di difesa del carattere proletario del partito in limite grave, elemento di rigidità che impedisce il pieno e proficuo dispiegarsi delle potenzialità che pure il Partito Operaio il larga misura possiede. 

Gli operai che dirigono il POI non comprendono che la garanzia del carattere di classe del partito non è data semplicemente dall’origine sociale dei membri, ma si colloca prima si tutto sul terreno del programma. Il rifiuto del marxismo, il non sapere uscire da una visione che riduce lo scontro di classe alla battaglia interna alla fabbrica segnano dunque profondamente la vita del Partito e permettono anche di comprendere perché il POI non riesca nell’intera sua storia a ottenere sul piano politico, e di riflesso su quello elettorale, risultati anche minimamente paragonabili a quelli dei socialisti romagnoli. E questo pur operando in una Milano sempre più cuore pulsante di un capitalismo italiano giunto ormai alla maturità imperialistica. 

Espressione semispontanea di una classe operaia in formazione, il Partito Operaio non sa distaccarsi da una visione che, teorizzando la centralità della fabbrica, sottovaluta il problema dello Stato, riducendolo semplicisticamente al rapporto con il magistrato ed il gendarme. Il che fa si che il partito viva in uno stato di crisi permanente, non determinandosi mai risultati corrispondenti alle attese e all’effettivo radicamento nella classe. Di tale crisi si fa carico nel novembre 1890 il Quinto Congresso che registra il fallimento del modello di partito-sindacato fino ad allora praticato e inizia a dibattere come separare gli ambiti: alle grandi società di mestiere, riunite in Camere del Lavoro, il compito di organizzare la lotta economica, al partito il lavoro di propaganda e di indirizzo. Ma a questo punto il POI è ormai di fatto una delle correnti del nascente Partito dei Lavoratori.

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